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Le alternative per un nuovo ordine mondiale

Johan Galtung

Gli imperi vengono, gli imperi vanno. Nessun impero è eterno. Potremmo definire un impero come un insieme articolato di conquiste militari, dominio politico, sfruttamento economico e penetrazione culturale. Non c'è solo una dimensione economica.

Un famoso pianificatore del Pentagono (Ralph Peters, colonnello dell' Esercito americano durante gli anni '80 e '90, ndr), ha affermato che il fine delle Forze armate degli Stati Uniti sia quello di rendere il mondo sicuro per favorire l'interesse commerciale e l'offensiva culturale americana, aggiungendo: "Toward this end there will be a fair amount of killing" ("Per questo scopo avremo un numero non trascurabile di morti"). Per questo, a partire dal secondo dopoguerra, in seguito a 70 interventi militari, gli Stati Uniti si sono resi colpevoli della morte di un numero di persone compreso tra 12 e 16 milioni.

UNA NUOVA TEORIA

Io non sono antiamericano: sono contro l'imperialismo americano, e quindi contro la guerra che provoca. Nel 1980 ho sviluppato una teoria sulla fine dell'impero sovietico che aveva come fondamento la "sinergia delle contraddizioni sincronizzate" e che prevedeva il crollo dell'Urss entro 10 anni, preceduto dalla caduta del muro di Berlino. Nell'ex-Unione Sovietica erano presenti sei contraddizioni sincronizzate: quella tra l'Unione Sovietica stessa e gli Stati satelliti, tra la nazione russa e le altre nazioni dell'impero, tra aree urbane e rurali, tra borghesia socialista e classe operaia socialista, tra liquidità e mancanza cronica di beni di consumo, tra miti e realtà. E' possibile che un sistema possa dominare con le baionette una contraddizione, ma quando tutte crescono e tra di loro si crea una sinergia, allora bisogna cambiare il sistema per evitarne il crollo. Due mesi prima rispetto alla mia previsione, nel novembre del 1989, e' stato abbattuto il muro di Berlino; subito dopo si e' smembrato l'impero sovietico. Al momento gli Stati Uniti hanno ben 15 contraddizioni. Cinque anni fa, nel 1999, ho azzardato che l'impero americano non sarebbe andato oltre il 2025. Da quando e' stato eletto Bush, ho ridotto di cinque anni questa previsione: nelle teorie sistemiche ciò si chiama "acceleratore di sistema".

GOLPE FASCISTA O PROCESSO DI VERITÀ?

Quando tra quindici o venti anni un presidente americano dichiarerà alla televisione che gli Stati Uniti ritireranno le proprie truppe di occupazione, elimineranno tutte le loro basi militari dislocate all'estero, e parteciperanno alle Nazioni Unite come uno Stato uguale a tutti gli altri, allora potremo prevedere due cose: o che toglieranno il collegamento durante il suo intervento, o che ci sara' un golpe militare fascista. Cio' e' possibile. Siamo stati vicino a questo negli anni '30, durante la presidenza Roosevelt. Cio' che dobbiamo fare fin da ora, e' insegnare al popolo americano i valori dell'uguaglianza, far capire loro che non esistono popoli scelti, che viviamo tutti sullo stesso pianeta e che insieme possiamo migliorare le cose. Per fare questo c'e' bisogno dell'Onu, non dominata da una sola potenza e nemmeno da un Consiglio di sicurezza dotato di poteri esclusivi. Gli americani non colgono il nesso strettissimo tra economia e guerre. Sono convinto che negli Usa ci sia bisogno di un processo pubblico di verità e riconciliazione. E' importante ricordare che l'emancipazione dei cittadini tedeschi dall'eredità del passato nazista, e' avvenuta proprio in seguito a un percorso analogo che essi hanno compiuto non soltanto grazie all'ammissione delle proprie colpe, ma anche grazie alla pubblicazione di testi scolastici in cui la parola "Auschwitz" ricorre molto spesso. In questo modo le generazioni che si sono succedute hanno avuto la possibilità di capire e di imparare. Una scossa positiva negli Stati Uniti favorirebbe il processo di liberazione che sta avvenendo, ad esempio, in America latina, processo che vedo destinato a sfociare nella costituzione degli Stati Uniti dell'America latina, una nuova entità istituzionale e politica, ma senza la bomba atomica.

UN MODELLO FEDERATIVO PER AFRICA E MEDIO ORIENTE

L'idea di Abramo di indicare una terra promessa per un popolo eletto e' interessante, ma, come dicono gli arabi, nessuno ha firmato questo patto, né esiste una registrazione o un rapporto stenografico che lo attesti. Credo nella legittimità dell'esistenza di uno Stato israeliano e di uno palestinese, ma non ritengo che la soluzione dei "due popoli, due stati" sia la migliore. Oltre a un "bilancio militare" esiste anche un "bilancio di pace". Israele e' troppo forte, la Palestina troppo debole. Dovremmo piuttosto pensare a un modello federativo, a creare cioè una comunità di Paesi mediorientali, di cui facciano parte uno Stato palestinese riconosciuto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Egitto, e in cui proprio le nazioni arabe possano rappresentare un legittimo contrappeso rispetto a Israele.

Dopo mille anni senza traccia alcuna di una cultura delle sinergie, questa soluzione permetterebbe, sul modello della Comunità europea del 1958, l'affermazione di un'economia cooperativa, confini aperti per la libera circolazione delle persone, oltre che degli investimenti, nell'intera regione. Del resto, la pace in Europa occidentale non si e' fatta sulla base di un trattato tra Germania e Lussemburgo. E' stato creato un contrappeso alla Germania, ed esso era rappresentato da Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia e Italia.

Ho tenuto moltissimi seminari, conferenze, incontri in Medio Oriente, e ho accumulato una lunga esperienza da cui ho tratto insegnamenti preziosi. Occorre agire dal basso, coinvolgendo in modo ampio e costante quante più persone e gruppi possibili della società civile della regione, perché discutano tra loro sul Medio Oriente in cui vorrebbero vivere. La pace sta nel futuro, non in un dibattito senza uscita sulle colpe del passato.

Il modello federativo che ho proposto per il Medio Oriente vale anche per l'Africa centrale. Qui, dove e' molto forte il peso dell'imperialismo europeo, vedo infatti la possibilità della costituzione di una confederazione bioceanica che comprenda Tanzania, Uganda, Rwanda, Burundi, RdCongo e Congo Brazzaville. Parlo di una confederazione con confini aperti, dall'Oceano Indiano all'Oceano Atlantico, attraversata da una ferrovia, a patto che non venga costruita dagli europei: essi non conoscono la direttrice Est-Ovest, ma solo quella Nord-Sud. Cio' rappresenta il loro "crimine geografico". Il Sudafrica ha gia' fatto questo. Per quanto riguarda, inoltre, l'intero continente, dobbiamo sostenere con forza il processo di unità africana, fortemente osteggiato da Europa e Stati Uniti. Noi occidentali non abbiamo alcun diritto di mantenere le divisioni, ma solo il dovere delle scuse, della ricompensa e della verità nei confronti delle popolazioni africane che abbiamo colonizzato e sfruttato.

LA TERZA GUERRA MONDIALE

Spostiamoci ora nella zona piu' delicata del mondo, quella che comprende Cina, India e Russia. Proprio qui gli Stati Uniti stanno preparando la terza guerra mondiale. Gli strateghi americani della Casa Bianca e del Pentagono seguono una dottrina imperiale concepita da un geografo britannico nei primi anni del '900, e che si può sintetizzare così: chi domina l'Europa orientale domina l'Asia centrale; chi domina l'Asia centrale domina l'isola mondiale (cioè la regione che comprende Europa, Asia e Africa); chi domina l'isola mondiale domina il mondo.

Questa tesi, evidentemente folle, gode di grande considerazione a Washington. Essa viene riproposta nientemeno che nel più importante documento che attesta l'attuale linea geopolitica americana, il documento JCS570/2. Questo rappresenta la risposta all'interrogativo di Roosevelt riguardo a quale linea di politica estera avrebbero dovuto tenere gli Stati Uniti dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. L'esigenza era quella di rendere il mondo sicuro per i commerci americani. A questo scopo furono individuate tre aree geografiche su cui imporre un rigido controllo: l'Europa occidentale, l'Asia orientale e l'America latina del nord. Il progetto fu concretizzato e formalizzato attraverso la sigla di tre distinti trattati militari, rispettivamente la Nato, l'Ampo e il Tiap. Tornando alla regione di Cina, India e Russia, appare subito evidente che essa presenta il 40% dell'intera popolazione mondiale e che si situa precisamente nel bel mezzo dell'espansione della Nato, da una parte, e dell'Ampo dall'altra. Se a questo poi aggiungiamo che gli Stati Uniti stanno prendendo il controllo della regione grazie alla costruzione di numerosi avamposti militari, ad esempio nelle repubbliche islamiche dell'ex-Unione Sovietica, e che i tre Paesi in questione prevedibilmente raggiungeranno un accordo per il controllo comune della zona, avremo tutti gli elementi per comprendere la delicatezza della situazione. L'idea poi di fare dell'Afghanistan e dell'Iraq due Stati unitari e' un' illusione occidentale. Sul territorio iracheno convivono quattro nazionalità: curda, turcomanna, sunnita e sciita. Su quello afghano ben undici. Un modello federale è l'unica alternativa praticabile per questi due Paesi.



(da Missione Oggi, febbraio 2005)

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Vita morale e luoghi comuni: «È stato lui»

L’uomo responsabile, specie in estinzione


di Giordano Muraro


Prenderemo in considerazione frasi fatte, luoghi comuni che contribuiscono a formare l’opinione pubblica e che sono moralmente dubbi. Perché la cultura è fatta anche di slogan che possono far dimenticare i principi veri. Nella prima puntata parliamo della crescente difficoltà a trovare una persona responsabile, capace di riparare il male fatto. La colpa è sempre di qualcun altro o di qualcos’altro. La scarichiamo da noi, dicendo: «È stato lui!».

