Vita morale e luoghi comuni: «È stato lui»
L’uomo responsabile, specie in estinzione
di Giordano Muraro
Non si riesce più a trovare una persona responsabile. Bisognerebbe affiggere i manifesti wanted, con relativo premio. Quando avviene un fattaccio si cerca il colpevole, ma per quanti sforzi si facciano il colpevole non si trova. O meglio, c’è, ma non è lui. Magari ci sono le prove provate, la confessione aperta, le testimonianze sicure, ma il colpevole non è lui. È la società che gli ha impedito di maturare, la famiglia che lo ha educato male, i "vissuti" personali che non gli permettono di essere consapevole e gli tolgono la libertà, la capacità di intendere e di volere; e senza consapevolezza e libertà non c’è responsabilità e tanto meno colpevolezza.
Quando poi si entra nelle relazioni sociali, le cose peggiorano in modo esponenziale. Il fatto è avvenuto, e magari si fanno nomi e cognomi precisi. Ma non si procede, perché è un complotto politico, una persecuzione, un tranello. L’esecutore è solo una vittima, la sua unica responsabilità è stata quella di essere stato un po’ ingenuo, e in genere l’ingenuità non si punisce. È vero che l’ingenuità può essere presa in considerazione nei bambini; ma tutti siamo e restiamo un po’ bambini.
C’è poi un altro sistema per deresponsabilizzare, ed è il «così fan tutti»; oppure il ricorso a una commissione di inchiesta che si prolunga nel tempo fino a perdersi nella nebbia dove si smarrisce la direzione, e tutto viene ingoiato dalle sabbie mobili dell’oblio
Scaricabarile
La storia è antica. È iniziata già nel paradiso terrestre quando Adamo si è assolto, scuotendosi la responsabilità di dosso e addossandola a Eva: «È stata lei». Eva non è più quella creatura splendida che lo ha tolto dalla solitudine, ma è quella disgraziata che ha rovinato la sua vita. Eva a sua volta si deresponsabilizza attribuendo la colpa al tentatore. Da allora la storia continua senza fine. Caino cerca di sfuggire alla sua responsabilità, dicendo che non sa nulla del fratello Abele: «Sono forse io il custode di mio fratello?», e così di seguito, di giorno in giorno, di anno in anno, di secolo in secolo, di millennio in millennio, fino agli imputati di Norimberga che cercano di assolversi scaricando la colpa sui loro superiori: «Abbiamo ubbidito a ordini precisi».
Ma che cosa vuol dire essere responsabile? E quando si è responsabili? Potremmo rivolgerci alla morale classica e troveremmo subito la definizione. Ma preferiamo utilizzare strumenti più attuali che sembrano corrispondere meglio al modo di pensare della gente d’oggi. Il Conciso (Vocabolario della lingua italiana, Treccani 1998, Roma, p. 1378) dice che il responsabile è colui «che risponde delle proprie azioni e dei propri comportamenti, ne prevede i rischi e gli effetti, rendendone ragione e subendone le conseguenze». Quindi la responsabilità suppone da una parte una persona che agisce, e dall’altra un fatto da lei prodotto in modo consapevole e libero; ma suppone due altri elementi: la imputabilità non solo dell’azione, ma anche degli effetti prodotti, e il dovere di riparare al male fatto.
La responsabilità non si limita al fatto, ma si estende alle conseguenze dell’azione e all’obbligo di rimediare in qualche modo al danno prodotto. Se io investo un pedone, sono responsabile non solo della morte di una persona, ma anche delle conseguenze che questa morte produce nei suoi familiari, con il dovere di risarcirli. La descrizione è esatta. Ma richiede ancora una serie di precisazioni che complicano tutto.
Anzitutto la distinzione tra responsabilità e colpevolezza. Se inavvertitamente mi sfugge un colpo e uccido un uomo, sono responsabile di questa morte e delle conseguenze di questa morte; ma non sono moralmente colpevole, perché mancava l’intenzione di uccidere. Dovrò pagarne le conseguenze, perché la morte del compagno di caccia è attribuibile a me, ma non ne sono moralmente colpevole. A meno che non abbia trascurato di adottare le precauzioni che normalmente si prendono in questi casi. Sono nozioni che abbiamo appreso fin dall’inizio dello studio della morale.
Oggi l’attenzione si sposta principalmente su altri elementi che si tende a dimenticare e ai quali la morale una volta era molto attenta per responsabilizzare nella giusta proporzione tutti quelli che in qualche modo concorrono alla produzione di un fatto o di un comportamento dannoso, ma specialmente in ordine al dovere di riparare il male fatto, perché chi sbaglia deve pagare, e chi danneggia deve riparare il male causato.
Tutti quelli che devono restituire
Nei manuali veniva presentato un preciso elenco che aveva il vantaggio di ricordare in due righe tutti coloro che in qualunque modo possono essere chiamati in causa quando si produce un danno. Per esempio, in san Tommaso troviamo questo elenco in un articolo che a prima vista sembra curioso: «Se siano tenuti a restituire la roba altrui quelli che direttamente non l’han presa» (S.Th. II-II, q.62, a.7). Oggi questo titolo può sembrare provocatorio, perché spesso non restituiscono nulla neppure quelli che sono stati presi con le mani nel sacco. Si tratta di nove personaggi che concorrono con il loro modo di comportarsi alla realizzazione del fatto delittuoso: «Iussio, consilium, consensus, palpo, recursus, participans, mutus, non obstans, non manifestans». Si è responsabili di un fatto delittuoso, e quindi obbligati alla riparazione, perché si è autori di quell’azione o comandandola, o consigliandola, o acconsentendo, o elogiando chi la compie, o ricattandolo, o ricettando le cose trafugate; ma anche quelli che prima del fatto non hanno parlato, o durante il fatto non lo hanno impedito, e dopo il fatto non lo hanno denunciato
L’elenco è stato fatto per i furti di cose; ma vale proporzionalmente per qualunque furto. C’è il furto di cose, ma c’è anche il furto di onore con la calunnia e la maldicenza, come c’è il furto di valori con l’irrisione e l’arroganza, il furto dell’innocenza per il quale Gesù ha consigliato la macina del mulino, c’è il furto del buon senso con i persuasori occulti, il furto dell’onestà con la diffusione della corruzione, ecc.
Chi è il responsabile di questi furti? Chi deve riparare al male fatto e restituire le cose rubate? Gli esempi sono infiniti. Chi è responsabile delle cattedrali nel deserto, degli ospedali finiti e mai utilizzati, dei centri sportivi mai messi a disposizione della gente? Chi è responsabile del fatto che i soldi raccolti per precise opere di beneficenza si perdano per strada e non arrivino che in minima parte alle persone da beneficare o alle opere da costruire? Chi è responsabile del bullismo diffuso, delle stragi del sabato sera, della caduta di autorevolezza degli educatori, della banalizzazione del pudore, eccetera?
Anche in questi casi quando si giunge al dunque vediamo il fuggi fuggi generale. Tutti hanno un alibi, oppure si ricorre alla falsa umiltà del culpa mea generalizzato, che diventa in realtà l’assoluzione di tutti: siamo tutti colpevoli, quindi non è possibile puntare il dito contro persone ben precise e chiedere che riparino e restituiscano.
I cattivi maestri
Si ha l’impressione che la società sia diventata come quella nave dove nessuno ha una funzione ben precisa di cui deve rendere conto. I cattivi maestri non sono solo quelli che promuovono in prima persona comportamenti delittuosi, ma anche quelli che li consigliano, li promuovono, li elogiano, li diffondono, come ci sono quelli che tacciono, non si oppongono, non li denunciano.
Non c’è solo il mafioso che emette sentenze di morte, ma c’è anche il responsabile dell’amministrazione pubblica che dispone le cose in modo da trarne vantaggi personali; come c’è la persona abile ed esperta che può suggerire il modo più opportuno per evadere le tasse, o il potente che trucca i concorsi per far vincere il suo protetto che non ha i titoli per vincerlo; come ci sono gli omertosi che non denunciano chi organizza furti e ricatti, o i molti Ponzio Pilato che si lavano le mani tirandosi fuori del fatto che sta per avvenire e che potrebbero impedire. Così pure ci sono gli ispettori che non ispezionano, gli educatori che rinunciano a educare, i promotori del bene comune che promuovono il bene di se stessi, i magistrati che non amministrano la giustizia o sono impediti dall’amministrarla.
Pudore del male e gusto del bello
Dove sono i responsabili a cui chiedere conto di questo stato di cose? Domenica 11 marzo è apparso su La Stampa un articolo a firma di Mina. Dopo aver ricordato le parole del Papa dice che: «L’uomo è arrivato al suo orrido burronale nel momento in cui ha scelto di manifestare senza inibizioni tutto se stesso. Si potrebbe dire che non è cambiata la sua essenza, ma che sono apparsi il coraggio e la sfrontatezza di rappresentarla. I media in ogni forma possibile accettano l’incarico della diffusione della mediocrità quando va bene, dello schifo normalmente, del bello raramente».
San Tommaso direbbe che si è perso il pudore del male e il gusto del bello. Di chi è la colpa? C’è un responsabile o dobbiamo dire che ci sono molti responsabili? Ma la distribuzione della responsabilità non significa l’assoluzione generale in nome del «tutti responsabili, quindi nessun responsabile».
È un modo inaccettabile di pensare e di agire, perché in forza della nostra natura sociale siamo in qualche modo un corpo unico, e il male come il bene di uno si ripercuote negli altri, danneggiando tutta l’umanità. La persona non può mai dire: «Non è affar mio», oppure «ognuno per sé e Dio per tutti». Ognuno è responsabile di tutti. Dio ci ha affidati gli uni agli altri. Ma questo principio vale ancor più quando la nostra persona è coinvolta in qualche modo nella produzione di un fatto. Si è responsabili non solo per commissione, ma anche per collaborazione o per omissione.
La verità è che non si tenta neppure più di cercare il responsabile, perché si è persa la speranza di trovarlo. Non esiste più. È stato sostituito da un "lui" non ben identificato («è stato lui»), che però è diventato comodo per assolversi da ogni responsabilità e dall’obbligo di riparare il male fatto e di restituire alle persone e alla società i beni materiali e spirituali che le sono stati rubati.
(da Vita Pastorale, 4, 2007)