Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mosè, ritratto di un legislatore
di Jacques Briend *



Fornire un ritratto di Mosè è un’opera rischiosa: non possediamo per crearlo che i soli elementi fornitici dalla Bibbia. Già vent’anni fa, R. Martin-Achard, un grande specialista dell’Antico Testamento, scriveva: «Esistono tanti ritratti di Mosè quanti sono gli autori che gli hanno dedicato uno studio». Può lo storico tracciarne una figura più obiettiva dopo aver esaminato tutti i testi che parlano di Mosè? Non è sicuro, perché è difficile ritrovare i momenti qualificanti di un’esistenza che una ricca tradizione ci presenta sotto molteplici prospettive.

Se non si considera il nome stesso di Mosè, che è molto probabilmente di origine egizia, si conoscono poche cose sul personaggio e sull'inizio della sua esistenza. Certamente si potrebbe citare qui il capitolo 2 del libro dell'Esodo che rievoca brevemente la sua infanzia e la sua adozione da parte della figlia del Faraone (Es 2,1-10). Un tale racconto non fa che tradurre secondo le categorie di pensiero degli antichi il singolare destino di Mosè e il ruolo della provvidenza divina, oltre al fatto che l'esposizione si modella su racconti dell'infanzia come quello di Sargon di Akkad, re mesopotamico (2334-2279 a.C.) che la madre aveva affidato al fiume in una cesta di vimini.

Il seguito del testo biblico (Es 2,11-22) ci mostra un Mosè cresciuto e che prende iniziative a favore dei suoi fratelli di razza, ma questo cambia presto bruscamente. Mosè è costretto a lasciare l'Egitto e a fuggire in Madian, una terra straniera, nella quale si sposa. In violento contrasto con questa sua volontà di insediarsi come capo, il capitolo 3 dell’Esodo narra come, a partire dall'episodio del roveto ardente, Dio scelga Mosè per far uscire il popolo ebreo dall'Egitto, perché Dio ha inteso il grido del suo popolo. Mosè riceve da Dio una missione e nello stesso tempo si interroga per sapere come il popolo accetterà di seguirlo. Di fronte al progetto di Dio, Mosè è dapprima sensibile alle difficoltà e alle obiezioni che gli verranno da parte del popolo.

Capo del popolo e intercessore

In realtà, a più riprese, l'autorità di Mosè si scontra con le proteste e le lamentazioni del popolo per tutta la durata del cammino nel deserto. Nonostante l'uscita dall'Egitto che testimonia la potenza del suo Dio, la contestazione sembra aggravarsi, si diffonde. A partire da Es 15,22, il popolo mormora contro Mosè perché non ha acqua da bere e Mosè invoca Dio; poco più tardi Mosè ed Aronne sono accusati di avere trascinato gli Israeliti nel deserto per farli morire di fame (Es 16,3). Un'altra volta, in Es 17, 1-7, Mosè è accusato di far morire il popolo di sete. La situazione è così grave che Mosè invoca Dio e dice anche che il popolo ha intenzione di lapidarlo. Questa contestazione si ritrova anche nel libro dei Numeri che descrive la prosecuzione della marcia nel deserto, interrotta dopo Es 19. In questi racconti, Mosè si fa il portavoce del popolo presso Dio. A più riprese, quando la situazione è particolarmente grave, egli assume il ruolo di intercessore. È il ruolo che esercita in occasione dell’episodio dell’adorazione del vitello d'oro (Es 32). Mosè riceve i rimproveri di Dio e si sforza di placare la collera divina con una preghiera molto argomentata. In primo luogo, egli ricorda a Dio l'evento dell'uscita dall'Egitto in cui si è manifestata la sua potenza, e che Egli non può rinnegare, poi evoca, in caso di una punizione radicale, la reazione degli anziani: che cosa penseranno di questo Dio che fa morire coloro che ha fatto uscire dal paese d'Egitto? Infine si richiama alle promesse fatte da Dio ai patriarchi (Es 32,11-14); e Dio rinuncia a castigare il popolo.

Mosè interviene dunque presso Dio in favore del popolo e, pur riconoscendo la colpa del popolo, rimane solidale con coloro che Dio gli ha affidato: egli domanda a Dio di perdonare il peccato del popolo; se Dio non lo farà, esige che Dio lo faccia morire, anche se lui, Mosè, non ha partecipato alla costruzione del vitello d'oro (Es 32,32). Questo ruolo di intercessore - che i racconti gli attribuiscono con grande continuità - Mosè lo trova pesante da sopportare e non esita a dirlo a Dio. L'esempio più chiaro ci è dato quando il popolo nel deserto si lamenta di non avere carne da mangiare e di nutrirsi solamente della manna (Nm 11,49). Mosè sente il pianto del popolo e dichiara a Dio: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, tanto che tu mi hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? O l'ho forse messo al mondo io, perché tu mi dica: Portatelo in grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Da dove prenderei la carne da dare a tutto questo popolo?... Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto...!» (Nm 11,11-15). Sbalorditiva la richiesta di Mosè che non esita a dichiarare che Dio stesso deve occuparsi personalmente di questo popolo! Attraverso le parole e le immagini usate, Dio è agli occhi di Mosè la madre del popolo e spetta a lui nutrirlo. Un intervento così forte di Mosè è raro; non ha paralleli, ma rivela la vivacità del dialogo posto sulle labbra di Mosè.

Mosè, il legislatore

Per Mosè, Dio rimane il vero capo del popolo, cosa che non toglie nulla all'autorità che gli è propria e che è grande. La prova migliore è che Mosè è l’uomo dell'Alleanza e l'uomo della Legge. Solo Mosè sale, chiamato da Dio, sulla montagna (Es 19) ed è lui che legge al popolo il rotolo dell'Alleanza e gli comunica tutte le parole dette da Dio (Es 24,3-8); è sempre lui che prende il sangue dei tori per versarne una metà sull'altare che rappresenta Dio e l'altra metà sul popolo dicendo: «Questo è il sangue dell'Alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole». Se si mette da parte il Decalogo, in cui Dio si rivolge direttamente al popolo (Es 20, 1-2), le leggi sono trasmesse da Mosè ai figli di Israele (Es 20,22; Lv 1,1; Nm 36,13; Dt 28,69). Da un capo all'altro della Torà, Mosè è colui che trasmette le parole dell'Alleanza o le parole della Legge. Queste parole concernono tutti i campi dell'esistenza, compreso quello del culto e della sua organizzazione, benché Mosè non sia sacerdote. Questo denota come, in un certo senso, Mosè prevalga su Aronne, il capostipite del sacerdozio israelita. In ogni caso, la tradizione iconografica presenta Mosè come colui che riceve da Dio la Legge.