Non si riesce più a trovare una persona responsabile. Bisognerebbe affiggere i manifesti wanted, con relativo premio. Quando avviene un fattaccio si cerca il colpevole, ma per quanti sforzi si facciano il colpevole non si trova. O meglio, c’è, ma non è lui. Magari ci sono le prove provate, la confessione aperta, le testimonianze sicure, ma il colpevole non è lui. È la società che gli ha impedito di maturare, la famiglia che lo ha educato male, i "vissuti" personali che non gli permettono di essere consapevole e gli tolgono la libertà, la capacità di intendere e di volere; e senza consapevolezza e libertà non c’è responsabilità e tanto meno colpevolezza.

Quando poi si entra nelle relazioni sociali, le cose peggiorano in modo esponenziale. Il fatto è avvenuto, e magari si fanno nomi e cognomi precisi. Ma non si procede, perché è un complotto politico, una persecuzione, un tranello. L’esecutore è solo una vittima, la sua unica responsabilità è stata quella di essere stato un po’ ingenuo, e in genere l’ingenuità non si punisce. È vero che l’ingenuità può essere presa in considerazione nei bambini; ma tutti siamo e restiamo un po’ bambini.

C’è poi un altro sistema per deresponsabilizzare, ed è il «così fan tutti»; oppure il ricorso a una commissione di inchiesta che si prolunga nel tempo fino a perdersi nella nebbia dove si smarrisce la direzione, e tutto viene ingoiato dalle sabbie mobili dell’oblio

Scaricabarile

La storia è antica. È iniziata già nel paradiso terrestre quando Adamo si è assolto, scuotendosi la responsabilità di dosso e addossandola a Eva: «È stata lei». Eva non è più quella creatura splendida che lo ha tolto dalla solitudine, ma è quella disgraziata che ha rovinato la sua vita. Eva a sua volta si deresponsabilizza attribuendo la colpa al tentatore. Da allora la storia continua senza fine. Caino cerca di sfuggire alla sua responsabilità, dicendo che non sa nulla del fratello Abele: «Sono forse io il custode di mio fratello?», e così di seguito, di giorno in giorno, di anno in anno, di secolo in secolo, di millennio in millennio, fino agli imputati di Norimberga che cercano di assolversi scaricando la colpa sui loro superiori: «Abbiamo ubbidito a ordini precisi».

Ma che cosa vuol dire essere responsabile? E quando si è responsabili? Potremmo rivolgerci alla morale classica e troveremmo subito la definizione. Ma preferiamo utilizzare strumenti più attuali che sembrano corrispondere meglio al modo di pensare della gente d’oggi. Il Conciso (Vocabolario della lingua italiana, Treccani 1998, Roma, p. 1378) dice che il responsabile è colui «che risponde delle proprie azioni e dei propri comportamenti, ne prevede i rischi e gli effetti, rendendone ragione e subendone le conseguenze». Quindi la responsabilità suppone da una parte una persona che agisce, e dall’altra un fatto da lei prodotto in modo consapevole e libero; ma suppone due altri elementi: la imputabilità non solo dell’azione, ma anche degli effetti prodotti, e il dovere di riparare al male fatto.

La responsabilità non si limita al fatto, ma si estende alle conseguenze dell’azione e all’obbligo di rimediare in qualche modo al danno prodotto. Se io investo un pedone, sono responsabile non solo della morte di una persona, ma anche delle conseguenze che questa morte produce nei suoi familiari, con il dovere di risarcirli. La descrizione è esatta. Ma richiede ancora una serie di precisazioni che complicano tutto.

Anzitutto la distinzione tra responsabilità e colpevolezza. Se inavvertitamente mi sfugge un colpo e uccido un uomo, sono responsabile di questa morte e delle conseguenze di questa morte; ma non sono moralmente colpevole, perché mancava l’intenzione di uccidere. Dovrò pagarne le conseguenze, perché la morte del compagno di caccia è attribuibile a me, ma non ne sono moralmente colpevole. A meno che non abbia trascurato di adottare le precauzioni che normalmente si prendono in questi casi. Sono nozioni che abbiamo appreso fin dall’inizio dello studio della morale.

Oggi l’attenzione si sposta principalmente su altri elementi che si tende a dimenticare e ai quali la morale una volta era molto attenta per responsabilizzare nella giusta proporzione tutti quelli che in qualche modo concorrono alla produzione di un fatto o di un comportamento dannoso, ma specialmente in ordine al dovere di riparare il male fatto, perché chi sbaglia deve pagare, e chi danneggia deve riparare il male causato.

Tutti quelli che devono restituire

Nei manuali veniva presentato un preciso elenco che aveva il vantaggio di ricordare in due righe tutti coloro che in qualunque modo possono essere chiamati in causa quando si produce un danno. Per esempio, in san Tommaso troviamo questo elenco in un articolo che a prima vista sembra curioso: «Se siano tenuti a restituire la roba altrui quelli che direttamente non l’han presa» (S.Th. II-II, q.62, a.7). Oggi questo titolo può sembrare provocatorio, perché spesso non restituiscono nulla neppure quelli che sono stati presi con le mani nel sacco. Si tratta di nove personaggi che concorrono con il loro modo di comportarsi alla realizzazione del fatto delittuoso: «Iussio, consilium, consensus, palpo, recursus, participans, mutus, non obstans, non manifestans». Si è responsabili di un fatto delittuoso, e quindi obbligati alla riparazione, perché si è autori di quell’azione o comandandola, o consigliandola, o acconsentendo, o elogiando chi la compie, o ricattandolo, o ricettando le cose trafugate; ma anche quelli che prima del fatto non hanno parlato, o durante il fatto non lo hanno impedito, e dopo il fatto non lo hanno denunciato

L’elenco è stato fatto per i furti di cose; ma vale proporzionalmente per qualunque furto. C’è il furto di cose, ma c’è anche il furto di onore con la calunnia e la maldicenza, come c’è il furto di valori con l’irrisione e l’arroganza, il furto dell’innocenza per il quale Gesù ha consigliato la macina del mulino, c’è il furto del buon senso con i persuasori occulti, il furto dell’onestà con la diffusione della corruzione, ecc.

Chi è il responsabile di questi furti? Chi deve riparare al male fatto e restituire le cose rubate? Gli esempi sono infiniti. Chi è responsabile delle cattedrali nel deserto, degli ospedali finiti e mai utilizzati, dei centri sportivi mai messi a disposizione della gente? Chi è responsabile del fatto che i soldi raccolti per precise opere di beneficenza si perdano per strada e non arrivino che in minima parte alle persone da beneficare o alle opere da costruire? Chi è responsabile del bullismo diffuso, delle stragi del sabato sera, della caduta di autorevolezza degli educatori, della banalizzazione del pudore, eccetera?

Anche in questi casi quando si giunge al dunque vediamo il fuggi fuggi generale. Tutti hanno un alibi, oppure si ricorre alla falsa umiltà del culpa mea generalizzato, che diventa in realtà l’assoluzione di tutti: siamo tutti colpevoli, quindi non è possibile puntare il dito contro persone ben precise e chiedere che riparino e restituiscano.

I cattivi maestri

Si ha l’impressione che la società sia diventata come quella nave dove nessuno ha una funzione ben precisa di cui deve rendere conto. I cattivi maestri non sono solo quelli che promuovono in prima persona comportamenti delittuosi, ma anche quelli che li consigliano, li promuovono, li elogiano, li diffondono, come ci sono quelli che tacciono, non si oppongono, non li denunciano.

Non c’è solo il mafioso che emette sentenze di morte, ma c’è anche il responsabile dell’amministrazione pubblica che dispone le cose in modo da trarne vantaggi personali; come c’è la persona abile ed esperta che può suggerire il modo più opportuno per evadere le tasse, o il potente che trucca i concorsi per far vincere il suo protetto che non ha i titoli per vincerlo; come ci sono gli omertosi che non denunciano chi organizza furti e ricatti, o i molti Ponzio Pilato che si lavano le mani tirandosi fuori del fatto che sta per avvenire e che potrebbero impedire. Così pure ci sono gli ispettori che non ispezionano, gli educatori che rinunciano a educare, i promotori del bene comune che promuovono il bene di se stessi, i magistrati che non amministrano la giustizia o sono impediti dall’amministrarla.

Pudore del male e gusto del bello

Dove sono i responsabili a cui chiedere conto di questo stato di cose? Domenica 11 marzo è apparso su La Stampa un articolo a firma di Mina. Dopo aver ricordato le parole del Papa dice che: «L’uomo è arrivato al suo orrido burronale nel momento in cui ha scelto di manifestare senza inibizioni tutto se stesso. Si potrebbe dire che non è cambiata la sua essenza, ma che sono apparsi il coraggio e la sfrontatezza di rappresentarla. I media in ogni forma possibile accettano l’incarico della diffusione della mediocrità quando va bene, dello schifo normalmente, del bello raramente».

San Tommaso direbbe che si è perso il pudore del male e il gusto del bello. Di chi è la colpa? C’è un responsabile o dobbiamo dire che ci sono molti responsabili? Ma la distribuzione della responsabilità non significa l’assoluzione generale in nome del «tutti responsabili, quindi nessun responsabile».

È un modo inaccettabile di pensare e di agire, perché in forza della nostra natura sociale siamo in qualche modo un corpo unico, e il male come il bene di uno si ripercuote negli altri, danneggiando tutta l’umanità. La persona non può mai dire: «Non è affar mio», oppure «ognuno per sé e Dio per tutti». Ognuno è responsabile di tutti. Dio ci ha affidati gli uni agli altri. Ma questo principio vale ancor più quando la nostra persona è coinvolta in qualche modo nella produzione di un fatto. Si è responsabili non solo per commissione, ma anche per collaborazione o per omissione.

La verità è che non si tenta neppure più di cercare il responsabile, perché si è persa la speranza di trovarlo. Non esiste più. È stato sostituito da un "lui" non ben identificato («è stato lui»), che però è diventato comodo per assolversi da ogni responsabilità e dall’obbligo di riparare il male fatto e di restituire alle persone e alla società i beni materiali e spirituali che le sono stati rubati.

(da Vita Pastorale, 4, 2007)

Pubblicato in Tematiche Etiche
Martedì, 05 Febbraio 2008 23:21

Ragione ed etica (Frei Betto)

Ragione ed etica

di Frei Betto

Può una società “quantificata” dal mercato, come la nostra, trovare spazio per valori etici “qualificanti”? Davanti all’impunità di politici trovati non-etici, c’è speranza che beni “infiniti” possano prevalere su quelli “finiti”?

