Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

GIORNATA DEL DIALOGO EBRAICO CRISTIANO
17 GENNAIO 2003

"Mosè parlava con DIO
e tutto il popolo rispondeva"

di Rav Umberto Piperno

Il titolo proposto dal Segretariato delle Attività Ecumeniche è una traduzione parziale.

Non solo rispondeva, ma "corrispondeva". Operava attivamente ed integra con la Parola Divina.

Desidero iniziare ringraziando sia il Segretariato per le Attività Ecumeniche sia le istituzioni della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane che vedo qui presenti a testimoniare la particolarità di questa Trieste, sempre attenta al Dialogo, non solo nella dimensione italiana ma addirittura di quella europea, di un’Europa attenta alla Parola del Signore e speriamo anche della nostra risposta a questa Parola che scende su di noi. Certamente abbiamo un certo grado di responsabilità nell'interno di ogni comunità e all'interno di ogni città, di essere non solo il Mosè di questa generazione, il Mosè del proprio culto, della propria comunità o di coloro che ci sono vicini, bensì soprattutto di coloro che per qualche motivo ancora non ci sono vicini, ancora non riescono a rispondere, o meglio a corrispondere all'invito della Parola divina.

Quindi dobbiamo in qualche modo porre il punto d'equilibrio, il difficilissimo incontro tra la dimensione sovrannaturale, e la dimensione della parola umana; ma Parola divina non è come quella umana.

La Parola divina è come un martello che spezza la roccia da cui escono settanta scintille, una Parola capace di dire contemporaneamente la stessa cosa in settanta lingue e quindi capace di parlare "secondo la forza", secondo l’attitudine a capire di chi ascolta questa Parola.

In questo incontro tra la Parola divina e la parola dell’uomo, vedremo come nell'Esodo questa discesa è una discesa graduale del Signore sul monte Sinai, è anche una salita del popolo ebraico e di Mosè verso il monte Sinai.

Il Talmud affronta questo incontro ascensionale e discensionale con una con una distanza dice “ di quattro cubiti “ che diremmo di limite, di confine tra queste due parole; ed il compito di Mosè viene ad essere proprio quello dell’intermediario tra questi” quattro cubiti “, questo spazio umano di “ quattro cubiti “ nel pensiero giuridico ebraico, è uno spazio di acquisto, lo spazio del corpo umano, sia nella dimensione della vita, sia in quella appunto in cui l'anima è staccata dal corpo.

Tutto ciò che è intorno a noi, in qualche modo viene ad essere appartenente ai suoi ” quattro cubiti di pertinenza “, quindi questi “ quattro cubiti “ che certamente non sono vuoti, ma che sono pieni di parole.

A chi appartengono queste parole: all'uomo o al Signore?

Ancora di più ci chiediamo quale sia la difficile strada, il difficile ruolo di Mosè che non vuole essere assolutamente un intermediario, che non vuole essere assolutamente un portavoce, bensì, fin dall'inizio della sua scelta dapprima della nascita, dalla sua formazione, sia nella culla presso il Nilo, sia nel momento in cui pur accolto dal Faraone, veniva allattato dalla madre, ebbene Mosè si nutre di questi sentimenti di giustizia che poi ritrova quando esce e va verso il suoi fratelli.

E vide "nelle loro sofferenze". Non vide "le sofferenze" ma vide dall'interno, con il suo sentimento con la sua interiorità

Ecco la grandezza di Mosè fino dall'inizio è di guardare all'interno e di esser capace di compartecipare all'interno di una situazione in cui la stessa divina presenza si trova in difficoltà; ed ecco come allora l'esperienza del Sinai, l'esperienza della ricezione della Parola divina e della risposta del popolo, del Patto della Legge stabilita sul Sinai, non a caso il Libro dell’Esodo lo pone come primo incontro tra Mosè e il Signore.

Il Signore non parla con Mosé bambino, non parla a Mosè quando compie questi grandi atti di giustizia nei confronti dei suoi fratelli, o ancora di più nei confronti di estranei, tra pastori che litigano, ma nel momento in cui, dice il Midrash, come sappiamo va nel deserto per correre dietro ad una pecora che si era allontanata. Solo in quel momento diremmo, la persona, il leader diviene tale proprio nella compartecipazione, nella preoccupazione per il singolo, quest'elemento pastorale dell'attività di Mosè che non è assolutamente marginale nella sua esperienza.

Mosè vive per quarant'anni negli agi della corte del Faraone, accorgendosi però nel quarantesimo anno di questa tragedia del suo popolo, ma per altri quarant'anni vive a Midian, vive una dimensione pastorale, prepara la sua figura, il suo intervento, curando il gregge come tanti altri grandi personaggi della Bibbia. Ma sono questi secondi quarant'anni che daranno a Mosè la capacità di leader, poi certamente nel ottantesimo anno avverrà questa scelta, questa chiamata dal ” Roveto “ e negli ultimi quarant'anni secondo tradizione, dagli 80 ai 120 anni, allora Mosè interverrà positivamente a favore del popolo ebraico, e parlerà con il Signore.

Parlerà con molti intervalli, come vedremo, non è un dialogo continuo, un dialogo addirittura ci dice la Bibbia con 38 anni di pausa.

Il Signore parla a Mosè nell’ottantesimo anno della sua vita, l'anno in cui si realizzano le “Piaghe”, si realizza l'uscita dall'Egitto, si realizzano i cinquanta giorni dopo il Patto del Sinai, per un anno intero vedremo le Prime e le Seconde Tavole, il massimo momento della visione profetica nella rottura delle Prime Tavole, del Perdono divino, l'inaugurazione del Santuario, l'invio degli esploratori, e poi abbiamo 38 anni di silenzio.

Fino all'ultimo anno, da Numeri (cap.13) fino al Deuteronomio in cui in sei mesi Mosè riassume tutto il suo insegnamento, quindi è un Logos (dialogo) interrotto a spezzoni, in cui abbiamo appunto questo avvicinamento solo all'ottantesimo anno per due anni e poi gli ultimi mesi.

Ma allora ci domandiamo ecco quale fosse la qualità di questa “ chiamata “, di questo discorso, di questa capacità di poter essere prescelto per riportare da Parola divina ad un popolo intero.

Abbiamo detto le qualità morali, le qualità di estrema dedizione ad ogni singolo, la guida della comunità che significa l'andare fino al deserto, nel posto dove non c'è assolutamente pascolo, per seguire una pecora. Una pecora che non solo si era allontanata dal gregge, il Midrash aggiunge qualcosa a riguardo di questa pecora, a riguardo di cosa fosse andata a fare nel deserto.

Dice il Midrash, per raccogliere qualche goccia di miele che usciva da una roccia. Sappiamo che molto probabilmente le api forse pongono il nido nelle rocce, ecco: raccogliere da una roccia dove non c'è niente, dove non c'è vita, apparentemente, ecco lì c'è il miele. Questo è il compito di Mosè: prendere il miele, raccogliere il miele dove apparentemente sembra esserci il deserto.

Se trasferiamo questo insegnamento nella attualità, grandi sembrano essere i deserti, grandi sembrano essere le rocce e molto piccole sembrano essere le gocce di miele. Un po' il compito di ognuno di noi, di ogni Mosè che affronta il deserto, senza “seccarsi spiritualmente”, di seguire questo impeto per raccogliere questo miele, fare in modo che diventi tutta una vallata, questa pecora che si è allontanata venga quindi nutrita, e santifichi in qualche modo l'intera realtà circostante.

Per questo il Signore si manifesta proprio in questo Monte del Signore che però sembra esser privo di vita, sembra essere un Roveto consumato dal fuoco.

Un Roveto che però non si consuma, l'immagine del Roveto che darà il Nome al Monte, il Monte Sinai, vuole anzitutto trasmetterci l'insegnamento che la Parola del Signore è in ogni posto, persino nel deserto e soprattutto non in un grande albero, non come dice il profeta Elia: “ Nella voce impetuosa dell'acqua, nella voce impetuosa del fuoco, bensì una voce sottile e silenziosa “.

Voce silenziosa: paradosso del testo biblico. Una voce di fuoco che non consuma, che non distrugge che non è un fuoco dell'odio né un fuoco della distruzione, bensì, come vedremo” dalla Destra del Signore una Legge di Fuoco”.

Queste Parole incise con il fuoco che vengono ad essere riportate al popolo nelle Prime Tavole per essere poi sostituite da una scrittura umana, quella di Mosè nelle Seconde Tavole.

La dimensione del Roveto vuole sottolineare ancora la compartecipazione del Signore ai dolori del suo popolo; la possibilità di stare all'interno di un Roveto, in una situazione di ristrettezza, in cui le spine vengono ancora di più a procurare dolore.

Preoccupazione e dolore, più per il Signore che non per coloro che purtroppo sembrano non accorgersi di tutto ciò.

Li dove è compressa la libertà umana, la spiritualità del singolo, di un popolo, è compressa la Parola del Signore. E quindi ecco che la preoccupazione di Mosè è proprio che il popolo non possa ricevere, recepire, credere ne a Mosè né alla sua Parola: “..Certamente non mi crederanno …”.

Mosè chiede non solo dei segni, ma un messaggio, una “parola chiave” con la quale creare un collegamento iniziale, con il quale aprire la porta del Dialogo.

E certamente questo insegnamento, questa “parola chiave”, altro non può essere che il ricordo.

“ Il Signore si è ricordato e si ricorderà di voi “.

Quelle stesse parole che ha detto Giacobbe quando ha voluto essere sepolto in Israele, quelle stesse parole che ha voluto dire Giuseppe che non ha voluto essere sepolto in Israele bensì rimanere in Egitto in sepoltura temporanea, affinché fosse come simbolo vivente, paradossalmente pur privo di vita fisica, legato al ricordo della liberazione che sarebbe arrivata.

Quindi ecco che queste due parole, questo verbo del ricordo viene ad essere il primo elemento in cui il popolo si riconosce.

Sento una voce familiare, sento un verbo familiare, forse quella parola d'ordine che porta un personaggio nuovo, un personaggio che viene da lontano. Ma soprattutto un personaggio che pratica la fratellanza.

La novità, la prima grande novità del messaggio biblico dell'Esodo, è proprio la fratellanza, la compartecipazione tra Mosè e Aronne.

Mentre nel Libro della Bibbia, nel primo Libro della Genesi da Caino e Abele, Abramo e Lot che debbono dividersi perché sono fratelli. Noi siamo fratelli. Quali fratelli! Non ci sia lite tra noi, dividiamoci perché siamo fratelli. Certamente una situazione di fratellanza ridotta ed ancora di più fratellanze imperfette tra Ismaele e di Isacco, e tra i figli di Isacco, tra Giacobbe ed Esaù. Fratellanze difficili tra Giuseppe e i sui fratelli, come tra i due figli di Giuseppe l’uno che prende il posto dell’altro, questa lotta continua per la primogenitura, quale fratellanza ci offre il Libro della Genesi.

Improvvisamente ecco che arriva Mosè con il fratello più grande che si preoccupa, prima di tutto nel messaggio del Signore di dare giusto ruolo al fratello più grande, perché appunto chiede:

“ Manda chi sei solito mandare “.

Il Signore gli indica una nuova dimensione nel quale Aronne non è solo il portavoce, certamente tutta la difficoltà del profeta balbuziente, quasi del profeta noto, colui che deve riportare la Parola e che incapace di parlare. È vero in termini umani, è incapace di dire cose sue, ma certamente è capace di essere ispirato. All'interno di questa ispirazione: “ Aronne tuo fratello sarà il tuo profeta “. Non è il suo speaker, non è suo portavoce, non è il suo addetto stampa.

Aronne viene ad avere insieme a Mosè questo ruolo di comunicazione, ma questo ruolo di comunicazione si crea proprio nel momento in cui, per la prima volta, si ri-incontrano dopo quarant'anni Mosè e Aronne dopo questa grande esperienza del Roveto Ardente.

Il Signore lo rassicura: “ Stai tranquillo, ti vedrà e gioirà in cuor suo.”

Anche qui il vedere non solo un fratello, ma il condividere a livello interiore la gioia di una missione difficile, di un compito che più che un onore certamente è un grande onere rispetto al quale Mosè e Aronne insieme rischiano più volte la lapidazione da parte del popolo ebraico.

“ Ancora un po' e mi lapideranno “.

Per la mancanza di cibo, per la mancanza d'acqua, per le scelte difficili e coraggiose che faranno Mosè ed Aronne; ebbene la gioia interna, la gioia all'interno di un cuore è ancora quella che fa pensare a un popolo, addirittura li fa inchinare quando vedono un leader che è capace di gioire assieme a suo fratello, quando egli non ha sentimenti di prevalenza, allora il popolo riesce ad accorgersi che Mosè è il leader giusto, prescelto dal Signore proprio per queste sue qualità.

Ed allora ecco che durante tutta l'uscita dall'Egitto, durante tutto il periodo di sei mesi nei quali si susseguono i segni e i miracoli, Mosè ed Aronne insieme agiscono l'uno dove non può agir l'altro: per esempio Mosè che non può colpire la sabbia perché la sabbia lo difeso quando lui ha sepolto l'egiziano ed allora è Aronne a coprire la sabbia; Mosè che non può colpire l'acqua perché l'acqua lo ha salvato quando era un bambino in fasce nel Nilo, allora è Aronne a percuoterla.

Ma soprattutto è nell'esperienza del passaggio del Mar Rosso, in cui ecco per la prima volta il popolo ebraico ebbe fiducia nel Signore è in Mosè suo servitore.

Il testo biblico dice. “… ebbe fiducia “ non dice “… ebbe fede ”.

Come sappiamo grande è la distanza tra fede e fiducia; la fiducia viene ad essere qualcosa che ha bisogno di un elemento pratico di riscontro, ebbene il popolo ebraico per la prima volta dopo sei mesi, dopo le “ Dieci Piaghe “, nel momento in cui passa il Mar Rosso, nutre questa fiducia. Certamente è la Parola del Signore, che non è più una Parola destinata alla liberazione fisica, ma che diventa immediatamente “ fattore di crescita spirituale “ così come il Signore dichiara nel suo programma di liberazione in cinque punti nel quale appunto il popolo ebraico si sarebbe dovuto liberare non solo dalla schiavitù fisica, non solo dal sentimento di dipendenza psicologica verso padrone, ma addirittura di meritare un'indipendenza di mezzi, di strutture, con le quali costituire una Nazione, meritare di essere preso come Popolo, come Sposa del Signore e quindi di avere, di meritare questo rapporto diretto con il Signore e di essere portato quindi, nella sua terra.

Per realizzare questo progetto, questo processo, la Parola del Signore certamente ha un ruolo diverso.

Un ruolo insieme di crescita, di salita, di rivelazione, ma in ogni momento, come è scritto nei Salmi, la voce del Signore è secondo la forza; la forza di chi è capace di recepire; la forza individuale, non la forza in termini divini, ma la forza in termini umani. La capacità ricettiva dell'uomo, una capacità che viene ad essere assolutamente individuale e quindi ecco che cinquanta giorni dopo l'uscita del popolo ebraico dall'Egitto nel terzo mese, si realizza questo incontro, questo incontro che non è lontano nel tempo, che come dice nel Libro dell'Esodo, cap.19, viene ad essere l'incontro odierno.

“In questo giorno arrivarono nel deserto del Sinai “. Non dice in quello, oppure arrivarono tanti anni fa. I Maestri calcolano l'anno 1313 avanti all'era volgare, ma non ci interessa. Nessuno del popolo ebraico, ne i bambini ne i Maestri si sogna mai di dire sono passati 3380 anni dalla Rivelazione. No!.

Il giorno in cui, ogni uomo, apre il libro della Parola divina, quello è il giorno del Sinai; non conta l'anno, in questo giorno, non solo, ma soprattutto si realizza quella condizione indispensabile per ricevere la Parola divina.

Apparentemente la Bibbia sembra darci dettagli di viaggio, dettagli per chi voglia ripercorrere le tracce di Mosè nel deserto del Sinai. Ma Maestri del Midrash leggono sempre questi dettagli in chiave di “elevazione spirituale”. Partirono da Refidim e arrivarono nel deserto del Sinai.

Già sapevamo nell'ultimo brano letto, da dove era partito il popolo, che bisogna c'era di ripetere questo elemento. I Maestri giocano sul significato topografico del nome “ rifidim “che è vicino ad un termine che si ottiene invertendo le lettere fino ad avere un altro termine il cui significato è quello di divisione.

L'ultimo elemento di cui appunto si era occupato il testo biblico era l'attacco di Amalec, l'attacco portato al popolo ebraico nel momento in cui era caldo di entusiasmo e pieno di fiducia nel Signore.

Ecco che arriva qualcuno che dice: “ Vediamo se il Signore è con noi oppure no “.

Nello stesso momento, nel momento del dubbio il nemico si fa strada e colpisce il popolo ebraico alle sue spalle. Numerosi sono stati gli Amalec della storia, numerosi e sempre più sanguinari.

Il dovere di ricordare quello che ci ha fatto Amalec che ti ha raffreddato nella strada, non ti ha solo attaccato, ha fatto di più. Il pericolo più grande è quello di aver raffreddato la vita di un singolo o di una comunità:

i Maestri che non ci sono più, l'entusiasmo di una vita comunitaria che prima di una Shoà poteva avere quattro sinagoghe, centri di studio attivi dalla mattina alla sera, in migliaia di luoghi in Europa che sono stati interrotti, distrutti da Ameleq.

Non è solo la distruzione fisica: è il raffreddamento di questo entusiasmo il pericolo più grande. E allora questa divisione dal Signore, questa difficoltà di percepire la presenza del Signore, che viene a portare la divisione. Ma nel momento in cui il popolo ebraico avanza all'incontro con la Parola del Signore ecco che il testo biblico ci dice: “ Si accamparono nel deserto e si accampò li Israele di fronte al monte.

Che vuol dire sia accamparono, si accampò?

Soprattutto che bisogno c'è di una ripetizione, e perché soprattutto con persone diverse prima al plurale poi al singolare. I Maestri sottolineano che non si può ascoltare la Parola del Signore se non si è uniti.

“ Si accampò Israel come un unico uomo, con un unico cuore “, dicono i commentatori.

Solo quando superano le divisioni, solo quando diventano come un'unica persona, allora il Signore può parlare.

Ecco allora che Mosè sale verso il Signore. E il Signore lo chiama dal monte dicendogli: “ Così dirai alla casa di Giacobbe e parlerai ai figli di Israele “.

Anche qui “ parlare “ e “ dire “ due verbi diversi, “ la casa “ e i ” figli “.

La Torah, il testo biblico in poche parole, in una sola parola ci vuole insegnare anche la psicologia, ci vuole insegnare il mestiere di leader, di mestiere di oratore, come parlare al popolo.

Innanzitutto parlare alle donne, la casa di Giacobbe la forza della spiritualità di un popolo, di una comunità, sono le donne.

Saper entrare nel cuore delle donne, saperle conquistare, saper fare in modo che la parola sia una parola dolce, una parola appunto capace di catturare la loro attenzione.

Purtroppo gli uomini non sono così ricettivi e quindi per i figli di Israel, per i maschi, c'è bisogno di altro.

C’è bisogno non solo di narrare, ma dice ancora il Midrash, c’è bisogno di parole "dure come nervi".

Parole che in qualche modo hanno una elasticità, che però non può essere estesa o ridotta a piacere; ma così come la funzione del nervo nell'uomo è quella di trasmettere un impulso, un comando, ma se non ci fosse la durezza dell'elemento trasmettitore, non arriverebbe il messaggio.

L'uomo ha bisogno, per ascoltare la Parola del Signore di uno strumento particolare, uno strumento duro come lo sono i nervi.

A proposito della Parola stessa in cui appunto il Signore viene a dire: “ Avete visto quello che ho fatto in Egitto, vi ho portato su ali d'aquila e vi ho fatto arrivare a me “, quindi usa una cura particolare nei confronti del viaggio, una protezione particolare, e continua “ Se ora ascolterete la mia voce e osserverete il mio Patto “. Le condizioni sono chiare: per essere un reame di sacerdoti, un popolo distinto. Queste sono le parole che porterai ai figli di Israele: ascoltare la voce, anche qui ” nella voce “, cioè l'intera gamma dei messaggi e osservare il patto. Nel Sinai si realizza un vero Patto che pone il popolo ebraico nella accettazione, e vedremo se questa accettazione è libera o no, del precetto divino, della sua norma così come per ogni persona, che si avvicina all'ebraismo.

Non basta il patto della circoncisione. La circoncisione è il patto storico, il passaggio di generazione in generazione, da Abramo ai suoi figli.

Quel Patto che lega il singolo alla spiritualità divina, che porta l'elemento corporale, fisico nella dimensione del sacro e quindi ecco che il patto della circoncisione è strettamente individuale.

Il bambino nel momento in cui viene circonciso, perfeziona attraverso questa modifica della sua dimensione corporale, appunto la dimensione in cui la materia in oggetto è proprio l'organo dedicato alla riproduzione, entra nello Spirito.

Ma la circoncisione rimane un discorso individuale non è un discorso collettivo.

Il discorso collettivo, comunitario e di popolo, si realizza per tutto il popolo ebraico nel momento in cui il popolo si prepara al Decalogo, si prepara all'incontro con il Signore. Dice il testo dell'Esodo: “ Lavando i vestiti “. Ma in effetti quell'immersione nelle acque della purità che perfezionano appunto l'ingresso del popolo ebraico, non è solo l'immersione ad essere determinante. Insieme alla circoncisione, insieme all'immersione e per la donna che non ha neanche bisogno di sacralizzare il suo corpo perché già sacro, per il quale c'e solo l'immersione, ecco che deve intervenire l'elemento fondamentale, l'elemento dell'accettazione dei precetti.

Quest'accettazione è certamente un'accettazione difficile da comprendere, e un'accettazione rispetto alla quale il popolo ebraico viene a porre il suo futuro, così come ogni persona diremmo viene a porre le sue scelte, a dare una dimensione particolare alla sua libertà, piuttosto che a sottomettere la propria libertà.

Il mondo dei precetti non è mai una sottomissione e lo vedremo nel punto in cui è scritto: “ Le Parole incise sulle Tavole non leggere “ l'inciso “ ma, libertà sulle Tavole “. Quindi la libertà quotidiana in ogni momento di dedicare la propria attenzione e il proprio orecchio alla Parola del Signore, al richiamo della coscienza a un'altra voce a un altro richiamo, alla libertà di ogni giorno di aderire o non aderire ai precetti positivi. La libertà di violare o non violare un precetto negativo. La libertà che ogni giorno l'ebreo sceglie dicendo al presente: “ Ci stai dando la Legge “.

Ma che viene ad essere santificata fino dal momento del Monte Sinai.

È questa un'esperienza a cui partecipa, secondo il Midrash, tutto il popolo ebraico, passato, presente e futuro. Tutte le anime che sarebbero nate, che nasceranno nel corso dei secoli, secondo il Midrash è li presente ai piedi, o meglio come vedremo, sotto il Monte Sinai.

Perché “ sotto “ il monte Sinai ?

Dopo questo messaggio da parte del Signore, dopo questa condizione, Mosè chiama gli anziani del popolo e gli propone quelle cose, così come gli aveva detto, ordinato il Signore.

Ed ecco ora la risposta del popolo:

Rispose tutto il popolo insieme, qui nel capitolo 19,8 e dissero: “ Tutto quello che ha detto il Signore faremo “.

Più avanti viene detto: “..Tutto quello che ha detto il Signore faremo ed ascolteremo “.

Che bisogno c'è di dire”.. faremo e ascolteremo “. Anzi, se “faremo “ non c'è bisogno di ascoltare; e che vuol dire “ ascolteremo “; non è meglio dire: “ Ascolteremo e faremo “ ?.

L'ascolto non è condizione necessaria per l'esecuzione di un’azione.

Ma come si può realizzare la volontà del Signore se non si ascolta ?.

Possiamo ascoltare, possiamo comprendere, possiamo capire solo facendo.

Quindi non vuol dire prima faremo senza capir niente e poi ascolteremo, ma vuol dire ascolteremo mettendo in pratica, ascolteremo facendo, nella contemporaneità.

Il vero ascolto non è l'ascolto passivo, come davanti a uno strumento meccanico come la radio, la televisione, il computer; ma è "l'interattività" e quindi la possibilità di rispondere, la possibilità di intervenire e modificare in qualche modo, non il programma divino che certamente non può essere modificato, ma la dimensione della propria spiritualità.

Innanzitutto il cammino della " Teshuvà " del ritorno a Dio in ogni momento della nostra vita.

L'uomo in quanto tale, non solo l'ebreo quindi, ha la possibilità di pentirsi del sue colpe, ha la possibilità di ravvedersi, un ravvedimento attivo dove deve prima di tutto correggere il suo comportamento, per incontrare di nuovo il Signore.

E quindi ecco che a proposito di questo “ faremo “ certamente il Talmud deve intervenire.

Come sappiamo, i dettagli del racconto dell'Esodo, anche dal punto di vista "metereologico" sono abbastanza importanti.

Il Signore che parla dall'interno, più che da dietro una cortina di nubi, le nubi che rappresentano un elemento non di schermo tra l'uomo e il Signore, ma un elemento di protezione per l'uomo, quasi come quegli occhiali che servono per non rimanere abbagliati.

Più avanti il testo biblico dice: “ Verrò da te nell'addensarsi delle nubi ”.

Dio parla con il suo profeta Mosè affinché il popolo ascolti e risponda.

“ Ed in te avranno fiducia per sempre “.

Solo dopo Mosè riporta le parole del Signore a tutto il popolo.

Allora il Signore gli dice di prepararsi, di dividersi tre giorni delle proprie mogli e nel terzo giorno il Signore si sarebbe manifestato.

Il Signore sarebbe sceso sul Monte, nel terzo giorno davanti agli occhi di tutto il popolo.

Ecco che questi tre giorni di limitazione, non solo nella vita familiare coniugale, ma questi confini messi intorno al Monte, vengono ad essere quegli elementi nei quali insieme al suono del Corno, al suono dello Shofar, gli avrebbero consentito poi di salire al Monte.

Ecco che Mosè deve discendere dal Monte Sinai.

Quante volte ha dovuto salire e scendere dal Monte per riportare anche questa norma al popolo, in cui appunto viene a dire quello che era richiesto dal Signore per l'incontro.

E solo nel terzo giorno, al mattino, tra "suoni e lampi".

Tuoni e lampi anche qui normalmente prima il lampo dopo il tuono, la fisica ci insegna e la luce è ben più veloce del suono.

La Bibbia ci vuole dire che questa è un'esperienza sinestetica in cui non solo l'udito viene coinvolto, ma tutte le capacità dell'uomo, quelle intellettive e quelle sensitive.

E "tremò tutto il popolo che era ai piedi del Monte" così come poi tremerà il Monte.

Immaginiamo, la paura, la sensazione di un terremoto in cui trema la terra, ma anche trema la persona, trema e vibra diremmo, anche l'anima dell'uomo.

E allora ecco che anche qui il testo usa delle “ forzature “ bellissime. “ Fece uscire Mosè il popolo incontro al Signore dall'accampamento e si fermarono ai piedi del monte “.

Che vuol dire: “ Fece uscire “.

I Maestri vedono qui quasi una “ forzatura “: come la sposa che ha paura di andare incontro allo sposo mentre l'accompagna il padre, perché appunto forse ci potrebbe ripensare, forse ha qualche esitazione. Ebbene arriva il momento in cui, malgrado la santità dell'unione, ecco sorgono i dubbi e c'è bisogno di un Mosè che spinga il popolo ebraico a questo incontro.

Un incontro in cui il popolo si ferma ed è presente sotto il Monte, mentre il Monte sta fumando, diventa un vulcano perché era sceso il Signore con il fuoco ed il fumo come appunto una fornace.

Immaginiamo questa dimensione dei vulcani nel quale la voce dello " Shofar " è sempre forte.

“ Mosè parlava “, questo è il titolo dell'incontro, e ” il Signore gli rispondeva con la voce “.

Più avanti, prima del dell'incontro, scese il Signore sul Monte Sinai, quindi continui spostamenti.

Il Signore chiede ancora a Mosè di scendere un'altra volta per prepararlo a salire gradatamente, scese verso il popolo e il Signore disse tutte queste parole, cioè i Comandamenti.

E poi il popolo che ” vedeva “ i suoni.

Anche qui un'esperienza particolare, quasi televisiva diciamo, in cui il popolo vedeva da lontano e che chiedono a Mosè di parlare con il Signore perché loro temono di morire.

E Mosè che dice al popolo di non aver paura perché proprio questa è la prova che Signore richiede:

“ che sia il Suo timore sul vostro volto, senza peccare “.

Il popolo sta lontano e Mosè si avvicina alla Nube, dove c'e il Signore.

Certamente l'esperienza del Sinai, è quell’esperienza collettiva, che dimostra la veridicità della propria fede come elemento di continuità, dice: “ Come sarebbe stato possibile trasferire ad un intero popolo, un racconto collettivo se qualcuno non ne avesse trasmessa la memoria “.

Non una memoria individuale, che passa ad un popolo, ma una memoria trasmessa da un testimone.

Se ci vengono a raccontate che i nostri nonni sono andati sulla Luna, non potremmo mai credere a questo racconto se almeno una persona che ha conosciuto il nonno non abbia ricevuto questo messaggio, non abbia ricevuto questa testimonianza.

Quindi l'elemento della fiducia nella Torah stà proprio in questa esperienza collettiva, in cui il popolo ebraico nel corso della sua storia delle sue diaspore vive questo incontro, è certamente anche storicamente almeno subito pochi secoli dopo la promulgazione del Pentateuco, il popolo ha la coscienza che c'è stato questo incontro, che c'è stato questo Patto di accettazione.

Ma come è questo Patto ?.

Il Talmud si sofferma su questo incontro, si sofferma e cerchiamo in pochi minuti di trarre qualche insegnamento da questo momento di attesa, e nello stesso momento di sosta sotto il Monte.

Perché “sotto il monte” e non “ai piedi del monte” ?.

Un altro Midrash ci dice che il Signore usò violenza nei confronti del popolo ebraico.

I Rabbini, che parlano liberamente, usano questa metafora.

Come un uomo che usa violenza ad una donna, cioè che lo ha forzato ad accettare la Legge.

“ O accettate la mia Legge o qui sarà la vostra tomba”.

Il popolo ebraico non aveva scelta; avrebbe dovuto accettare il Patto del Sinai, altrimenti il Monte sarebbe piombato su di loro e li avrebbe soffocati.

Non solo il Monte, ma addirittura tutto il mondo, quel mondo creato nel sesto giorno, sarebbe piombato nel caos.

Quindi li dove non c'è l'accettazione della Legge e lo studio della Legge, l’intero mondo torna nel caos, l'intero mondo viene distrutto.

Una responsabilità ben pesante per il popolo ebraico, una responsabilità di accettare, appunto un matrimonio forzato.

I Maestri dicono questo innanzitutto per legare il Signore al popolo ebraico; è vero che forse c'è stato un atto di violenza, vedremo poi che non è così, ma che invece c'è stata una libera scelta.

Ma se c'è stato un atto violenza, ebbene, così come un uomo che poi il decide di sposare quella donna perché la ha violentata non può più divorziare da lei, non può dire cinquant'anni dopo: “ è vecchia non mi piace “. E quindi così il popolo ebraico non può essere più abbandonato dal Signore.

Ecco perché “ costringono “ tra virgolette il Signore ad essere il marito sempre fedele al popolo d'Israele malgrado il popolo di Israele non sia sempre stato fedele. Quindi viene capovolta questa violenza, viene capovolta chiaramente con un'immagine nella quale il Talmud nel trattato di Shabbat, accetta che ci sia stata questa imposizione. Ma quale imposizione, se poi abbiamo letto nell'Esodo: “ Tutto quello che ha detto il Signore faremo e ascolteremo “.

C'è un’attitudine, nel popolo ebraico che come al solito lo porta ad essere impaziente e a non aspettare i tempi necessari.

Quindi pronunciano questa affermazione senza pensare, un'affermazione che non avrebbero poi confermato nel corso della storia.

Ma interviene un altro Maestro e dice non è così.

La Torah ci vuole dire che è vero che la sussistenza del popolo ebraico e del mondo, dipende dall'accettazione della Torah: “ O accettate o qui sarà la vostra morte “. Così come se il popolo ebraico si distaccasse della sua Legge sarebbe come un corpo senz‘anima.

Ma nello stesso momento dice: “ Ecco che tutto il popolo ebraico ha accettato la Legge e la ha accettata anche in un secondo momento, nel momento della persecuzione alla fine del pericolo “.

Nel libro di Ester è scritto: “ Tutti accettarono e riconobbero “.

Che cosa misero in pratica? Il precetto di leggere il rotolo di Ester.

Che cosa c'entra questo precetto rabbinico abbastanza facile da seguire, anzi, nel momento di massima gioia del popolo ebraico, che ci vuole ad accettare questi quattro precetti del "Purin" di ascoltare questi pochi capitoli degli agiografi e poi magari gioire, fare il banchetto, dare doni ai poveri, fare una bella festa.

No dice, perché è importante quella accettazione?

Perché è un'accettazione dopo il pericolo.

Il popolo ebraico che rimane fedele alla Legge, proprio e malgrado il nemico che lo aveva voluto colpire per la sua dimensione appunto di fede, di fiducia, di attaccamento al Signore. Ed allora ecco che la seconda accettazione quella avvenuta in Persia, ai tempi di Ester, che paradossalmente viene ad essere una accettazione più forte di quella del Monte Sinai.

Cioè come nel corso della storia il popolo ebraico ha accettato e confermato liberamente, finito il pericolo, di ritornare alla Legge del Signore; ritornare senza alcuna costrizione, ritornare senza dimensione di paura che non è immobilità, ma è appunto una paura della responsabilità.

Il Midrash continua, che cosa è avvenuto dopo che il popolo ebraico ha detto: “ Faremo ed ascolteremo” sono venuti seicentomila angeli, uno per ogni individuo, ed hanno donato a ciascuno due corone: una per il “ faremo “ un'altra per “ l'ascolteremo “.

Immaginiamoci quindi questa dimensione nella quale ogni individuo dal più semplice fino al profeta Mosè, è incoronato con questi elementi, non a caso diremo messaggi di splendore nella dimensione intellettuale, nella dimensione appunto “ sopra la testa “.

Ma poi dice quando il popolo ebraico ha fatto il vitello d'oro sono scesi un milione e duecentomila angeli ognuno a riprendere una corona, mentre prima un angelo gli aveva dato due corone, queste corone state perdute, ma questa perdita delle corone viene sostituita dai "Tifillin" dai filatteri dove c'è: “ L'ascolta Israele “.

Quindi chi ha sbagliato ha la possibilità, ogni giorno di rimettere almeno una di queste corone, dimostrando che “faremo ed ascolteremo” cioè che stiamo “ascoltando” dimostrando con il precetto dei filatteri sulla testa “di fare”, di accettare queste corone.

Il discorso delle donne è ancora più nobile; le donne hanno ancora queste due corone: non le hanno perse perché non hanno sbagliato nell’ episodio del “vitello d’oro “.

Nel fondere il vitello d'oro sono stati usati ornamenti maschili, orecchini da uomo, anelli..

Per questo motivo le donne non mettono i filatteri: perché non hanno perso le loro corone.

Non hanno bisogno di corone sostitutive, umane da mettere al posto di quelle divine. Ma verrà il momento in cui tutto il popolo ebraico si pentirà, e farà Thesuvà, e accetterà quelle Seconde Tavole che Mosè ha riportato al popolo ebraico nel giorno del Kippur, il 10 del mese di Tishrì.

Mosè scende dopo 40 giorni, sente il rumore nel campo.

Mosè pensa che si tratti di guerra, ma sente solo confusione e allora compie quel grandissimo atto nel pensiero ebraico il più alto momento di profezia, perchè anticipa l'intelletto attivo, la volontà del Signore nello spezzare le Tavole del Signore.

Spezzare quelle Tavole scritte con il fuoco del Signore perché appunto il popolo non le avrebbe potuto sopportare. L'uomo non avrebbe potuto incontrare questa Volontà, questa Parola.

Non avrebbe potuto, come ha fatto Mosè, salire, entrare in questi “ due metri “, in questi quattro cubiti di terra di nessuno.

Ed allora che fa ?

Risale sul monte Sinai, per 40 giorni e 40 notti e chiede perdono al Signore per tutto il popolo.

Quel popolo ebraico che il Signore vuole distruggere, per crearne un altro a partire da Mosè.

Rinuncia ad una sua discendenza, ad il suo onore in favore del popolo, e solo dopo nel momento in cui può vedere parte della sua Gloria, solo dopo Il Signore passa su lui e gli rivela i 13 Attributi, allora discende al popolo ebraico.

Scende con le Seconde Tavole.

Queste Seconde Tavole che certamente non sono diverse nel contenuto, nella Parola divina, se non in piccolissime differenze tra il testo dell'Esodo e quello del Deuteronomio, ma che sono fuse nel contenuto. Questa volta però sono di matrice umana, scritte dall'uomo; e solo dove sono scritte dall'uomo sono sostenibili dalle mani dell'uomo; cioè non vengono più ad essere un peso per l'uomo, ma vengono ad essere quell'elemento di libertà che si tramuta, dicono i Maestri, nella semplicità del popolo che accetta quel che ha detto il Signore:

“Faremo ed ascolteremo”.

In che modo ?. Dove i giusti ed insieme tutto il popolo, nel momento del loro ravvedimento verranno condotti verso il loro obiettivo finale, con una gioia eterna sul loro capo.

Cos'è questa gioia eterna ?

Sono queste corone recuperate. Quindi la dimensione nella quale tutto il popolo non è capace immediatamente di rispondere, oppure risponde senza pensare, o risponde impetuosamente, si impegna forse in maniera precipitosa o viene costretto a impegnarsi, ma solo nel momento in cui nella dimensione futura il popolo è capace di prendere quest'impegno, di ri-meritare queste corone perché giornalmente appunto le sostituisce con le corone dei filatteri, con le corone delle buone azioni, così come Mosè ha meritato questa corona di splendore sul suo volto, allora ecco che riusciamo a comprendere, riusciamo a capire come il popolo “risponda” o meglio “corrisponda” alla Parola del Signore.

Una ascesa verso il monte Sinai, una ascesa verso la volontà del Signore che non si ferma mai, che non ha mai malgrado la discesa del Signore sul monte, un momento di incontro.

Una ascesa che è quotidiana, un compito difficile così come quello di Mosè di prendere il miele dalle rocce desertiche, un compito però di cui non abbiamo più paura.

* Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Trieste

ESPERIENZE DI DIALOGO

Le radici teologiche dell’hospitalitas

di Salvino Leone *

1. L’accoglienza all’ospite nella Sacra Scrittura

1.1 Nell’Antico Testamento. Nei confronti dell’ospite l’antico Israele ha avuto un atteggiamento caratterizzato da una profonda ambivalenza: da un lato, infatti temeva lo straniero in quanto portatore di diversità e, come tale, implicito e potenziale pericolo per la sua unità etnica, religiosa e culturale(1); dall’altro, si sforzava di accoglierlo individuando specifiche modalità per farlo, anche in ossequio ad una consolidata tradizione semitica che traspare in filigrana in numerosi brani scritturistici (2).

E’ interessante notare come l’unità semantica che nelle nostre lingue definisce lo «straniero» - il quale è, più specificamente, l’«altro» da ospitare - nella lingua ebraica si frammenti in almeno tre distinti sostantivi(3): il primo è zar (usato più spesso al plurale zarîm), che indica lo straniero in senso politico o, in ogni caso, l’appartenente a un’altra etnia o popolo ostile a Israele(4). Il secondo è nokrî, che è il forestiero in senso prettamente etnico-religioso; può non essere nemico di Israele, ma non ne condivide la fede e non rientra quindi nella sua comunità; il più delle volte non si trova in condizioni di marginalità economica o sociale(5). il terzo è gherîm, che indica lo straniero residente presso Israele ma senza una propria terra; tra i gherîm si trovavano principalmente gli esuli, i profughi, i rifugiati, gli emigrati, i fuggiaschi, ecc.(6).

Sono propriamente questi ultimi a essere oggetto di particolare rispetto e protezione, non essendo nemici né economicamente autosufficienti. La tipologia protettiva si esprimeva non solo nel non farne oggetto di vessazione, ma nel farli partecipare alle feste (cfr. Dt 16,11-12), nell’elargir loro la decima di ogni triennio (cfr. Dt 14,28-29), nel lasciare ad essi i residui del raccolto e della vendemmia (cfr. Dt 24,19-21) e nel riservar loro un trattamento assolutamente egualitario in giudizio (cfr. Dt 27,19). Le ragioni di tale attenzione per lo straniero o, almeno per questo tipo di straniero, sono varie(7).

La prima può ritenersi di ordine culturale e va rintracciata nella credenza popolare per cui si riteneva che, sotto le spoglie dell’ospite, si potesse nascondere una divinità. La traccia forse più famosa di questa tradizione, per quanto di epoca assai successiva, la riscontriamo nel mito di Filemone e Bauci (8), ma anche presso altre culture tale topos è ricorrente. Ne troviamo traccia indubbiamente nell’incontro tra Abramo e i tre personaggi alle querce di Mambre(9) o nella parenesi di Eb 13,2 (che non a caso si colloca in un interlocutorio di contesto semitico): «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni nel praticarla hanno accolto gli angeli senza saperlo»(10). E’ interessante notare, in tal senso, come il messaggio che si cela dietro tale narratività evidenzi nell’ospitalità l’occasione di incontro con Dio”.

La seconda ragione è di carattere storico e fa riferimento alla personale vicenda di Israele la cui storia nasce da un «arameo errante» (Dt 26,5) che viene accolto da diversi popoli e dal quale ha origine una generazione che per lunghi secoli vivrà straniera in terra straniera. L’ospitalità che adesso Israele è invitato ad offrire allo straniero si realizza proprio nel segno di quella ospitalità che un giorno ha ricevuto o, al contrario, della quale non ha potuto godere perché fatto oggetto di soprusi. Quando Dio dice «voi conoscete la vita dello straniero» (Es 23,9), non fa riferimento solo a un dato puramente cognitivo, peraltro impensabile nella mentalità ebraica, ma a una conoscenza essenzialmente esperienziale. Voi la conoscete perché ne avete fatto esperienza e quindi sapete cosa significa. E quindi «il forestiero dimorante tra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Lv 19,34). Proprio in tale cornice può porsi una interessante istituzione che è quella delle «città-rifugio» riservate a qualsiasi straniero avesse ucciso qualcuno involontariamente (cfr. Nm 35,15). Interessante perché costituisce la prima attestazione di un passaggio dall’ospitalità personale all’ospitalità strutturale: non più il singolo che ospita una o più persone ma un’intera comunità che si fa realtà ospitante.

La terza motivazione è quella propriamente religiosa e si radica nell’esemplarità divina che Israele è chiamato a riproporre: «Il Signore vostro Dio (...) rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10, 18). Ospitare il forestiero, l’orfano, la vedova diventa così espressione di «giustizia», cioè di perfetto adempimento della Legge (12). Il pio israelita, lo tzaddiq è tenuto a farlo nella duplice prospettiva del comandamento ma anche dell’esempio di Dio. JHWH che gli chiede tutto questo è anche Colui che per primo lo fa. Ne consegue che chi è fedele alla legge di Dio lo è anche nella prassi dell’ospitalità. In tal senso vi sono alcuni interessanti esempi da riportare dai quali emerge come la prassi dell’ospitalità, in un contesto religioso, sia premiata in vario modo. Il primo episodio è quello della prostituta Raab che accoglie gli esploratori inviati da Giosuè, fingendo che si tratti di comuni «clienti» (Gs 2,1-12). il secondo, che presenta alcuni tratti di somiglianza col primo, è relativo alla vedova di Zarepta che, accogliendo il profeta Elia, condivide con lui il suo ultimo pasto (1 Re 17,20). In entrambi i casi le due donne vengono premiate: la prima con l’incolumità per sé e la sua famiglia, la seconda con la guarigione del figlio. L’ospitalità che è accoglienza alla vita dell’altro viene ricompensata con il dono della vita. Tale dinamica retributiva diventa ancora più evidente nella storia di Rut, in cui la sua accoglienza al paese straniero, per cui lascia il proprio accompagnando la suocera Noemi, e quella di Booz alla donna straniera, che sposerà, culminerà nel premio più grande, quello cioè di diventare antenati di Davide e quindi del Messia (Mt 1,5-6). L’abbandono delle proprie certezze che si attua in questa singolare e reciproca ospitalità trova nell’accoglienza all’altro la sua nuova certezza.

1.2 Nel Nuovo Testamento. Il misterioso evento che sta all’origine nel Nuovo Testamento e storicizza in Cristo l’inizio della redenzione è attuato nel segno dell’ospitalità. Maria si fa ospite del Verbo che, in virtù della sua accoglienza, diviene il Gesù storico. In lei è l’intera umanità a ospitarlo(13), anche se, come sottolinea Giovanni, le tenebre non hanno accolto la sua luce (Gv 1,5). E non è un caso che la sua nascita avvenga proprio nel segno di un dramma di ospitalità: nessuna locanda ha posto per il figlio di Dio costretto a nascere per strada, in una «mangiatoia»(14). Quella terra che diventa per lui la sola realtà accogliente è ben simbolizzata, nell’iconologia bizantina, da quella grotta della nascita che si fa al tempo stesso accoglienza sepolcrale, cioè grembo del rinascere.

E, così pure, non è un caso che dall’accoglienza di Maria scaturisca un ulteriore duplice gesto di ospitalità. Il primo è quello che, paradossalmente, compie la stessa Maria che, facendosi essa stessa ospite di Elisabetta andando a trovarla cum festinatione, cioè con una premura ben sottolineata da Luca. Il secondo è quello, più evidente, da parte della cugina che accoglie «la madre del suo Signore» e quindi, in essa, lo stesso Gesù. Dietro quel sobbalzare di feto vi è proprio la gioia dell’accogliere, per primi, il figlio di Dio.

Nel messaggio evangelico, poi, troviamo almeno tre distinte tipologie che sottolineano, in aggiunta a quanto evidenziato nel Primo Testamento, il valore dato all’ospitalità.

La prima è la prospettiva di carattere etico-antropologico. Il comandamento dell’amore, sopratutto per coloro che si trovano in una situazione di precarietà esistenziale, trova nell’identificazione del «povero»(15) con Cristo la sua principale ragion d’essere. Nell’ospitare ed accogliere l’altro si accoglie Cristo stesso che, nella persona ospitata, si cela. Il tema, esplicitato nella parabola dei capri (Mt 25,31-45), verrà riletto innanzitutto nelle molte proiezioni devozionali, iconografiche e agiografiche che mostrano, con i linguaggi propri dei rispettivi ambiti, la figura di un povero che in realtà appare essere lo stesso Gesù (16). Ma poi, anche nella semplificazione catechistica, come una delle «opere di misericordia corporale» (17).

La seconda valenza è di ordine escatologico. Sempre in riferimento alla stessa parabola sopra citata l’ospitalità diventa uno dei parametri del giudizio escatologico. Ovviamente, nella parabola, l’elenco delle azioni misericordiose ha valore esemplificativo più che esaustivo ma nell’identificare solo pochi gesti-simbolo è significativo notare come Gesù vi includa proprio l’ospitalità.

La terza ragione, infine, è di carattere cristologico. I pressanti inviti vetero-testamentari ad accogliere i forestieri, unitamente ad altre persone in condizione di marginalità esistenziale, trovano il nuovo riferimento esemplare nella persona stessa di Gesù e nella sua testimonianza. Se, prima, l’israelita doveva accogliere l’altro perché glielo chiedeva Dio e Dio stesso si faceva difensore del povero, adesso tutto questo si incarna nella concretezza di un esempio visibile da imitare. Il Dio fattosi uomo si dimostra costantemente accogliente nei confronti dell’altro, ospita nel suo cuore, nel suo gesto sanante, nella sua parola guaritrice chiunque lo accosti.

Non dobbiamo trascurare, poi, i molti tratti biografici che, pur senza evidenziare in modo tematico la dimensione dell’ospitalità, di fatto presentano situazioni in cui Gesù è ospite di parenti, amici, discepoli. Anzi, molte volte, tali situazioni fanno da cornice a eventi miracolosi o insegnamenti particolarmente significativi. Basti pensare alle nozze di Cana, alle quali era presente come ospite; alla guarigione della suocera di Pietro nella cui casa di Cafarnao si fermava quando passava dalla Galilea; al banchetto in casa di Simone col noto episodio della donna peccatrice; all’abitazione di Marta e Maria in Betania, delle quali era ospite abituale, in cui sono ambientate la scena dell’unzione e i preliminari della resurrezione di Lazzaro; all’ultima cena in un sala appositamente predisposta per accoglierlo insieme ai discepoli, ecc...

Il tema dell’ospitalità verrà poi ripreso in vari passaggi degli altri scritti neotestamentari nel modo seguente: nella lettera ai Romani, la sua pratica viene presentata da Paolo come uno dei frutti della carità in un elenco che, se pur non esaustivo, ne evidenzia, tuttavia, alcuni dei più significativi: «Siate premurosi nell’ospitalità» (hospitalitatem sectantes, Rm 12,13); nella Prima lettera di Pietro se ne sottolinea la dimensione della reciprocità: «Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare» (1 Pt 4,9); nelle lettere pastorali, emerge come dovere specifico del vescovo: «Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare (1 Tm 3,2; cfr. anche Tt 1,8); nella lettera agli Ebrei, infine, è evidenziata la sua connessione con la carità, da cui promana, correlandola ad altre opere di misericordia sulla scia di Mt 25,3 1-45: «Perseverate nell’amore fraterno. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo(18) Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che soffrono, essendo anche voi in un corpo mortale (Eb 13,1-3)».

2. La prassi ospitante nella tradizione ecclesiale

2.1 Ospitalità ed evangelizzazione. Quanto detto a proposito delle attestazioni neotestamentarie inerenti l’ospitalità diventa ben presto prassi ecclesiale. Sono proprio le case dei credenti, infatti, i primi centri di ascolto della Parola e dello spezzare del pane, le prime ecclesìe: «Salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16,4) e ancora: «Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità» (Rm 16,23). Negli Atti viene ricordato come, dopo il battesimo di Lidia, questa rivolga a Paolo e ai suoi discepoli un invito: «Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa». E ci costrinse ad accettare» (At 16,15). Possiamo senz’altro affermare che la prassi dell’ospitalità presso le case dei credenti, unitamente alla predicazione itinerante costituisse non solo l’ordinaria modalità di evangelizzazione nella Chiesa apostolica, ma anche il primo nucleo di quella che diventerà l’assemblea domenicale. Questa considerazione, di per sé prettamente storico-ecclesiale, assume tuttavia una portata assai più ampia ove si consideri il ruolo che svolge la «struttura ospitante» nella diffusione del messaggi evangelico. Non si tratta, cioè, soltanto di una pia pratica o dell’esercizio di una virtù, per quanto attuata in risposta ad un’esortazione evangelica, bensì di realizzare il regno di Dio anche attraverso una specifica prassi all’interno di una spazialità accogliente.

2.2 La riflessione patristica. Sul piano della prima riflessione teologica il tema dell’ospitalità è ampiamente presente negli scritti patristici(19). Nei Padri d’Oriente, d’altra parte, non va sottovalutata la sua consonanza con un ben preciso substrato culturale. La sua prassi, infatti, non si radicava solo in una convinta assimilazione dell’insegnamento biblico, ma anche in un retroterra storico che la valorizzava in modo specifico. Limitandoci ai Padri dei primi secoli la Didachè vi dedica espressamente un capitolo dando anche chiare indicazioni operative:

venuto èdi passaggio, aiutatelo quanto potete; non rimarrà da voi se non due o tre giorni, se necessario. Se vuole fermarsi da voi, avendo un mestiere, lavori e mangi. Se non ha un mestiere provvedete secondo il vostro giudizio, perché un cristiano non viva tra voi ozioso. Se non vuole così èun mercante di Cristo: guardatevi da costoro!»(20).

Nella Lettera ai Corinti Clemente associa arditamente l’ospitalità alla fede nella motivazione della promessa di Dio ad Abramo: «Per la fede e l’ospitalità gli fu dato un figlio nella vecchiaia» e prosegue associandovi ora la pietà (per la quale Lot fu salvato dalla distruzione di Sodoma) ora di nuovo la fede, a proposito della prostituta Raab.(21)

Possiamo citare ancora Il Pastore di Ernia nel quale l’ospitalità è vivamente raccomandata perché offre l’occasione di manifestare la carità(22). Aristide che ricorda come i cristiani gioiscano a ricevere i pellegrini come se fossero loro veri fratelli(23) Cipriano che autorizza a prelevare dai suoi beni il necessario per sostenere i forestieri’(24). Tertulliano che arriva addirittura a definire l’intera cristianità come contesseratio hospitalitatis. (25). E dell’ospitalità parleranno anche sant’Ambrogio e sant’Agostino(26).

2.3 Gli xenodochi e la prima ospitalità organizzata. Sulla scia e nella consapevolezza di tutto questo la Chiesa dei primi secoli organizza in modo sistematico le prime specifiche strutture di accoglienza.(27)

Le prime di queste possono ritenersi le diaconìe istituite a Roma da papa Fabiano (240-253) e annesse agli uffici del vescovo per assistere varie categorie di bisognosi: malati, orfani, pellegrini, forestieri, vedove. Il concilio di Nicea (325 d.C.) renderà obbligatoria per ogni città l’istituzione degli xenodochi, strutture di ricovero appositamente destinate ai pellegrini e agli stranieri. Queste venivano così ad affiancarsi ad altre istituzioni che cominciavano a nascere come i nosocomi (il più delle volte costruiti accanto ai primi e destinati ai malati); i brefotrofi (per accogliere i bambini a qualunque titolo bisognosi); gli orfanotrofi; gli ptocotrofi (per i poveri), i gerontocomi (per gli anziani).

In epoca medievale assistiamo a una straordinaria ed eterogenea fioritura di «ordini ospedalieri», termine col quale non dobbiamo intendere l’assistenza ospedaliera in senso stretto bensì ogni tipologia di attività «ospitante» nei confronti di poveri, stranieri, pellegrini, malati, ecc... Tra queste istituzioni ricordiamo: gli Antoniani che curavano in modo particolare gli storpi e i soggetti colpiti dal «fuoco di Sant’Antonio»(28) i «fratelli dei ponti» e i «cavalieri d’Altopascio» che costruivano rifugi per i viandanti in prossimità dei valichi e dei tratti di strada particolarmente pericolosi o insicuri; l’Ordine di Santo Spirito, fondato verso il 1180 da un laico, Guido di Montpellier al quale si deve, per intervento di Innocenzo III che lo istituì formalmente, l’ospedale di Santo Spirito, la prima vera e propria struttura ospedaliera di un certo respiro che farà esclamare a Lutero nel suo viaggio a Roma:

«Gli ospedali in Italia sono provvisti di tutto ciò che è necessario; sono ben costruiti, vi si mangia e beve bene, e vi si è serviti con sollecitudine; i medici sono abili, i letti e le mobilia sono puliti e ben tenuti. Quando il malato vi è condotto, gli si tolgono gli abiti in presenza di un pubblico notaio che li registra; poi si mettono da parte con cura ed il malato viene ricoperto da una veste bianca e deposto in un tetto ben preparato. La pulizia è ammirevole».(29)

2.4 La Regola di san Benedetto. Parlando di hospitalitas, un posto a se stante occupa indubbiamente la Regola di san Benedetto che al suo esercizio dedica un intero capitolo, il cap. LIII: «Come debbano essere accolti gli ospiti» (De suscipiendis hospitibus):

1) Tutti gli ospiti che sopraggiungano, siano ricevuti come Cristo, perché Egli dirà: «Fui ospite e mi accoglieste»;
2) e a tutti si renda il conveniente onore, specialmente poi a quanti ci sono familiari secondo la fede, e ai pellegrini.
3) Appena dunque è stato annunziato un ospite, il superiore o i fratelli gli vadano incontro con ogni dimostrazione di carità;
4) ma prima preghino insieme, e solo allora si accomunino a lui nella pace.
5) Tale bacio di pace appunto non dev’essere offerto se non dopo che si è pregato, ad evitare le illusioni diaboliche.
6) Perfino nel modo di salutare si mostri somma umiltà a tutti gli ospiti che giungono o partono:
7) inchinato il capo o prostrato tutto il corpo a terra, si adori in essi Cristo che viene accolto.
8) Ricevuti dunque gli ospiti, siano condotti all’orazione, e dopo si sieda con loro il superiore o un fratello da lui incaricato.
9) Si legga dinanzi all’ospite la Legge divina per edificarlo, e poi gli si offra ogni segno di premurosa benevolenza.
10) Il superiore per riguardo all’ospite rompa pure il digiuno, purché non si tratti d’uno speciale giorno di digiuno che non possa esser violato;
11) i fratelli invece seguano i consueti digiuni.
12) L’acqua alle mani la versi agli ospiti l’abate;
13) i piedi a tutti gli ospiti li lavino sia l’abate che tutta la comunità,
14) e finita la lavanda dicano questo verso: «Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel mezzo del tuo tempio».
15) I poveri e i pellegrini siano accolti con particolari cure ed attenzioni, perché specialmente in loro si riceve Cristo, mentre ai ricchi si porta rispetto per la stessa soggezione che incutono.
16) La cucina dell’abate e degli ospiti sia a parte, di modo che in qualunque ora vengano all’improvviso gli ospiti, che nel monastero non mancano mai, i fratelli non ne siano disturbati.
17) A prestare servizio in questa cucina entrino per tutto un anno due fratelli ben adatti a tale compito.
18) A loro, secondo che ne abbiano bisogno, si procurino degli aiuti, perché servano senza mormorare; quando invece mancano di lavoro, vadano ad occuparsi dove viene loro comandato.
19) E non solo per essi, ma anche per tutti gli ufficiali del monastero sia questa la norma,
20) che quando hanno bisogno di aiuti, ne vengano provvisti, e quando invece sono liberi, si occupino dove vuole l’obbedienza.21) Similarmente la foresteria sia affidata ad un fratello che abbia l’anima posseduta dal timore di Dio;
22) in essa vi sia un numero sufficiente di letti arredati, e la casa di Dio sia amministrata da saggi e saggiamente.
23) Nessuno poi, se non ne ha ricevuto l’incombenza, si accompagni o parli con gli ospiti;
24) ma se li incontra o li vede, li saluti umilmente, come abbiamo detto, e chiesta la benedizione passi oltre, dicendo che non gli è permesso di parlare con l’ospite.

Il capitolo può essere nettamente diviso in due parti. I vv. 1-15 espongono in termini generali le ragioni dell’ospitalità, mentre i successivi trattano specificamente di alcune modalità pratiche per attuarla in monastero.

Il primo versetto pone l’accento sulla dimensione universalistica dell’ospitalità per cui si debbono accogliere tutti. Se una preferenza va fatta, questa riguarda i fratelli nella fede (domestici fidei) nei quali vanno ravvisati altri monaci o chierici, i pellegrini (che incontravano il monastero lunga la via del loro pellegrinaggio) e, com’è detto al v. 15, i poveri(30).

La prassi dell’ospitalità non è mai disgiunta, tuttavia, da una sua più elevata comprensione all’interno di un ben preciso universo spirituale, tant’é che il primo atto con cui l’ospite viene accolto non è quello del dargli ristoro ma del pregare insieme a lui(31).

Le ragioni teologiche dell’accoglienza non sono solo esplicitate al v. 1 in rapporto alla matteana parabola dei capri, ma vengono ulteriormente sottolineate da atti fisici di vera e propria venerazione, immedesimandosi in lui Cristo in persona, e dal sentimento di gratitudine formulato con le parole del Salmo 47,10(32).

Più pragmatiche e, certamente, di minor slancio spirituale, appaiono le indicazioni dei versetti successivi. Ma non c’è da stupirsene. La Regola, infatti, pur pervasa da un profondo affiato spirituale è pur sempre un testo normativo, per di più destinato a disciplinare la vita in un contesto monastico ben più affollato di quelli odierni e, di solito, anche culturalmente assai meno elevato. Per cui non devono disturbare indicazioni così dettagliate che non sono indice di pedanteria normativa e che nulla tolgono alla ricchezza spirituale dei precedenti versetti.

Vi sono da notare, tuttavia, due elementi di rilievo. Il primo riguarda il servizio del monaco accogliente al quale viene data molta importanza (v. 21). Tale attenzione ricorda quella che oggi, nell’ambito della gestione delle risorse umane viene attribuita ai cosiddetti servizi di front line che costituiscono il primo impatto dell’utente con una istituzione a volte determinante per la credibilità della stessa e i successivi sviluppi del rapporto.

Il secondo è relativo alla proibizione, fatta ai monaci, di intrattenersi con l’ospite. Potrebbe sembrare una chiusura contrastante con quanto affermato prima, ma non è così. Con grande saggezza e perspicacia, infatti, san Benedetto vuole evitare che persone sprovvedute e magari pettegole, come a volte potevano essere i monaci, abbiano a screditare il buon nome del monastero o della stessa vita monastica, lasciando un marchio negativo nella memoria dell’ospite. (33)

2.4 Il carisma di San Giovanni di Dio. Dopo secoli di prassi dell’ospitalità, praticata a livello individuale e soprattutto nelle foresterie monastiche, tale vissuto torna prepotentemente sulla scena ecclesiale in virtù dell’esperienza di un santo portoghese, san Giovanni di Dio (1495-1550), diventando l’oggetto specifico di un «quarto voto» per l’Ordine dei Fatebenefratelli che da lui avrà origine. (34)

Nella sua esperienza storica Giovanni Ciudad, dopo varie esperienze (guardiano di pecore, soldato di ventura, muratore, ecc.), convertitosi in seguito all’ascolto di una predica di san Giovanni d’Avila, manifesta visibilmente i segni di uno sconvolgimento profondo per cui viene ritenuto «pazzo»(35) e rinchiuso nell’ala manicomiale dell’ospedale di Granada. Lì ha modo di vedere come vengono trattati i malati, e i malati di mente in modo particolare, per cui chiede a Dio di poter avere, quando uscirà, un ospedale in cui poter curare i malati a modo suo (36). Cosa che avverrà dando origine a una ininterrotta attività «ospitaliera» che continua fino ad oggi, non limitata a quella sanitaria ma molto più ampia (case di riposo, hospices, asili notturni, unità di strada, ecc...)

3. Nuovi percorsi teologico-pastorali

In conclusione e senza volermi addentrare in trattazioni di più ampio impegno e respiro, mi limito a indicare alcune possibili vie che una riflessione sulle dimensioni teologiche dell’hospitalitas può aprire nell’attuale contesto sociale ed ecclesiale.

3.1 Ospitalità e teologia trinitaria. Un primo percorso di ricerca credo sia quello di evidenziare all’interno della stessa vita trinitaria le radici fontali dell’ospitalità. Se, infatti, nell’analisi biblica ed ecclesiale si evidenzia la sua natura di virtù morale, questa va ricondotta non solo alla volontà creatrice di Dio strutturante la vita morale della persona, ma anche, e in primo luogo, alla sua stessa vita di cui quella umana dovrebbe costituire similitudine esistenziale e, soprattutto, caritativa.

E così che il Padre accoglie in sé il Figlio, anzi ancor più lo «genera» in una generazione eterna che, evidenziando l’unità di natura tra generato e generante, pone l’ospitalità nella sua dimensione di più profonda intimità e condivisione, non semplice accoglienza in seno alla propria esistenza ma comunione e unità genetica della stessa.

A sua volta il Figlio accoglie il Padre, nel suo essere generante, certo, ma - in prospettiva dell’Incarnazione - anche accettando profondamente e con amore sofferto la sua volontà. Il Padre, come dirà a Filippo (Gv 14,9), è già tutto nel Figlio e il suo ospitarlo in sé si fa segno per il mondo.

Infine lo Spirito, reciproco dono di amore ma anche sua reciproca accoglienza. Accoglienza, poi, diventa storia nell’esistenzialità umana ponendosi, come ci ricorda la sequenza di Pentecoste, quale dulcis hospes animae.

Ovviamente, in queste che sono linee appena abbozzate, non bisogna assolutamente correre il rischio di una sorta di implicito, per quanto involontario, «triteismo» sempre incombente quando si affronta il discorso sulle singole «persone» trinitarie. Il reciproco ospitarsi, in tal senso, deve costituire anzi un ulteriore elemento in grado di evidenziare, sia pure nel paradosso, il mistero del Dio uni-trino.

3.2 L’ospitalità eucaristica. È un punto di particolare delicatezza e attualità in ambito ecumenico. Il cammino compiuto dall’ecumenismo nei tempi post-conciliari è stato notevole, anche se in questi ultimi anni ha subito alcune battute di arresto che ci auguriamo possano essere presto superate.

Tra i vari problemi sul tappeto, quello della cosiddetta «ospitalità eucaristica» costituisce indubbiamente uno degli ambiti verso i quali sono maggiormente rivolte l’attenzione e le aspettative delle Chiese. Sappiamo bene, infatti, che il dialogo dottrinale si muove a piccoli passi e non sempre particolarmente significativi. La possibilità di accedere reciprocamente e in via ordinaria all’eucaristia (cosa attualmente possibile ad alcune particolari condizioni (37) e, in ogni caso, nell’ambito delle Chiese che riconoscono piena sacramentalità (38) alle rispettive celebrazioni eucaristiche), potranno costituire un significativo progresso sul piano del «vissuto» ecumenico che, spesso, precede e trascina poi la comunione dottrinale.

Non solo, ma il problema oggi è particolarmente avvertito nei matrimoni misti che costituiscono, forse, il fronte più avanzato, più problematico ma al tempo stesso più fecondo in ambito ecumenico. Di fronte a una comunione di vita e alla celebrazione sacramentale del matrimonio l’impossibilità di accedere insieme all’eucaristia costituisce, indubbiamente, un oggettivo segno di contraddizione.

Il dialogo, tuttavia, si è fatto più serrato in questi ultimi anni e non è escluso che, in tempi brevi, si possa arrivare anche a un qualche documento comune, come già avvenuto per la Dichiarazione sulla giustificazione (39).

3.3 L’ospitalità come rinnovata via di carità. Si è già detto, e più volte, che la virtù dell’ospitalità costituisce una particolare e significativa espressione della carità. Tuttavia, le sue forme storiche sono state quasi sempre esercitate, secondo modalità che oggi possono apparire desuete. Nessuno bussa più alla porta e viene accolto o si presenta come viandante, pellegrino, straniero. Anche nelle tradizionali foresterie monastiche che hanno mantenuto ininterrotta la consuetudine dell’accoglienza agli ospiti, questa si svolge oggi secondo modalità più spiccatamente «alberghiere», pur senza tradire lo spirito originario che le ha generate. Ma proprio per questo l’imperativo etico di Cristo attende di incarnarsi in forme nuove di esercizio. Molte delle quali, peraltro, sono sotto gli occhi di noi tutti.

Mi limito a ricordarne due in modo particolare. La prima, di carattere più generale e «pubblico» riguarda l’accoglienza agli immigrati. Non è questa la sede per affrontare un simile problema, ma è chiaro che lo spirito che deve animarla non può essere quello di una precostituita chiusura bensì, al contrario, quello di una fondamentale apertura all’altro. Anche se questo dovrà confrontarsi con oggettive possibilità o disposizioni legislative, queste dovranno essere sempre improntate a compiere il maggior sforzo possibile per garantire la fruizione di quei beni (terra, lavoro, casa, ecc.) che non possono essere gelosa ed egoistica prerogativa di una nazione.

La seconda modalità, più personale, segno quasi di una ferialità del quotidiano è quella che molti movimenti stanno portando avanti con la prassi di periodiche accoglienze, soprattutto per bambini vittime dei danni delle guerre o di catastrofi naturali. Anche questa è un’ospitalità in qualche modo «organizzata», ma costituisce un modo nuovo di esprimere la carità nei confronti di vittime innocenti del male, soprattutto se provocato dall’uomo. In tal senso, anzi, è interessante notare come tale prassi esuli dall’ambito strettamente cristiano essendo ampiamente diffusa anche tra chi non condivide in alcun modo la fede cristiana.

Forse, anche in questo sono ravvisabili quei semi del Verbo (spermata tou Logou) di cui parla Giustino (40), segno di perenne speranza e presenza dello Spirito nella storia dell’uomo.


Note

(1) Tale minaccia era particolarmente avvertita nei confronti delle donne cananee, perché, proprio in virtù, dei «matrimoni misti», queste avevano introdotto culti idolatri in Israele intaccandone la purezza della fede. Tale tentazione, dalla quale non fu immune lo stesso re Salomone (cfr. I Re 1-8), diede esito, nella legislazione post-esilica di Esdra, ad una specifica proibizione del matrimonio di un israelita con donne straniere e allo scioglimento di quelli già contratti (Esd 10).

(2) Cfr. Gn 19,2;24,25-32; Gd 15,19-20; 2 Sam 12,4; Gb 31, 2.

(3) A. BONORA, Lo «straniero» in Deuteronomio, in «Parola, Spirito e Vita», n. 27 (1993) 26-28;

(4) Dt 25,5; Gb 15,9; Is 61,5; 25,15; Ger, 30,8; 51,51; Ez 7,2-11; 11,9.

(5) Dt 23,21; 14,21; 15,3.

(6) Dt 14,29; 16, 11.14; 26,11-12.

(7) Cfr. ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO, Carta d’identità dell’Ordine, Curia Generalizia, Roma 1998, p. 2.2.3.

(8) Si tratta di una toccante leggenda di cui ci parla il poeta latino Ovidionelle Metamorfosi. Un giorno Hermes e Zeus si travestirono da mendicanti per andare sulla terra a vedere come vivevano gli uomini. Ma questi rifiutarono di accoglierli usando modi rudi e scortesi. Solo due poveri anziani, Filemone e Bauci, li accolsero nella loro povera capanna e condivisero con loro il proprio povero pasto con animo lieto. A questo punto gli dei si manifestarono e trasformarono in un tempio d’oro la capanna chiedendo quale fosse il loro desiderio più grande. I due anziani coniugi chiesero di poter rimanere sempre insieme a servirli nel tempio. Cosa che avvenne morendo contemporaneamente ed essendo trasformati l’uno in quercia e l’altra in tiglio, con i rami intrecciati tra loro.

(9) Gn 18, 1-16. In tale brano potremmo rinvenire addirittura un vero e proprio parallelo letterario nel racconto della visita che i tre dei greci, Zeus, Posidone ed Hermes fanno a Ireo e, dopo averne ricevuto ospitalità, gli promettono un figlio, Orione. La narrazione biblica e il mito greco potrebbero dipendere, con modalità che non conosciamo, da un comune substrato tradizionale (G. VON RAD, Genesi, Paideia, Brescia 1978, p. 269).

(10) In tal caso il primo riferimento, indubbiamente è quello a Gn 18,1-16 ma non è esclusa l’allusione ad altre tradizioni circolanti tra i destinatari a cui l’autore della lettera si rivolge.

(11) Non a caso vi è un incedere quasi liturgico nel racconto di Abramo alle querce di Mamre: si prostra (culto), prepara il vitello e il latte (offerta), crede alla promessa (fede), li supplica di non distruggere Sodoma (orazione).

(12) Cfr. Lv 16,29 18,26; 19,10.33

(13) Mi limito a riportare, tra tutti, un brano di Gregorio di Nissa: «Il Verbo, essendosi unito all’uomo, prese in lui tutta la nostra natura, affinché, per questa unione alla divinità, tutta l’umanità fosse divinizzata in lui e tutta la massa della nostra natura fosse santificata con la prima» (Adv. Apoll 15, PG 45, 1152c).

(14) Ormai è assodato che il tema della “grotta” nasce col Protovangelo di Giacomo, scritto verso la fine del il secolo. Ma se scompare la grotta l’interpretare con “mangiatoia” il termine greco phartne fa propendere per l’ipotesi della “stalla”. L’idea del nascere “per strada”, così, non solo assai più plausibile ma è anche consona al tema degli eventi itineranti così tipico di Luca. In realtà il termine phatne indica anche la sacca che veniva deposta sul dorso del mulo nel quale si poneva gli oggetti di uso comune e il cibo. Per cui diventa non solo verosimile ma anche suggestivo che Maria abbia posto il bambino in questa mangiatoia-sacca, lui che un giorno sarebbe stato il “pane di vita”, nel “villaggio del pane” (=Bet-lehern) nascendo per strada (cfr. G. I. GARGANO, I vangeli dell’infanzia, EDB, Bologna 2004, pp. 11-14).

(15) Ovviamente tale sostantivo deve inteso in senso propriamente biblico, cioè non solo come colui che non ha, ma come colui che non è, che non ha peso sociale, che è emarginato, che patisce l’ingiustizia, che non ha voce. La triplice categorizzazione scritturistica dell’orfano, della vedova e dello straniero prescinde infatti dalle effettive condizioni economiche che potevano anche non essere precarie. La loro precarietà era più esistenziale che economica (cfr. A. GELIN, Il povero nella Sacra Scrittura, Sussidi Biblici n. 32-33, 1991).

(16) Tale simbolizzazione scenica, del resto ripropone quanto già sant’Ambrogio affermava: «In officiis hospitalibus omnibus humanitas impertienda est…., ne tu suscipias hominem, suscipias Christum. Licet in hospite sit Christus, quia Christus in papere est, sicut ipse ait» (AMBROGIO,De officiis, lib. 11, 107).

(17) Verosimilmente il loro elenco, come oggi lo riportiamo risale ai secc. XII e XIV quando costituiva un comune insegnamento tramandato oralmente. Dopo il concilio di Trento esso venne ufficialmente codificato nei catechismi, soprattutto ad uso della prima confessione e comunione.

(18) Cfr. quanto già detto alla nota 10.

19) Cfr. A.P. FRUTAZ, Ospitalità in: E ANCILLI (a cura di), Dizionario enciclopedico di ospitalità, Città Nuova, Roma 1992, pp. 1792-1793.

Didachè, XIII, 1-5 in A. QUACQUARELLI (a cura di), I Padri apostolici, Città Nuova, Roma 1984. Prima lettera di Clemente ai Corinti 0.10,7; 11,1; 12,1 (ibid.). ERMA, Il Pastore, Precetto VIII, 10; Similitudine VIII, 10,3 (ibid). ARISTIDE, Apologia, t15 (Corpus apologeticum, IX, 344-348).

(24) CIPRIANO, Epistulae n. 7 (PL 4, 196).

(25) TERTULLIANO, De praescriptione haereticorum, n. 29 (PL 2, 9).

(26)AMBROGIO, De Abraham 1, 5,32 (PL 14, 435); De Officiis 2, 103 (PL 16, 131); SANT’AGOSTINO, Sermones 355, 1, 3 (PL 39).

(27) Cfr. A. CASERA, L’ospedale e l’assistenza ai malati nel corso dei secoli, Ed. Salcom, Brezzo di Bedero 1994.

(28) Il fuoco di Sant’Antonio altro non è che un malattia causata dall’herpes zoster e caratterizzata da forti dolori ed eritema cutaneo a fascia. La sua etimologia popolare non è chiara. Secondo alcuni farebbe riferimento alla iconografia che a volte raffigura sant’Antonio abate con una fiamma in mano (riferita in realtà alla leggenda agiografica del fuoco strappato al demonio e donato all’uomo), secondo altri all’ardore delle tentazioni sessuali da lui superate nel deserto e delle quali ci parla Atanasio nella biografia del santo.

(29) Riportato da G. COSMACINI, Lebbrosario, Lazzaretto, Ospedale, in «Missione Salute», n. 2 (1993), 48.

(30) Cfr. La Regola di San Benedetto e le regole dei Padri, a cura di S. Pricoco, Fondazione Lorenzo valla/Mondadori, Milano 1998, p. 360.

(31) Questo in realtà aveva anche un secondo scopo, cioè quello di evitare gli «inganni del demonio», che nella persona dell’ospite potevano celarsi (Sancti Benedicti regula monasteriorum, a cura dii. SCHUSTER, Pia Società San Paolo, Alba 1945, p. 313).

(32) Proprio per tale fondazione cristologica, il precetto di accogliere gli ospiti è presente in quasi tutte le regole monastiche: Pacomio, Praecepta, 51-54; Regola di san Basilio, 32-33; Regola dei quattro santi Padri, 2, 36-42; Seconda Regola dei Padri, 14-16; Regola di Cesario per le Vergini, 38; 40; Vitae Patrum Jurensium 172 (tutti citati da G. HOLZHERR, La Regola di San Benedetto, Piemme, Torino 1992, p. 387).

(33) Ibidem.

(34) La menzione di un vero e proprio «voto di ospitatiti» compare per la prima volta nel Breve Romani Pontificis di Clemente VIII (1596), cioè dopo quasi mezzo secolo dalla morte del santo, dopo che l’ordine si era già diffuso in gran parte d’Europa. La citazione non è delle più nobili in quanto è inclusa in una disposizione che consente agli Ordinari dei luoghi di espellere i frati giudicati indegni e «ab emisso per eos hospitalitatis voto absolvere» (G. RUSSOTTO, Origine ed evoluzione sotrica del voto di ospitalità dei Fatebenefratelli, Ufficio Formazione e Studi dei Fatebenefratelli, Roma 1978, p. 36).

(35) II Castro, primo e più autorevole biografo del santo, dice che il santo «fu preso per pazzo» (F DE CASTRO, Hiistoria de la vida y sanctas obras de Juan de Dios, Granada 1585), anche sei successivi studiosi, sopratutto degli ultimi due secoli, danno diverse interpretazioni dell’evento, optando chi per una semplice simulazione o espressione parossistica di uno stato d’animo, chi per un effettivo disordine mentale (cfr. G. RUSSOTTO, San Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedaliero, Ufficio Formazione e Studi FBF, Roma 1969, vol. I, pp. 62-64). Sia l’una che l’altra interpretazione ovviamente nulla tolgono alla genuinità della conversione e alla santità del successivo percorso esistenziale.

(36)Il Castro ha riportato fedelmente le parole del santo: «Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione e servirli come desidero io» (E. DE CASTRO, op. cit., cap. IX).

(37)Sono sostanzialmente quelle fissate dal can. 844 §§ 3-4 del Codice di Diritto canonico e dall’enciclica di Giovanni Paolo II, Ecdesia de Eucaristia, nn. 45 e 46.

(38) Sono escluse sostanzialmente quelle delle Chiese nate dalla Riforma alle quali la Chiesa Cattolica non riconosce la piena validità sacramentale per defectus ordinis.

(39) Si tratta della Dichiarazione Congiunta tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale circa la dottrina della giustificazione (Gemeinsame Erklärung) firmata il 31 ottobre 1999 ad Augsburg, in Germania, dalla Federazione Luterana Mondiale e dal Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Tale dichiarazione pone fine a cinque secoli di reciproche incomprensioni su un problema che è stato il punto di partenza dottrinale della riforma luterana e del successivo allontanamento tra le due Chiese.

(40)GIUSTINO, II Apologia 13, 3 (PL 6).


* Docente di Teologia morale alla Facoltà teologica di Sicilia. - Palermo. Le riflessioni qui presentate nascono da una duplice contingenza esperenziale. La prima fa riferimento a lunghi anni di frequentazione della foresteria monastica di Camaldoli, la seconda trae spunto dall’aver operato per circa vent’anni tra i Fatebenefratelli che professano, nell’ospitalità, il loro quarto voto religioso.

(da Vita Monastica, n. 233, Gennaio-marzo 2006)

Bioetica, vie diverse
ma stesso approdo
tra cattolici e ortodossi

di Vladimir Zelinskij

Fede e ragione, due doni che Dio ha dato agli uomini insieme con il terzo: la libertà. Ma essi non vivono sempre in pace fra di loro. Anche quando hanno un punto di partenza comune: la sacralità della vita umana. La questione dell’inizio della nostra esistenza non è questione di fede, dicono i cattolici. È un semplice fatto della forza della logica che dovrebbe essere vincolante per i credenti e non credenti.

La logica, però, è come una guardia per l’ordine, sembra invincibile quando l’ordine c’è, ma appena arriva il trasgressore, si mostra innocua, perché tutti sanno che la sua arma è caricata a salve. Infatti, ognuno sceglie una propria logica e crede nella sua infallibilità. Le vere scelte umane provengono da una sorgente più profonda. Per l’Ortodossia nessun esperimento sull’embrione è lecito, non solo perché il concepito contiene in sé tutto il programma del suo sviluppo che può manifestarsi anche fuori del grembo materno, non solo perché tutta l’identità umana è già “piegata” in due cellule che si sono trovate per unirsi e per portare alla luce “gloria di Dio, uomo vivente”, ma anche perché il concepimento è un atto della creazione in cui partecipano non solo uomo e donna. È un miracolo dove Dio è presente, un sacramento in cui è offerto il suo amore. Forse, i cristiani non possono esprimere il loro pensiero non solo con le prove, ma anche con lo stupore?

Mi ricordo del mio incontro con il professor Jérôme Lejeune, il famoso genetista. «Posso spiegare lo sviluppo del concepito dal primo momento», disse lui, «ma pur con tutta la mia conoscenza mi rendo conto che mi trovo davanti a un mistero inesplicabile». Il mistero ci chiede un attimo della contemplazione che a volte può essere non meno convincente che il sistema della logica più ferrea. S’impone la domanda, però: perché dobbiamo dare la preferenza a quel mucchietto di cellule davanti a una persona adulta che ha i suoi problemi, di salute o di finanza? Davvero la ratio da sola è capace di risolvere questo dilemma? Perché, infatti, se le cellule staminali possono curare le malattie finora incurabili? Se la fede avesse il diritto di parola, risponderei così: perché colui che in ogni caso è più forte, che ha avuto la sua vita e, come diceva Dostoevsky, «ha già mangiato la mela», è chiamato a non impedire l’affacciarsi alla vita di un essere umano infinitamente più debole, che non ha vissuto, ch’è ancora innocente.

L’approccio “occidentale” alla bioetica (come agli altri problemi difficili del nostro mondo) può essere diverso da quello “orientale”, ma la soluzione cristiana è quasi sempre uguale. Se uno ha più fiducia nella luce della ragione e un altro nel mistero della luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo, davvero abbiamo ancora motivi validi per rimanere divisi?

Giovedì, 03 Maggio 2007 02:20

Lezione nona. Il profetismo

Lezione Nona

IL PROFETISMO

 

 

Nel cammino della storia salvifica l’incontro del Dio vivente con l’umanità rappresentata da Israele, avviene mediante continue esperienze religiose tramite alcuni personaggi che svolgono dei ruoli particolari per tutto il corso di svolgimento dell’economia divina di salvezza.

Giovedì, 03 Maggio 2007 01:07

Le opere di Teilhard de Chardin

LE OPERE




A. FONTI AUTOBIOGRAFICHE

Journal, I Cahiers 1-5 (26 aout 1915 – 4 Janvier 1919). Texte intégral publié par Nicole et Karl Schmitz-Moormann. Paris (Fayard) 1975, 396p.


B. OPERE SCIENTIFICHE

L’œuvre Scientifique. Textes réunis et édités par N. Nicole et Karl Schmitz-Moormann. Vol. I-X. Olten-Freiburg (Walter-Verlag) 1971-4634p.


C. OPERE FILOSOFICO-SCIENTIFICHE

Le Phénomène Humain. Paris (Seuil) 1955, 350 p. (Œuvres I).

Il Fenomeno Umano. Trad. Ferdinando Ormea. Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore) 1968 321p.

L’Apparition de l’Homme. Paris (Seuil) 1956. 378 p.(Œuvres II).

L’Apparizione dell’Uomo. Milano (Il Saggiatore) 1979. 320p.

La Vision du Passé. Paris (Seuil) 1967. 394p. (Oeuvres III).

La Visione del passato. Trad. Ferdinando Ormea. Milano (Il Saggiatore) 1973 464p.

Le Milieu Divin. Essai de Vie Intérieure. Paris (Seuil) 1957. 260p. (Oeuvres IV)

L’Ambiente Divino. Saggio di vita interiore. Trad. Aldo Daverio. Revisore Ferdinando Ormea, Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore) 1968 190p.

L’Avenir de l’Homme. Paris (Seuil) 1959. 408p. (Oeuvres V)

L’Avvenire dell’Uomo. Milano (Il Saggiatore) 1972. 480p.

L’Energie Humaine. Paris (Seuil) 1962. 224p. (Oeuvres VI)

L’Activation de L’Energie. Paris (Seuil) 1963. 432p. (Oeuvres VII

La Place de l’Homme dans le Nature (Le Groupe Zoologique Humain). Paris (Seuil) 1963. 176p. (Oeuvres VIII)

Il Posto dell’Uomo nella natura. (Il gruppo zoologico umano): Trad. Ferdinando Ormea. Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore 1970. 184p.

Scienze et Christ. Paris (Seuil) 1965. 294p. (Oeuvres IX).

Comment Je Crois. Paris (Seuil) 1969. 294p. (Oeuvres X):

Les Directions de l’Avenir. Paris (Seuil) 1973. 238p. (Oeuvres XI).

Ecrits du Temps de la Guerre. Paris (Seuil) 1976480p. (Oeuvres XII):

La Vita Cosmica (Scritti del tempo di guerra: 1916-1929): Trad. Annette Dozon Daverio. Milano (Il Saggiatore) 1970 536p.

Le Cœur de la Matière. Paris (Seuil) 1976. 256p. (Oeuvres XIII).


D. EPISTOLARIO

Lettres d’Egypte 1905-1908. Paris (Aubier-Montaigne) 1963. 228p.

Lettere dall’Egitto 1905-1908. Trad. Nicoletta Cavalletti. Brescia (Morcelliana) 1966. 282p.

Lettres d’Hastings et de Paris 1908-1914. Paris (Aubier-Montaigne) 1965. 463p.

Lettere da Hastings e da Parigi 1908-1914. Trad. Lucia Pigni Maccia. Brescia (Morcelliana) 11967. 432p.

Genèse d’une pensée. Lettres 1914-1919. Paris (Grasset) 1961. 406p.

Genesi di un pensiero. Lettere dal fronte 1914-1919. Trad. Stefano Majnoni. Milano (Feltrinelli) 1966. 268p.

Lettres de voyage 1923-1939. Recueillies et présentées par Claude Aragonnès. Paris (Grasset) 1956. 227p.

Lettres de voyage 1939-1955. Recueillies et présentées par Claude Aragonnès. Paris (Grasset) 1957. 193p.

Lettres de voyage 1923-1955. Recueillies et présentées par Claude Aragonnès. Paris (Grasset) 1962. 370p

Lettere di viaggio. Trad. Michele Rago e Vincenzo Dominaci. Milano (Feltrinelli) 1962. XXV-317p.

Blondel et Teilhard. Correspondance commentée par Henri de Lubac s.j. Paris (Beauchesne) 1965. 168p.

Corrispondenza di Maurice Blondel e Pierre Teilhard de Chardin. Commentata da Henri de Lubac. Trad. Vincenzo De Mari. Torino (Borla) 1968. 184p.

“Lettres inédites a un savant de ses amis”. Christus. Paris 1967.14. pp.238-258.

Lettere a un amico scienziato. Presentazione e commento di Annette Daverio. Torino (P. Gribaudi) 1969. 74p.

Lettres à Léontine Zanta. Introduction par Robert Garric et Henri de Lubac s.j. Paris (Desclée) 1965. 142p.

Convergere in alto. Lettere a Léontine Zanta. Introduzione di Robert Garric e Henri de Lubac. