Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

«Credo nello Spirito Santo che procede...» La tradizione orientale e occidentale
di Tomás Spidlík




Quando si pone la questione della differenza che passa fra i cattolici e i cristiani ortodossi, sentiamo spesso due risposte diverse. Gli uni dicono: Non esistono delle differenze sostanziali, si tratta di due Chiese sorelle con due tradizioni che si completano a vicenda. È però un ostacolo principale dell’unione il fatto che essi non riconoscono il papa come capo principale e infallibile della Chiesa universale. Gli altri dicono di più: Dopo un millennio di separazione sono apparse anche varie differenze nella fede stessa. Fra queste la più importante è il Filioque che la Chiesa occidentale ha aggiunto al testo del Credo: Crediamo nello Spirito Santo «che dal Padre e dal Figlio procede». Nel primo e originale testo, approvato nei Concili di Nicea e di Costantinopoli leggiamo: «che procede dal Padre». Una sola parola aggiunta dovrebbe costituire una notevole differenza nella fede? Sì, dicono gli ortodossi, dato che si tratta di professione di fede divina. Lo dicono tutti o ci sono anche interpretazioni più tolleranti?

Vediamo prima cosa dice del problema la Sacra Scrittura. Nel vangelo di San Giovanni lo stesso Cristo afferma che i discepoli riceveranno lo Spirito «che il Padre manderà» (14,25), ma in seguito Gesù aggiunge: «perché prenderà del mio» (16,14). San Paolo scrive che «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio» (Gal 4,6) che è «Spirito di Cristo».

Come interpretavano questi testi gli antichi cristiani? Nella professione di fede recitata durante il battesimo, come la riferisce Sant’Epifanio, leggiamo che lo Spirito «procede dal Padre e riceve dal Figlio». Si ripetono quindi semplicemente le parole del vangelo. Ma già San Damaso lo abbrevia e dice «procede dal Padre e dal Figlio». Questa formula cominciò ad essere generalmente usata in Occidente perché sostenuta dall’autorità di Sant’Agostino. San Cirillo di Alessandria e il grande dottore della Chiesa orientale San Giovanni Damasceno preferivano dire: «procede dal Padre per mezzo del Figlio». Si tratta quindi di diverse formule di spiegazione del mistero, ma nel testo del Credo durante la liturgia rimaneva il testo breve: Spirito «che procede dal Padre». Si temeva di aggiungere qualche cosa anche per il timore dell’eresia di cosiddetti pneumatomachi. Questi negavano la divinità dello Spirito Santo dicendo che fu creato per mezzo del Figlio. Allora era meglio lasciare semplicemente: «procede dal Padre».

Quando fu introdotto il Filioque nel simbolo di fede recitato durante la messa? Si dichiararono in favore di questa addizione i partecipanti al sinodo della Spagna visigotiniana a Toledo nel 589; in seguito al concilio di Francoforte del 794 lo decretò l’imperatore Carlomagno. Il papa di Roma Leone III consentì. Fu quindi l’inizio di una doppia recita del Credo in Oriente e in Occidente, ma il fatto non era oggetto di discussioni. Queste sorsero a Gerusalemme. L’abate del monastero del Monte degli ulivi introdusse nell’807 l’uso «dei Franchi» e i monaci del monastero di San Saba protestarono. Ma la controversia non ebbe troppe conseguenze.

Il vero conflitto ecclesiale sorse nei momenti della separazione fra la Chiesa latina e greca verso la fine del primo millennio. Da una parte Fozio accusò i missionari latini in Bulgaria che insegnavano il Filioque e con ciò proponevano «una falsa spiegazione del Credo», perché lo Spirito Santo «procede dal solo Padre». Al contrario il cardinale Umberto rimproverò i Greci che «avrebbero omesso» nella recita del Credo il Filioque. Notiamo che si tratta di due erronei equivoci. A Fozio rispondiamo: non è lo stesso dire che «lo Spirito procede dal Padre» o che «lo Spirito procede dal solo Padre». E sul conto del cardinale Umberto possiamo dire che sapeva poco della storia della liturgia quando disse che i Greci «avrebbero omesso» il Filioque. Purtroppo le controversie, in quel momento, ebbero gravi conseguenze e divennero il tema di mutue accuse.

Il grande concilio di unione tenuto a Firenze nel 1439 cercò una riconciliazione dichiarando che il latino con Filioque non vuole affermare altro che ciò che ammettono i Padri sia dell’Occidente che dell’Oriente, cioè che «lo Spirito procede dal Padre per mezzo del Figlio».

Quale importanza assume la questione nelle relazioni fra Chiesa cattolica e Chiese orientali oggi? In linea di massima, fra i teologi ortodossi, possiamo distinguere quattro atteggiamenti.

  1. I più radicali sono quelli che dicono che la formula latina è del tutto falsa e che porta delle conseguenze gravi: dato che i latini hanno un’altra fede nello Spirito Santo rispetto agli orientali, hanno anche una differente spiritualità.
  2. Moderati si possono dire quelli che affermano che si tratta in questo caso di questioni teologiche liberamente disputate come avviene per tante altre fra i teologi; non dovrebbero impedire l’unione delle Chiese.
  3. La terza opinione affronta il problema dal punto di vista della disciplina ecclesiale: è sempre pericoloso introdurre dei cambiamenti di maggior rilievo in qualsiasi campo, se vi è pericolo di diminuire l’unità del popolo di Dio; il Credo della liturgia fu composto con il consenso universale, la Chiesa latina non aveva il diritto di toccarlo senza consultare gli altri e perciò oggi dovrebbe ritirare la sua aggiunta.
  4. Infine notiamo un atteggiamento che fu la conseguenza di un dialogo concreto tra la Chiesa russa e gli anglicani intorno all’interpretazione e al senso da attribuire al testo della tradizione latina.

Se le opinioni degli ortodossi sono, come vediamo, diverse, i cattolici sono riusciti a unificare il loro atteggiamento che si può riassumere in poche parole. Già il Concilio di Firenze dichiarò in modo autorevole che il Filioque si deve intendere nel senso della tradizione comune in Oriente e in Occidente. La Chiesa di Roma permette di recitare il Simbolo niceno-constantinopolitano senza il Filioque là dove questa omissione si vede opportuna, come in certe Chiese orientali cattoliche.

È da notare che nelle diverse tradizioni linguistiche, talvolta le stesse parole assumono significati diversi: ciò avviene, per esempio, per il verbo “procedere” che può significare «provenire in qualsiasi modo» oppure indica la prima sorgente, la prima causa.

Laddove questa sfumatura linguistica è sensibile, allora è davvero opportune tralasciare la formula «procede dal Padre e dal Figlio», perché ciò significherebbe due sorgenti primarie. Il Concilio unionistico di Lione nel 1274 espressamente rifiutò una tale spiegazione, dicendo che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio «però non come dai due princìpi ma come da uno solo».

Possiamo quindi concludere che la questione sulla processione dello Spirito Santo è come tutte le altre verità di fede un mistero divino rivelato che non possiamo comprendere con gli argomenti razionali e nei dubbi di interpretazione cercare di trovare la concordia nel dialogo ispirato dalla carità ecclesiale e dall’amore per l’unità che è frutto dello Spirito.

Mercoledì, 19 Aprile 2006 23:21

Il dono dello spirito (Giovanni Vannucci)

Il dono dello spirito
di Giovanni Vannucci



I discepoli erano chiusi nella loro casa per timore dei Giudei. Gesù venne in mezzo a loro e disse: «Pace a voi. Come il Padre inviò me, così io mando voi». Alitò su di loro, dicendo: «Prendete lo Spirito Santo, a chi toglierete le colpe saranno tolte; a chi non le toglierete saranno trattenute» (Gv 20,21-23).

Prima di passare a considerazioni di commento, fermiamoci su un aspetto importante di questo episodio che ne costituisce la chiave. Esso descrive il primo incontro del Risorto con i discepoli: questi avevano tutti, eccetto Giovanni, tradito e abbandonato il Maestro alla sua tragica sorte. Nell’incontro non una parola di rimprovero, di condanna del loro operato, ma solo l’offerta di un nuovo dono di vita: lo Spirito Santo, che li avrebbe resi portatori della misericordia divina a tutti gli uomini. Ed è bene sottolineare l’aspetto di questo dono: non è il potere di discriminazione tra i giusti e i non giusti che viene loro concesso, ma l’onere gioioso di trasmettere il perdono dello Spirito; esso attraverso di loro si diffonderà nel cuore degli uomini: i cuori disposti ad accoglierlo troveranno una più intensa vita, i cuori non disposti ne rimarranno esclusi. Chi l’accoglierà avrà la pace di Cristo, della nuova vita; chi lo rifiuterà vivrà fuori dall’onda di pace. Gesù conferisce ai discepoli lo Spirito Santo, la forza vitale della nuova creazione, e lo fa alitando sul loro viso, come fece l’Eterno quando rese anima vivente il primo uomo di creta.

Comunicando loro lo Spirito Santo, congiungendoli mediante lo Spirito Santo col Padre, li rende apostoli, inviati dallo Spirito che in loro è disceso. Portatori e irradiatori della nuova vita, come lo specchio che riflette la luce del sole e ne è insieme portatore e irradiatore, portatori di una vita che è in loro ma non è loro, la vivono e la manifestano, non la manipolano, ne sono il supporto, lo strumento, nient’altro, la loro fondamentale preoccupazione sarà di vivere la nuova vita, di illuminarsi della nuova vita. La luce e la vita si comunicheranno a chi è pronto ad accoglierle, lasceranno nella non vita e nella tenebra chi non vuole risvegliarsi.

In altre parole, gli inviati dello Spirito Santo non hanno ricevuto l’investitura di erigere dei tribunali, ma la responsabilità di illuminarsi della luce dello Spirito per irradiarla, come dono di pace, a tutte le creature. Essi sono mandati nel mondo non per giudicarlo, ma per comunicargli il nuovo soffio vitale della misericordia e della pace. Chi accoglierà lo Spirito sarà liberato dal peccato della separazione, della discordia, dell’opposizione; chi non l’accoglierà rimarrà nella sua condizione di creatura distaccata da Dio e dalla redenzione. È lo Spirito che toglie o trattiene i peccati, che lava o macchia ancora di più a seconda che uno l’accolga oppure no.

«Prendete lo Spirito Santo, a chi toglierete le colpe saranno tolte; a chi non le toglierete saranno trattenute»: sono parole che additano un mandato, un impegno affidato agli uomini nei quali lo Spirito nuovo di Cristo è presente. Spirito che, simile al respiro, domanda di venir accolto e vissuto, non teorizzato, ma respirato perché discenda e ravvivi totalmente chi l’accoglie. Dal modo di vivere il dono dello Spirito dipende la remissione o la non remissione dei peccati. Chi l’accetta con fede, chi immette nel dono dello Spirito la parte migliore di se stesso e, rinnegando tutte le separazioni egoistiche, assurge alla novità della vita insufflata da Cristo, diviene luminosa realtà spirituale, l’arioso tempio eretto nello Spirito. Per chi non ha questa fede, per chi questa fede non sente, per chi non è pronto a morire per questa fede, il dono dello Spirito non ha significato alcuno.

Noi che abbiamo vissuto il dramma della morte-risurrezione di Cristo e aneliamo a una realizzazione spirituale, dobbiamo, scendendo nel profondo del nostro essere, domandarci: crediamo nello Spirito? La risposta è impegnativa, perché credere nello Spirito vuol dire attuare la nuova vita del Risorto, respirare il suo respiro, rinnovarci nel suo alito creatore. Non si può vivere la vita di Cristo senza morire al vecchio uomo, all’uomo plasmato di inerte creta. Alla nuova vita si giunge attraverso la morte a tutte le vetustà, a tutte le opposizioni che sono in noi, per immetterci nella nuova realtà della vita portata da Cristo che ci forma e ci rende una sola cosa, attraverso l’ardore dello Spirito, con il Figlio e con il Padre. Allora l’uomo apprende ciò che è: nato di terra, terra; nato di spirito, spirito, e, puntando tutta la sua energia nella sua terribile natura, raggiunge la conoscenza della sostanziale realtà di essere spirito immortale, spirito eterno. Figlio del Padre, l’uomo di creta si trasforma in uomo dello Spirito.

Non giudicherà le opere degli uomini, ma tutti esorterà a raggiungere la nuova vita dello Spirito insufflata dal Risorto nei suoi discepoli. Come lo Spirito Santo irradierà pace, perdono, fiducia nella vita. Avrà in mano la chiave di tutte le chiavi, la conoscenza di tutte le conoscenze perché conoscerà nel proprio mistero il mistero che tortura l’anima del fratello che gli sta accanto; farà del tormento del proprio fratello il proprio tormento, farà della gioia altrui la propria felicità. Il peccato verrà annullato, la luminosa realtà dello Spirito irradierà le anime. Non vi sarà più né giudizio, né assoluzioni; né padrone, né servo; né medico, né ammalato; né oppresso, né oppressore; non vi sarà più il male, essendo uno solo il male: quello che soffre l’altro e che nessuno, per alcuna cosa al mondo, vorrà causare all’altro.

Lo Spirito Santo non avrà preso possesso di tutti finché ci sarà una coscienza da illuminare, una miseria da riscattare, un dolore da consolare, un peccato da comprendere. Fino a quando l’uomo non riconosca nell’uomo un fratello suo e, come tale, l’abbracci, lo difenda e lo onori; fino a quando l’uomo sarà separato dall’uomo dalla fazione, dalla parte, dal pregiudizio, dal preconcetto, dalla setta; fino a quando l’uomo non identificherà il suo dolore nel dolore che piange al suo fianco. Illuminare le coscienze, riscattare le miserie, comprendere il peccato, liberare l’uomo da tutte le divisioni e separazioni, significa ritrovare lo Spirito Santo oltre i rituali e le dotte interpretazioni e insufflarlo nella vita perché abbia finalmente la pace di Cristo.

Giovanni Vannucci, «Il dono dello Spirito», Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 66-68.

Lunedì, 17 Aprile 2006 19:11

Speranza (Vecchioni - Pareti)

Speranza
(canzone di Vecchioni - Pareti)

Anche se nella vita voltandomi un mattino io non ti troverò
accanto a me basta soltanto la tua felicità
lo conosco il tuo dolore credevi che oltre il monte ci fosse
un giardino e invece hai trovato soltanto il fango di una città.

Io non posso giurarti che questo amore ti salverà
e non posso aspettarmi che la ferita si chiuderà
ma mi basta darti speranza, ma mi basta darti speranza,
ma mi basta darti speranza, tu devi vivere.

Nessuno ti ricorda a nessuno tu manchi quel ragazzo non
può tornare e per questo soltanto vorresti finirla lì
ma guarda che la vita non è la prima porta aperta in fretta
senza bussare; è il balcone più grande che guarda sul mare.

Io non posso giurarti che questo amore ti salverà
ma mi basta darti speranza.