Socrate fu condannato e giustiziato per “eresia”. I suoi detrattori lo accusarono di corrompere i giovani, predicando loro “nuovi dei”. La conoscenza che egli aveva raggiunto gli aveva aperto gli occhi non per guardare il cielo, ma la terra. Si era convinto di non poter mai dedurre un’etica per gli esseri umani dall’Olimpo. Gli dei potevano, tutt’al più, spiegare l’origine delle cose, ma non dettare norme di condotta.

La mitologia, piena di esempi poco edificanti, obbligò i greci a cercare nella ragione i principi normativi di una buona convivenza sociale. La promiscuità che regnava presso gli dei poteva solo essere “accettata per fede”, non tradotta in atteggiamenti da imitare. Così, la ragione conquistò la propria autonomia nei confronti della religione.

Impegnato nella ricerca di valori normativi per la convivenza umana, Socrate addita il luogo dove trovarli: la ragione. Per lui, l’etica esige nome eterne e immutabili; non può, pertanto, dipendere dal variare delle opinioni. Platone apporta nuova luce in questo senso, insegnandoci a discernere tra realtà e illusione. Nel primo libro della Repubblica, egli riferisce l’opinione di Trasimaco sul rapporto fra la giustizia e il potere: il più forte si serve della giustizia per mascherare il proprio interesse. (Concetto che Marx riprenderà, applicandolo all’ideologia). Cos’è il potere per Trasimaco? Il diritto concesso a un individuo – o conquistato da un partito o una classe sociale – d’imporre la propria volontà a tutti gli altri.

Aristotele si domanda: cosa desidera il popolo sopra ogni altra cosa? E risponde: la felicità. Ma poi si premura di strapparci da ogni forma si solipsismo, associando felicità e politica. Secoli dopo, formulando i principi di una etica politica, Tommaso d’Aquino sottolinea il primato che spetta al bene comune e valorizza la coscienza individuale e la sovranità popolare come principi imprescindibili. Nicolò Machiavelli, invece, destituisce la politica di ogni etica, riducendola a un mero gioco di potere in cui il fine giustifica i mezzi.

Immanuel Kant afferma che la grandezza dell’essere umano non risiede nella sua capacità tecnica di soggiogare la natura, ma nel suo essere “etico”, cioè nella sua capacità di autodeterminarsi a partire dalla propria libertà. Ci sarebbe in noi un senso innato del dovere: non dovremmo astenerci dal fare una data cosa perché è peccato, ma perché è ingiusta.

«Perfino il santo del Vangelo deve essere paragonato con il nostro ideale di perfezione morale [...] Da dove prendiamo il concetto di Dio come sommo bene? Unicamente dall’idea, che la ragione stabilisce a priori, della perfezione morale, connessa indissolubilmente con il concetto di volontà libera» (Fondazione della metafisica dei costumi). Il grande filosofo tedesco aggiunge che l’etica individuale deve essere completata da un’etica sociale, perché noi, esseri umani, non siamo un gregge di individui, ma una società che esige regole e leggi e, soprattutto, la cooperazione di tutti i suoi membri per raggiungere una convivenza sociale felice.

Hegel e Marx sottolineano come la nostra libertà sia sempre condizionata e “in relazione”, poiché consiste nell’edificazione di comunioni (con la natura e con i nostri simili). È l’ingiustizia a rendere alcuni dissimili dagli altri. Dalla tradizione giudaico-cristiana Marx eredita l’irriducibile dignità di ogni uomo e, pertanto, il diritto alla parità di opportunità. In altri termini: siamo tanto più liberi quanto più costruiamo istituzioni capaci di promuovere la felicità di tutti.

La filosofia moderna ha pensato di fare un passo in avanti con l’affermare che, una volta che si obbedisce alla legge, ciascuno è libero di fare ciò che più gli garba. La privacy come il regno della più totale libertà! Il problema con questo tipo di impostazione sta nel suo svuotare l’etica di ogni responsabilità sociale, indirizzandola verso l’esasperata affermazione dei diritti individuali, con il rischio di ridurla a un soggettivismo egocentrico. L’uomo etico moderno sembra preoccupato soltanto dei suoi sacrosanti diritti, sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.

E i doveri? E gli obblighi che una persona dovrebbe sentire nei confronti della società? E i vincoli che la dovrebbe legare agli altri, in particolare all’affamato, all’oppresso e all’escluso? Un’etica universale non può ridursi alla difesa dei fondamentali diritti dell’individuo: deve, invece, essere coronata dalla volontà di intensificare le virtù, i valori e le responsabilità sociali.

Oggi l’etica non sembra di casa nel mondo della politica: chi la viola rimane impunito; chi la vive, non ne riceve onore. L’esame di coscienza di un politico sembra ridursi a rispondere alla domanda: «Ho fatto forse qualcosa di proibito dalla legge?». Ma questo non basta. Il politico è chiamato ad agire secondo giustizia e con generosità: a regolare il suo comportamento ci deve essere il rigore etico. Nello stesso tempo, egli non può supporre che la sua etica dipenda esclusivamente dalle sue virtù personali. Devono esistere una continua interdipendenza e una interrelazione fra la vita individuale e la vita sociale. «Io sono io e la mia circostanza» diceva Ortega y Gasset.

L’etica deve espletarsi nel modo in cui è organizzata la società. Oltre agli individui, anche le istituzioni sociali devono essere imbevute di eticità. In questo modo, l’individuo potrebbe anche cedere alla corruzione, ma si troverà la strada sbarrata dal mortaio della legalità, che, mentre sostiene le istituzioni, impedisce a esse di favorire l’impunità. Sembrare etico è una questione di estetica, tipica dell’opportunismo. Essere etico, invece, è questione di carattere.

(da Nigrizia, settembre 2007)

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Domenica, 06 Gennaio 2008 00:51

Libertà e responsabilità (Guido Lazzarini)

Libertà e responsabilità

di Guido Lazzarini

Libertà e relazione sono elementi costitutivi della persona e si coniugano tra loro tramite l’assunzione di responsabilità sia nei confronti degli uomini tutti sia nei confronti della natura.

Affermare l’esigenza di un equilibrio ecologico pone in discussione, da un lato, il rapporto di dominio dell’uomo sulla natura, conseguenza del delirio di onnipotenza dell’uomo, dall’altro, il rapporto uomo/uomo.

Nasce l’esigenza di cercare una prospettiva in cui razionalità e senso dell’agire, individualità e collettività, benessere delle generazioni presenti e future non rappresentino istanze separate e contrapposte, ma esigenze unite dalla consapevolezza della relazione che lega ogni uomo indipendentemente dalla sua appartenenza spazio/temporale. Si tratta di produrre valori culturali capaci di generare un’etica condivisa ed interiorizzata che orienti verso un agire responsabile in ogni ambito della vita sociale sia rispetto all’ambiente sia nei confronti di tutti gli uomini anche lontani nel tempo o nello spazio: la dimensione etica trova così il suo fondamento nei principi di libertà, responsabilità e condivisione.

Le smisurate potenzialità tecnico-scientifiche della civiltà industriale, finalizzate al dominio sulla natura, non hanno portato né ad un equilibrio stabile con l’ecosistema, né al modello di giustizia universale che promettevano di assicurare. Il pericolo di tale programma deriva dal suo stesso successo perché se ne è perso il controllo. Il dominio sulla natura si è reso gradualmente autonomo e si è trasformato in minaccia e distruzione: mentre è cresciuto il potere scientifico-tecnologico è parallelamente aumentata l’incapacità dell’uomo di prevederne e valutarne le conseguenze per cui, oggi, è necessario proteggere l’uomo da se stesso e la natura dall’uomo: è necessaria un’etica che regoli e limiti l’agire.

Etica della responsabilità verso la natura

L’etica tradizionale era l’etica della prossimità, in quanto le norme si riferivano ad un agire umano di portata circoscritta: nelle società tradizionali i fini e le ripercussioni delle azioni erano caratterizzati dalla prossimità sia spaziale che temporale. Finora l’etica si era interessata dell’azione presente e delle sue conseguenze contingenti: il rispetto dei suoi diritti si riferiva a coloro che condividevano la realtà presente: essa acquisiva rilevanza perché garantiva la libertà nelle relazioni.

L’etica moderna dovrebbe innanzitutto riferirsi al rapporto tra uomo e natura. La natura, come ambito di responsabilità, rappresenta un elemento del tutto nuovo su cui collocare un’etica capace di orientare l’agire condiviso.

In passato era l’uomo ad essere minacciato dalla natura, ora è l’uomo ad essere pericoloso per la natura, più di quanto la natura lo sia mai stata. Il primo dovere di ogni libertà dovrebbe essere quello di porsi limiti volontari, specialmente in presenza di condizioni di irreversibilità ed incertezza delle conseguenze. La prevenzione, allora, diventa il compito principale della responsabilità verso la natura.

Il nuovo imperativo etico riguarda gli effetti di ogni azione sulla vita futura degli uomini, quindi include l’integrità delle generazioni future ed esige consapevolezza e saggezza nuove.

L’uomo non è il centro dell’universo, ciò che sta al centro è il rapporto, il legame di dipendenza reciproca tra uomo e natura: l’appartenenza vitale alla natura gli offre una diversa percezione di sì ed implica la consapevolezza dei collegamenti esistenti tra cause presenti ed effetti futuri. La consapevolezza della relazione di appartenenza e interdipendenza che li lega consente di superare la falsa alternativa tra dominio sulla natura e sottomissione ad essa e di sostituirvi l’obiettivo della custodia e della convivenza.

Etica della responsabilità verso l’umanità

Riconoscere il nesso di complementarietà tra le diverse generazioni promuove un agire responsabile.

La complementarietà, come riconoscimento dell’interdipendenza reciproca, consente una visione nuova dei rapporti interpersonali, rivaluta la tradizione - legame imprescindibile con il passato e presupposto di un agire responsabile nei confronti delle generazioni future - rende gli individui consapevoli di appartenere ad un tessuto sociale fatto di relazioni interpersonali e intergenerazionali. In tale rete le persone tendono a riunirsi spontaneamente in piccoli gruppi informali o in movimenti associativi, guidati dall’intento di realizzare iniziative di pubblico interesse.

La consapevolezza della complementarietà e dell’interdipendenza fa emergere una nuova razionalità e il senso di una nuova etica della responsabilità che non si limita ai contemporanei o al proprio gruppo, ma si estende alle persone appartenenti a generazioni diverse: le risorse si ricevono in eredità dalle generazioni passate e devono essere trasmesse a quelle future tramite una gestione oculata e ciò rappresenta la condizione di sopravvivenza comune a tutte le generazioni.

Il soggetto di questa nuova etica della responsabilità non è più l’uomo singolo, ma l’umanità tutta: la dimensione di riferimento non è quella individuale, bensì quella collettiva.

L’etica della responsabilità, appellandosi alla libertà personale, deve essere condivisa, riconosciuta, accettata ed interiorizzata “dal basso”, non può essere garantita dall’imposizione normativa.



Per un approfondimento, vedasi: G. Lazzarini, Etica e scenari di responsabilità sociale, Angeli, Milano, 2006

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Negazione del diritto alla casa,
uno scandalo morale italiano

di Giannino Piana *

La casa costituisce un bene fondamentale per il singolo e per la famiglia: un bene che offre stabilità e sicurezza e garantisce le condizioni perché possano svilupparsi rapporti umani autentici e sereni. Purtroppo esistono tuttora, anche nel nostro Paese, condizioni di oggettiva difficoltà di accesso a questo bene per un numero consistente di persone. Se è vero infatti che in Italia il numero di famiglie con casa propria è decisamente alto - 18,6 milioni di famiglie sono, secondo le più recenti rilevazioni dell’lstat, in questa condizione (e a esse si aggiunge un’altra quota che ne gode in usufrutto) - non mancano, tuttavia, e sono circa 4,2 milioni quelle che, invece, non godono di tale privilegio; tra queste circa un terzo degli affittuari è composto da famiglie giovani. Non meno consistente è, d’altronde, il numero di giovani famiglie che, volendo farsi la propria casa, sono impegnate a pagare ingenti mutui con pesanti oneri sui redditi: stando (sempre) ai dati dell’lstat si tratterebbe del 37,7% dei 2,2 milioni di famiglie che hanno contratto mutui per la casa e che versano mensilmente una cifra che si aggira attorno ai 620 euro.

E’ dunque possibile affermare che sta emergendo una nuova categoria di poveri costituita da un numero sempre più esteso di famiglie a basso reddito, che vivono in affitto, e ciò soprattutto nelle grandi città. Il costo dei prezzi delle case (in affitto e in vendita), che cresce secondo una dinamica esponenziale, causa anzitutto la tendenza all’indebitamento e provoca la drastica riduzione di altri consumi, a partire da quelli legati a beni immateriali come la cultura, i viaggi, ecc. Ma tale costo è anche una delle principali ragioni della difficoltà di intraprendere scelte di vita, come quella matrimoniale, e soprattutto dell’impossibilità a mettere al mondo figli: la depressione demografica, di cui il nostro Paese da tempo soffre - il lieve incremento di questi ultimi anni è, in larga misura, da addebitare alla presenza sempre più massiccia di extracomunitari sul nostro territorio - è dovuta anche a questo motivo.

Il diritto alla casa è un diritto fondamentale di ogni cittadino che, come tale, deve essere tutelato dall’intervento delle istituzioni pubbliche. L’impegno a mettere ciascuno nella condizione di fruire di un bene così importante va posta al centro delle politiche sociali, che devono preoccuparsi di creare consistenti agevolazioni per l’acquisto della prima casa e di predisporre interventi sul mercato volti a calmierare i prezzi degli affitti e a controllarne le modalità di contrattazione, L’assenza di “regole” determina infatti lo sviluppo di una concorrenzialità senza freni, che ha come esito il forte rialzo dei prezzi, perciò l’impossibilità per molti di accedere alla casa o, qualora l’accesso avvenga, la costrizione a subire pesanti limitazioni.

Ma l’impegno strutturale non basta Anche su questo terreno si fanno infatti sentire le gravi sperequazioni che tuttora esistono nel nostro Paese. A fronte delle difficoltà rilevate, che inaugurano - come si è detto - una nuova frontiera del disagio, costituita da un numero sempre più consistente di giovani famiglie (in particolare quelle che hanno un capofamiglia al di sotto dei 35 anni), si assiste anche da noi all’innalzarsi costante del numero di famiglie che posseggono doppie (triple, e così via) case, spesso inutilizzate (o quanto meno sottoutilizzate). E’ questo il sintomo di uno stato diffuso di ingiustizia sociale, che reclama una profonda conversione delle coscienze. Il fatto che un bene essenziale come la casa non sia ancora appannaggio di tutti testimonia la mancata attuazione di quella uguaglianza, che pure è uno degli obiettivi-cardine della nostra Costituzione.

La politica è pertanto chiamata in causa come primo attore; ad essa spetta non solo intervenire per sanare il divario sociale o, come recita la Carta costituzionale, per «rimuovere gli ostacoli» che impediscono a molti cittadini di esercitare di fatto il diritto di cittadinanza, ma anche per alimentare la consapevolezza della comune appartenenza e della necessità di concorrere insieme a perseguire responsabilmente il bene comune. Ciò è tuttavia reso possibile solo dalla presenza di una classe dirigente che anziché invitare i cittadini, come si è verificato in occasione dell’ultima campagna elettorale, a votare «secondo i propri interessi» (e non secondo quelli della Nazione), si impegni a creare condizioni di sempre maggiore perequazione sociale, eliminando situazioni scandalose, che mantengono in posizione di minorità o di esclusione sociale un numero ancora consistente di cittadini.

* docente di teologia morale

(da Jesus, dicembre 2006)

Pubblicato in Tematiche Etiche
L’identità teologale dell'etica cristiana

di Giannino Piana

I documenti del Magistero non si rivolgono solo ai credenti e fanno spesso riferimento ad un ordine naturale che ha radici nella coscienza umana.

La morale cristiana è una semplice morale umana o è qualcosa di più e di diverso Esiste, in altre parole, una differenza sostanziale tra il comportamento puramente umano e quello del credente E, sé esiste, dove sta tale differenza? Questi interrogativi sono venuti affiorando, con sempre maggiore insistenza negli ultimi decenni, non solo nell’ambito della ricerca teologica, ma anche all’interno della stessa coscienza dei credenti. A favorirne la nascita hanno concorso un insieme di fattori legati tanto alle trasformazioni del contesto socio-culturale quanto al rinnovamento dell’etica cristiana. Tra essi merita anzitutto di essere ricordato il fenomeno della secolarizzazione, che ha provocato una graduale emancipazione dell’uomo e del mondo dall’universo simbolico sacrale da cui sembravano dipendere. L’agire umano è venuto di conseguenza sempre più configurandosi come agire autonomo, le cui motivazioni ed i cui significati possono essere rintracciati dall’uomo a partire dalla propria ragione e da una corretta interpretazione della realtà storica. L’etica appare dunque essenzialmente come un dato umano, come lo spazio nel quale ogni uomo è chiamato a costruirsi responsabilmente il proprio destino in stretta relazione con gli altri e con il mondo.

D’altra parte, la stessa riflessione morale cristiana, stimolata da una più attenta rivisitazione dei testi biblici, ha progressivamente ricuperato il fondo umano che sta alla radice dell’agire dei credenti. Molti dei valori e delle norme contenuti nella rivelazione, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, altro non sono che la trasposizione, nel quadro della storia della salvezza, di una sapienza umana diffusa, che ha la sua sorgente nel piano originario della creazione. È significativo che gli stessi documenti del magistero - soprattutto quelli di carattere sociale - non si rivolgano esclusivamente ai cristiani ma a tutti gli uomini di buona volontà e facciano spesso riferimento ad un ordine naturale, che ha le sue radici nella coscienza dell’uomo.

Questa riscoperta di un patrimonio comune costituisce senz’altro un elemento positivo e di grande interesse. Consente infatti di riaprire un confronto e di dar vita ad una feconda collaborazione tra credenti e non credenti in nome di un convergente interesse per l’uomo e per la sua liberazione. Ciò non significa tuttavia che si debba negare l’originalità della morale cristiana, significa piuttosto che tale originalità va ricercata in un più vasto orizzonte di interpretazione del senso dell’agire. A questo orizzonte, ricco di profonde implicazioni, ci rinvia la recente e densa opera di Mauro Cozzoli (Etica teologale. Fede, carità, speranza, Edizioni Paoline, Milano 1991), che individua nella vita teologale l’elemento nuovo e fondativo dell’agire morale del cristiano.

Fede, carità e speranza, nel rapporto costitutivo che le unisce, sono modi di essere strutturali e dinamici che permeano di sé l’intero esistere umano e coinvolgono tutto l’agire. Attraverso di esse ha infatti luogo la partecipazione alla vita divina che si realizza nell’incontro tra il dono di Dio e la libera accoglienza dell’uomo. L’identità della morale cristiana non va dunque anzitutto ricercata sul terreno della definizione dei significati immediati dell’agire, ma su quello della determinazione del suo senso ultimo. La fede acquista, sotto questo profilo, il carattere di centro di unificazione e di irradiazione della vita morale e assolve la funzione di criterio ultimo di discernimento delle diverse situazioni dell’esistenza quotidiana. L’incontro con Gesù, in quanto evento trasformatore e datore di senso, è lo specifico morale del cristiano.

Il dovere etico, lungi dal risuonare come un’imposizione, appare piuttosto come esigenza da accogliere e come compito da eseguire nella fedeltà. In quanto opzione decisiva di tutta l’esistenza, la fede coincide con la libertà fondamentale della persona sollecitata a rispondere all’iniziativa divina, abbandonando la presunzione dell’autogiustificazione e convertendosi alla radicalità del messaggio evangelico.

Il cuore di questo messaggio è il grande comandamento dell’amare. Esso ha il suo fondamento e riceve il suo senso dalla partecipazione alla carità di Dio, cioè alla comunione che unisce il Padre al Figlio nello Spirito. L’inserimento dell’uomo nel dialogo trinitario dell’agape contrassegna la sua nuova condizione di creatura e di figlio di Dio e costituisce lo statuto ontologica della sua esistenza che deve interamente svilupparsi nell’amore. Il mistero trinitario diviene così il modello cui l’uomo è chiamato ad ispirare la propria condotta: un modello i cui connotati sono la donazione totale di sé, l’accoglienza incondizionata dell’altro e la piena comunione da realizzare nel superamento di ogni chiusura e nell’accettazione radicale della diversità.

La croce di Cristo è il luogo a cui soprattutto riferirsi per attingere la specificità dell’amore cristiano come gratuità e pura benevolenza, come totalità e sovrabbondanza che supera ogni bisogno umano e travalica tutti i confini. Il vangelo della carità è pertanto la nuova legge della grazia che lo Spirito scrive nel cuore dell’uomo. Essa spinge chi la riceve a rendere trasparente nella vita quotidiana l’amore verso Dio e verso il prossimo, in quanto aspetti inscindibili dell’unico precetto. Non si dà infatti amore vero per l’uomo senza Dio, ma neppure amore autentico per Dio a prescindere dall’uomo, che ne riflette immediatamente l’immagine

Testimoni di speranza

Ma la fede e la carità non stanno senza la speranza, che è la tensione escatologica della vita cristiana. Essere discepoli di Gesù significa infatti diventare testimoni credibili della speranza, la quale non va considerata come una proiezione spiritualistica che distoglie l’uomo dalle responsabilità secolari, ma come una forza sollecitatrice dell’impegno per il mondo. In quanto assunti nel dinamismo salvifico di Cristo, creazione e storia sono sottratte al determinismo e coinvolte nel processo di liberazione già in atto, e tuttavia aperto al futuro assoluto. La speranza è dunque la molla dell’agire morale del credente. La promessa del Signore obbliga il cristiano a calarsi dentro la storia, vivendo la ricerca di un equilibrio sempre nuovo tra la passione del possibile e l’attesa del giorno del Signore. Essa conferisce soprattutto senso alla libertà dell’uomo, spingendolo ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità e ad accettare anche gli inevitabili scacchi.

La vita teologale è perciò, in definitiva, ciò a cui occorre risalire se si vuole cogliere la novità della morale cristiana. Essa confluisce nell’azione liturgico-sacramentale come momento nel quale si attua, nel modo più completo, la partecipazione del cristiano alla vita di Cristo. Qui infatti l’indicativo di salvezza trova la sua ragione ultima per dispiegarsi in imperativo di salvezza, cioè in esigenza di vivere in fedeltà alla logica del regno. Ma il rischio laddove manca la vita teologale è che tale momento si inaridisca trasformandosi in rito vuoto e in atteggiamento devozionalistico e che la vita morale si secolarizzi e si privatizzi.


Pubblicato in Tematiche Etiche

Associazione teologica italiana per lo studio della morale

I problemi cruciali del nostro tempo

di Romano Altobelli *

Il Concilio Vaticano II e il post-concilio sono il frutto di quanto la liturgia ci fa domandare: “Mostraci la tua continua benevolenza, o Signore, e assisti il tuo popolo, che ti riconosce suo pastore e guida; rinnova l’opera della tua creazione e custodisci la comunità ecclesiale che hai rinnovata” (Colletta della 18a domenica del tempo ordinario). E’ la lex orandi che conduce la Chiesa alla lex vivendi: il Vaticano II ha rivoluzionato la cristianità e ha immesso nella vita ecclesiale la capacità di scoprire i semina Verbi sparsi nei solchi della storia.

L’assistenza dello Spirito al nuovo popolo di Dio si è manifestata nel Concilio, opera ri-creatrice della comunità dei fedeli cristiani. Esso è definito concilio “pastorale”, perché con il dinamismo dello Spirito Gesù ha guidato alla pastoralità tutta la teologia. Egli mediatore e pienezza di tutta la rivelazione, attraverso gesta et verba, compie la storia della salvezza; le sue parole proclamano le opere e illuminano il mistero (cf Dei Verbum 2).

La dinamica innovatrice della parola di Dio ha toccato tutte le discipline teologiche, perché i fedeli avessero “un contatto più vivo con il mistero di Cristo e con la storia della salvezza” (OT 16). Una particolare attenzione è stata data alla teologia morale, nel passato caratterizzata dalla casistica, dalla legge e dal diritto canonico. Aveva bisogno di un nuovo orientamento: “Si ponga speciale cura nel perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla sacra Scrittura,illustri l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo” (OT 16).

La richiesta dell’Optatam totius è stata subito accolta dai teologi morali italiani ed è nata l’Associazione italiana dei teologi moralisti, poi denominata Associazione teologica italiana per lo studio della morale. Terminato il Concilio il domenicano padre Dalmazio Mongillo (che ci ha lasciato il 13.7.2005) e il redentorista padre Domenico Capone (Majorano Sabatino, “Capone Domenico” (1907-1995), in Lexicon. Dizionario dei teologici, Piemme 1998, Casale M. (AL), impegnato durante uil Concilio per una teologia morale fondata sul mistero di Cristo, sulla dignità della persona umana e sulla coscienza, realizzano l’idea ispiratrice di radunare in associazione i moralisti italiani.

Si concretizza a Napoli nel primo congresso dei moralisti su “L’insegnamento della teologia morale dopo il concilio Vaticano II” (12-16:4:1966): Mongillo ne fu il primo segretario accanto a Tullo Goffi, primo presidente. Subentrarono poi come presidenti fino ad oggi: Enrico Chiavacci, Giannino Piana, Luigi Lorenzetti, Francesco Compagnoni, Salvatore Privitera, Romano Altobelli e, dal luglio 2006, Karl Golser.

Sono soci dell’associazione gli autorevoli teologi morali già ricordati e molti altri delle pontificie università di Roma e delle altre facoltà teologiche. Nel nuovo albo, in preparazione, ci sono circa 150 soci effettivi. L’associazione conta sacerdoti e religiosi/e, ma anche una qualificata presenza di teologi e teologhe laici, impegnati nella docenza e nello studio.


Nuova denominazione

Il 21.10.2004 è stata costituita l’Associazione teologica italiana per lo studio della morale (Atism) secondo le norme giuridiche dello Stato italiano con atto notarile e regolata dagli artt. 36 e ss. del Codice civile e dello statuto. Si attende nel corrente anno il riconoscimento della Conferenza episcopale italiana ai sensi dei canoni 321-326 del Codice di diritto canonico. Con l’atto costitutivo notarile è stato approvato lo statuto rinnovato.

Sinteticamente, lo scopo dell’associazione è lo studio, la ricerca, la promozione, il dialogo nella teologia morale, secondo quanto recita lo statuto: “Lo scopo è, in particolare, favorire gli studi e ricerche nel settore della teologia morale; la promozione sociale delle acquisizioni in ambito teologico morale; il dialogo con le Chiese cristiane sulla teologia morale; il dialogo interreligioso e interculturale su temi inerenti alla teologia morale; la collaborazione tra docenti e cultori di scienze morali in Italia e all’estero; la specializzazione dei propri membri e la loro reciproca solidarietà”.

Per raggiungere tali finalità ha contatti e collaborazione con gli istituti di ricerca e con le associazioni teologiche e culturali affini; pubblica studi nel settore morale; organizza corsi, convegni e incontri d’aggiornamento; favorisce contatti dei professori tra loro e con docenti di scienze simili; offre consulenza e collaborazione agli organi ecclesiali.

I 150 soci sono presenti nelle quattro aree del territorio italiano e formano le sezioni: settentrionale (regioni del Nord), centrale (regioni del Centro e Sardegna), meridionale (regioni del Sud), Sicilia.

Il cammino dell’associazione è scandito dai congressi biennali, dai seminari nazionali e incontri annuali delle sezioni territoriali. Queste attività sono svolte nelle diverse diocesi con lo scopo di svolgere un servizio per una maturazione di fede adulta e vissuta, ponendo l’accento sulle problematiche morali emergenti in campo civile ed ecclesiale.

L’impegno dell’Atism è collaborare con la Cei e le Chiese locali che ci ospitano. Ecco perché è fondamentale la presenza costante del vescovo ai lavori, all’organizzazione, alla celebrazione dell’eucaristia. Agli incontri è notevole la partecipazione di sacerdoti e laici-laiche impegnati nell’insegnamento, nella pastorale diocesana e parrocchiale; in loro è sempre sentito l’interesse per i temi proposti e studiati. Nostra intenzione è continuare a coinvolgere le Chiese locali per la diffusione della cultura teologico-morale.

Tematiche impegnative


Le problematiche trattate sono le più urgenti e impegnative del momento. Ricordiamo quelle degli ultimi convegni: “L’etica delle virtù”, ‘L’etica delle beatitudini”, “L’etica della responsabilità di fronte al futuro”, da cui è scaturito il tema, quasi come anticipazione del convegno di Verona, “La speranza umana e la speranza escatologica”; nell’ultimo congresso tenuto a Oristano il 6-10.9.2004 si è inteso ripercorrere i problemi della bioetica a dieci anni dall’enciclica Evangelium vitae con il titolo “La casa della vita”. Gli Atti di ogni congresso sono pubblicati dalle Edizioni San Paolo nella collana “Teologia e Morale. Studi e testi”.

I seminari nazionali, della durata di una settimana, sono tenuti anch’essi in diverse diocesi; hanno come guida professori e cultori della disciplina. I destinatari sono i soci, gli specializzandi e tutti gli interessati all’argomento. Sono prese in considerazione sia le problematiche interne alla disciplina sia quelle di maggiore attualità: “Rapporto tra morale fondamentale e morale speciale”; “Educazione morale dei giovani”; “Etica e tecnologie dell’informazione nell’era di Internet”; “Il rinnovamento teologico-morale in Italia dal Vaticano Il ad oggi”.

Ogni sezione, per iniziativa del delegato zonale, organizza nell’anno momenti d’incontro tra soci per fraternizzare e affrontare questioni proprie della materia. Per accennare agli incontri dell’ultimo anno, ricordiamo il tema “Globalizzazione e politica: un nuovo ordine morale?” della Sezione settentrionale; “Lettura trasversale dell’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI” della Sezione centrale; “Neuroscienze e comportamento umano” della Sezione meridionale; “La riflessione bioetica del magistero ecclesiale per la società contemporanea” della Sezione Sicilia.

La Rivista di teologia morale delle Edizioni Dehoniane di Bologna è pubblicata in collaborazione con i teologi moralisti dell’Atism. I consulenti alla direzione appartengono quasi nella totalità all’associazione. Nella rivista l’Atism cura la rubrica “Itinerari Atism” per favorire il collegamento e la comunicazione tra i soci, per dare informazioni tempestive e indicare le attività di rilievo in ambito associativo.

Il cammino dell’associazione guarda al futuro. E’ stato celebrato il primo congresso internazionale interculturale di teologi moralisti cattolici a Padova (8-11.7.2006), nel corso del quale ha avuto luogo l’Assemblea generale Atism per il rinnovo delle cariche sociali e la programmazione del prossimo quadriennio. In autunno sarà in libreria Sfide etiche della globalizzazione (collana “Itinerari etici”, Città Nuova). Sono in fase di studio tre argomenti spinosi, complessi e delicati: “Il celibato sacerdotale e vuoti ministeriali”; “Divorziati risposati e sacramenti”; “La morte”: faranno parte della stessa collana di Città Nuova.

Le tematiche morali di oggi creano problemi nel mondo civile e tra i cristiani. La teologia morale vuole condurre i fedeli alla riscoperta dell’altissima vocazione in Cristo, perché portino frutti di carità per la vita del mondo; vuole richiamare alla consapevolezza della dignità di ogni persona, che vive nell’attuale storia sociale da laico o da credente.

Il Vangelo della carità


I sacerdoti e i laici impegnati nella pastorale, I gruppi e i movimenti possono fare riferimento all’Atism per un aiuto nella formazione morale cristiana, per i difficili e complessi problemi di morale umana e cristiana. Spesso, infatti, si notano idee confuse e inquinate da ideologie e culture anti-umane, laiciste, anticlericali.

Chi è sensibile a una vita morale sociale e/o cristiana può far riferimento agli Atti dei congressi, alla collana “Itinerari etici”, alla Rivista di teologia morale, che trattano i problemi cruciali del nostro tempo: le virtù, le beatitudini, il futuro, la speranza, la bioetica, la pedofilia, Internet, dottrina sociale della Chiesa, eucaristia e teologia morale, fecondazione assistita, coppie di fatto, ecc.

Vanno ricordati i validi e unici strumenti prodotti e curati da teologi moralisti dell’Atism con la collaborazione, in larga misura, di soci: Nuovo Dizionario di Teologia morale (Ed. Paoline), Dizionario di Bioetica (Città Nuova-ISB), Enciclopedia di bioetica e sessualità (LDC), Dizionario di teologia della pace (EDB).

In conclusione, prendendo spunto dalla Evangelii nuntiandi di Paolo VI, diciamo che la teologia morale mira a tener presenti e uniti l’elemento antropologico (l’uomo concreto condizionato dalle questioni umane, sociali, economiche), teologico (non si può dissociare la creazione dalla redenzione), evangelico della carità (la crescita autentica dell’uomo avviene proclamando il comandamento nuovo dell’amore, promuovendo la giustizia e la pace vera).

«E impossibile accettare che nell’evangelizzazione si possa o si debba trascurare l’importanza dei problemi, oggi così dibattuti, che riguardano la giustizia, la liberazione, lo sviluppo e la pace nel mondo. Sarebbe dimenticare la lezione che viene dal Vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso» (EN 31). La teologia morale non può non tener conto di tanta saggezza.
 

La sede ufficiale dell’associazione è la Pontificia università San Tommaso, largo Angelicum, 1 - 00184 Roma. Per informazioni ci si può rivolgere a Pier Davide Guenzi, segretario, via Monte San Gabriele 60 - 28100 Novara, tel. 0321.432538, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.* docente di teologia morale, bioetica, teologia pastorale, vice-presidente Atism



(da Vita Pastorale, novembre 2006)




Bibliografia

Compagnoni F. - Privitera 5. (curr.), Il futuro come responsabilità etica, San Paolo 2002, Cinisello B. (Mi); Compagnoni F. - Privitera S. (curr.) Speranza umana e speranza escatologica, San Paolo 2004; Altobelli R. - Privitera S. (curr.), La casa della vita, San Paolo 2006; Leone S. (ed.), L’innocenza tradita. Pedofilia: il punto sulla questione, Città Nuova 2006, Roma; Altobelli R. - Leone S. (edd.). La morale riflessa nel monitor. Internet ed etica, Città Nuova 2006; Rivista di Teologia Morale, trimestrale diretto da Lorenzetti L., EDB, Bologna.

Pubblicato in Tematiche Etiche
Riaffermazione di principi o dialogo?

di Giordano Muraro

Premessa.

Il documento Famiglia e procreazione umana porta la data del 13 maggio 2006, ma è stato presentato ufficialmente il mese dopo a Roma, finito il convegno del Forum delle associazioni familiari (12 maggio) e prima del convegno internazionale sulla famiglia a Valencia (1-9 luglio). In novantasei pagine si propone di rintuzzare gli attacchi che oggi vengono mossi con estrema violenza alla famiglia e alla procreazione. È stato accusato di durezza e intransigenza, e soprattutto di un linguaggio che non ammette dialogo. Dopo aver dichiarato erronee e fuorvianti le proposte alternative alla famiglia tradizionale e alla procreazione, presenta in modo preciso e accurato la dottrina della Chiesa su questi argomenti. Ma il tono è assertivo e ha l’atteggiamento di chi dice: «Tu sbagli», ma non si confronta. Non prende sul serio chi pensa in modo diverso, ma lo liquida sbrigativamente mettendolo tra quelli che camminano nelle tenebre e hanno bisogno di luce per scoprire la verità. Il documento si preoccupa di fornire questa luce, presentando una sintesi chiara del pensiero della Chiesa.

Non segue lo schema invalso dopo il concilio Vaticano II, che invita a discernere nella storia “luci e ombre” e che ritroviamo, per esempio, nella Familiaris consortio; nel mondo vede solo tenebre e nella dottrina della Chiesa la luce che fa chiarezza. E’ un metodo che oggi viene rifiutato in partenza, perché la mentalità di oggi ritorna - anche se con altro spirito - al principio antico che nella discussione e nel confronto non ha valore il «chi lo dice», ma il «che cosa dice» (non a quo dicitur, ma quid dicitur): un principio che sembra più adatto alla mentalità di un mondo in cui - come si dice nel documento - l’individualismo frammenta la società e perde sempre più valore l’argomento ex auctoritate. Oggi si chiede il dialogo, anche se la richiesta spesso è più nominale che reale. Si è capito che il monologo di chi è certo di possedere la verità e non ha la pazienza di confrontarsi, genera solo isolamento o contrapposizione e conflitto, che radicalizzano le posizioni di ognuno.

Un’utile sintesi dottrinale, ma non aiuta incerti e deboli di fede

Una seconda accusa viene mossa al documento. La dottrina della Chiesa sulla famiglia e sulla procreazione viene fondata su principi ancora troppo generici, che avrebbero bisogno di essere rielaborati e presentati in modo più specifico per essere utili a confutare le posizioni ritenute fuorvianti. Per confutare la procreazione artificiale e il matrimonio omosessuale non è sufficiente fare appello alla dignità della persona umana, perché in nome di questo stesso principio viene fatta la richiesta delle forme alternative. E’ necessario analizzare l’una e l’altra posizione e far vedere che i beni che nascono dalla famiglia tradizionale e dal modo naturale di procreare promuovono in modo ottimale il bene delle persone e della comunità, mentre gli altri modi potranno soddisfare dei desideri immediati e parziali che però si rivelano controproducenti per lo sviluppo pieno della persona e della società. Non si tratta di una lotta tra il bene e il male, tra i giusti e i peccatori, ma del confronto tra persone che ritengono entrambe di promuovere il bene degli individui e della società.

Un’impostazione simile richiederebbe un impianto diverso da quello adottato dal documento. Il che non significa che sia inutile. E’ certamente utile per chi vuole avere una sintesi del pensiero della Chiesa su questi argomenti, anche se poi resta aperto il lavoro dell’analisi del pensiero di chi si contrappone, e del confronto, per mettere in evidenza la superiorità dei benefici che la persona e la società ricevono dalla procreazione e dalla famiglia pensati e vissuti in modo tradizionale. Oggi l’aiuto che si chiede è simile a quello che un parroco ha chiesto al pontefice Benedetto XVI, quando il 31 agosto ha incontrato i sacerdoti della diocesi di Albano: « Cosa possiamo fare noi sacerdoti per [...] comunicare al positivo la bellezza del matrimonio che sappia far innamorare ancora gli uomini e le donne del nostro tempo?». E il Pontefice dopo aver dato una sua risposta ha concluso dicendo: «Ma come comunicanrle? Mi sembra un problema comune a tutti noi». La risposta può essere data solo dal popolo di Dio intero, con l’apporto degli esperti di comunicazione e con l’esperienza degli stessi coniugi che vivono questa fondamentale esperienza umana. E’ quello che la Familiaris consortio aveva proposto sia nell’introduzione, sia in tutta la parte che riguarda l’aspetto pastorale.

Per questo il documento è utile per chi desidera avere un compendio della dottrina della Chiesa sulla famiglia e sulla procreazione; ma lascia deluso chi avrebbe desiderato uno strumento per confermare i deboli e gli incerti nell’insegnamento della Chiesa, e per avere più ragioni convincenti per discutere con chi pensa in modo diverso.

Una visione sintetica del documento

Non è facile presentare una sintesi di questo lungo e complesso documento. A prima vista sembra il contenitore di tutti i problemi che oggi vengono agitati intorno alla famiglia e alla procreazione. Ed è in un certo senso vero. I contenuti sono molti, e qualche volta si ha l’impressione che la preoccupazione della completezza abbia reso difficile un’esposizione semplice e unitaria. Però è possibile giungere a una prima conoscenza, sfrondando il discorso di molti temi collaterali e concentrando tutto - come suggerisce lo stesso documento - intorno al tema della procreazione umana.

Partendo dalla procreazione il discorso si estende alla famiglia, perché la famiglia è il luogo naturale della procreazione umana; e si prolunga alla società, perché la società è l’interlocutore naturale della famiglia nel compito di portare la persona procreata al suo pieno sviluppo umano. Tutto questo discorso viene collocato nel contesto socio-culturale attuale, per cui il documento dedica una parte alla ricerca delle correnti di pensiero che stanno all’origine delle nuove proposte sulla procreazione e sulla famiglia. La conclusione però è pessimistica: «Mai nella storia del passato la procreazione umana, e quindi la famiglia, che è il suo luogo naturale, sono state minacciate come nella cultura odierna» (p. 6).

Introduzione: famiglia e procreazione

Risalendo alle cause di questa crisi, individua subito la principale: «Le cause sono diverse, ma l’eclissi di Dio, creatore dell’uomo, sta alla radice della profonda crisi attuale della verità tutta sull’uomo, sulla procreazione e sulla famiglia» (ibjd.). Le cause immediate sono da ricercarsi nelle diverse filosofie che hanno reso sempre più sbiadita la presenza di Dio nella vita dell’uomo, fino a farlo scomparire; e con lui anche quelle norme certe e universali scritte nella natura stessa dell’uomo, che costituivano il punto di riferimento per tutti gli uomini. Un uomo senza Dio e senza legge naturale cade inevitabilmente in un forte individualismo che frammenta tutto il vivere sociale, anche la famiglia, e lo rende unico arbitro della sua vita, delle sue scelte e del suo destino.

La scienza si sostituisce alla sapienza, il benessere e l’utile prendono il posto del bene, le applicazioni scientifiche mettono praticamente a tacere i principi che dovrebbero invece giudicarle e guidarle. Le correnti radicali propongono nuovi modelli di famiglia; alcune correnti di bioetica orientano l’uomo e la donna a una procreazione senza amore; si consolidano le politiche di controllo delle nascite che diventano concretamente una diffusione della contraccezione e della sterilizzazione; la stessa impostazione socio-economica porta a ritardare il tempo del matrimonio e della procreazione. L’uomo pensa di essere più libero, in realtà è più disorientato. In questo mondo che è nelle tenebre il documento si propone di riportare la verità sulla famiglia e sulla procreazione.

Il documento non affronta subito il tema della famiglia e della procreazione, ma parte da una riflessione sull’uomo. Infatti dalla concezione dell’uomo dipende il modo di concepire la famiglia e la procreazione. L’uomo che oggi vive nella storia è un uomo dominato dall’individualismo e tende a usare della sua libertà per raggiungere il massimo del suo benessere in ogni sua esperienza. Anche «nei rapporti intimi l’uomo e la donna si comportano come individui e ciascuno cerca il piacere più intenso o l’utilità massima per se stesso» (p. 13). All’uomo sociale e familiare si contrappone l’uomo individuale. Questa concezione dell’uomo è all’origine della richiesta di fare famiglia e di procreare in modo diverso da quello tradizionale.

1. La procreazione

Dopo questa prima riflessione generale, il documento prende in considerazione la procreazione esaminando il suo luogo naturale, cioè la famiglia. La famiglia è presente in tutte le culture dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa, delle Americhe. Da dove nasce questa esigenza di famiglia e di procreazione? Dalla natura stessa dell’uomo. Nella lex naturalis troviamo «il fondamento sia per la sessualità, per l’amore tra uomo e donna, sia per l’insieme della vera vita di famiglia» (p. 21). La procreazione ha le sue radici nella corporeità, cioè nella natura dell’uomo che è composto di anima e corpo. Da questa realtà composita nasce la sessualità, che non è riducibile a un fatto biologico, ma lo trascende e diventa un fatto psichico, interpersonale.

La maschilità e la femminilità sono due mondi di umanità che esercitano una forte attrattiva reciproca. Dall’attrattiva nasce l’amore, che è «fondamento del matrimonio e, questo, della famiglia umana che trasmette la vita ai figli e li educa per la vita sociale» (p. 23). Ma se per creare il matrimonio bastano l’uomo e la donna, per realizzare la procreazione umana è necessaria la presenza attiva di Dio. L’anima, che è l’elemento umano che permette all’uomo di trascendere tempo e spazio, nel momento stesso in cui è soggetto alle leggi della materia, non procede dall’uomo, ma è infusa da Dio. L’uomo, la donna e Dio sono all’origine della persona umana.

2. La famiglia, luogo di procreazione

Il figlio è fatto «ad immagine di Dio». Ed è questa dignità che fonda in lui l’esigenza e il diritto di essere generato da un gesto di amore e non prodotto in laboratorio; anzi, chiede di essere il frutto di un atto che non disgiunge la fecondità dall’amore, il significato unitivo da quello procreativo. Non ha bisogno solo di nascere da un gesto di unione amorosa, ma da uno stato di vita amorosa, cioè da una famiglia, perché solo questa comunione permanente può garantire al figlio di ricevere non solo l’umanità iniziale, ma lo sviluppo di tutta la sua umanità attraverso l’educazione. Per questo l’uomo e la donna devono modellare il loro amore su quello di Dio, il quale non ama la sua creatura solo nel momento della creazione, ma la segue nella sua crescita e nel suo sviluppo. La procreazione diventa una forma di «collaborazione con l’amore di Dio creatore, da cui deriva per i coniugi la condizione di cooperatori di Dio» (p. 28). Purtroppo oggi la responsabilità nella procreazione non viene più intesa come consapevolezza di diventare collaboratori di Dio nella donazione e nella continuazione della vita, ma come l’impegno a diminuire il numero dei figli, specialmente nei popoli emergenti.

3. Famiglia e procreazione integrale

Il figlio non ha bisogno solo di essere generato, ma anche di essere allevato ed educato. Per rispondere a queste sue esigenze è necessaria la presenza costante dell’uomo e della donna, che il figlio porta già uniti in sé. I genitori con l’allevamento-educazione sviluppano le premesse di vita che hanno deposto in lui, quando gli hanno donato la propria vita attraverso la comunicazione del loro patrimonio cromosomico. In altre parole: il figlio chiede di continuare a essere generato per tutta la vita dall’uomo e dalla donna che lo hanno introdotto nella vita, partecipandogli la propria vita. I contenuti di questa educazione ci sono già nella natura del figlio; si tratta di edurli (educare = educere = tirar fuori) attraverso un’attenzione personalizzata e continua. Nessun’altra struttura educativa è capace di educare come fa la famiglia, perché nessun’altra è capace di sviluppare questa cura amorosa quotidiana, attraverso la quale passano la vita e i suoi valori. San Tommaso esprime molto bene questo fatto con l’immagine del secondo utero: «Uscito dall’utero, prima di avere l’uso del libero arbitrio, è mantenuto sotto la cura dei genitori come sotto una specie di utero spirituale» (II-II, q.10, a.12).

4. Aspetti sociali del servizio alla famiglia

I genitori non bastano, e neppure la comunità familiare, il figlio porta in sé delle esigenze che possono essere soddisfatte solo dalla più ampia comunità sociale. Per questo la famiglia e la società devono allearsi per assolvere al compito di generare l’uomo perfetto. Da questa alleanza nasce un fatto originale: la società aiutando la famiglia aiuta se stessa, perché i beni della famiglia si riversano in modo positivo nella vita sociale; e la famiglia aprendosi alla società aiuta se stessa, perché viene aiutata nell’opera fondamentale della prima personalizzazione e socializzazione del figlio. Per questo è necessario sviluppare nella società questa doverosa attenzione verso la famiglia e nella famiglia una maggiore consapevolezza delle sue capacità di influire positivamente sulla società: non solo perché provvede alla sua continuazione con la procreazione e con l’educazione del figlio alla socialità; ma anche per il fatto che l’uomo e la donna prendendosi cura l’uno dell’altra e insieme prendendosi cura dei figli, svolgono un servizio straordinario per la società, che nessun’altra struttura o istituzione svolge ed è in grado di svolgere.

La società affronta e risolve i problemi umani con gli strumenti che le sono propri, cioè la giustizia e la professionalità; mentre la famiglia affronta e risolve i problemi con lo strumento più prezioso ed efficace per la formazione umana, che è l’amore e la gratuità. E nessuna energia umana è paragonabile all’amore quando si tratta di formare la persona umana. Per questo la società deve riconoscere che la famiglia svolge un’opera propria e insostituibile per la formazione dell’uomo e della società. E deve riconoscere alla famiglia i precisi diritti che le permettono di svolgere questo suo compito: sia i diritti dovuti alla famiglia (il diritto al lavoro, al salario familiare, all’educazione dei figli, anche all’educazione sessuale); sia quelli dovuti alle singole persone che formano la famiglia.

E tra questi il primo è il diritto alla vita fin dal suo concepimento. L’aborto è un delitto abominevole, non solo verso la persona, ma anche verso la società. perché ne stravolge la struttura e le finalità affidandole il potere di conferire alle persone i diritti fondamentali dell’uomo, mentre dovrebbe solo riconoscerli, promuoverli e difenderli. Tra i beni che la famiglia produce nelle persone e nella società c’è quello di essere anello di congiunzione tra le generazioni. Nella famiglia il singolo non vive sradicato, ma è inserito in una storia che trasferisce nel presente la vitalità del passato, e apre la vita al futuro. Anche la storia della salvezza. La fede vive nei figli, perché viene celebrata ogni giorno attraverso le parole e le convinzioni ricevute dai padri. E nella vita vissuta che Dio tramanda se stesso e le sue meraviglie, da una generazione all’altra.

La famiglia è anche un’unità di consumo, ma di un consumo ordinato e programmato, nel senso che nella famiglia vengono stabilite le necessità di ognuno e a ognuno viene dato secondo le sue necessità, non solo nel presente, ma anche per il futuro. La famiglia non produce solo una economia di consumo; può essere fonte di produzione non solo organizzandosi in azienda (l’azienda familiare), ma inserendo nel mondo della produzione e del lavoro delle persone che sono state educate alla laboriosità e stimolate ad acquisire la necessaria preparazione professionale. La famiglia crea per la società un “capitale umano” che non consiste solo nell’immettere nella società delle persone preparate professionalmente, ma di immetterle con tutto il carico di umanità che acquisiscono in famiglia. Oggi ci troviamo di fronte a un grande pericolo: l’invecchiamento della popolazione, causato anche dall’individualismo che porta a vedere il figlio più come un problema che come una ricchezza, e dalla poca attenzione che la società dimostra nei confronti della famiglia.

Non si pensa sufficientemente al fatto che una popolazione invecchiata produce effetti negativi sulla società stessa, non solo economici (chi pagherà le pensioni?), ma umani e sociali, dovuti alla sproporzione tra giovani e anziani. La società anziché aprirsi alla speranza e preoccuparsi di creare ancora una volta le premesse per il futuro, si ripiega su se stessa per far fronte al problema del suo invecchiamento. L’attenzione si sposta dai giovani agli anziani, dimenticando la verità elementare che gli anziani trovano una soluzione ai loro problemi attraverso le forze nuove portate dai giovani. L’inverno demografico che dai Paesi ricchi viene esportato alle popolazioni emergenti, diventa un nuovo flagello per tutta l’umanità.

5. Riflessioni teologiche e prospettive pastorali

Il documento finisce con alcune riflessioni teologiche e alcune prospettive pastorali. Due in particolare: anzitutto imparare a vedere la famiglia e il suo potere procreativo alla luce del grande mistero trinitario, dove regna l’amore come fonte di vita e di felicità. Da questa partecipazione alla vita trinitaria nasce il potere della famiglia a portare nel tempo la vita e la salvezza. Infatti la famiglia si rivela un luogo ottimale per trasmettere la fede con la parola e l’esempio ed è abilitata proprio dal sacramento del matrimonio a trasmettere la fede attraverso i suoi due valori propri: l’amore e la vita. Il tema è stato sviluppato ampiamente dalla Familiaris consortio, e recentemente nel convegno di Valencia. In secondo luogo, riconoscere la centralità della pastorale della famiglia e della vita, non tanto nel senso di farne una parte privilegiata della pastorale, ma nel senso di tener presente la dimensione familiare in tutti i momenti della pastorale. Famiglia e amore sono inscindibili, proprio perché l’amore è il principio, l’anima, il fine della famiglia, e a lei compete il compito di vivere e di testimoniare l’amore nella quotidianità della vita.

Conclusione

Ogni documento esprime ricchezza e limiti. Questo documento presenta tutti i problemi che oggi vengono agitati intorno alla famiglia e la dottrina che sta alla base per la loro soluzione. Manca però quel linguaggio e quel modo di esporre e sviluppare il discorso che permette ai fedeli di Cristo di dialogare e di convincere coloro che presentano proposte alternative, e di dimostrare che la famiglia fondata sul matrimonio è «la sola che produce in modo pieno i beni» necessari per lo sviluppo umano delle persone e della società.

(da Vita Pastorale, Novembre 2006)

Pubblicato in Tematiche Etiche
L’embrione è persona?
Se sì, quando lo diventa?

di Luigi Lorenzetti
Teologo moralista

In una conferenza il relatore distingueva tra essere umano e persona, che l’embrione non sarebbe una persona e non ci sarebbe concordia su quando lo diventa.

Giovanni C. Desio (Mi)

Non c’è distinzione tra essere umano e persona: ogni persona è un essere umano; ogni essere umano è persona. Il concetto “essere umano” indica appartenenza alla specie umana, che si collega ma anche si distingue da quella vegetale e da quella animale. Dire che l’embrione è un essere umano vuol dire che non è riducibile a un essere vegetale o animale. Ora, senza discriminazione alcuna, tutti coloro che appartengono alla specie umana sono persone, la cui caratteristica è la capacità di autocoscienza, razionalità e libertà.
Può accadere che la persona perda o non abbia ancora l’esercizio dell’autocoscienza e della libertà, ma non cessa di essere persona. L’embrione, il ritardato mentale grave, chi si trova in coma irreversibile non sono autocoscienti, razionali e liberi, ma non cessano di essere persone. Sarebbe come dire che un essere umano, in stato di sonno, non è persona. Il concetto di persona indica capacità costitutiva (ontologica) di consapevolezza e libertà che esiste anche se l’effettivo esercizio della medesima è impedito o non sviluppato.
Essere umano e persona sono sinonimi. Così, l’embrione umano può essere denominato con l’una o l’altra parola. Ma la questione non è questa. Il dibattito si riferisce a quando l’embrione diventa persona: lo è fin dall’inizio (fecondazione dell’ovulo) o lo diventa dopo? I filosofi antichi, in base alla visione dualista tra corpo e anima, ritenevano che l’anima subentrasse dopo che il corpo si era strutturato. Tale teoria è stata abbandonata, perché corpo e anima sono due dimensioni della stessa realtà: l’essere umano è «corpore et anima unus», dice il Vaticano II (Gaudium et spes 14).
La teoria dell’animazione successiva, tuttavia, si ripropone oggi sotto altra forma, con il sostenere che la persona passa da una condizione potenziale (antecedente al 14’ giorno) a quella reale o in atto. In altre parole, non sarebbe essere umano individuale dall’inizio, ma lo diverrebbe in fasi successive, con l’annidamento (dopo una settimana circa) o con la formazione della corteccia cerebrale (dopo un mese circa).
Le conoscenze biologiche (genetiche) evidenziano però che in tutto il processo generativo, a partire dalla fecondazione dell’ovulo, si verifica uno sviluppo unico, coordinato e progressivo. «La scienza medica ha mostrato», dice l’enciclica Evangelium vitae, «come dal primo istante si trova fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, questo uomo-individuo con le sue caratteristiche ben determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata l’avventura di una vita umana» (n. 60).
In breve, fin dall’inizio, l’embrione è soggetto umano e non quasi-oggetto; è soggetto con potenzialità di sviluppo, non un soggetto potenziale; è soggetto autonomo e non parte della madre; è soggetto e, come ogni altro soggetto, ha diritto alla vita, ha valore finale e non strumentale, vale a dire va trattato sempre come fine e mai come mezzo. Rispettare l’essere umano o persona vuol dire rispettarlo in tutte le sue fasi.



DIZIONARIO MINIMO

DUALISMO - Quelle filosofie o culture che concepiscono l’uomo costituito di due realtà distinte: corpo e anima.

EVANGELIUM VITAE - La lettera enciclica di papa Giovanni Paolo II sul valore e l’inviolabilità della vita umana. È stata pubblicata il 25 marzo 1995.

GAUDIUM ET SPES - La costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, emanata dal Concilio Vaticano II il 7 dicembre del 1965.

ONTOLOGIA - La filosofia che prende in considerazione l’essere (òntos in greco), altrimenti detta metafisica (le cose che stanno oltre la natura).

 

Pubblicato in Tematiche Etiche
Una nuova domanda di etica
per frenare il neoliberalismo

di Giannino Piana

Sono tante le vicende che, in questi ultimi anni in Italia (ma non soltanto), hanno reso evidente l’esistenza di una profonda crisi del capitalismo con effetti devastanti per l’intera comunità: dai casi Cirio e Parmalat fino a quello americano della Enror (e l’elenco potrebbe continuare) siamo di fronte a disastrosi fallimenti, che obbligano a riflettere seriamente sulle cause che li hanno provocati e sulla necessità di individuare in quali nuove direzioni camminare. A farne le spese sono infatti, in larga misura, lavoratori dipendenti (operai in particolare), che vedono improvvisamente messo in pericolo il loro posto di lavoro, e piccoli risparmiatori, ai quali viene sottratta una fonte (spesso non secondaria) di sostentamento.

In molti casi a determinare tali situazioni è la spregiudicatezza di singoli imprenditori, guidati da una sete irrefrenabile di guadagno e disposti a tutto pur di riuscire a emergere sul mercato. L’assenza di scrupoli morali e l’atteggiamento predatorio sono le ragioni di comportamenti (non infrequenti) che minano la credibilità del mondo imprenditoriale, non favorendo il reimpiego dei capitali e la stabilità lavorativa.

Ma, al di là dei comportamenti soggettivi, il problema assume contorni più vasti, che chiamano in causa il sistema in quanto tale e che reclamano soluzioni di portata più generale. Sussistono, infatti, risvolti strutturali, che impongono un ripensamento dell’economia in un orizzonte più ampio di quello della semplice ricerca del profitto; che esigono, in altre parole, un allargamento della riflessione ad altri parametri, che rivestono un’importanza sempre maggiore per il buon funzionamento dello stesso sistema economico. Del resto già nel 1988 Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, sosteneva che «una globalizzazione che non consideri parametri come l’opportunità sociale, l’analfabetismo, l’aspettativa di vita, la salute, può solo creare problemi che non possono essere attribuiti alla globalizzazione in sé, ma alle politiche con cui essa si è coniugata». E’ questa la ragione per cui, a partire dagli anni ‘90, la crescita di un Paese non viene più valutata sulla sola base del Pil, ma con riferimento a un indice umano più globale, che tiene conto anche di fattori legati alla qualità della vita. Ed è per questo che le aziende devono andare oltre il puro bilancio finanziario e tendere alla definizione di un bilancio di sostenibilità, non solo ambientale ma anche (e soprattutto) umana.

Ciò che viene emergendo è dunque una rinascita, all’interno dell’economia, di domanda etica per ragioni anzitutto economiche, per correggere cioè i difetti, sempre più evidenti, di un mercato senza regole. Non mancano anche oggi coloro che sollevano (anche se in misura più limitata che per il passato) obiezioni riguardanti la difficoltà oggettiva di conciliare la finalità di lucro con altri scopi: si tratterebbe - secondo costoro - di un vero conflitto, in quanto l’attenzione ai fini sociali (e il loro effettivo perseguimento) porterebbe, inevitabilmente, a distruggere ricchezza. E questo, a maggior ragione, in un contesto di globalizzazione, dove la concorrenzialità allargata rende necessario, se si vuole rimanere sul mercato, un livello sempre maggiore di competitività, e perciò un processo di costante innovazione tecnologica, i cui costi vanno conteggiati nell’ambito del bilancio.

Per quanto non sottovalutabili, tali obiezioni non sono tuttavia incontestabili, soprattutto se si considera che l’economia non può limitarsi oggi - ce lo ricordano gli studiosi più seri - a valutare i risultati in base ai parametri tradizionali - livello di produttività raggiunto ed entità del profitto conseguito - ma deve introdurre altre variabili, quali la protezione dell’ambiente, la stabilità del lavoro e, in un contesto mondiale come l’attuale, la ricerca di nuovi equilibri tra Nord e Sud del mondo. L’appello all’etica è dunque tutt’altro che superfluo: essa è infatti necessaria per ristabilire una corretta mediazione tra efficienza produttiva e solidarietà sociale. E forse utile ricordare, in proposito, un’esperienza paradigmatica che ha avuto luogo nel nostro Paese, quella di Adriano Olivetti, che è riuscito a dar vita, sia pure in tempi diversi, a un sistema in cui ai risultati finanziari si è congiunto lo sforzo di costruire una comunità umana in un contesto ambientale sano. Non può essere proprio questo modello un importante riferimento per restituire all’economia la capacità di perseguire il fine che le appartiene, quello di essere cioè al servizio della vera promozione umana?


Pubblicato in Tematiche Etiche

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