Mosè, intimo di Dio

Al di là di tutto quello che si può dire su Mosè e sul ruolo che assume nella nascita del popolo di Israele, bisogna insistere sui suoi legami con Dio, che la tradizione ha tramandato in maniere diverse. In Es 33,7-11, si scopre un Mosè che entra nella Tenda del convegno per consultarvi Dio. Il testo insiste sul fallo che Dio «parlava con Mosè», gli «parlava faccia a faccia, come un uomo parla con un altro». Quando Miriam ed Aronne criticano Mosè a proposito del suo matrimonio con una donna etiope, il testo non dice nulla della reazione di Mosè, ma fornisce dapprima la riflessione di un redattore: «Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra» (Nm 12,3). Poi viene la reazione di Dio nella Tenda del convegno alla presenza di Mosè, Aronne e Miriam in un brano che merita di essere riportato per intero: «Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca io parlo con lui, in visione e non con enigmi ed egli guarda l'immagine del Signore. Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo Mosè?» (Nm 12,6-8). Che cosa si può aggiungere ad una tale descrizione? Mosè è «l'uomo di Dio» (Dt 33,1) nel senso più completo dell'espressione; egli è più che un profeta, anche se spesso ha ricevuto questo titolo (Os 12,14; Dt 18,18). Alla fine del libro del Deuteronomio, dopo aver ricordato la morte di Mosè, si afferma con forza: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia» (Dt 34,10). Si ha in questa affermazione come la traccia della statura di questo Mosè di cui è difficile fare un ritratto.

* Esegeta dell’Antico Testamento, Institut Catholique di Parigi

(da Il mondo della Bibbia, n. 51)

L’educazione interculturale in Italia corre spesso il rischio di una riduzione, di venire associata e confinata esclusivamente all'accoglienza degli alunni stranieri nella scuola, mentre meno presente è, invece, la riflessione sulle opportunità di sviluppare competenze interculturali in ambito educativo...

Gesù Cristo unico Signore
nella fede dei primi cristiani

di Daniel Marguerat
(Facoltà di teologia protestante – Università di Losanna)

Come hanno confessato i primi cristiani la signoria di Gesù? Cosa esprimevano quando dicevano «Gesù Signore»? A quale vocabolario, a quali immagini, a quale immaginario collettivo hanno attinto per dire la grandezza del loro maestro?

A questa questione non è nata tutta d'un tratto, immediatamente, come se confessare Gesù Signore si fosse imposto per una necessità imperiosa. È stato necessario un lungo cammino perché scaturisse una parola davanti all'Indicibile. I primi cristiani non hanno prodotto una sola parola, ma una profusione di parole, talmente l'indicibile che avevano da dire non poteva essere racchiuso in una formula unica. Questo Indicibile, questo sovrappiù di senso da esprimere, non era ciò che la Chiesa antica ha formulato molto più tardi con i termini di «unità senza confusione di due nature in una sola persona» (come farà il concilio di Calcedonia). Il mistero da esprimere non era: «Com'è accaduto che un uomo fosse Dio?»; ma: «Com'è accaduto che nella vita di quell'uomo, Dio abbia detto la sua ultima parola?». E per tentare di avvicinarsi a questo mistero, che doveva svelare il segreto di Gesù senza mettere in pericolo il monoteismo, la fede dei primi cristiani ha prodotto una profusione di parole. Il Nuovo Testamento ci dà accesso a questa splendida fioritura di linguaggi che dicono la signoria di Gesù. Questa fioritura denota l'intensa creatività teologica di cui il primo cristianesimo fu teatro.

La creatività dei primi cristiani si era resa necessaria perché Gesù non si era preoccupato di precisare i suoi titoli, non aveva posto limiti ai tentativi di definir

e la sua identità. Il Nuovo Testamento abbonda certo di titoli cristologici (Messia, Figlio di Dio, Figlio di Davide, Signore, Figlio dell'uomo), ma per lo più nascono dalla fede post-pasquale.

In seguito, quando il maestro non era più con loro, i discepoli hanno potuto mettere in parole ciò che egli era stato per loro. Si può notare infatti che, a parte il quarto Vangelo (più tardivo), quasi mai Gesù fa dichiarazioni di questo genere: «Io sono il Figlio di Dio» o «Io sono il messia». Al contrario, è lui che interroga: «E voi, chi dite che io sia?» (MC 8,29). La fede dei primi cristiani s'inscrive nel solco aperto da questa domanda, e come un tentativo multiforme di rispondervi. Confessare Gesù Signore non implicava, all'indomani della Pasqua, un lavoro archeologico di memoria per esumare quello che il maestro aveva detto di sé; si trattava piuttosto d'esprimere ciò che egli rappresentava per loro, e di trovare le parole per dirlo. Queste parole, i primi cristiani le hanno prese in prestito dal loro ambiente religioso, dalla loro cultura, dal loro mondo.

Ma la diversità di forme nella confessione della signoria di Gesù può anche spiegarsi in altri modi. Tra Gesù e le prime comunità che si radunano nel suo nome si interpone lo stupore della Pasqua. Secondo la percezione unanime degli evangelisti, la Pasqua ha preso in contropiede gli amici di Gesù, cambiando il loro sentimento d'insuccesso in speranza, confermando che Dio era dalla parte della vittima immolata sul legno. Pasqua segna l'irruzione dello Spirito nella comunità dei credenti.

Poiché la fede dei primi cristiani è frutto del lavoro dello Spirito, non bisogna essere sorpresi della diversità dei linguaggi usati. Lo Spirito Santo non è forse la firma del lavoro di Dio nel cuore di ciascuno? La stessa convinzione attraversava tutte le diverse correnti del cristianesimo primitivo: tutto ciò che si può dire del Cristo Signore deve verificarsi nella vita dell'uomo di Nazareth. I parametri sono così posti, irreversibili: la confessione di Cristo non uscirà dai limiti che le sono stati assegnati dal gesto dell'incarnazione. Il Cristo è Signore nell'esatta misura in cui Gesù, il Galileo, lo è stato.

Come cogliere la confessione di Gesù Signore nel Nuovo Testamento? Quattro vie d'accesso sono possibili; io elaborerò l'ultima.

Sino al 1950, si è creduto di poter parlare di «una» cristologia nel Nuovo Testamento. Uno sguardo più attento ha fatto concludere che riunire in uno stesso sistema dottrinale il modo differente con cui Paolo, Matteo, Giovanni e gli altri parlavano di Cristo, mutilava la particolarità di ciascuno.

Le teologie del Nuovo Testamento scritte negli anni Sessanta-Ottanta hanno eliminato questo sogno unitario; si parlerà così delle cristologie di Matteo, Marco, Luca, Giovanni, Paolo, ecc.; al limite, si può dire che ci sono offerti 27 piccoli trattati cristologici, quanti sono gli scritti del Nuovo Testamento. La coerenza dell'insieme sparisce a profitto di un quadro frantumato. Come mantenere la tensione tra unità e pluralità?

Nè i differenti autori neotestamentari danno allo stesso titolo il medesimo significato nei loro diversi scritti. Risultato: le stesse definizioni cambiano di senso seguendo gli autori biblici, e la signoria di Gesù non viene detta solamente attraverso il titolo di Signore.

È stata proposta una quarta via: seguire le «traiettorie». Esisterebbe una continuità teologica reperibile nei diversi scritti del cristianesimo primitivo, che può essere ricostruita; è identificabile quando diversi scritti attestano dall'uno all'altro un fenomeno di continuità e di ripresa. Si può parlare di una traiettoria giovannea o d'una traiettoria paolina.

Io m'interesso al concetto di traiettoria, ma per applicarla differentemente ai grandi orientamenti della fede dei primi cristiani. Seguendo quali linee di forza questi hanno confessato Gesù Signore? Si tratta, in qualche modo, di utilizzare uno scanner storico per tentare di identificare le linee di fondo che corrono sotto gli scritti del Nuovo Testamento. Si eviterebbe così una lettura frammentaria del primo cristianesimo ritrovando, dietro gli scritti, le convinzioni che hanno prevalso all'origine.

Le traiettorie sono quattro. La prima celebra in Gesù Colui che verrà. La seconda vede in lui l'uomo dai poteri soprannaturali. La terza proclama il Giusto rivelato tra i morti. La quarta si interessa al Gesù sapiente. Si tratta di quattro linee di forza che, a monte della redazione degli scritti del Nuovo Testamento, contribuiscono a costituire all'origine la fede cristologica dei primi cristiani. Queste quattro linee si sono costruite con l'aiuto di categorie religiose disponibili nell'ambiente culturale in cui vivevano i cristiani. Prima di depositarsi negli scritti (Vangeli e lettere), esse si sono articolate l'una all'altra, sovente legate, talvolta fuse.

Questa traiettoria è la più antica; ha avuto per effetto di spingere a raccogliere le parole di Gesù per farne memoria. Le rappresentazioni che sono all'origine di questa traiettoria sono da ricercarsi nell'attesa dei circoli apocalittici nel tardo giudaismo dell'era cristiana: è l’attesa intensa di un intervento liberatore che assicurerà la fine della dominazione degli empi sulla terra d'Israele, e secondo scenari vari, che installerà la sovranità d'Israele sulle nazioni del mondo.

La cristianità primitiva non ha solamente visto in Gesù la prefigurazione di colui che verrà ad animare la scena della fine dei tempi; essa ha identificato in Gesù l'atteso. L'attesa giudaica s'è dunque trovata modificata; la fine dei tempi non vedrà apparire una figura immaginata, supposta, ma vedrà venire colui che si è fatto conoscere nei tratti del Nazareno. È per questo che nella liturgia appare molto presto l'invocazione «Signore, vieni! » (Marana tha: I Cor 16,22; Ap 22,20).

La tradizione evangelica ci trasmette l'immagine di uno scenario della fine dei tempi, con sconvolgimenti cosmici, come i giudeo-cristiani se li rappresentavano. Le parabole della venuta del Regno richiamano alla vigilanza davanti all'ultima scadenza, specie nel libro dell'Apocalisse. Il titolo cristologico decisivo è quello di «Figlio dell'uomo».

Un'importanza cruciale è qui accordata alle parole di Gesù. Si comprende il perché: sono le parole pronunciate da colui che, alla fine dei tempi, interverrà come giudice del mondo. Si tratta sin da ora di custodire con cura le parole di colui che, al momento della sentenza finale, giocherà un ruolo determinante. «Io vi dico: chiunque si dichiarerà per me davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo si dichiarerà per lui davanti agli angeli di Dio; ma colui che mi avrà rinnegato davanti agli uomini sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio» (Lc 12,8-9)

Una tale speranza non sorge a caso. Ci si può fare un'idea del luogo sociologico dove è stata coltivata? Lo spazio privilegiato di questa confessione del Signore dell'avvenire mi parrebbe essere il circolo millenarista, il gruppo di credenti che coltiva l'attesa del cambiamento dei tempi. La sua speranza nel futuro gli permette di sopportare la durezza del presente, in una società che nega gli ideali cristiani e sostiene il trionfo del male. I cristiani attendono qui, con terrore e speranza, il crollo di un mondo che nega Dio e la vittoria di colui che detiene la promessa di pace.

La società antica dava molta importanza e prestigio a coloro che si chiamavano «uomini divini»: guaritori, maghi, astrologi. In un modo o in un altro, dicono, i loro poteri soprannaturali testimoniano un legame particolarmente stretto con il divino. Parlare di un Gesù guaritore, d'un Gesù esorcista, d'un Gesù dai poteri meravigliosi, era per i primi cristiani partecipare al flusso dei racconti di miracoli attribuiti agli uomini divini.

Nei primi secoli dell'era cristiana, il mercato religioso si faceva molto concorrenziale, e quindi ogni gruppo sviluppava una propaganda missionaria in cui erano al primo posto i miracoli del suo eroe. La narrazione del miracolo era raccontata seguendo una forma stereotipata che si ritrova anche nel Nuovo Testamento. Ognuno si sforzava di vantare e di ingrandire gli atti di potenza del guaritore nel quale credeva, come nel culto degli dei guaritori, nella rilettura della vita di Mosè, nella biografia dei saggi che fanno miracoli o nei racconti dei rabbini guaritori.

Senza dubbio Gesù di Nazareth fu un grande guaritore. La tradizione evangelica abbonda dì narrazioni di guarigioni che gli sono attribuite. L'insistenza che gli evangelisti mettono nel raccontarle (in primo luogo Marco), provano a quale punto importava loro di mostrare come Gesù prendeva a carico la situazione precaria degli altri. Essi hanno raccontato anche dei piccoli miracoli, perché quello che li interessava non era la spettacolarità1 ma il modo con cui Gesù aveva rimesso in piedi gli esseri abbattuti per la malattia: «Andarono... nella casa di Simone e Andrea. Ora la suocera di Simone era coricata, aveva la febbre, e subito parlarono di lei a Gesù. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendole la mano: la febbre la lasciò ed ella si mise a servirli» (Mc 1,29-31).

Non è la dimensione del futuro che qui interessa, come nella precedente traiettoria. Al contrario, la sofferenza è percepita e alleviata nel presente. Ma perché richiamarlo, visto che Gesù non c'è più? In effetti, ripetere i racconti dei miracoli non mirava a commemorare un passato glorioso ma compiuto, dove il Figlio dell'uomo alleviava la sofferenza dei corpi ammalati. È invece una forma di protesta contro il male. La comunità credente proclama così che la sofferenza non è una fatalità per l'individuo; essa sfata il mondo richiamando che Dio si mette dalla parte di colui che soffre, e non dalla parte della sofferenza contro l'umanità.