Per la pace, “ecologia umana internazionale”
Card. Renato Martino





Il Magistero sociale della Chiesa nelle sue varie manifestazioni – ricordo per inciso il ricco patrimonio di idee contenute nella Pacem in terris del Beato Giovanni XXIII, nei tanti Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace proposti dai Sommi Pontefici da Paolo VI sino a quello di quest’anno del Santo Padre Benedetto XVI, nel capitolo decimo del Compendio della dottrina sociale della Chiesa - usa sostanzialmente la stessa chiave, miscelando, con sapienti dosaggi, le quattro dimensioni sopra richiamate e illuminandole con la grazia e la forza del Vangelo della pace di nostro Signore Gesù Cristo.

Lo stesso Consiglio per la Giustizia e per la Pace, già nella sua denominazione, è una dimostrazione di quanto sia importante utilizzare il registro di molteplici dimensioni interdisciplinari nell’approccio alle complesse tematiche della pace. Essendo il Presidente di questo Dicastero, recentemente ho voluto anch’io offrire una qualche riflessione che, utilizzando lo stesso paradigma, ho reso pubblica nel mio volume Pace e guerra. Sono certo che i valenti e qualificatissimi oratori convocati a questo nostro Colloquio sapranno darci contributi di grande spessore e profilo. Per quello che mi riguarda permettetemi una qualche riflessione previa che mi auguro possa essere utile a stimolare la nostra comune ricerca dei cammini della pace. Mi sembra che la prima cosa di cui abbiamo bisogno è una corretta comprensione di come si pone oggi il problema della guerra e della pace. Il conflitto in genere e la guerra in particolare, infatti, stanno cambiando la propria fisionomia. Sono più orizzontali che verticali, più diffusi che concentrati, più frammentati che unitari, più quotidiani che eccezionali, più vicini che lontani, più immateriali (e perfino virtuali) che materiali. L’11 settembre ha dimostrato che la morte di tremila persone è alla portata di tutti: basta un coltellino come quello adoperato da un dirottatore. A questo riguardo, un attento osservatore ha parlato di «guerre democratiche».

Questi rilevanti cambiamenti sono stati provocati soprattutto dal processo di globalizzazione. È doveroso tenere conto di questo contesto completamente nuovo in cui oggi si collocano le problematiche della pace e della guerra, sia per conoscere i nuovi condizionamenti negativi per il processo di pace, sia per discernere le nuove opportunità, su cui fare leva, con evangelica speranza, per creare migliori condizioni di pace. La violenza, i conflitti e le guerre si frammentano e quasi si nebulizzano, mentre un tempo erano situazioni circoscritte e unitarie. Aumentano i micro-conflitti ampiamente dislocati, mentre diminuiscono le guerre convenzionali attuate su grandi teatri. C’è una recrudescenza di guerre civili, etniche, tribali, locali. Nel mondo sviluppato c’è un incremento di insicurezza civile, di guerra per bande e tra gruppi di potere illegale, di micro-illegalità attuata, purtroppo, anche da minorenni. Dopo la fine del sistema dei blocchi contrapposti, le guerre si sono disseminate nel mondo come espressione di tensioni particolaristiche difficilmente riconducibili a uno schema unitario.

Ho qui accennato ad alcuni cambiamenti in atto nel modo di considerare la guerra nell’epoca globalizzata. Medesime considerazioni andrebbero fatte per la pace. Poiché la globalizzazione è «quello che gli uomini ne faranno», dobbiamo mettere in evidenza le opportunità positive che essa pone nelle nostre mani. L’orizzontalità, per esempio, ha permesso e permetterà ancor più in futuro, di moltiplicare gli attori della pace sulla scena globale, di sviluppare la partecipazione della società civile e dei gruppi di advocacy. La trasparenza delle informazioni rende possibile all’opinione pubblica mondiale farsi un’idea, esprimersi e diventare un vero e proprio interlocutore dei poteri politici su temi di guerra e di pace. Il tragico fenomeno della «delocalizzazione» delle guerre può stimolare maggiormente gli uomini di buona volontà e la comunità internazionale ad affrontarne le cause sociali ed economiche e a favorire il dialogo tra le etnie e le religioni. Se la fine dei blocchi ha prodotto e tuttora tende a produrre una fase di instabilità internazionale, apre anche a nuove possibilità di intervento che in precedenza erano precluse. Ogni epoca porta con sé rischi ed opportunità. Appartiene al realismo cristiano considerare i primi e alla speranza cristiana valorizzare le seconde. Se la guerra si fa diffusa e decentrata, quotidiana e smaterializzata … ebbene, anche la pace lo può essere, e lo deve essere. Ciò che vale per il negativo vale anche e prima di tutto per il positivo.

Il contesto globalizzato cambia i connotati sociologici della pace, ma non ne altera la dimensione antropologica ed etica. Occorre quindi un supplemento di interpretazione del mondo di oggi nelle sue dinamiche principali e di coraggio profetico per poter annunciare e preparare la pace anche nel nuovo contesto globale. Parallelamente, serve anche la capacità di recuperare il senso pieno della pace. Possiamo allora chiederci quali siano le nuove esigenze della pace e, quindi, quali strade possiamo percorrere per costruirla e realizzarla meglio di quanto non siamo riusciti a fare fino ad ora.

a) Acquisire una mentalità preventiva. È plausibile ritenere, in primo luogo, che la pace richiederà sempre di più di essere ricercata con una mentalità attrezzata a prevenire i conflitti piuttosto che con interventi a posteriori. Le cause della guerra si moltiplicano e si intrecciano. Le cause legate ad interessi economici si aggiungono a conflitti etnici o religiosi; il retaggio di storici rancori si combina con situazioni politiche di incertezza o di dispotismo; sofferenze sociali alimentano rivendicazioni espresse in forme violente che spesso si combinano con la lotta per la sopravvivenza, oppure con le tensioni provocate dal possesso di risorse naturali. Il carattere dell’incertezza caratterizza così anche la guerra e, quindi, la pace, come altri importanti fenomeni sociali del nostro tempo. Che la guerra sia un’«avventura senza ritorno», come aveva detto Giovanni Paolo II, è purtroppo vero anche dal punto di vista delle novità sociologiche: una volta scoppiata diventa difficilissimo dipanare il groviglio delle sue cause per intervenire ex post e ristabilire la pace. Per tutti i motivi che ho qui brevemente richiamato, il futuro richiederà sempre di più una maggiore prevenzione dei conflitti piuttosto che una loro «riparazione» posteriore. Pertanto non si può non concordare con quanti affermano che la complessità del mondo globalizzato non richiede meno politica, ma una intensificazione del ruolo della politica, proprio per gestire la maggiore incertezza con un dialogo più aperto e una concertazione più responsabile. In questo contesto va collocata l’esigenza, più volte richiamata dalla Santa Sede, di potenziare e riorganizzare gli Organismi internazionali.

b) Coltivare una «ecologia umana» internazionale. La guerra è oggi un fenomeno globale e questo dato deve far emergere sempre di più, come risposta attiva, che anche la pace è un fenomeno globale. Credo che questa globalità vada intesa soprattutto in senso intensivo: il venir meno dell’ecologia politica e perfino dell’ecologia naturale, dipendono dal venir meno della «ecologia umana» (Cf. Centesimus annus n. 38) Cosa si intende con questa espressione? Significa che non solo l’ambiente naturale, ma anche l’ambiente umano – la famiglia, la società, l’economia e la politica – richiede il rispetto di una sua propria ecologia, di un suo funzionamento fisiologico ove la dignità della persona sia veramente posta al centro.

Ora, il fatto nuovo tipico della società globalizzata è che tendono a sparire i confini tra ecologia naturale (ossia il rispetto responsabile dell’ambiente), ecologia sociale (la giustizia e la promozione di persone e gruppi), ecologia politica (le relazioni tra gli Stati e gli organismi politici) ed ecologia umana (un ambiente morale in cui la dignità della persona sia rispettata). I confini tendono a sparire nel senso che le interrelazioni tra questi ambiti sono sempre più strette e complesse. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel caso della guerra. Per esempio: le lotte per sfuggire alla povertà ed accaparrarsi risorse naturali generano conflitti; a loro volta i conflitti comportano distruzione di risorse naturali e generano povertà. Le lotte per garantirsi i diritti di sfruttamento dell’ecosistema (si pensi alla bioingegneria vegetale ed animale che tenderebbe a mettere il proprio copyright sulla biodiversità) generano profitti e benessere per alcuni, ma anche possono indurre ceti e popoli alla povertà. Trovo che il concetto di ecologia umana possa fornire una chiave di lettura dei fenomeni del conflitto e della guerra e quindi, in positivo, della pace, in grado di aiutarci a fronteggiare le nuove sfide globali. Essa permette di intendere l’interconnessione nell’uomo dei diversi ambiti di ecologia e la necessità di un impegno coerente e orientato perché, come in un sistema di vasi comunicanti, tutto influisce su tutto. La costruzione della pace si fa oggi in primo luogo, impegnandosi per una ecologia umana plenaria, per un rispetto della dignità dell’uomo in tutti gli ambiti.

c) L’impegno delle religioni. Fino a qualche anno fa sembrava vincente l’idea di uno spazio pubblico internazionale «neutro» rispetto alle religioni, affidato quasi esclusivamente agli Stati e, in particolare, alle due superpotenze. Sembrava che nel mondo occidentale la valenza pubblica della religione fosse inibita dalla laicità della vita politica, quando non dal laicismo e dal processo di secolarizzazione che tendevano a relegare la religione nel privato. Inopinatamente, invece, dopo il crollo del Muro e la fine dei blocchi, anche le religioni sono state sdoganate. In Occidente si è così appreso che, sotto la patina di un secolarismo rampante, vivevano forti tensioni religiose e non solo nella forma consumistica della New Age. Gli Stati Uniti, per esempio, considerati l’avanguardia della secolarizzazione in Occidente, hanno riscoperto le proprie radici religiose al punto che qualche osservatore parla di una crescente differenziazione proprio su questo punto tra Stati Uniti ed Europa. In Oriente, dalla disgregazione dell’impero sovietico sono emerse molteplici appartenenze religiose, che in alcuni casi, purtroppo, sono addirittura esplose anche in forma di virulenti conflitti. Le migrazioni globali, d’altra parte, hanno posto le religioni l’una accanto all’altra e la scena politica mondiale, con le sue note vicende, ha condotto alla ribalta della cronaca e della politica la religione islamica. Tutto questo comporta non solo un rinnovato peso sociale e politico delle religioni, ma soprattutto una loro rivendicazione di «diritto» a un ruolo pubblico. Se talvolta ciò è stato ed è fonte di conflitto e di guerra, ritengo che possa e debba diventare oggi e domani elemento di pace. Su questo terreno si giocheranno sempre di più nel prossimo futuro le sorti della pace nel nostro mondo. Una condizione fondamentale per la pace è che le religioni sappiano evitare con sempre maggiore accortezza i due estremi del fondamentalismo laico e del fondamentalismo religioso. Il fondamentalismo laico non ammette la presenza della religione nello spazio pubblico, relegandola ad affare privato; il fondamentalismo religioso si risolve nell’occupazione diretta dello spazio pubblico, senza rispetto del principio cristiano di laicità: simili posizioni non possono avere altro esito se non quello di aumentare i conflitti religiosi. Come si vede, sarà sempre più importante garantire in futuro la libertà religiosa non solo nei testi costituzionali, ma soprattutto nella pratica politica concreta. La libertà religiosa non è causa di guerra, anzi essa è la condizione per evitare il fondamentalismo sia laico sia religioso, le due principali forme di intolleranza religiosa nel mondo di oggi.

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Lunedì, 17 Aprile 2006 18:57

Talmud

Talmud




Introduzione

Accanto alla Bibbia, il Talmud (che significa "insegnamento") è il grande libro sacro dell'Ebraismo: diversamente dalla Bibbia ebraica, il Talmud è infatti riconosciuto solo dall'Ebraismo, che lo considera come la "Torah orale", rivelata sul Sinai a Mosè e trasmessa a voce, di generazione in generazione, fino alla conquista romana. Il Talmud fu fissato per iscritto solo quando, con la distruzione del Secondo Tempio, gli ebrei temettero che le basi religiose di Israele sparissero.


Torah scritta e Torah orale


Il Talmud consiste in una raccolta di discussioni avvenute tra i sapienti (hakhamim) e i maestri (rabbi) circa i significati e le applicazioni dei passi della Torah, e si articola in due livelli;
la Mishnah (o "ripetizione") raccoglie le discussioni dei maestri più antichi (giungendo fino al II secolo d.C.);
la Ghemarah (o "completamento"), stilata tra il II e il V secolo, fornisce un commento analitico della Mishnah.
La Torah comprende due parti:
- i primi cinque libri della Bibbia ebraica (che costituiscono la Torah scritta);
 - la Torah orale (che ha dato origine al Talmud).
Secondo la tradizione ebraica la Torah scritta non può essere applicata senza la Torah orale.

La trasmissione della Torah orale
Nel 587 a.C., dopo la distruzione del tempio di Salomone il popolo ebraico viene deportato in Babilonia. Si era allora necessario precisare in che modo mantenere una vita ebraica in terra d'esilio e in mancanza del santuario di Gerusalemme. Questa è stata l'opera degli scribi (Sopherim), fondatori della sinagoga, interpreti della Torah scritta e maestri della Torah orale.

Dopo il ritorno da Babilonia, i tre ultimi profeti (Ageo, Zaccaria e Malachia), lo scriba Esdra, poi "gli uomini della Grande Sinagoga" assicurarono la trasmissione della tradizione orale, che passa successivamente attraverso i farisei e le loro grandi scuole (Jeshivoth).
I maestri del Talmud sono i farisei.

La formazione del Talmud

Presto, di fronte a situazioni nuove e a divergenze di scuola, fu necessario ricavare dalla Torah, scritta e orale, le decisioni pratiche. Questa fu opera dei rabbini e specialmente dei 71 membri del Sinedrio.Più tardi le persecuzioni e la necessità di tener conto della distruzione del secondo Tempio (70 d.C.) e della diaspora ebraica, indussero rabbi Aqivah e poi rabbi Meir a raccogliere e a classificare gli appunti dei loro allievi. All'inizio del III secolo, rabbi Jehudah, soprannominato il Santo, li ordinò in 63 trattati, raggruppati in sei ordini, il cui insieme costituisce la Mishnah (Insegnamento da ripetere), compendio della Torah orale e destinato a essere imparato a memoria. La Mishnah è scritta in ebraico, benché l'aramaico già a quell'epoca fosse la lingua corrente anche in Palestina.Col passare degli anni divenne evidente che il testo della Mishnah era troppo conciso.

Il Talmud ci è giunto in due versioni diverse: il Talmud di Gerusalemme (Talmud Jerushalmì)(redatto tra il IV e il VI secolo nella Terra d'Israele) e il Talmud di Babilonia (Talmud Bavlì)(redatto tra il V e il VII secolo in Babilonia). Il Talmud Babilonese, la cui Ghemarà è scritta in aramaico e che fu compilato inizialmente da rav Ashì e terminato da Rabina, ambedue capi della famosa jeshivah di Sura, è molto più lungo di quello di Gerusalemme.

I Maestri del Talmud e il loro insegnamento

Maestri della Mishnah sono chiamati Tannaim (Insegnanti). Quelli della Ghemarà accettarono soltanto il titolo di Amoraim (Interpreti). Quanto a coloro che redassero il testo definitivo, essi si considerarono modestamente come Saboraim (Opinanti). Molti di questi illustri rabbini esercitavano il mestiere di artigiano.

Il messaggio del Talmud si presenta in due forme:
* quella della Halakhah (Via da seguire) che riguarda le prescrizioni legali,
* quella della Aggadah (Racconto), consistente in racconti immaginosi e in parabole. L'insieme costituisce una vera enciclopedia delle conoscenze dell'epoca (matematica, medicina, astronomia ecc.).

Il Talmud ha autorità per tutte le generazioni. Oggi si assiste ad un vero e proprio risveglio degli studi talmudici.

Il Talmud ricchezza sconosciuta

Nel Medioevo le comunità ebraiche sono esposte a vessazioni, persecuzioni e sfruttamento economico.

Mal conosciuto negli ambienti cristiani, il Talmud è diventato ben presto il bersaglio preferito. A Parigi, nel 1240, fu istruita una parodia di processo, cui seguì il rogo solenne di 24 carri di copie del Talmud, sequestrate agli ebrei. Da quel momento, e per secoli, il Talmud venne vietato in molti luoghi.

Nell'opinione pubblica, questa condanna ebbe come effetto la diffidenza: si era convinti che il Talmud contiene "cose malvagie, contro ogni ragione e diritto", cose che gli ebrei utilizzano per trarne "malefici". Gli autori antisemiti sfrutteranno questo tema fino ai nostri giorni. Anche i filosofi del XVIIl secolo, che pure reclamavano l'emancipazione degli ebrei, consideravano il Talmud una raccolta di "leggi ridicole". Ignoranza e diffidenza che non sono ancora scomparse.

La natura e lo scopo del dialogo
Gruppo misto di lavoro cattolici-CEC




Introduzione

Dialogo: un dono alle Chiese

1. La nascita nel XX secolo del movimento ecumenico contemporaneo ha assistito al sorgere parallelo di una «cultura del dialogo». I presupposti filosofici, culturali e teologici di una tale cultura, che hanno portato a nuove modalità di relazione tra comunità e società, vennero elaborati nella prima metà del secolo. Tuttavia è sorta anche una contro-cultura, alimentata dal fondamentalismo, sono emerse nuove forme di vulnerabilità e nuove realtà politiche come la fine della Guerra fredda, i popoli sono venuti a contatto con concezioni e finalità molto differenti, e vi è stato l’impatto della globalizzazione che ha condotto a una crescente consapevolezza delle identità etniche e nazionali. Ciò si è ulteriormente manifestato nella destabilizzazione di istituzioni e sistemi di valori e nella messa in discussione dell’autorità. Il dialogo è divenuto una conditio sine qua non per le Chiese e le culture nazionali. Per le Chiese cristiane il dialogo è un imperativo che nasce dal Vangelo e per tale motivo è una risposta alla sfida di quanti vorrebbero adottare posizioni esclusiviste.

2. Questo documento segnala l’importanza della cultura del dialogo nelle Chiese, offre una riflessione teologica sulla natura del dialogo e suggerisce una spiritualità che possa guidare i cristiani e le loro comunità nel reciproco avvicinamento. Grazie a un’esperienza intrapresa fin dal 1967, esso costituisce un tentativo d’incoraggiare le Chiese a proseguire nel dialogo ecumenico con impegno e perseveranza.

3. Il Gruppo misto di lavoro (GML) tra la Chiesa cattolica romana e il Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) si è costituito nel 1965. Ha iniziato il proprio lavoro con una riflessione sulla natura del dialogo. Nel 1967 ha pubblicato un rapporto dal titolo Dialogo ecumenico, che da allora in poi è stato un riferimento utile. Per il GML, che si accingeva a iniziare il proprio mandato, l’esperienza dei dialoghi multilaterali di Fede e costituzione che datavano dal 1927 e dei negoziati per l’unione delle Chiese, come quelli nell’India del Sud, costituivano la prospettiva di riferimento. L’anno 1967 non fu l’inizio dei dialoghi ecumenici ma, grazie all’attiva partecipazione della Chiesa cattolica romana in seguito al concilio Vaticano II, essi si rafforzarono e si estesero. Divennero in fretta uno strumento chiave del progresso ecumenico.

4. Sono trascorsi quasi quarant’anni. Il GML presenta un nuovo documento di studio su La natura e lo scopo del dialogo ecumenico. Si sono tenuti dialoghi organizzati a livello locale, nazionale e internazionale che hanno coinvolto tutte le più importanti Chiese e comunità confessionali. Sono stati raggiunti esiti sostanziali, gli organismi che vi hanno preso parte hanno chiarito le posizioni, è emerso il consenso riguardo a importanti argomenti su cui si era divisi e sono stati identificati quegli ostacoli all’unità che tuttora permangono. Nel frattempo è mutato il contesto del dialogo, è continuata la riflessione su di esso ed è cresciuta l’urgenza di ricercare l’unità visibile attraverso un dialogo onesto e costante alla ricerca della verità nell’amore.

5. Dal 1967 le relazioni tra le diverse Chiese, le comunità cristiane nel mondo e le famiglie cristiane sono cresciute e si sono sviluppate come risultato del dialogo; quest’ultimo ha incoraggiato le Chiese alla comprensione reciproca ed è stato utile a eliminare gli stereotipi, a distruggere le barriere storiche e a promuovere nuovi e più positivi rapporti. Tra gli esempi possibili: – la dichiarazione congiunta di papa Paolo VI e del patriarca ecumenico Atenagora I nel 1965 che tolse dalla memoria e dal vissuto della Chiesa le sentenze di reciproca scomunica pronunciate nel 1054; – l’accordo cristologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa assira d’Oriente nel 1994; – la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione firmata nel 1999 dalla Federazione luterana mondiale e dalla Chiesa cattolica, nella quale è stabilito che le condanne delle reciproche visioni sulla giustificazione pronunciate durante il periodo della Riforma nelle confessioni luterane e nel concilio di Trento non sono applicabili oggi, per quel tanto che concernono la comprensione della dottrina espressa nella dichiarazione congiunta. Queste sono tappe significative lungo il percorso verso il riconoscimento reciproco, la comunione e l’unità visibile della Chiesa.

6. I risultati dei dialoghi internazionali hanno favorito nuovi rapporti tra Chiese. Il documento di Fede e costituzione Battesimo, eucaristia, ministero (BEM, 1982) e i dialoghi bilaterali hanno contribuito a gettare le basi per gli accordi di Meissen, Porvoo e Chiamati a una missione comune tra anglicani e luterani in varie parti del mondo. L’accordo bilaterale tra le Chiese ortodossa e ortodossa orientale ha facilitato la riconciliazione tra queste famiglie ecclesiali. Il dialogo teologico della Commissione internazionale anglicana - cattolica romana (ARCIC) ha condotto all’insediamento di una nuova commissione che favorisse la crescita nella comunione tra queste Chiese, attraverso la recezione degli accordi e lo sviluppo di strategie che rafforzassero la compartecipazione (Commissione internazionale anglicana - cattolica romana per l’unità e la missione - IARCCUM).

7. I dialoghi hanno anche contribuito alla sfida di modificare gli atteggiamenti di comunità che vivevano situazioni di tensione.

8. Le prospettive nate dai dialoghi hanno portato Chiese diverse al rinnovamento e al cambiamento della propria vita, del proprio insegnamento e dei modelli di culto. Per esempio il BEM ha incoraggiato celebrazioni più frequenti del sacramento della cena del Signore in alcune comunità e ha influenzato la revisione della loro stessa liturgia.

9. Dal 1967 è emersa chiaramente una cultura di dialogo presso varie Chiese che influenza ogni aspetto della vita cristiana. Ciò è evidente nei progetti di collaborazione quando membri di comunità differenti cercano di affrontare le necessità di quanti nel nostro mondo sono emarginati. Lo si è anche notato nella varietà di gruppi di discussione che coinvolgono membri di comunità diverse. È un atteggiamento di apertura verso le altre comunità e i loro membri.
10. Sua santità papa Giovanni Paolo II ha definito questa cultura «dialogo di conversione» dove, insieme, singoli cristiani e comunità cercano il perdono delle colpe contro l’unità e vivono nello spazio in cui Cristo, sorgente dell’unità della Chiesa, può effettivamente agire, nella pienezza dello Spirito (cf. Giovanni Paolo II, lett. enc. Ut unum sint, 25.5.1995, nn. 34.35). Mentre l’atteggiamento dialogante deve essere manifesto in ogni aspetto della vita cristiana, l’impegno nei dialoghi internazionali e bilaterali è una forma di dialogo molto specifica.

Due approcci al dialogo

11. Dopo il 1967 si sono evidenziati due distinti approcci a questa specifica forma di dialogo ecumenico, che hanno caratteristiche specifiche e affrontano aspetti diversi, ma collegati, della ricerca di una piena comunione.

12. I dialoghi bilaterali tra i rappresentanti ufficiali di due comunioni cristiane mondiali o famiglie di Chiese tentano di superare le difficoltà storiche esistenti tra loro. Viene prestata attenzione alla storia e ai testi classici che definiscono quelle comunità, ai problemi aperti del passato e del presente che hanno inibito i rapporti reciproci e ostacolano il cammino verso la comunione. Normalmente tali dialoghi evidenziano quanto c’è di comune, chiariscono le diversità, cercano soluzioni e incoraggiano la collaborazione dove è possibile.

13. I dialoghi multilaterali operano in uno scenario più ampio, con rappresentanti ufficiali di Chiese che tentano di attingere alla sapienza di tutte le tradizioni cristiane per indagare su un problema teologico. Ciò ha reso possibile fare distinzioni sui problemi sui quali i cristiani sono stati divisi (per esempio tra episkope ed episcopato), in virtù del fatto che i dialoghi bilaterali offrono nuovi approcci alle difficoltà storiche. I cristiani hanno tenuto bene presente che i dialoghi multilaterali e bilaterali hanno luogo nel contesto della missione della Chiesa e che, in quanto tali, sono a servizio dell’unità della Chiesa «perché il mondo creda…» (Gv 17,21). Il dialogo multilaterale ha anche posto l’accento sul fatto che vi sono fattori non dottrinali importanti per comprendere le divisioni dottrinali; tali divisioni si sono verificate per molteplici ragioni – politiche, culturali, sociali, economiche e razziali come pure dottrinali – e c’è bisogno che anche questi fattori siano affrontati nei processi di riconciliazione e di guarigione delle memorie.

14. Sia i dialoghi bilaterali sia quelli multilaterali sono essenziali per il processo dialogico. Nel migliore dei casi vi è un’interazione continua tra essi nella quale ognuno attinge alle prospettive raggiunte dall’altro. Ogni dialogo sarà soggetto al contesto storico e culturale che influenza i rapporti tra comunità differenti.

Dialogo e nuovo contesto

15. Mentre le Chiese hanno abbracciato una cultura del dialogo ed è possibile segnalare un certo numero di risultati derivati dall’impegno in dialoghi ecumenici ufficiali, nei trentasei anni trascorsi dalla pubblicazione di Dialogo ecumenico sono emersi nuovi fattori che caratterizzano un nuovo contesto all’interno del quale hanno luogo questi dialoghi.

16. Mentre il dialogo ha portato a un’accresciuta sensibilità e a un impegno ecumenico nelle tradizioni ecclesiali, si è sviluppata anche una rinnovata forma di fedeltà all’identità confessionale, che potrebbe portare a confessionalismi esclusivisti. Si è inoltre verificata una certa riluttanza a porre in atto quei cambiamenti richiesti dai risultati del dialogo. A volte ciò è stato causato dalla difficoltà di ottenere un consenso più ampio all’interno delle varie Chiese. Le difficoltà nella recezione hanno anche condotto alla divisione all’interno delle confessioni, dal momento che è sempre più chiaro che nessuna Chiesa o tradizione confessionale è un’entità omogenea. In alcuni casi la recezione è stata resa più difficile dal fatto che sono emerse divisioni all’interno di alcune Chiese e tra di esse su temi culturali ed etici – quasi mai dovute a questioni inerenti i dialoghi stessi. Per alcune Chiese i problemi affrontati nei dialoghi internazionali bilaterali e multilaterali sono percepiti come lontani dai propri interessi esistenziali. Dopo oltre trent’anni di dialogo teologico e nonostante i significativi accordi raggiunti in questo periodo non tutti i problemi che era necessario affrontare per arrivare all’unità tra le Chiese sono stati risolti. Il processo di riconciliazione è stato lento. Per qualcuno, e per diverse ragioni, ciò ha messo in dubbio la validità di portare avanti tali dialoghi teologici.

17. Eppure è evidente in ogni parte del mondo che il Vangelo di riconciliazione non può essere credibilmente proclamato da Chiese non riconciliate tra di loro. Le Chiese divise sono una contro-testimonianza del Vangelo.

18. Che cosa possiamo imparare dall’esperienza del dialogo circa la natura del dialogo ecumenico stesso? Il nuovo contesto suggerisce la necessità di un riesame del dialogo ecumenico, riprendendo le prospettive di Dialogo ecumenico del 1967, riflettendo sugli oltre tre decenni di attività di dialogo multilaterale e bilaterale e prendendo in considerazione le sfide che sono emerse.


La natura e lo scopo del dialogo ecumenico

Per una descrizione del dialogo ecumenico

19. Il dialogo ecumenico viene perseguito come risposta alla preghiera di nostro Signore per i suoi discepoli che «siano una cosa sola, perché il mondo creda» (Gv 17,21). È essenziale conversare, parlarsi e ascoltarsi tra partner. Ciascuno parla a partire dal proprio contesto e dalla propria prospettiva ecclesiale. Il linguaggio dialogico cerca di comunicare tale esperienza e prospettiva all’altro e di ricevere la stessa cosa dall’altro al fine di entrare nell’esperienza dell’altro e vedere il mondo, per così dire, coi suoi occhi. Lo scopo del dialogo è che ciascuno comprenda profondamente il partner. Comprendersi, ascoltarsi e parlarsi reciprocamente nell’amore sono esperienze di tipo spirituale.

20. Il dialogo implica camminare con l’altro; il pellegrinaggio è una buona metafora del dialogo. Esso rappresenta una parola – né la prima né l’ultima – di un viaggio comune, segna un momento tra il «già» delle nostre storie passate e il «non ancora» del nostro futuro. Esso è immagine della conversazione tra i discepoli sulla strada per Emmaus, dove si narra la meraviglia suscitata dal Signore durante il viaggio, culminata nel riconoscimento del Signore nell’atto di spezzare il pane mentre si condivideva la mensa.

21. Il dialogo è qualcosa di più di uno scambio di idee. È uno «scambio reciproco di doni». È un processo attraverso il quale noi cerchiamo insieme di andare al di là delle divisioni chiarendo le passate incomprensioni grazie a studi storici o superando gli ostacoli attraverso la scoperta di nuovi linguaggi e categorie. Di più: esso comporta l’essere recettivi all’ethos dell’altro e a quegli aspetti della tradizione cristiana mantenuti nell’eredità altrui. Le diverse tradizioni della Chiesa hanno spesso dato la preferenza ad alcuni testi biblici e tradizioni piuttosto che ad altri. Nel processo di dialogo siamo invitati a riappropriarcene e quindi a dare testimonianza alla ricchezza del Vangelo nella sua integrità.

22. Un importante fulcro del dialogo è la reciproca esplorazione del significato della fede apostolica. Contemporaneamente i dialoghi vengono condotti nel contesto della fede vissuta nelle comunità di tempi e luoghi particolari; per questo essi riflettono sempre un’esperienza legata a un contesto. Essi non fanno solo fulcro sui sistemi o sulle formulazioni dei credo ma anche sul modo in cui questi vengono vissuti dalle comunità coinvolte nel dialogo. Ciò è vero particolarmente rispetto ai dialoghi nazionali. Anche nel dialogo internazionale il contesto è un elemento essenziale, tuttavia in questo caso uno specifico contesto locale non può prevalere ed è presa in considerazione la completa, spesso complessa, autocomprensione di una comunione cristiana mondiale.

23. Inoltre vi è un’ulteriore differenza riguardo al contesto. Essa deriva dai modi molto diversi in cui le comunioni cristiane mondiali comprendono il rapporto tra espressioni locali e universali della Chiesa. Ciò, a sua volta, ha una ricaduta sull’impatto dell’esperienza legata a un contesto rispetto all’insieme. Così, per molti, l’autorità suprema (e quindi la questione dell’indipendenza di un livello rispetto all’altro) si trova in ogni Chiesa membro di una comunione mondiale (per esempio nelle Chiese derivate dalla Riforma). Per altri invece (ad esempio la Chiesa cattolica) i vincoli di comunione di natura teologica, canonica e spirituale governano i rapporti tra le Chiese particolari e la Chiesa universale. La vera comprensione di una Chiesa particolare o locale coinvolge il suo essere in comunione con ogni altra Chiesa locale e con la Chiesa di Roma. Così esiste una continua, reciproca influenza tra espressioni particolari ed espressioni universali della Chiesa. Mentre le espressioni particolari e universali della Chiesa sono interdipendenti, la priorità viene data all’unità dell’insieme.

24. Il dialogo si rivolge alle divisioni del passato, esaminandole attraverso lo studio, cercando di stabilire che cosa i rappresentanti del dialogo stesso possono dire oggi e insieme sulla fede. Il dialogo tenta di cogliere il carattere evangelico della fede, della vita e del culto attuale del partner. Per questo il dialogo ha un carattere descrittivo.

Fondamenti teologici del dialogo

25. Il dialogo ecumenico riflette per analogia la vita intima del Dio uno e trino e la rivelazione del suo amore. Il Padre comunica se stesso attraverso la sua Parola, il Figlio che, a sua volta, risponde al Padre nella potenza dello Spirito: una comunione di vita. Nella pienezza dei tempi Dio parlò a noi attraverso il Figlio (cf. Eb 1,1-2); la parola di Dio si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (cf. Gv 1,14).

26. Lo scambio tra Padre e Figlio nella potenza dello Spirito stabilisce la reciproca interdipendenza delle tre persone nel Dio uno e trino. Nell’autocomunicazione di Dio al suo popolo, Dio ci invita ad accogliere la sua Parola e a rispondere nell’amore. Così, attraverso una partecipazione all’azione di grazia di Dio e attraverso l’imperativo dell’obbedienza cristiana, entriamo nella comunione con Dio che è comunione: Padre, Figlio e Spirito Santo. Imitando tale modello dialogico tra il parlare e l’ascoltare, tra il rivelare noi stessi e il ricevere l’altro, noi abbandoniamo l’illusione dell’autosufficienza e dell’isolamento ed entriamo in un rapporto di comunione.

27. La natura stessa dell’esistenza umana mette in rilievo il fatto che non viviamo né esistiamo gli uni senza gli altri. «Noi non solo c’incontriamo, ma siamo incontro. L’altro non è il limite del mio io; l’altro è parte e arricchimento della mia stessa esistenza. Dunque il dialogo appartiene alla realtà dell’esistenza umana. L’identità è dialogica» (card. Walter Kasper).

Presupposti del dialogo

28. Il dialogo ecumenico presuppone il nostro comune essere incorporati a Cristo mediante la fede e il battesimo e l’azione dello Spirito Santo e che ci riconosciamo scambievolmente come comunità di fede che cercano unità in Cristo (cf. il documento del GML Implicazioni ecclesiologiche ed ecumeniche del battesimo comune, 2004). Nel dialogo ecumenico non ci incontriamo come stranieri ma come coinquilini della dimora di Dio, come cristiani che, attraverso la comunione col Dio uno e trino, fanno già esperienza «di una certa comunione, seppure imperfetta» (Unitatis redintegratio, n. 3; EV 1/503).

29. Dunque il dialogo ecumenico presuppone impegno nella preghiera. Esso assume la forma della croce, con l’intersecarsi tra la nostra relazione «verticale» con Dio e la nostra scambievole comunione «orizzontale». In ciò noi imitiamo anche l’auto-donazione e la vulnerabilità di Cristo. Passiamo dall’essere assorbiti e interessati solo a noi stessi a fare esperienza dell’altro, accettando la vulnerabilità di permettere agli altri di conoscerci e di permettere a noi stessi di vedere il modello cristiano di vita, testimonianza e culto dell’altro attraverso i suoi occhi. Tale scambio reciproco ci consente di fare esperienza di una fusione di orizzonti, di diventare capaci di guarire le nostre divisioni, di rafforzare la testimonianza comune e d’impegnarci nella missione condivisa di far progredire il regno di Dio.

Scopo del dialogo ecumenico

30. Lo scopo del dialogo ecumenico, come espresso dalla dichiarazione di Canberra L’unità della Chiesa come koinonia: dono e vocazione, è quello del movimento ecumenico stesso: «L’unità della Chiesa a cui siamo chiamati è una koinonia donata ed espressa: nella comune confessione della fede apostolica; in una comune vita sacramentale a cui abbiamo accesso per l’unico battesimo e celebrata insieme nell’unica comunione eucaristica; in una vita comune nella quale membri e ministri sono reciprocamente riconosciuti e riconciliati e in una comune missione che testimonia a tutti il Vangelo della grazia di Dio e si pone al servizio di tutto il creato. Lo scopo della ricerca della piena comunione sarà raggiunto quando tutte le Chiese potranno riconoscere pienamente l’una nell’altra la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Tale piena comunione si esprimerà a livello locale e universale attraverso forme conciliari di vita e di azione. In tale comunione le Chiese si ritrovano unite in ogni aspetto della loro vita comune a tutti i livelli, confessando l’unica fede, nel culto e nella testimonianza, nelle decisioni e nelle azioni» (n. 2.1).

31. Il dialogo conduce non solo ad accordi dottrinali, ma anche al risanamento delle memorie attraverso il pentimento e il perdono reciproco. Può anche essere una strada per esplorare quelle attività che possiamo intraprendere insieme, per fare insieme tutto ciò che non siamo costretti a fare separatamente, come auspicato nella dichiarazione della conferenza di Fede e costituzione di Lund nel 1952.

Principi del dialogo

32. L’unità cristiana è un dono dello Spirito Santo, non un merito umano. Il dialogo prepara al dono, prega per esso e lo celebra una volta ricevuto.

33. Il dialogo ecumenico è ecclesiale: i partecipanti giungono come rappresentanti delle proprie tradizioni ecclesiali, cercano di rappresentare la propria tradizione esplorando i misteri divini insieme ai rappresentanti di altre tradizioni (cf. Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Direttorio per l’applicazione dei principi e norme sull’ecumenismo, 1993, n. 176).

34. Il dialogo presuppone l’uguaglianza dei partecipanti, come partner che operano insieme per l’unità cristiana. Ciò manifesta l’esistenza di una reciprocità, così che non ci si aspetta che i partner adottino le «nostre» strutture per il dialogo (cf. Ut unum sint, n. 27).

35. Man mano che il dialogo avanza è importante essere consapevoli della «gerarchia delle verità», dove non tutto viene presentato allo stesso livello di prossimità con le dottrine essenziali della fede cristiana (cf. Direttorio, n. 176).

36. Le formulazioni dottrinali della fede sono condizionate culturalmente e storicamente. Un’unica e identica fede può venir espressa con linguaggi diversi in momenti diversi, riflettendo nuove prospettive e sviluppi organici. La consapevolezza di ciò ha dato prova di essere un’esperienza liberatoria nei dialoghi ed è servita a creare possibilità di sviluppo di nuove comprensioni e relazioni. Il processo di discernimento di un consenso nella fede deve tener conto di approcci differenti, sottolineature e linguaggi che rispettino la diversità e i limiti alla diversità in e tra chi dialoga.



La spiritualità e la pratica del dialogo ecumenico


Spiritualità

37. Dal momento che la stessa vita cristiana è dialogica (cf. supra,nn. 23-24) il dialogo ecumenico è un modo di essere, di vivere la vita cristiana. Sebbene abbia caratteristiche precise, esso presuppone una larga spiritualità di apertura all’altro alla luce dell’imperativo dell’unità cristiana, governata dallo Spirito Santo. Il dialogo è un processo di discernimento e come tale richiede pazienza, poiché il progresso ecumenico può essere lento. Occorre umiltà per essere disponibili a ricevere la verità dall’altro. È necessario anche l’impegno nell’amore per cercare insieme di manifestare quell’unità voluta da nostro Signore. Perciò possiamo inserire le considerazioni che seguiranno nell’ambito della spiritualità del dialogo.
Spiritualità per comunità che dialogano

38. Le comunità coinvolte nel dialogo s’impegnano a condividere un percorso. Anche se viene portato avanti da poche persone per ciascuna parte, il dialogo ha lo scopo di assistere le comunioni coinvolte affinché avanzino un gradino dopo l’altro verso l’unità, adoperandosi affinché ogni esponente comprenda, per quanto possibile, in che modo la vita e la testimonianza dell’altro possono essere vantaggiose per tutti. Se si trascura questo aspetto del dialogo i risultati sembreranno lontani dall’esperienza della Chiesa, e forse non saranno accolti nella sua vita e non trasformeranno i rapporti. Inoltre quando questo aspetto del dialogo viene sottovalutato lo stesso impegno ecumenico diventa una scusa per conservare lo status quo ante. Dunque il dialogo ecumenico comporta nuovi obblighi spirituali non solo per i singoli partecipanti, ma anche per le comunità nel loro complesso.

39. La volontà di cambiare attraverso il dialogo richiede di vedere l’altro in modo differente, di mutare i nostri parametri di ragionamento, di linguaggio e di azione nei suoi confronti. Dato che l’unità dei cristiani si realizza attraverso la forza di Dio, non con la nostra, il dialogo è anche un processo di conversione, di discernimento, di attenzione alle sollecitazioni di Dio. Ci apre al giudizio e al rinnovamento. Perciò nel cercare di aprirci a rapporti trasformati e riconciliati esploriamo processi di guarigione e perdono.

40. Il dialogo coi cristiani dai quali siamo separati richiede che noi esaminiamo in che modo la nostra identità è stata formata in opposizione all’altro, per esempio in quale modo abbiamo identificato noi stessi con quanto non siamo. Il superamento di costruzioni identitarie di stampo polemico richiede un rinnovato sforzo al fine d’articolare l’identità secondo modalità più positive, distinguendo tra identità confessionale intesa come segno di fedeltà al proprio credo, e confessionalismo inteso come ideologia costruita in opposizione all’altro. Ciò implica una preparazione sia spirituale sia teologica al dialogo ecumenico. Con la comprensione delle offese reciproche e dando e ricevendo il perdono ci allontaniamo dalla paura reciproca per portare i pesi gli uni degli altri, essendo chiamati a soffrire insieme. L’impegno nel dialogo richiede, quantomeno, una revisione del modo in cui la nostra Chiesa educa i propri membri riguardo ai partner del dialogo.

41. La preparazione al dialogo richiede il recupero delle risorse teologiche per lo sviluppo e il perfezionamento della dottrina all’interno della propria tradizione. Ciò esige la buona volontà di lasciarci interpellare dagli altri e lasciare che essi c’insegnino qualcosa. Quando l’incontro si fa più profondo sentiamo la nostra vita coinvolta nella riflessione teologica della tradizione del partner, e i pensieri e le parole dell’altro come fossero nostri.

42. Il nostro comune impegno verso l’unità cristiana richiede non soltanto di pregare gli uni per gli altri ma di condurre una vita di preghiera comune.

Prassi

43. Ogni dialogo è unico e deve tener conto dei fattori che caratterizzano determinati partner, in un dato dialogo, in uno specifico momento. A tale proposito i seguenti punti possono essere importanti.
Profilo del partner che dialoga

44. Il profilo dei partner influenzerà necessariamente la prassi di ogni dialogo. Per concordare gli scopi e i metodi del dialogo, sia bilaterale sia multilaterale, è cruciale comprendere chi sia il partner, quale sia l’origine delle divisioni, e/o in che modo tali comunità cristiane si siano relazionate tra loro in passato.

45. Ogni partner ha una comprensione particolare della storia delle divisioni. Uno dei due o entrambi possono essere portatori di memorie dolorose per essere stati vittime di sopraffazioni messe in atto da esponenti dell’altra comunità in dialogo. Possono esservi asimmetrie considerevoli tra partner (per esempio di consistenza numerica, di autocomprensione ecclesiale, di titolarità a parlare a nome della comunità ecclesiale più ampia, di condizioni di maggioranza o minoranza). Il dialogo deve tenere conto di queste asimmetrie e ogni partner deve comprendere l’approccio dell’altro. Molti partner in dialogo sono impegnati anche in altri dialoghi, bilaterali e multilaterali. I dialoghi dovrebbero interagire e influenzarsi vicendevolmente.

Temi e argomenti nell’agenda del dialogo

46. Il dialogo che mira all’unità cristiana richiede, sulle questioni che non dividono, qualcosa di più di una semplice cooperazione. Riconduciamo al dialogo ecumenico tutto quanto cade fuori del principio di Lund che chiede: «Le nostre Chiese non dovrebbero agire insieme in tutte le materie tranne quelle in cui profonde differenze di convinzione le costringono ad agire separatamente?» (EO 6/1720). Dove la coscienza ha, finora, proibito l’unità noi ci impegniamo nel dialogo proprio per chiarire e superare queste profonde differenze di convinzione passate e presenti.

47. Gli argomenti del dialogo sono tratti a partire dai rapporti passati e presenti intercorsi tra i partner. Nell’identificare i temi da affrontare potremmo chiederci: «Dove, nelle nostre relazioni come partner in dialogo, è in gioco il Vangelo? Che cosa impedisce il pieno riconoscimento reciproco?». Il contesto influenzerà la scelta degli argomenti su cui dialogare; tuttavia questi saranno tanto più rilevanti se compresi all’interno dello spettro più ampio delle divisioni cristiane storiche.

48. La scelta dei temi dovrebbe ispirarsi alla storia. Sebbene ogni generazione debba riappropriarsi di quanto avvenuto prima, non dovremmo dimenticare che stiamo contribuendo a un percorso iniziato prima di noi e che continuerà dopo di noi.

49. I temi possono comprendere non solo formulazioni dottrinali, ma anche modi di fare teologia e di utilizzare le fonti della fede. Le metodologie stesse possono divenire il soggetto del dialogo. La scelta dei punti di partenza richiede discernimento di ciò che è maturo per la discussione. Può essere importante cominciare esaminando quanto unisce i partner; gli interrogativi che più dividono potrebbero venire accantonati finché un’esperienza condivisa di fiducia renda possibile affrontarli. Ma il dialogo tra Chiese divise non può rimandare all’infinito un esame dei problemi cruciali connessi alla loro divisione.

50. I dialoghi maturati attraverso accordi di vasta portata su aree conflittuali possono alimentare un ulteriore impegno costruttivo riguardo a temi particolari.


Metodologie

Contesti e approcci diversi

51. Poiché i diversi temi su cui si dialoga richiedono metodologie differenti, non possiamo parlare di un unico approccio al dialogo. Ogni partner si sentirà più a proprio agio con alcuni metodi piuttosto che con altri. Non dobbiamo dare per scontato che alcune modalità d’impegno reciproco siano preferibili ad altre.

52. L’esperienza del dialogo ecumenico nel XX secolo ha mostrato quanto sia importante esaminare i fattori storici e socio-economici riguardanti temi dottrinali. Situare le formulazioni dottrinali nel loro contesto storico può consentirci di esprimere oggi in modi nuovi la stessa fede. Tale metodologia applicata nel rapporto del Gruppo misto sulla dottrina della giustificazione ha plasmato un’ermeneutica che potrà giovare altrove.

53. Il lavoro sull’ermeneutica svolto dalla commissione Fede e costituzione (Un tesoro in vasi di creta, 1998) pone l’attenzione su come «leggiamo» la nostra storia in quanto comunità e come troviamo dei punti d’incontro con le storie degli altri. Un’«ermeneutica di coerenza» suggerisce la consapevolezza simpatetica con la fede e la testimonianza degli altri come complementari alle proprie. Un’«ermeneutica di fiducia» suggerisce che la recezione e il riconoscimento reciproci sono possibili attraverso i doni dello Spirito Santo alla comunità cristiana. Un’«ermeneutica del sospetto» suggerisce la domanda: «Questa lettura particolare quali interessi serve?». Poiché il dialogo serve la causa dell’unico Vangelo di Gesù Cristo, ogni tipo di lettura può portarci a giungere insieme a una maggiore comprensione della verità.

54. Il dialogo non è una negoziazione verso un «minimo comune denominatore» ma una ricerca di nuovi approcci per scoprire la via da percorrere insieme. A volte i dialoghi mettono a confronto temi che in passato hanno fatto sorgere reciproche condanne. In questo caso ciò può aiutare a chiarire quale fosse la posizione delle parti all’epoca e in che modo ognuno cercò, tramite la propria posizione, di preservare l’integrità del Vangelo in un contesto particolare. Forse le domande del Vangelo oggi rendono capaci i partner di trovare un terreno comune.

55. Non tutti i conflitti dottrinali si possono risolvere facilmente. Perciò un’attenta considerazione delle posizioni – in che misura esse sono complementari e dove o come esse divergono – può risultare molto utile nel favorire la crescita delle Chiese nei rapporti ecumenici.


Partecipanti e competenze

56. Oggi nel dialogo ecumenico sono richieste varie competenze. Sono necessari esperti in ambito storico e dottrinale ma occorrono anche altri tipi di esperti: liturgisti, moralisti, missionologi e altri con responsabilità di supervisione pastorale. Più è ampia la partecipazione di una Chiesa al dialogo più saranno applicabili i suoi risultati all’insieme della vita della Chiesa. Chiese diverse hanno modi diversi di comprendere come un individuo «rappresenti» la Chiesa nel dialogo, ma tutti i partecipanti dovrebbero essere consapevoli di essere assoggettati alle norme della propria tradizione e di doverne rendere conto.
57. Come raccomanda Dialogo ecumenico, è opportuno coinvolgere spesso nel dialogo degli osservatori, per riconoscere e incoraggiare le più ampie implicazioni ecumeniche di quell’attività.


La recezione dei dialoghi ecumenici

58. Se gli accordi raggiunti col dialogo ecumenico devono avere un impatto sulla vita e la testimonianza delle Chiese e condurre a un nuovo livello di comunione, allora è necessario porre molta attenzione ai processi di recezione degli accordi, così che l’intera comunità possa essere coinvolta nel processo di discernimento.

Il significato di «recezione»

59. La «recezione» è il processo attraverso cui le Chiese fanno propri i risultati di tutti gli incontri avuti le une con le altre, in particolare le convergenze e gli accordi raggiunti su temi rispetto ai quali esistevano divisioni storiche. Come riporta la relazione del VI forum sui dialoghi bilaterali: «La recezione è parte integrante del movimento verso quella piena comunione che si realizza allorché "tutte le Chiese potranno riconoscere pienamente l’una nell’altra la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica" (Dichiarazione di Canberra, n. 2.1)». Dunque la recezione è molto di più delle risposte ufficiali ai risultati del dialogo, sebbene le risposte ufficiali siano essenziali. Comunque, anche se non riguardano la globalità delle relazioni intraecclesiali, i risultati dei dialoghi teologici internazionali sono un aspetto cruciale della recezione, in quanto tentativi specifici di superare ciò che divide le Chiese e impedisce l’espressione dell’unità voluta da nostro Signore.

Strumenti per la recezione

60. Le Chiese hanno sviluppato modi e strumenti appropriati a ricevere i risultati dei dialoghi internazionali bilaterali e multilaterali. Le strutture e i processi decisionali che determinano lo «spirito» di una Chiesa o comunità di Chiese riflettono l’auto-comprensione, la forma di governo e il particolare approccio di ciascuna Chiesa o comunità.
Difficoltà nella recezione

61. Le Chiese hanno incontrato difficoltà nel processo di recezione in parte a motivo dei diversi modi e processi di recezione.

62. Sono emersi problemi di coerenza. Quando una comunità ecclesiale è coinvolta in diversi dialoghi ecclesiali con partner provenienti da tradizioni ecclesiali diverse la presentazione della propria autocomprensione deve essere coerente con quanto viene detto a tutti i partner e i risultati ottenuti nel dialogo con una parte debbono essere coerenti con quelli avuti con le altre. Alcune comunioni cristiane mondiali (la Comunione anglicana, l’Alleanza riformata mondiale, la Federazione luterana mondiale) hanno sviluppato delle strutture per verificarlo.

63. Sono emersi interrogativi di rilevanza notevole. I temi del dialogo ecumenico sono in larga misura quelli che compaiono nell’agenda delle Chiese europee e dell’America del Nord, anche se le divisioni dottrinali in questione sono state veicolate in tutto il mondo dall’attività missionaria?

64. In che modo i dialoghi internazionali riguardano le priorità pastorali e teologiche delle Chiese locali? Se i temi affrontati non sono problemi esistenziali vissuti dalle Chiese, la recezione diventa difficile. Occorrono nuove strade per aiutare le Chiese a vedere che la divisione contraddice il Vangelo della riconciliazione. Come possono i risultati dei dialoghi internazionali coinvolgere le Chiese in modo esistenziale nei loro contesti diversi? Molti fattori che precludono la recezione del dialogo non sono dottrinali. Dove sono evidenti le tensioni tra maggioranze e minoranze, i processi di perdono, guarigione e riconciliazione debbono venire prima e durante i processi di recezione.

65. Proprio per loro natura i dialoghi sono portati avanti da rappresentanti nominati a livello ufficiale, competenti sui temi in discussione. Ma la recezione, sebbene consista in un processo di discernimento per la leadership delle Chiese, coinvolge anche quello di tutto il popolo di Dio. L’insensibilità al fatto che tutta la comunità necessiti di un’azione educativa e di discernimento ha reso difficile la recezione. Il linguaggio dall’alto al basso, e non viceversa, è apparso in alcuni processi come un punto critico. Dunque mentre i dialoghi tendono alla comunione tra le Chiese, può accadere che conducano alla formazione di gruppi dissenzienti e a divisioni interne alle Chiese.

Esperienze positive di recezione

66. In che modo la gestione dei processi di recezione può portare alla risoluzione di tali problemi? Durante gli ultimi trent’anni molti dialoghi internazionali sono stati ampiamente accolti, e hanno condotto a nuove espressioni di amicizia tra Chiese e al rinnovamento delle Chiese coinvolte. Forse ciò può fornire degli indizi su che cosa sia essenziale perché la recezione abbia luogo.

Un esempio di dialogo multilaterale

67. Il dialogo multilaterale che ha condotto a Battesimo, eucaristia, ministero (BEM) ne è un esempio. Il processo del BEM ha richiesto tempo, dialogo costante tra le Chiese, la fornitura di materiali di studio, la seria considerazione delle risposte alle bozze, la traduzione in molte lingue, la costruzione di qualcosa su quanto era stato precedentemente ottenuto attraverso il dialogo e la capacità di fare tesoro di altri dialoghi e iniziative ecumeniche.

68. Tale processo è durato circa vent’anni e di fatto su questi temi vi erano state discussioni sin nei quarant’anni precedenti. Nel periodo dal 1963 al 1982 per tre volte le bozze e le relative modifiche furono mandate alle Chiese, agli istituti teologici e agli organi ecumenici per commenti e reazioni. Esse furono ampiamente divulgate e i commenti furono presi in seria considerazione in ogni stadio della ristesura. Molte Chiese incoraggiarono discussioni sulle bozze nelle comunità, coinvolgendo in tal modo l’intera comunità. Anche i redattori utilizzarono i dialoghi bilaterali internazionali sui temi attinenti e le prospettive derivate dal movimento liturgico. L’approccio multilaterale è rimasto al di qua delle divisioni tra le Chiese alla ricerca delle radici bibliche utili alla comprensione dei problemi specifici (per esempio l’anamnesis). Ciò ha fornito punti di riferimento, mettendo le diversità storiche in una nuova prospettiva.

69. Ogniqualvolta diveniva chiaro che il consenso su un tema particolare si stava affievolendo, il tema specifico veniva affrontato da una riunione di teologi (per esempio il rapporto tra il battesimo di quanti fanno una professione di fede personale e quello dei bambini; il tema dell’episcopato). Da tali consultazioni emergeva un linguaggio nuovo che consentiva di esprimere un accordo.

70. Una volta terminato e approvato dalla commissione Fede e costituzione nel 1982, il testo fu inviato alle Chiese per la risposta. Accompagnavano il documento domande ben calibrate, così che le Chiese potessero farlo proprio grazie a un processo di discernimento. Lo accompagnava anche un commento che facilitava la comprensione di quanti non avevano partecipato alla discussione. Un volume di studi teologici incoraggiò la discussione negli istituti teologici mentre una serie di materiali liturgici assistette le Chiese nella riflessione sul rapporto tra la propria comprensione teologica e la pratica liturgica. Per dare espressione liturgica all’accordo eucaristico fu sviluppata una liturgia che illustrava quale convergenza era ora possibile nella celebrazione del sacramento. La cosiddetta «liturgia di Lima » contribuì senza dubbio a rendere popolare l’accordo e il processo del BEM.

71. Il BEM fu tradotto in più di trenta lingue, e ciò ne facilitò la recezione nel mondo. Il processo fu arricchito grazie a seminari tenuti dai delegati e dallo staff di Fede e costituzione. Vennero preparati in vari contesti guide di lettura come supporto alle discussioni comunitarie e interecclesiali sul testo. Il processo che fin dall’inizio ha coinvolto le Chiese fino all’attuale sviluppo del testo facilitò le risposte ufficiali «ai più alti livelli di autorità» quando il testo fu completato nel 1982. Furono ricevute circa 186 risposte che vennero pubblicate in sei volumi. Ciò fece sì che il testo avesse un’autorità ecumenica senza precedenti, il che a sua volta incoraggiò le Chiese a sviluppare nuove relazioni reciproche.

72. Sulla base di questa convergenza parecchie Chiese furono in grado di intrattenere nuove relazioni di comunione (per esempio Chiese luterane e anglicane nei paesi nordici e baltici, in Gran Bretagna, Irlanda, Canada, Germania, Stati Uniti; riformati e luterani negli Stati Uniti; Chiese unite o in via di unione in Sudafrica…). Altre Chiese furono incoraggiate, rispondendo alle domande, a rinnovare la frequenza e il contenuto liturgico delle proprie celebrazioni eucaristiche. Le distinzioni in tema di ministero hanno facilitato i dialoghi bilaterali, persino in situazioni in cui era divenuto difficile affrontare questi temi.

Alcuni esempi di dialoghi bilaterali

73. Molti dialoghi internazionali bilaterali hanno anche sviluppato meccanismi e modelli di lavoro che hanno favorito la recezione.

74. La firma ufficiale della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione è stata il risultato di una serie di successivi momenti della cooperazione luterano-cattolica. La dichiarazione congiunta è stata il frutto dei risultati ottenuti in più di trent’anni di dialogo internazionale e nazionale. Nel 1991, avendo deciso di prestare maggiore attenzione alla recezione dei risultati del dialogo, la Federazione luterana mondiale e il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani svilupparono un documento di lavoro intitolato Strategie per la recezione: prospettive sulla recezione di documenti che derivano dal dialogo internazionale luterano-cattolico. Nel 1993 fu nominata una commissione ristretta congiunta per mettere mano a una prima stesura di una dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione. Ogni parte poi sottopose la bozza ai rispettivi processi interni di valutazione. In base ai risultati della valutazione la bozza fu rivista. A ogni passaggio ciascuna delle parti riceveva sostegno ai massimi livelli d’autorità. La versione definitiva della dichiarazione congiunta fu accettata formalmente da entrambe le parti nel 1998 e firmata nel 1999. Il successo nella recezione della dichiarazione è stato reso possibile dalla stretta collaborazione tra i due partner nel processo di recezione.

75. L’accordo frutto del dialogo tra Chiese riformate e Chiese mennonite venne suggellato con una visita ai luoghi di battaglia in cui le rispettive forze si erano scontrate nel periodo della Riforma. Le Chiese manifestarono pentimento, ricevettero il perdono per consentire alla memoria di quegli eventi di determinare le relazioni attuali, e cercarono d’iniziare nuovi rapporti. Una costante azione reciproca di accordo, commento e spiegazione da parte delle componenti che hanno sponsorizzato la Commissione internazionale anglicana-cattolica romana (ARCIC) può aver facilitato la recezione dei rapporti dei dialoghi. Un certo interesse in molti dialoghi coinvolgenti l’Alleanza riformata mondiale e la Chiesa cattolica romana collegava l’agenda teologica alle effettive relazioni riformati-cattolici nel mondo. Si trattava di un precoce tentativo di far marciare di pari passo i punti all’ordine del giorno di quel dialogo con quelli delle Chiese locali.

Alcune conclusioni sulla recezione

76. Dal 1967 è possibile individuare molteplici fattori cruciali per i processi di recezione. È necessario l’impegno più ampio possibile con la comunità e i suoi teologi perché il dialogo risulti appropriato. Ciò avviene meglio grazie a uno scambio, nei momenti più idonei durante lo sviluppo del processo, di un testo tra le persone impegnate nei dialoghi e le Chiese coinvolte; in tal modo infatti il testo è sviluppato alla luce dei commenti ricevuti.

77. Il processo viene arricchito dalla condivisione delle risorse bibliche, teologiche e liturgiche che aiutano le comunità a comprendere il cammino intrapreso da coloro che hanno lavorato alle bozze e a situare il tema sia all’interno delle confessioni coinvolte sia tra gli studiosi contemporanei. Il testo dovrebbe venir tradotto in tutte le lingue opportune ed essere accompagnato da guide di lettura (scritte dai membri del gruppo preparatorio, poiché solo loro conoscono la strada percorsa per raggiungere l’accordo). La recezione può essere arricchita da gesti simbolici appropriati compiuti dagli organismi che sponsorizzano il dialogo, per indicare che è stato raggiunto un nuovo stadio del cammino verso la più completa manifestazione della comunione.

78. Per la recezione e la successiva applicazione è importante individuare strumenti per una comune supervisione. Alla luce degli accordi raggiunti, è necessario prendere in considerazione i processi di recezione che coinvolgono due comunità desiderose di discernere insieme. Al presente molti processi di recezione vengono condotti separatamente all’interno di ogni comunità.

79. Le visite tra comunità alimentano la crescita nei rapporti. Dovrebbe diventare naturale invitare i partner agli eventi significativi nella vita della Chiesa e incoraggiare l’amicizia cristiana a livello locale. Il movimento ecumenico include una spiritualità dell’ospitalità, di desiderio di ricevere l’altro a casa propria. L’impegno nel dialogo richiede la volontà dei capi della Chiesa di essere esempi di nuova apertura, per esempio con azioni simboliche condivise, con visite e con l’essere presenti nei momenti di gioia e di dolore. Tutti questi contatti alimentano la comprensione reciproca e la recezione dei risultati del dialogo.


Sfide per il dialogo nel XXI secolo

80. Il movimento ecumenico ha aiutato i cristiani ad allontanarsi dal virtuale isolamento reciproco tra le Chiese, sperimentato per secoli e dovuto alle divisioni del V, XI e XVI secolo. A partire dalla fine del XX secolo, le Chiese possono parlare di un nuovo rapporto di condivisione di «autentica anche se imperfetta» comunione. Dati tali risultati, quali sono le sfide per il dialogo ecumenico nel XXI secolo?

81. Mentre questi esiti sono stati considerevoli, durante lo stesso periodo c’è stata anche una tendenza a maggiori frammentazioni e fratture nelle Chiese e tra di esse. Vi sono quelli che asseriscono con forza che il dialogo è nemico della tradizione cristiana e quelli che fanno proclami di assolutismo e unicità. Sotto l’influsso della cultura postmoderna, l’autorità e le sue strutture in tutti gli aspetti della vita sono state messe in discussione. Ciò pone in questione all’interno delle Chiese i documenti dottrinali e anche le strutture di governo. Qualcuno si chiede se sia possibile che un singolo o un gruppo possa rappresentare una comunità. Il fatto che la società prenda in considerazione i problemi etici secondo modalità totalmente nuove ha influenzato sempre di più il modo in cui questi problemi compaiono nelle agende delle Chiese, dove è chiaro che la discussione dei diversi punti di vista e approcci passa attraverso le linee denominazionali e confessionali. È cruciale che tali aspetti della vita ecclesiale contemporanea siano tenuti in considerazione dal momento che la cultura del dialogo si è sviluppata in questo decennio.

82. Comunque ci limitiamo a prendere in considerazione alcune prospettive più ampie e alcune sfide al movimento ecumenico e al dialogo in particolare.

La sfida di un mondo che cambia

83. L’ampio contesto in cui la gente vive oggi, caratterizzato da un mondo in crescente interdipendenza e interconnessione, continuerà ad avere un forte impatto sui cristiani. Nel suo senso più positivo la globalizzazione esprime l’aspirazione degli esseri umani a diventare un’unica famiglia. Comunque, la globalizzazione ha ulteriormente diviso l’umanità, poiché nel mondo contemporaneo le sue forze operano a beneficio di pochi e a svantaggio di molti.

84. In tale contesto il movimento ecumenico può essere un seme di speranza in un mondo economicamente, culturalmente, socialmente e politicamente diviso. Le gioie e i dolori, le speranze e le disperazioni di tutti sono anche quelli dei cristiani. Nel rispetto di tutti gli sforzi che gli uomini compiono per creare unione, il movimento ecumenico può dare il proprio contributo specifico all’unità della famiglia umana guarendo le divisioni tra cristiani. Una risposta alla globalizzazione chiede lo sviluppo di rapporti reciproci benefici tra le strutture sociali globali e nazionali. Una parallela sfida ecumenica sta raggiungendo il traguardo di prospettive comuni sul rapporto specifico tra le espressioni universali e locali della Chiesa, e tra l’unità e la diversità. Dimostrando che il dialogo può risolvere diversità persistenti, il progresso compiuto rispetto a tali questioni ecclesiologiche può avere un impatto positivo sulle persone come risposta alla globalizzazione.

85. Dunque il continuo impegno nel dialogo ecumenico non solo alimenta la riconciliazione tra cristiani ma è anche un segno delle più profonde aspirazioni dell’umanità a diventare un’unica famiglia.

La sfida permanente della riconciliazione cristiana

86. Alcune sfide si riferiscono specificamente al movimento ecumenico.

87. Mentre ci rallegriamo degli esiti del movimento ecumenico del XX secolo, riconosciamo che la riconciliazione cristiana è lungi dall’essere completa. Il dialogo ecumenico deve proseguire al fine di risolvere le serie divergenze riguardanti la fede apostolica. Esse impediscono di ottenere l’unità visibile tra cristiani, l’unità necessaria per la missione in un mondo diviso.

88. In secondo luogo, il movimento ecumenico è importante per i cristiani ovunque si trovino. All’inizio del movimento la maggioranza dei partecipanti proveniva dall’Europa e dal Nord America, sebbene la minoranza proveniente da altri continenti abbia avuto un notevole impatto nei primi incontri ecumenici, asserendo che la divisione della Chiesa costituiva un peccato e uno scandalo. Come notato altrove, molte delle più importanti divisioni tra i cristiani ebbero inizio in Europa e, con l’attività dei missionari europei e americani, esse furono estese ad altri continenti.

89. Oggi, comunque, i partecipanti al dialogo provengono anche da Africa, Asia, America Latina, Oceania e Caraibi, e i loro contributi sono significativi. Molti ritengono che il lavoro a favore delle necessità primarie delle proprie comunità sia più pertinente e urgente dell’agenda ecumenica; tuttavia ormai molti cristiani si rendono conto che perpetuare le divisioni mina la credibilità dell’unico Vangelo e che molti degli argomenti che essi affrontano sono in realtà temi di unità e divisione. Questo Vangelo parla alla gente nei suoi diversi linguaggi e culture e sanare le ferite della divisione richiede gli sforzi dei cristiani in ogni parte del mondo. La diversità tra i cristiani nel mondo dovrebbe ricevere molta più attenzione nei dialoghi ecumenici del XXI secolo.

90. In terzo luogo, ci siamo resi conto che il panorama cristiano sta cambiando. Sappiamo che tra le comunità cristiane che crescono più in fretta vi sono gli evangelicali e i pentecostali. Molti, se non i più, non sono coinvolti nel movimento ecumenico, non hanno contatti con il CEC né dialogano con la Chiesa cattolica romana. In realtà anche le parole «unità» ed «ecumenismo» sono un problema per queste comunità. La loro attenzione è concentrata soprattutto sulla missione e non la vedono necessariamente nel contesto di collaborazione con le altre Chiese in una certa regione, nemmeno dove tali Chiese sono radicate da secoli. Una sfida odierna è costituita dal trovare il modo di coinvolgere meglio nel dialogo ecumenico questi importanti gruppi cristiani.

91. In quarto luogo, i dialoghi bilaterali hanno preso in esame questioni che necessitano di risoluzioni affinché sia raggiunta la riconciliazione tra due comunioni. Questo processo deve continuare. Forse potrebbe essere utile che alcuni dialoghi prestassero una maggiore e sistematica attenzione all’eredità cristiana condivisa da Oriente e Occidente, come struttura di riferimento per tutti. Forse tutti i dialoghi, persino quando riguardano i propri problemi particolari, potrebbero trarre vantaggio da questa comune eredità cristiana.

La sfida del dialogo interreligioso

92. Per quanto il dialogo interreligioso non possa prendere il posto di quello ecumenico, anch’esso si svolge tra religioni diffuse in tutto il mondo. Esso non cerca di creare una religione ma d’attivare una collaborazione tra religioni nutrendo i valori spirituali per contribuire ad armonizzare la società, e per collaborare alla costruzione della pace nel mondo. La cooperazione tra cristiani per promuovere il dialogo interreligioso oggi è necessaria, anzi è un imperativo. Di recente le religioni sono state strumentalizzate per giustificare e persino promuovere la violenza, oppure sono state tenute fuori dagli sforzi per costruire la comunità umana. Attraverso la cooperazione ecumenica nel dialogo interreligioso i cristiani possono aiutare le religioni del mondo nel promuovere armonia e pace.

93. Non si deve confondere il dialogo ecumenico con quello interreligioso. Entrambi sono figli della cultura del dialogo, ma ciascuno ha uno scopo e un metodo specifici. Il dialogo ecumenico si svolge tra cristiani; esso cerca l’unità cristiana visibile. Deve continuare perché la discordia tra i cristiani «contraddice apertamente alla volontà di Cristo» (Unitatis redintegratio, n. 1; EV 1/494) e deve essere superata.


Conclusione

94. A partire dal documento sul dialogo del GML del 1967 le Chiese hanno partecipato al dialogo specialmente negli ultimi decenni del XX secolo. Il dialogo ecumenico ha aperto nuovi orizzonti mostrando che, nonostante lunghi secoli di separazione, i cristiani divisi hanno molto in comune. Il dialogo ha contribuito alla riconciliazione. La recezione dei suoi risultati è stata utile nell’avvicinare i cristiani in vari modi.

95. Ora, giunto il XXI secolo, il dialogo ecumenico prosegue con gli stessi scopi ma in un nuovo contesto. Esso è ancora uno strumento che i cristiani devono impiegare nella loro ricerca dell’unità visibile, uno scopo che resta ancora da conseguire. Il dialogo continua a essere uno strumento per favorire la riconciliazione di cristiani divisi. Nel tempo che abbiamo di fronte i risultati del dialogo debbono essere continuamente riesaminati nelle Chiese. Il dialogo ecumenico ha già aiutato a mutare le relazioni tra le Chiese. Nel nuovo contesto di un mondo più globalizzato, di un mondo contraddistinto dalla comunicazione immediata e dall’abbondanza dell’informazione, il compito della Chiesa di proclamare la parola di Dio e la salvezza in Cristo entra in una competizione senza precedenti con la proclamazione di ogni genere d’informazione che mira a catturare il cuore dell’uomo. In questa epoca storica diviene sempre più urgente una comune testimonianza al Vangelo da parte dei cristiani, i quali possono accantonare le divisioni e rendere una comune testimonianza al Signore il quale pregò per i suoi discepoli: «siano una cosa sola, perché il mondo creda» (Gv 17,21).

Nota sul processo


Dopo che i documenti sul dialogo sono stati presentati dal vescovo Walter Kasper e da Konrad Raiser, la prima plenaria ha sviluppato una serie di argomenti da trattare in uno studio sul dialogo. Un piccolo gruppo di redazione costituito da Eden Grace, Susan Wood, mons. Felix Machado, mons. John Radano e dal rev. Alan Falconer, si è incontrato a Cartigny, in Svizzera (febbraio 2003), e ha steso una bozza iniziale. Dopo le discussioni nella plenaria di Bari, il testo è stato ulteriormente ampliato sia attraverso scambi di posta elettronica sia nella sessione di una giornata nel settembre 2003 (Falconer, Radano, Thomas Best). Dopo un’ulteriore discussione all’incontro dell’esecutivo del GML nel novembre 2004, al vescovo David Hamid è stato chiesto di rivedere il testo dal punto di vista editoriale. Il documento di studio è stato adottato dal GML nella plenaria di Chania, Creta, nel maggio 2004.

Condizioni per un dialogo delle culture
di Hans Küng


Molti uomini si interrogano di fronte agli sbandamenti e ai disordini odierni: sarà il XXI secolo realmente migliore del XX secolo, un secolo pieno di violenza e di guerre? riusciremo a conseguire un nuovo ordine mondiale, un ordine mondiale veramente migliore? Nel XX secolo abbiamo perduto tre occasioni per la realizzazione di un nuovo ordine mondiale: il 1918 dopo la Prima Guerra Mondiale a causa della "Realpolitik" europea; il 1945 dopo la Seconda Guerra Mondiale a causa dello Stalinismo; il 1989 dopo la riunificazione tedesca e la guerra del Golfo a causa di mancanza di visioni.

Ma il nostro gruppo del "Progetto per un’etica mondiale" ha una tale visione, e cioè la visione di un nuovo paradigma delle relazioni internazionali, che prende in considerazione anche nuovi attori nella scena globale.

Nei nostri giorni di nuovo si fanno avanti le Religioni come attori nella politica mondiale. È vero che molto spesso nel corso della storia le Religioni hanno mostrato il loro lato distruttivo. Esse hanno fomentato e legittimato odio, inimicizia, violenza, perfino guerre. Ma in molti casi esse hanno promosso e legittimato comprensione, riconciliazione, collaborazione e pace. Negli ultimi decenni ovunque si sono rafforzate nel mondo iniziative del dialogo inter-religioso e della collaborazione delle Religioni.

In questo dialogo le Religioni del mondo hanno riscoperto che le loro proprie affermazioni etiche supportano e approfondiscono quei valori etici secolari, che sono sviluppati nella "Dichiarazione universale dei diritti umani". Nel "Parlamento delle Religioni mondiali" che si è tenuto a Chicago nel 1993, più di 200 rappresentanti di tutte le religioni mondiali hanno espresso per la prima volta nella storia il loro consenso su alcuni comuni valori, standard e atteggiamenti etici come base per un’etica mondiale, che poi nel rapporto del nostro gruppo di esperti sono stati assunti per presentarli al Segretario generale e all’Assemblea plenaria delle "Nazioni Unite". Qual è allora la base per un’etica mondiale, capace di essere condivisa da uomini e donne di tutte le grandi Religioni e tradizioni etiche?

Il "principio di umanità": "Ogni essere umano – sia uomo o donna, bianco o colorato, ricco o povero, giovane o vecchio – deve essere trattato umanamente." Questo è affermato in maniera più espressiva nella "Regola d’oro" della reciprocità: "Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te stesso". Questi principi sono stati sviluppati in quattro ambiti centrali vitali e appellano ogni essere umano, ogni istituzione e ogni nazione ad assumersi le loro responsabilità:

  • per una cultura della non violenza e del rispetto di ogni vita;
  • per una cultura della solidarietà e di un ordine economico giusto;
  • per una cultura della tolleranza e per una vita nella veracità;
  • per una cultura della equiparazione dei diritti e di pari dignità di uomo e donna.

Proprio nel tempo della globalizzazione una tale etica globale è assolutamente necessaria. Infatti la globalizzazione di economia, tecnologia e comunicazione porta anche ad una globalizzazione di problemi in tutto il mondo, che minacciano di sommergerci: i problemi nell’ambito dell’ecologia, della tecnologia atomica e della tecnologia genetica, ma anche della criminalità e del terrorismo globalizzati. Nel nostro tempo si rende urgentemente necessario che la globalizzazione di economia, tecnologia e comunicazione sia sostenuta da una globalizzazione dell’etica. In altre parole: la globalizzazione necessita di un’etica globale, non come peso aggiuntivo, ma come fondamento e aiuto per gli esseri umani, per la società civile.

Alcuni politologi prevedono per il XXI secolo uno "scontro delle culture". Ma noi contrapponiamo a questa previsione una visione del futuro diversamente articolata; non semplicemente un ideale ottimistico, ma una realistica visione di speranza: le Religioni e le culture del mondo, in collaborazione con ogni uomo di buona volontà, possono aiutare ad evitare un tale scontro, a condizione che esse realizzino le seguenti convinzioni: nessuna pace tra le nazioni senza pace tra le Religioni. Nessuna pace tra le Religioni senza dialogo tra le Religioni. Nessun dialogo tra le Religioni senza valori etici globali. Nessuna sopravvivenza del nostro globo nella pace e nella giustizia senza un nuovo paradigma delle relazioni internazionali sulla base di valori etici globali.


(pubblicato in Teologi@Internet, Queriniana, Brescia)
Venerdì, 14 Aprile 2006 22:13

Sacrifici umani per il vitello d'oro

Occorre anche ragionare e capire che dietro questi fenomeni esiste una precisa ideologia: quella che ha posto il profitto al di sopra di tutto. Anche del diritto, anche della vita.

Per una strategia della pace

di don Tonino Bello




Gerusalemme, tema generatore


1. Se ricorriamo a uno schema biblico, non è solo per un bisogno di organicità espositiva, ma anche perché vorremo tonificare la saldezza delle nostre analisi, esemplare lo stile del nostro impegno, irrorare la genialità delta nostra prassi di pace, e non banalizzare le nostre utopie.

Lo schema biblico fa perno attorno a un fortissimo tema generatore che sì racchiude in una parola: Gerusalemme. Lo snoderemo in quattro icone.

Nessuno è ormai tanto digiuno di riferimenti scritturistici da non sapere che Gerusalemme è la città santa, che già nella sua etimologia ne rievoca tutta la galassia dello "Shalom" biblico.

E' la "beata pacis visio": il simbolo, l'immagine della pace. Anzi, la sede per eccellenza della pace:
"Glorifica il Signore, Gerusalemme; loda, Sion, il tuo Dio.. egli ha messo pace nei tuoi confini, e ti sazia con fior di frumento" (Salmo 147,12-14).

Verso Gerusalemme, casa del Dio della pace, si orientano i passi dei pellegrini ebrei. A Gerusalemme diroccata si volgono le nostalgie degli esuli che hanno perso la pace in terra di Babilonia. Su Gerusalemme si impernia tutta la vita terrena di Gesù, Principe della pace. Verso la Gerusalemme celeste, luogo della pace escatologica, si muove finalmente tutta la storia universale.

Sulla scorta, allora, di questo tema generatore, tracceremo quattro proiezioni:
- salire a Gerusalemme (linea ermeneutica della pace);
- sostare a Gerusalemme (linea dossologica della pace);
- scendere da Gerusalemme (linea politica della pace);
- verso la Gerusalemme del cielo (linea utopica della pace).

Salire a Gerusalemme


2.1 Per gli Ebrei era sempre un momento di grande intensità emotiva il pellegrinaggio verso Gerusalemme, "città del sommo Dio".

Quando arrivavano certe date classiche, un fremito di commozione prendeva l'animo di tutti. E mentre salivano verso il colle di Sion, cantavano i salmi detti appunto delle "ascensioni". Uno dei più belli è il salmo 122: "Quale gioia, quando mi dissero: andremo alla casa del Signore. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! ... Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano; sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: su di te sia pace":

L'icona degli ebrei che salgono verso Gerusalemme, città della pace, deve essere paradigmatica per noi, pellegrini che faticosamente saliamo le alture alla ricerca della pace.

Eccoci condotti, allora, alla dimensione ermeneutica del nostro impegno: quella della ricerca.

Si potrebbe assumere come telaio di questa prima dimensione la frase di un monaco certosino del 1100, Guigo II, che, parlando della "lectio divina", cioè della metodologia da usare per leggere compitamente, in modo sapienziale, la Parola di Dio, scandisce quattro momenti: la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione. E dice così: "La lettura è un esercizio esteriore, la meditazione è una comprensione intellettuale, la preghiera è desiderio, la contemplazione è superamento di ogni senso.
Ora, ecco la prima proiezione.

I credenti dovrebbero essere testimoni di una "lectio divina" della pace. Scandendo, appunto, i quattro momenti che venivano proposti ai monaci per la "lectio divina" della Parola.

2.2 Anzitutto la lettura.

Di che cosa? Dei segni di guerra e dei segni di pace. Gli apparecchi ricetrasmittenti dell'opinione pubblica sono spesso grossolani. Registrano solo ingiustizie e guerre "scenografiche". E comunicano solo segnali di pace connotati dall'enfasi.
Dovremmo avere antenne più sensibili a captare le modulazioni di violenza emesse da tutte le direzioni.

La violenza a onde corte che viene perpetrata, ad esempio, mediante l'aborto.
Dopo gli anni roventi degli steccati culturali e degli scontri etici, pare che il bisogno di una autentica difesa della vita non nata stia ricongiungendo le sue proiezioni con l'ansia di un mondo affrancato dall'incubo nucleare, verso un comune allargamento degli orizzonti di quelle evidenze etiche che tutti si affannano a proclamare in decadimento.
La violenza a onde medie che viene perpetrata in paesi pure vicini a noi, ma non sempre collocata nella focale dei "media". Così sui massacri che avvengono nel Libano, in Iran, in Irak, in Etiopia, in Mozambico, in Sudan..., nei paesi del Medio Oriente, o sulle violazioni dei diritti umani che vengono perpetrate non solo in Sud Africa, o in Centro America, o nell'America Latina, ma anche nei paesi dell'Est europeo, cade la complicità della stampa e l'indifferenza delle coscienze.

La violenza a onde lunghe che viene subdolamente perpetrata, più che sul versante dell'avere, su quello dell'essere. Hanno ancora valore le parole che Solgenitzin scriveva nel 1972: "I tipi di coercizione più pericolosi per la pace sono quelli che agiscono senza missili nucleari, senza flotte e senza aviazione, e sono tanto larvati che si potrebbe quasi scambiarli per tradizioni e usanze abituali... Per ottenere pace autentica, è necessario che la lotta contro le forme invisibili, larvate, di violenza sia condotta con la stessa decisione con cui se ne combattono le forme clamorose.... L'impegno è quello di cancellare dagli uomini l'idea che qualcuno possa avere il diritto di usare violenza contro il diritto e la giustizia. Non si serve la causa della pace se ci si abbandona alla benignità di coloro che usano la violenza: la pace è favorita da colui che integralmente, decisamente e instancabilmente difende il diritto dei perseguitati, degli oppressi, degli assassinati".

Ma dovremmo avere anche antenne più sensibili a captare le modulazioni di pace, e a ritrasmetterle per dare speranza alla gente.

Oggi assistiamo a un impressionante trapasso culturale sul tema della pace, che si esprime, come osserva E. Balducci, in una duplice forma: "quella di superficie, che diventa prorompente quando gli eventi politici e militari creano le giuste occasioni, e quella sommersa, che ha i suoi luoghi di incubazione e di creatività disseminati nelle città e nei villaggi, sotto le denominazioni più diverse e con i più diversi sostegni: dagli enti locali ai partiti, dagli istituti scolastici alle parrocchie. Il movimento per la pace è come una galassia che occupa la zona intermedia tra l'opinione pubblica e le strutture di partito, una zona nella quale avvengono, magari silenziosamente, le metamorfosi chimiche destinate, forse, a mutare in futuro anche gli apparati del potere. E' difficile ridurre a tratti unitari un fenomeno che è, come dicono i sociologi, allo "stato nascente". Vi si trova il massimalismo utopico che abbraccia in uno slancio generoso dell'immaginazione il futuro del mondo intero, e l'insistenza ossessiva su di una opzione particolare, come, tanto per fare un esempio, l'abolizione della caccia; la pro pensione a risolvere tutti i problemi sul piano etico, senza tener conto della complessità del nesso che stringe ed oppone etica e storia; la demonizzazione degli uomini politici in cui si incarna l'ideologia di sicurezza armata, e l'idealizzazione della guerriglia contro gli imperi atomici. E' un mondo fluido quello del movimento per la pace, in cui si alternano stati di incandescenza e improvvisi raffreddamenti. Ma, osservato nel suo insieme, esso esprime un vero e proprio processo di conversione culturale, che investe ormai anche gli ambienti più tradizionali e che, attraverso la pluralità eterogenea dei suoi approcci, va elaborando alcune linee che già prefigurano un disegno unitario destinato ad imporsi, nel futuro, a tutti i livelli della società".

2.3 Il secondo momento della "lectio divina" della pace è quello della meditazione.

Io vorrei dire: quello della sistematizzazione teologica. Purtroppo non c e ancora in Italia una apprezzabile teologia della pace. Non si va più avanti dei troppo frammentati sussulti di ordine biblico, e delle pur giuste analisi di linguaggio che indugiano intorno ai termini shalom, eirene, o intorno al termine opposto hamas (il contrario di shalom non è guerra, ma violenza), la violenza essenziale che scompagina il complesso delle relazioni tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e le cose, tra l'uomo e l'altro uomo.

Quello delta pace viene visto ancora solo come tema di ordine etico, che risiede cioè esclusivamente nelle nicchie operative della morale, non un tema di carattere cristologico e trinitario che cerca cittadinanza negli spazi speculativi della fede.
Non c'è ancora una "irenologia" sistematica. Si annaspa attorno a incerti riferimenti cristolo-gici, centrati sul famoso passo della lettera agli Efesini (2,14-18), in cui si afferma che "Egli (Cristo) è la nostra Pace".

Si intuisce che il Vangelo è annuncio di pace, ma poi per un verso ci si impantana nelle dissertazioni sulla spada da rimettere nel fodero o sull'altra guancia da porgere allo schiaffo; mentre, sul fronte opposto, si tenta addirittura la fondazione di una teologia della guerra o la legittimazione di una certa violenza sulla base del Vecchio Testamento e di alcune espressioni del Nuovo ("non sono venuto a portare la pace, ma la spada"...).
Manca ancora del tutto una riconduzione della pace sul terreno trinitario: anzi, definirla proprio su questo modulo trinitario come la convivialità delle differenze, o come icona della vita trinitaria, sembra poco più che una esercitazione retorica.

E' davvero malinconico osservare come il cristiano, definito da Tertulliano "uno che lavora per la vita", non trovi ancora chiari riferimenti in una "irenologia", che dovrebbe essere una "obiezione di coscienza totale" di fronte ai poteri della terra che minacciano di bruciare l'umanità in un olocausto senza precedenti.

Ecco il compito più duro della "ascesa" verso Gerusalemme. Emerge da più parti la necessità di affrontare il problema della fondazione teologica detta pace, mollando gli ormeggi dall'area moralistica, tecnica, funzionale, intramondana e diplomatica. Sarà proprio dalla "irenologia" che si scateneranno nel mondo quei venti freschi e salutari che rinnoveranno la storia.

2.4 Ed eccoci al terzo momento della "lectio divina": la preghiera.

E' qui che si deve innestare, in moduli più forti, l'impegno dei credenti sulla spiritualità della pace. Spiritualità che non significa confino nelle zone vaporose dei sospiri, o trastullo di gruppo con la panna montata delle canzonette religiose.

Mi sembra molto significativa una espressione di Nicolas Berdiaeff: "Il pane per me stesso è una questione materiale. Il pane per il mio vicino è una questione spirituale".
Spiritualità delta pace significa appunto cercare il pane per il proprio vicino. Ma significa anche approfondire la coscienza che il pane "sovrasostanziale" della pace è un dono che va chiesto a Dio, è qualcosa che l'uomo da se stesso non può darsi. Lo shalom non nasce dal regolamento internazionale dei conflitti. Non viene fuori dai trattati e dalle pattuizioni delle cancellerie. Non è semplice frutto di operazioni diplomatiche. Non è il puro risultato che si ottiene da sforzi di buona volontà. Questi elementi sono pure necessari, ma come predisposizione all'accoglimento del dono di Dio. Da soli, otterranno al massimo il disarmo, non ta pace. Produrranno la coesistenza pacifica, non l'esistenza della pace.

La pace è "oriens ex atto", come la Chiesa. E come ci stiamo abituando a pensare alta "Ecclesia de Trinitate", così dobbiamo abituarci a pensare alla "pax de Trinitate". E come la Chiesa non è una realtà atemporale ma storica, non celeste ma inserita nel mondo, non utopica ma profetica... così deve essere la pace. E come la Chiesa, icona detta Trinità, è epifania e primizia del mondo nuovo come Dio lo ha progettato dall'eternità, così la pace sulla terra, icona della vita trinitaria, deve essere epifania e primizia della pace del mondo rinnovato.

Questo parallelo tra Chiesa e pace, caratterizza la spiritualità delta pace come spiritualità ecclesiale.

Cercare il contesto della più cordiale ecclesialità non è tentare un'operazione di assestamento aziendale.

Significa, invece, intuire che l'unica trama che può veicolare l'acqua della pace "oriens ex alto" è la trama ecclesiale, non tanto per le sue strutture, quanto per il suo essere "realtà di comunione".

Di qui, dovrebbero scaturire molteplici iniziative tutte da inventare, e che vanno dalla stimolazione nei confronti delle nostre comunità ecclesiali, al coinvolgimento "simpatico" dei nostri pastori, alta pressione rispettosa sui nostri vescovi perché siano più audaci in certe denunce e impegnino il loro magistero anche sul terreno difficile della pace, a una maggiore "parresia" delle nostre Chiese locali, alla riconduzione diuturna delle nostre realtà di base sul versante della implorazione, secondo la formula umile e coraggiosa del Card. Etchegherray: "Signore, dammi l'accortezza di spiegare bene che la pace non è così semplice come immagina il cuore, ma più semplice di quanto crede la ragione!".

E che la letizia della pace sia in fermento nella nostra comunità ecclesiale, è un segno dei tempi che con speranza dovremmo annunciare. Non è forse vero che per noi credenti d'occidente la pace è il nostro modo di costruire la liberazione?

2.5 Finalmente siamo arrivati all'ultimo momento della "lectio divina" della pace: la contemplazione. Che non e "stasi", ma "estasi" (ex-sta-sis), cioè movimento, esodo, sequela.

Sequela di Cristo, che significa camminare nella luce del Signore e nell'ascolto della sua Parola, con tutte le implicanze difficili del martirio. Ecco il discorso sulla mitezza, sulla nonviolenza attiva, sulla povertà come metodo, sul servizio, sulla partenza dagli ultimi, sul perdono come disarmo unilaterale (insegnatoci direttamente da Cristo, e così difficile da accogliere sia a livello personale, sia a livello internazionale).

Senza queste dimensioni, noi credenti diventeremmo solo banditori di pseudo-profezie, o di una pace "a basso prezzo", direbbe Bonhoeffer il quale parlava di "grazia a caro prezzo".

Sostare a Gerusalemme

3.1 Scegliamo anche qui un paradigma biblico tratto dal Vangelo di Luca: "I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per La festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava" (2,41-61).

L'icona di Gesù che rimane a Gerusalemme e che, nel tempio, ascolta e interroga, occupandosi delle cose del Padre suo, deve essere parabolica anche per noi, alla ricerca di uno stile che ci caratterizzi come operatori di pace.

Eccoci condotti, allora, alla dimensione dossologica del nostro impegno. Come telaio di questa seconda dimensione, assumo i tre pilastri che hanno Sostenuto l'incontro di preghiera del 27 ottobre ad Assisi: silenzio, digiuno, pellegrinaggio.

3.2 Anzitutto, il silenzio.

Gesù ascolta, e se rompe il silenzio è solo per interrogare, non per dare risposte. Mi sembra che ci sia qui la freccia stradale che ci indica una proiezione molto significativa sul piano dette nostre metodologie. Chi si impegna per la pace non è chiamato a emettere un rumore tra i tanti rumori attuati che parlano di pace. Non ha la vocazione a dire cose eclatanti, atte a conciliare il fascino della prima donna o il "look" del protagonista nel concerto degli "strumenti delta pace". Non è smanioso di emergere, dicendo ogni volta la sua su ogni problema di fondo o su ogni vicenda occasionale. Non ha paura di perdere il treno della popolarità, né si affanna a prendere tutte le coincidenze sotto la pensilina della cronaca. Non ama declamare la verità, rivestendola di arroganza. Predilige l'ascolto e la riflessione.

Il suo, però, non è un "silenzio-stampa", dettato cioè dal calcolo. Tantomeno è un silenzio prudenziale, pavido, bilanciato, turgido di compromessi. E' un silenzio che esplode, anzi, con audacia profetica, nella direzione della Parola rivelata. Diventa allora incontenibile: non imbavaglia la verità per paura di dispiacere ai potenti; non decurta la Parola per farla entrare nel clichè delle cautele carnali; non sterilizza il linguaggio per tener buoni quelli del Palazzo; non attenua le asprezze "irrazionali" del messaggio per timore di apparire ingenuo, ma lo trasmette per intero fino alle sporgenze del paradosso.

Il silenzio diviene così l'utero entro cui la Parola diviene carne, come nel grembo di Maria.

3.3 Dopo il silenzio, il digiuno.

Siccome nell'antichità era vietato digiunare di domenica, il digiuno è il segno della ferialità. Colloca pertanto la pace sul terreno banale e difficile dei giorni normali. Ed è questo della "ferialità" il digiuno più significativo che potremmo esprimere nel deserto del mondo, così pieno di "aspiranti al ruolo dì Dio".
Forse coinciderà per noi anche col digiuno della gloria e della cronaca. Ma se ne avvantaggerà la dossologia verso il Principe della pace.

3.4 E, infine, il pellegrinaggio.

Verso dove? All'interno della comunità ecclesiale e all'esterno, nello stile della missione.
Più precisamente: verso il cuore della gente, verso il cuore delle comunità cristiane che stanno nel "tempio", verso gli ultimi.

E' splendido quell'inciso di Luca che dipinge Gesù "seduto in mezzo".

Stare in mezzo alla gente. Per interrogarla, ponendole domande di fondo sul senso della vita. Per coscientizzarla facendo fermentare i germi di verità depositati nelle più profonde stratificazioni popolari. Per smuoverla, operando quegli smottamenti di terreno sul quale il fatalismo e il senso dell'ineluttabilità hanno sopraelevato edifici di inerzia.
Stare in mezzo alle comunità cristiane. Per animarle al coraggio. Per esortarle alla denuncia profetica. Per coinvolgerle nei processi di liberazione planetaria.

Stare in mezzo agli ultimi. Perché, partendo da essi, va riformulata la strategia di ogni movimento che si impegna per la pace. E' mettendosi in corpo l'occhio del povero che potremo ridisenare la cartina geografica dei luoghi dove oggi Cristo è crocifisso.
Se sapremo compiere questo pellegrinaggio verso la gente (scegliendo la dimensione popolare del nostro impegno), verso le comunità ecclesiali (portando al loro interno il soffio della universalità e della speranza) e verso gli oscuri domicili degli ultimi (rendendoli protagonisti del loro riscatto), allora si sprigionerà davvero, dai sotterranei della storia più che dai palazzi dei potenti, una incontenibile dossologia trinitaria.

Scendere da Gerusalemme

4.1 L'icona biblica che ci richiama la dimensione politica della pace e che traduce la coscienza in progetto, è quella del buon samaritano in viaggio sulla Gerusalemme-Gerico.

E' su quest'asse che si giocano i sogni diurni delle nostre utopie. E' l'asse che parte dalla Città Santa (Gerusalemme è la città del tempio; è il luogo dove si celebra l'ultima cena, dove si consuma la morte di Gesù e si realizza la sua risurrezione; è l'epicentro della pentecoste...) e conduce verso Gerico (verso l'ecumene, la storia, anzi la cronaca: cronaca nera, per giunta, che ha come protagonisti dei briganti, i quali spogliarono, percossero, lasciarono mezzo morto un uomo, simbolo di tutti gli oppressi della terra).
E' l'asse su cui la fede interseca la storia, la speranza incrocia la disperazione della terra, la carità s'imbatte con i frutti della violenza.

Tra i verbi che traducono i comportamenti concreti del samaritano ("lo vide, n'ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò te ferite, gli versò olio e vino, lo caricò sul suo giumento, lo portò ad una locanda, si prese cura di lui"), quello che mi sembra più espressivo è questo: "gli si fece vicino".

Farsi vicino a chi? Al popolo.

Eccoci condotti allora a quella che, secondo me, dovrebbe essere l'opzione fondamentale degli operatori di pace: farci vicini al popolo.

Il samaritano non lasciò il malcapitato sulla strada, per andare in città a denunciare l'accaduto alle forze dell'ordine. Non si recò agli sportelli della polizia per sporgere querela contro ignoti. Non andò a protestare contro le omissioni del Ministero degli Interni. Non lasciò boccheggiante sul sentiero verso Gerico quell'uomo mezzo morto per convocare una conferenza-stampa sul degrado etico della città, o sulle violenze del sistema, o sull'inadempienza dei poteri costituiti.

Forse, dopo, avrà fatto pure questo. Anzi, visto il suo zelo, c'è da pensare che in seguito, "il giorno seguente", abbia assolto anche a questo compito. Diversamente, avrebbe peccato per omissione di atti di ufficio.

Ma intanto, il gesto fondamentale che ritenne di compiere fu quello "di farsi vicino", e passare dal piano della denuncia a quello della costruzione diretta. La pace parte dal popolo e non dalle cancellerie. Dalle cancellerie semmai vi passa: ma per trovare le ratifiche, per ricevere il marchio di origine controllata.

L'intelligenza diplomatica e la ragione fredda porteranno allora a compimento ciò che la profezia creativa, che fermenta nel popolo, ha già indicato.

Laddove si scopre questa verità, è la democrazia tutta che avanza, sussulta, si migliora. Sicché la testimonianza, la solidarietà, la partecipazione, il coinvolgimento del popolo si pongono al servizio di un unico grande progetto storico da realizzare. Divengono i nuovi strumenti della politica. Gli impegni concreti da assumere con forza dovrebbero essere il riflesso di questa opzione di fondo. E quali sono?

Ne individuiamo cinque, o meglio proponiamo cinque aree:

4.2 L'area della educazione alla pace.

Forse potrà sembrare una forzatura, ma io considero che il discorso sulla educazione alla pace è il crinale, o se si vuole, la peripezia decisiva su cui ogni movimento si gioca la sopravvivenza.

Oggi stanno esplodendo numerose iniziative che hanno come scopo la promozione di una cultura della pace. Soprattutto nel mondo della scuola assistiamo a una fecondità di pubblicazioni e programmi, non gestiti più in termini di semplice trasmissione della cultura tradizionale. Un nuovo ecumenismo culturale si sta organizzando proprio attorno al tema della pace.

4.3 L'area della nonviolenza e della difesa popolare nonviolenta.

Si inserisce qui non solo un maggiore approfondimento concettuale della nonviolenza come valore di popolo, ma anche la comprensione delle metodologie nonviolente, in relazione con la fede.

L'irrobustimento che si compie nella nonviolenza tra la fede e la storia. Il ricongiungimento tra morale individuale e quella collettiva.

Si inserisce qui il lavoro di coscientizzazione popolare contro il commercio delle armi e la militarizzazione del territorio.

Si inserisce qui tutta l'azione educativa della base perché si accorga degli effetti disastrosi della violenza tecnologica. L'ecologia è un grosso capitolo del grande libro della pace.

4.4 L'area dei diritti umani e del rapporto Nord-Sud.

Lo spostamento dell'asse che spaccava l'Est dall'Ovest sulla demarcazione che divide il Nord dal Sud ci ha fatto prendere coscienza che mancanza di pace non è solo la guerra, ma la violazione dei più elementari diritti umani.

Entrano qui tutte le riflessioni sulla qualità della vita. Sullo sviluppo tecnologico. Sull'allargamento dello sguardo agli orizzonti della mondialità.

Sul permanere della logica del profitto che tende a riproporre, nei paesi poveri, fasti e nefasti dei paesi industrializzati. Sulla solidarietà con i paesi del Terzo Mondo che esige lo smascheramento del mercato delle armi. Sul Nuovo Ordine Economico Internazionale. Come anche sulla tragica situazione degli immigrati in casa nostra. Dobbiamo assecondare gli sforzi che vanno compiendo anche tante riviste missionarie divenute tribune implacabili contro le ingiustizie, e divulgare in mezzo al popolo le planimetrie di tutte le violenze, a partire da quelle che si consumano nel nostro territorio.

4.5 L'area della obiezione di coscienza.

Non tanto per ciò che immediatamente produce scombinando i calcoli del potere costituito, quanto per il contenuto di crescita popolare che essa racchiude.
Starei per dire che non è tanto l'obiezione di coscienza che ci interessa, quanto la coscienza dell'obiezione. Perché dietro le quinte di ogni obiezione c'è sempre una coscienza collettiva che matura.

4.6 L'area delle cesure difficili da ricomporre.

Tra testimonianza personale (ineludibile specialmente sulle scelte di sobrietà e di coerenza) e progetti sociali.

Tra impegno locale (con tutte le sue logiche di incarnazione e quindi, di vissuto spicciolo) e mutamenti globali.

Tra tensioni di solidarietà concreta (fatta di gesti di condivisione, di assistenza, di "olio e vino" sulle ferite) e politica.

Tra diritti dell'uomo (volti verso una nuova qualità della vita) e sviluppo appropriato.

E' qui, su queste cesure e su queste lacerazioni che dobbiamo chinarci per operare la ricomposizione o, se volete, per "fasciare le ferite".

Verso la Gerusalemme del cielo
5. "Non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura" (Eb. 13,14). La città futura è la Gerusalemme nuova, descritta nei capitoli finali dell'Apocalisse e vista come la dimora della pace.

C'è un inno bellissimo nella liturgia della Chiesa che comincia così: "Coelestis urbs Jerusalem, beata pacis visio". Città della Gerusalemme del cielo, tu sei uno stupendo spettacolo di pace!

Ecco la nostra ultima icona: quella utopica. La più bella. Perché è l'icona della speranza.
Di qui nasce tutta la forza che sostiene la nostra fatica di viandanti. Di qui si muove anche tutta la vergogna che ci deve fare arrossire ogni volta che l'ambiguità del nostro "martirio" ci fa tentennare di fronte alle "exousie" (onnipotenze) del mondo. Di qui trae origine un coraggio che si rinnova, nonostante la povertà delle realizzazioni, l'incompiutezza dei nostri disegni, e l'amarezza di dover constatare che, in fatto di pace, il "già" impallidisce sempre dinanzi al "non ancora".

Ma non dobbiamo aver paura. Un giorno godremo nella loro interezza di tutte quelle realtà che qui sulla terra siamo chiamati a far spuntare allo stato germinale e che ci sforziamo di far maturare nei segni: la pace, la fraternità, la giustizia, la libertà.
E' dalla Gerusalemme del cielo (nella quale entreremo 1' "ottavo giorno") che si deve scatenare l'empito entusiasta per ciò che agli occhi umani sembra incredibile, assurdo, irraggiungibile: la nonviolenza, il disarmo, l'unilateralità del disarmo, il perdono, la rinuncia evangelica, la povertà, la gratuità, la tenerezza...

Ci accorgeremo finalmente che la pace non è un'aspirazione, ma è una persona: Gesù Cristo, l'Emmanuele, il Dio con noi.

"Egli spezzerà l'arco detta guerra e annuncerà la pace alle genti. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna. E dominerà da mare a mare, dal fiume fino ai confini della terra." (Salmo 71).

La presenza di Maria, "gloria di Gerusalemme", il cui grembo materno, curvo come una vela, è segno del "già" sospinto verso il "non ancora", vuole essere anche l'icona del nostro pianeta gravido di speranza e proteso verso "cieli nuovi e terra nuova".

(Testo base del discorso pronunciato al Congresso nazionale di Pax Christi, a Rocca di Papa)

La Malaysia si propone al mondo come modello di paese musulmano progressista; una delle personalità più note del paese è una donna che da venti anni lotta per i diritti delle donne con l'organizzazione Sister in Islam.

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