Il luogo della confessione di fede di Gesù guaritore? È il gruppo terapeutico, dove i credenti vivono la convinzione che la forza di guarigione di Cristo è a tutt'oggi operante quando il Signore è invocato. La prima Lettera ai Corinti (12, 9-10) iscrive il dono di guarire tra i doni concessi dallo Spirito alla Chiesa; questa forza non era riservata a dei personaggi carismatici straordinari, ma rimessa alla comunità, come una delle caratteristiche dell'agire di Dio nel suo seno. In ogni caso ciò che si celebra è una signoria di Gesù che rinuncia al linguaggio del potere per manifestare la sua autorità nell'amore offerto gratuitamente ai sofferenti.

La nozione d'esaltazione escatologica del giusto, è una delle prime categorie alle quali hanno fatto ricorso i primi cristiani per trasmettere il mistero di Pasqua. In seno al giudaismo, in effetti, la speranza della resurrezione dai morti alla fine dei tempi non rispondeva a una preoccupazione di vita post mortem. La questione in gioco non era di sperare un supplemento di vita per i morti, ma d'essere certi che sarebbe stata loro resa giustizia da Dio. Nel libro di Daniele e in Maccabei, la resurrezione dei morti permette la riabilitazione dei martiri morti per fedeltà a Dio. Ugualmente, i salmi del giusto sofferente (in primo luogo il Salmo 2) esprimono la certezza che Dio non abbandona i suoi alla vergogna e all'aggressione dei cattivi.

La croce è così vista come l'abbassamento supremo del giusto, e la Pasqua rende noto che Dio lo ha accolto. La resurrezione di Gesù manifesta, già da ora, che Dio è solidale con la vittima appesa al legno. Una tale comprensione va evidentemente a mettere l'accento sulla sofferenza del giusto e sul suo valore espiatorio; la morte di Gesù è compresa come una morte «per noi», una morte liberatrice, una morte da cui scaturisce una parola di perdono. «Se dalla tua bocca, tu confessi che Gesù è Signore e se nel tuo cuore tu credi che Dio l'ha risuscitato dai morti, tu sarai salvato» (Rm 10,9). Il primo posto nella memoria cristiana non è accordato alle parole del giudice degli ultimi tempi, nè al ricordo degli atti di compassione; la memoria si concentra sulla fragilità di quest'uomo e la sua accettazione della sofferenza futura.

I luogo dove si fissa la memoria del giusto riabilitato da Dio non è il rapporto maestro-allievo, nè il rapporto malato-terapeuta, ma la comunità di riconciliazione. Il «per voi» della croce è ritualizzato nel corso della celebrazione della Cena, dove ciascuno è chiamato ad accogliere il dono della grazia e a confermare il suo posto nell'alleanza. Paolo ha magnificamente formulato l'importanza di questo spazio di riconciliazione parlando della Chiesa come «corpo» del Signore: essa diviene il luogo dove, per i legami che si tessono gli uni con gli altri, Cristo prende forma nel mondo. La traiettoria del giusto esaltato non coincide immediatamente con quella dell'uomo dotato di poteri soprannaturali: d'un lato un itinerario della sofferenza dove la fragilità fa senso, dall'altro il potere carismatico di realizzare grandi fatti. Una delle più grandi sfide lanciate alla riflessione teologica nella Chiesa delle origini fu precisamente d'articolare queste due traiettorie, a prima vista contraddittorie. Questa sintesi fu opera della seconda generazione cristiana.

Paolo afferma che la potenza di Dio non si mostra che nella miseria di un Crocefisso: «I giudei domandano dei segni, i greci ricercano la sapienza; ma noi, noi predichiamo un messia crocifisso, scandalo per i giudei, follia per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, tanto giudei che greci, egli è Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1,22-23). Marco, creando il genere letterario del Vangelo, reinterpreta una forte tradizione di miracoli in supporto ad una teologia della croce. Giovanni mostra come il più grande dei miracoli, rendere la vita a Lazzaro, conduca Gesù a perdere la sua.

Paolo dice di Cristo che è «la sapienza di Dio». La formula non è scelta a caso. Tutti i cristiani di origine giudaica, cresciuti in seno al giudaismo di lingua greca, conoscono l'importanza data alla sapienza nella riflessione della sinagoga. Ne possiamo oggi cogliere sempre più l'importanza. Affermare che Gesù è «sapienza di Dio» vuol dire entrare in pieno in un dibattito dove si cerca chi possa essere colui che detiene la sapienza che fa vivere. Da una parte la sinagoga vive della convinzione che la saggezza umana è emanazione della sapienza divina. D'altra parte, la sophia (sapienza) è divenuta una figura mistica, celeste che media l'agire di Dio. L'inno di Giovanni 1,1-18 è impregnato di questa meditazione giudaica sulla sapienza: vi si vede bene sia chi crea il mondo («tutto è fatto per mezzo di. lui») sia l'ispiratore della Torah, la legge.

Nella memoria cristiana, Gesù prende la figura del sapiente. Il suo insegnamento abbonda di forme letterarie di tipo sapienziale: sentenze, proverbi, parabole, paradossi escatologici, ecc. Non c'è che da citare il paradosso «i primi saranno gli ultimi» oppure «chi si esalta sarà abbassato» per convincersene. Formule simili si trovano presso i rabbini.

Ma più ancora, è tutto il destino di Gesù che è visto come la sapienza che viene dal mondo di Dio, che condivide la condizione umana e poi torna alla sua dimora celeste. Si riconosce questo movimento di discesa/salita nel sottofondo dell'antico inno citato da Paolo nella Lettera ai Filippesi (2,6-1): «Lui che è di condizione divina non ha considerato come tesoro geloso l'essere uguale a Dio...». Si ammira una volta di più l'estrema audacia dei cristiani di quel tempo, che non esitavano a usare una struttura di pensiero forgiata dalla riflessione giudaica della sapienza per fare comprendere l'inaudito dell'incarnazione. Stessa constatazione per l'inno di Colossesi 1,12-20. Il luogo di questa riflessione è la scuola, dove si preserva l'insegnamento della sapienza del maestro, ma anche la comunità mistica, dove si esalta la comunione con colui che è l'incarnazione della sapienza eterna di Dio.

Le quattro traiettorie che ho delineato valorizzano, ciascuna, una dimensione di Gesù Signore. Esse non utilizzano lo stesso linguaggio. Il distinguerle permette di ben misurare le differenti sfaccettature della signoria riconosciuta al maestro dai primi cristiani.

Messe a confronto per esempio con la questione della sofferenza, hanno un'eco differente. Seguendo la prima traiettoria, si confessa la signoria di colui la cui venuta permetterà alla fine di fuggire ai mali del presente. La seconda permette di supplicare il guaritore compassionevole di prendere in carico la tristezza umana come ha fatto altre volte. Seguendo la terza si celebra il giusto la cui morte ci immette in una comunità di riconciliazione. La quarta traiettoria infine ci richiama il passaggio nel nostro mondo di colui nel quale Dio ha abitato la nostra condizione umana sin nella sua precarietà estrema. Gli scritti della seconda e terza generazione di cristiani hanno operato tra queste diverse traiettorie degli incroci e delle sintesi. Paolo mette in evidenza la croce come luogo della giustificazione del peccatore e come rivelazione dell'insondabile sapienza di Dio. Marco rilegge i miracoli a partire da una teologia della croce. Matteo dipinge Gesù come l'uomo dai poteri soprannaturali e come giudice della fine dei tempi. Giovanni tira tutte le conseguenze possibili di una cristologia della sapienza.

Le lettere ai Colossesi e agli Efesini rileggono il «mistero nascosto fin dal principio» (che è il radunarsi nella Chiesa dei giudei e dei pagani) nell'esaltazione di Cristo nel mondo. Solo l'Apocalisse di Giovanni sembra navigare in un'unica direzione, ma la lettura dell'avvenire ingloba la fragilità del Crocifisso (Ap 5,5-6): è all'«agnello immolato», dice il veggente dell'Apocalisse, che è stata rimessa l'autorità suprema. Per noi, oggi, chiarire le linee di forza che sottendono gli scritti del Nuovo Testamento ci permette di ritrovare le dimensioni nascoste della signoria di Gesù. Questo ci conduce così a costatare come le traiettorie si incrocino in composizioni ogni volta originali. I primi cristiani hanno adottato il contrario di una lingua fissa, di una espressione rigida. Un esempio da seguire.

(da Mondo e Missione, aprile, 1999)

Giovedì, 27 Aprile 2006 01:49

Riappropriamoci del futuro (Marcelo Barros)

Riappropriamoci del futuro
di Marcelo Barros

In quasi tutto il mondo, gennaio è il mese che avvia l'anno. La gente si scambia auguri, auspicandosi a vicenda che l’anno nuovo non sia uguale a quello che è appena terminato ma mi­gli ore, pieno di pace e gioia per tutti.

Un tempo, le comunità tradizionali solennizzavano questo nuovo inizio con riti in cui tutto ciò che era "invecchia­to”, nella vita delle persone (e l'anno ap­pena concluso lo era) veniva buttato via o smesso. A volte, il rito consisteva in un pellegrinaggio a una montagna, o in un bagno rituale nelle acque di un fiume o del mare. La gente si rinnovava per es­sere pronta ad accogliere il nuovo dalle mani di Dio.

Se penso agli odierni "riti” per il nuo­vo anno, essi mi appaiono segnati quasi esclusivamente dal consumismo più sfre­nato, che accentua disuguaglianze e in­giustizie. E allora, mi domando: che spe­ranza possiamo avere che il nuovo anno sia pieno di pace per la terra tutta e di fe­licità per tutti coloro che la abitano?

Oggi, in Brasile è in atto una crisi po­litica che tocca tutti. Il governo aveva promesso di "rinnovare" il paese, adot­tando un modello economico in grado di eliminare disuguaglianze sociali e ingiustizie strutturali, ma non sembra ca­pace di far decollare tale modello.

Per quanto riguarda il mondo intero, la situazione non mi sembra diversa: do­po tante promesse e piani decennali, l'Onu un'organizzazione dominata dalle nazioni ricche - "si umilia" e am­mette di non sapere come fare a fermare - o anche solo diminuire - la povertà e la miseria che ancora affliggono gran parte dell'umanità. Nel frattempo, con­tinua imperterrito lo scempio fatto del­la natura, che si traduce in disastri che colpiscono in particolare i più poveri e marginalizzati.

Questo stato di cose non fa che diffondere spirito di rassegnazione, mancanza di speranza e apatia socio-po­litica. E mentre alcuni gruppi, in preda alla disperazione, ricorrono a forme de­leterie e ingiuste di protesta politica (quali il terrorismo e la violenza di stra­da), molte persone, oneste e tranquille, cercano una realizzazione personale ri­fugiandosi in qualche intimo androne della propria vita individuale.

Se questo è il quadro generale, allo­ra si fa sempre più urgente il coraggio di fare una opzione fondamentale di vi­ta tale da poter riorientare la nostra spe­ranza.

L'aver trasformato i paesi ricchi - quelli del primo mondo, tanto per in­tenderci - in megalattici e lussuosissimi shopping centre non ha garantito la pa­ce né procurato felicità. Per contro, pur privi di tutto, i poveri del sud del mon­do non solo continuano a mostrare una esuberanza di vita, un carico di allegria e una capacità di sopportazione che ri­sultano inconcepibili a coloro che nuo­tano nel danaro, ma stanno sviluppando una vera e propria "scienza della resi­stenza", che li porta a cercare sempre nuovi cammini.

In molti paesi del sud del mondo si sta imponendo una economia di solida­rietà, definita anche "economia sociale", economia popolare", “economia del prossimo”... Si tratta di un modello eco­nomico che, noi, considerando l'altro un concorrente, ma un partner e un colla­boratore, favorisce la cosiddetta "pro­prietà sociale" (tipica delle società tradi­zionali e delle cooperative), prepara gruppi all'autogestione e privilegia sia il consumo critico che il mercato equo e solidale.

Sole le persone e i gruppi che accet­tano questo spirito di condivisione po­tranno esperimentare la verità del detto neotestamentario: «C'è più gioia nel da­re che nel ricevere» (Atti 20,35). Solo es­si potranno godere della vita e della pa­ce che sono il frutto della giustizia. E, fa­cendo gli auguri al proprio vicino, po­tranno fare proprie le parole di un'anti­ca benedizione irlandese:

Che il cammino sia lieve ai tuoi piedi
e la brezza soave alle tue spalle.
Che il sole illumini il tuo volto,
la pioggia cada leggera sui tuoi campi.
Fino ci quando ti rivedrò di nuovo,
Dio ti protegga nel palmo della sua mano.

(da Nigrizia, gennaio 2006)

Antichità cristiana…
intorno al 1000 e… dopo
di Franco Gioannetti

Anselmo d’Aosta dice che la verità è piantata da Dio nell’uomo.

Bernardo di Chiaravalle coglie il divino in un impeto d’amore.

Ildegarda di Bingen sente molto il suo influsso.

Ugo e Riccardo di San Vittore accolgono il concetto di Fruitio divina che esprime il contatto con il divino, la pienezza di vita, la liberazione dai limiti individuali.

Domenico di Guzman e Francesco d’Assisi indicano non solo la contemplazione del Cristo ma anche la sua imitazione; la salvezza consiste nell’unione con Dio resa possibile a tutti in Gesù fatto uomo.

Meister Eckart, in un’epoca di rottura tra teologia speculativa e vita spirituale, spinge la relazione tra Dio e l’uomo fino all’identità. L’anima, dice, è un’intima scintilla già unita a Dio nel’eterno principio del mondo, è l’organo della contemplazione intuitiva, ma perché si possa comprendere completamente Dio, è necessario lo svuotamento dell’io, l’abbandono totale.

Susone parla di gioia amorosa verso la Sapienza eterna; Giovanni Taulero si muove su una linea etico-volontaristica.

Ruusbroec parla dell’uomo che, grazie alla potenza del Cristo, gode della pienezza dell’unione con Dio.

Nel secolo XV l’umanesimo invita a guardare il mondo come la casa di Dio mentre l’umanità di Cristo spingerà alla consapevolezza della presenza amorosa di Dio.

Nel 1500 Sebastian Frank parla di Dio presente nel cuore di ogni uomo per illuminarlo con il suo verbo e per guidarlo con il suo spirito.

L’età moderna verdà poi Teresa di Gesù e Giovanni della Croce ed il nascere della mistica dell’azione.

L’esperienza poi di Ignazio di Loyola parte dalla convinzione che lo spirito di Gesù è al di dentro di ogni individuo.

Tale percezione mistica spinge l’apostolo a vedere tutte le attività in rapporto alla loro fonte divina.

Francesco di Sales tenta di presentare tutti gli aspetti di un amore di Dio da vivere in tutti gli stati di vita e così la mistica laicale, trascurata durante tutto il medioevo, inizia i suoi timidi passi. Mentre le comunità di Vincenzo dè Paoli e di Lonise de Marillac vivranno la mistica dell’azione come imitazione delle azioni di Cristo.

Per Pietro de Berulle le opere di Gesù sono presenti nella vita della Trinità, quindi sono possibili a tutti i credenti.

B. Pascal tenta l’unificazione tra scienza e fede, intelletto e fede.

La condanna del quietismo molinista nel 1600 e di Fenelon nel 1700 relegheranno la mistica ad un fatto marginale.

Giovedì, 27 Aprile 2006 01:30

La madre del mio Signore (Alberto Valentini)

La madre del mio Signore
di Alberto Valentini


A prima vista la visitazione sembra secondaria rispetto all’annunciazione tanto più se ci si limita, come nel nostro caso, ai soli versetti Lc 1, 39-45.

Le cose, in realtà, non stanno così, sia dal punto di vista narrativo e strutturale, sia a livello tematico

Sul piano della narrazione, se è vero che la visitazione non si spiega senza l'annunciazione, è vero in qualche misura anche il contrario: senza l'incontro con Elisabetta l'annuncio a Maria resta quasi sospeso e incompiuto.

Dal punto di vista della struttura la visitazione conclude il dittico degli annunci, a Zaccaria (1,5-25) e a Maria (1,26-38), ed opera la transizione a quello delle nascite di Giovanni (1,57-79) e di Gesù (2,1-21).

Sotto il profilo tematico la visita ad Elisabetta conferma ed esplicita la ricchezza dell'annuncio a Maria, che non di rado - proprio a motivo della sua importanza - viene estrapolato dal contesto, con la conseguenza di mortificarne gli sviluppi e il dinamismo salvifico, nonché gli echi nella comunità ecclesiale.

La visitazione, che nella tradizione esegetica non ha mai goduto del favore riservato all'annunciazione, a uno studio attento rivela notevole densità ed aspetti solitamente trascurati se non addirittura ignorati e misconosciuti.

Ovviamente, come ogni altro testo, la pericope va studiata non solo in se stessa, ma alla luce del contesto immediato e remoto. Nel nostro caso, il contesto immediatamente precedente e quello successivo acquistano importanza particolare, dal momento che la visita di Maria occupa una posizione e una funzione strategica nell'economia dei racconti dell'infanzia di Luca.

Intendiamo pertanto esaminare il brano alla luce di quanto precede e di quel che segue: retrospettivamente, con riferimento a Le 1,26-38 (ed anche a 1,5-25); in chiave prospettica, quale anticipazione della sezione delle nascite.

La struttura di fondo che lega i brani delle annunciazioni e quello delle nascite è costituita dal rapporto: annuncio-compimento. Al punto di incontro di questi due eventi, quale importante cerniera, si pone la pericope della visita di Maria ad Elisabetta

1. CONTINUITÀ CON GLI ANNUNCI

La visitazione è del tutto incomprensibile prescindendo dalla sezione degli annunci, con la quale è in rapporto di continuità e di sviluppo. Lo stesso contesto spazio-temporale, che forma la cornice della visita ad Elisabetta, rivela tale stretta connessione. L'inizio del viaggio (v. 39) e il ritorno "a casa sua" (v. 56) di Maria ha come punto di partenza e di arrivo - non nominato, ma evidente - Nazaret, che conosciamo grazie alla narrazione precedente (v. 26). Anche il contesto temporale, indicato a conclusione dell'intera pericope - "Maria rimase con lei circa tre mesi" (v. 56) - si giustifica sulla base dell'annotazione - "Nel sesto mese" - fornita dalla narrazione precedente (v. 26). La scena dunque si sposta da Nazaret, luogo dell'annuncio a Maria, a una città di Giuda, in casa di Zaccaria.

Col cambiamento di scena si assiste anche ad alcuni mutamenti di personaggi e di ruoli.

Finita la sua missione, è scomparso l'angelo (v. 38), ed è uscito di scena, almeno per il momento - proprio in casa sua! (v. 40) -, Zaccaria: entrambi precedentemente protagonisti.

Elisabetta, che nell' annuncio della nascita del Precursore compariva soltanto al termine e si teneva nascosta (vv. 23-25), appare qui in primo piano accanto alla madre di Gesù.

Anche il ruolo di Maria è invertito: mentre nell'annunciazione l'angelo prende l'iniziativa ed ella risponde, qui è lei che parla per prima recando il lieto annuncio della salvezza, cui Elisabetta risponde - a differenza del marito (v. 20) - con fede entusiasta. Mirabile protagonismo femminile! Si direbbe che in questa scena, in cui due donne a gara proclamano l'evento salvifico, si anticipi la missione affidata alle donne il mattino di Pasqua.

A Maria ed Elisabetta è attribuito un ruolo primario nella scena. Nonostante il rilievo dato alla madre del Precursore, il posto centrale è riservato alla madre di Gesù. I veri protagonisti, tuttavia, non sono le madri, ma i bambini: il figlio della Vergine e quello della sterile, i quali benché ancora non parlino, sono oggetto dell'annuncio, il primo, e autore della reazione gioiosa, il secondo. Protagonista ancor più misterioso e decisivo è lo Spirito santo: annunciato e promesso dal messaggio dell'angelo (v. 35) e disceso nel cuore e nella carne della Vergine per la generazione del Figlio di Dio, Egli spinge Maria al "santo viaggio" (cf Sal 84,6), mette sulle sue labbra il saluto messianico e suscita la risposta gioiosa e la confessione di fede di Elisabetta. Lo Spirito che ha operato in Maria l'evento salvifico è all'origine della sua proclamazione, che per il momento avviene in casa di Zaccaria e nella comunità lucana, ma dovrà esser diffuso fino ai confini della terra (cf At 1,8).

2. ANTICIPAZIONE DELLE NASCITE

La scena della visitazione è in continuità con gli annunci, ma segna anche uno sviluppo nei loro confronti e già introduce la sezione delle nascite. L'annuncio a Zaccaria - nonostante la sua incredulità - e quello a Maria grazie alla sua fede - si stanno infatti realizzando: ne sono segno evidente l'incontro delle due madri, donne in attesa del compimento del mistero in esse iniziato. La maternità di Elisabetta, già nota per la parola dell'evangelista (cf vv. 24-25) e dell'angelo (v. 36), appare qui nella sua concretezza e fisicità attraverso il sobbalzo del bambino (vv. 41.44); la maternità della Vergine, finora avvolta nel mistero, viene riconosciuta e proclamata a gran voce (vv. 42-43).

Tra l'annunciazione e la visitazione corre un parallelismo progressivo. Oltre che dai contenuti, il progresso è evidente dal punto di vista formale: mentre il racconto dell'annuncio a Maria poggia su una serie di verbi al futuro: "concepirai... darai alla luce... lo chiamerai... lo Spirito Santo verrà su dite... Colui che nascerà sarà santo e chiamato Figlio di Dio", il brano della visita ad Elisabetta è caratterizzato da forme verbali al presente e al passato e da esperienze in atto: "benedetta... beata... colei che ha creduto... la madre del mio Signore".

Nei vv. 39-45 c'è già un inizio di compimento che sarà definitivo solo al momento delle nascite. Gli annunci dell'angelo hanno già rivelato la loro efficacia; ormai la tensione del racconto preme decisamente e in maniera irreversibile verso la conclusione.

I riferimenti alla maternità, rispettivamente di Maria e di Elisabetta, sono infatti molteplici: il primo segno viene dal sussulto del bambino di quest'ultima; tale movimento gioioso del piccolo nel grembo materno è la reazione suscitata dallo Spirito per la presenza di un altro bambino della quale Maria di Nazaret è portatrice. I due non sono ancora nati, ma già agiscono come se lo fossero, anticipando la foro futura missione: il Figlio di Dio in grembo alla Vergine fa già irruzione nella storia riempiendola di gioia messianica; il Precursore, dal seno di Elisabetta, è il primo ad avvertirne e a proclamarne la presenza. Il bambino reagisce di fronte al bambino, la madre al cospetto della madre. Elisabetta, illuminata dallo Spirito e scossa dal sussulto del suo bambino, dichiara a gran voce la maternità in atto della Vergine; non solo la proclama benedetta per il frutto del suo grembo, ma la saluta con stupore, quale madre del Signore (v43). È come se ella avesse già generato il Figlio, cui già si attribuisce il titolo di Signore! La funzione prolettica del brano è indubbiamente notevole.

Le parole di Elisabetta non solo rivelano e celebrano la maternità messianico-divina della Vergine, ma ne sottolineano anche la componente di fede e beatitudine, tipica della riflessione lucana. La fede della Vergine, posta a suggello dell'annunciazione (v. 38), non solo è ribadita alla luce del compimento, ma viene anche celebrata mediante un macarismo (v. 45), che sarà ripreso subito dopo (v. 48) e, più tardi, nel corso del vangelo di Luca (11,28). Con la sottolineatura della fede di Maria e con il macarismo conseguente si va ben al di là di una generazione umana, per quanto straordinaria: se ne proclama la dimensione dall'Alto, ad opera dello Spirito; e si evidenzia già una qualche forma di incipiente venerazione della madre del Signore da parte della comunità lucana di cui Elisabetta è testimone e portavoce.

3. IL MOTIVO DELLA VISITA DI MARIA

L'unico motivo esplicitamente indicato dal testo è quello del "segno" dato dall'angelo alla Vergine (v. 37), a conferma dell'efficacia della sua parola. A differenza di Zaccaria (v. 18) e di molti personaggi biblici, Maria non ha chiesto un segno, né ha preteso garanzie. Ella, tuttavia, va prontamente a constatare l'opera del Signore in Elisabetta con lo stesso atteggiamento col quale ha accolto l'azione di Dio nella propria vita.

La maternità straordinaria di Elisabetta addita e prepara un evento ancor più radicale: la maternità verginale con cui, secondo la promessa isaiana (Is 7,14), il Signore offre al mondo il segno definitivo: l'Emmanuele, Dio-con-noi, salvatore del suo popolo.

Il motivo della solidarietà - pur non essendo esplicito nel racconto lucano - è addotto molto spesso nella storia dell'interpretazione del testo, fino ai nostri giorni. Indubbiamente tale motivazione sottolinea un valore antropologico ed evangelico - al quale è molto sensibile il nostro tempo -, ma non sembra la ragione vera, dal punto di vista esegetico, del viaggio della Vergine.

Molto più convincente, e in linea con la concezione biblica e lucana, appare la dimensione "missionaria" del viaggio, in connessione e quale conseguenza della vocazione ricevuta. L'annuncio a Maria e la visita ad Elisabetta si presentano come due pannelli di un unico quadro: la vocazione si realizza nella missione. Maria, destinataria della chiamata e del messaggio dell'angelo, è inviata quale annunciatrice della salvezza di Cristo. Ella che nell'annunciazione ha accolto il Messia Figlio di Dio è la prima Teofora e testimone della salvezza.

È questo il motivo del sussulto di gioia di Giovanni nel grembo della madre, espressione del giubilo della creazione alla presenza del suo Signore; ciò spiega bene anche lo stupore gioioso di Elisabetta (v. 43). Tale interpretazione si pone sulla scia di un celebre testo isaiano, che potrebbe essere lo sfondo di questo viaggio frettoloso e del messaggio della visitazione: "Come sono belli sui monti / i piedi del messaggero di lieti annunzi / che annunzia la pace, / messaggero di bene / che annunzia la salvezza, / che dice a Sion: "Regna il tuo Dio". / ... Prorompete insieme in canti di gioia, / rovine di Gerusalemme, / perché il Signore ha consolato il suo popolo" (Is 52,7.9).

La visitazione presenta dunque reminiscenze di vaticini e di gioie antiche che in Cristo acquistano piena espressione e significato; d'altra parte, annuncia ed anticipa eventi futuri, legati in particolare alla Pentecoste lucana. Ricevuto lo Spirito del Signore e sospinti dal suo incontenibile dinamismo come Maria - gli Apostoli percorreranno le strade del mondo per annunciare la salvezza di Dio; e dovunque essi giungano esplode la festa di quanti accolgono la Parola.

Il viaggio di Maria appare dunque un frettoloso cammino di missione. Quanto nell'annunciazione era rimasto nel segreto del suo animo, adesso viene comunicato ad Elisabetta e da lei proclamato a piena voce per la gioia di tutti i credenti.

4. INDIZI DI VENERAZIONE DELLA MADRE DEL SIGNORE

Concludiamo queste riflessioni sulla visitazione sottolineando un aspetto - solitamente trascurato - che costituisce, a nostro avviso, una nota particolare della pericope lucana. Il brano presenta indizi, certo embrionali ma significativi, di venerazione della Vergine da parte della comunità lucana. Tale nota emerge anzitutto dal quadro generale del racconto che rispecchia nelle grandi linee la "celebrazione" di Giuditta da parte dei personaggi più rappresentativi e da tutto il popolo (Gdt 13-16): Giuditta giunge in fretta in città ad annunciare la salvezza; a quelle parole la comunità reagisce con grida di gioia, benedicendo Dio e colei che ha cooperato con Lui; la scena si conclude con un grandioso canto di lode e di ringraziamento a Dio salvatore che trova il suo pendant nel Magnificat. La struttura generale è confermata dalla benedizione rivolta a Maria (v. 42) che riproduce quasi alla lettera Gdt 13,10:

Gdt 13,1 O: "Benedetta sei tu, figlia, ... più di tutte le donne... e benedetto il Signore Dio";

Lc 1,42: "Benedetta tu più di tutte le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo".

Come si vede, la differenza decisiva consiste nel fatto che "il Signore Dio" è divenuto "il frutto del grembo" di Maria. Se Giuditta è benedetta e onorata per aver collaborato con il Dio altissimo, quanto più è degna di tale omaggio la Vergine che porta in grembo il Dio Salvatore!

Il contesto, chiaramente celebrativo, non teme alcuna confusione tra Dio, operatore della salvezza, e la creatura che vi ha collaborato. Alla lode e glorificazione di Dio è associata, con naturalezza, la sua serva.

I segni della venerazione della madre del Signore vanno tuttavia ben al di là del confronto con la figura di Giuditta. È impressionante nella scena della visitazione la serie e la qualità di titoli ed elogi rivolti alla madre di Gesù. Ella è dichiarata eulogh menh più di tutte le donne (v. 42), h mh h tr tou kuriou (v. 43), makaria (v. 45), h pisteusasa (v. 45); ella stessa, infine, con voce profetica annuncia: mi proclameranno beata tutte le generazioni (v. 48b). Le parole di Elisabetta esprimono l'atteggiamento della comunità lucana; anzi inaugurano la venerazione di tutte le generazioni nei confronti dell'umile serva, madre del Signore.

Il primo motivo della venerazione è senza dubbio la maternità per la quale Maria è benedetta più di tutte le donne. Che si tratti di una maternità unica - verginale e divina - appare da molteplici elementi presenti nel testo: il "saluto" della Vergine che riprende quello dell'angelo (vv. 27ss) e manifesta l'evento straordinario in lei operato; il sussulto del Precursore, riempito dallo Spirito fin dal seno materno (cf 1,15); la parola ispirata di Elisabetta che proclama il mistero di quella maternità; il riconoscimento e accoglienza di Maria come madre del Signore.

Il racconto della visitazione, per quanto denso, deve essere integrato con quello dell'annunciazione. Alla luce di questo brano il motivo della maternità si arricchisce di altri importanti connotati che giustificano e rafforzano la venerazione della madre di Dio.

Si tratta di una maternità verginale: il primo titolo attribuito alla fanciulla di Nazaret è quello di vergine, ripetuto due volte all'inizio del racconto (v. 27) e richiamato indirettamente, in seguito, mediante l'espressione "non conosco uomo" (v. 34). È una maternità regale, in riferimento al discendente davidico (vv. 32-33; cf 2Sam 7; Is 7,14), e divina, a motivo dell'opera dello Spirito (v. 35).

È maternità nella carne, ma anzitutto nella fede: Elisabetta che ha dichiarato Maria eulogh menh per il frutto del grembo (v. 42), svela la radice di tale mistero, proclamandola makaria per la fede (v. 45). L'umile adesione alla parola di Dio - secondo Luca - è l'atteggiamento caratteristico della Vergine: tutto è posto sotto il segno di quel iniziale che orienta e spiega l'intera sua vita.

La fede è posta a suggello della scena dell'annunciazione (v. 38) e dunque dell'accettazione della maternità messianico-divina; la medesima fede conclude la serie delle lodi e delle parole ispirate di Elisabetta (v. 45). Quanto l'angelo ha annunciato e la madre del Precursore ha constatato porta il sigillo della fede di Maria.

Tutto questo però è opera dello Spirito. A Lui si deve la maternità della Vergine e il di fedeltà sgorgato da un cuore nuovo, secondo gli annunci profetici concernenti la Nuova Alleanza (cf Ger 31,31-34; Ez 36,25-28; GI 3, l-5). Lo Spirito, che è all'origine delle "grandi cose" (Lc 1,49) operate in Maria, è anche l'autore della lode e venerazione che Elisabetta, la comunità lucana (cf Lc 11,28) e infine tutte le generazioni renderanno alla madre del Signore (1,48) per la sua fede e per la sua maternità.

La domanda può apparire una tautologia. In realtà sottende una questione non irrilevante: la liturgia del Vaticano II è deducibile da principi astratti e si attua in una forma rituale-rubricale 'aggiornata' da esperti del settore (cosa che chiamiamo inculturazione della liturgia)

Riusciremo mai a ricollocare la persona umana al centro di ogni nostro interesse? A svestire i panni dell’homo oeconomicus per poter essere sempre e comunque uomini e donne che sanno incontrarsi e riconoscersi?

Venerdì, 21 Aprile 2006 22:27

L’uomo delle beatitudini (Santi Grasso)

Le beatitudini evangeliche affondano le loro radici religioso-spirituali nelle proclamazioni di esultanza che si ritrovano nella tradizione biblica, sia testi storici che profetici, ma particolarmente nei sapienziali e nei salmi.

La parabola del buon Samaritano contiene l'insegnamento che la sofferenza dell'altro è ap pello alla compassione, e che la con-sofferenza è essenziale alla solidarietà.

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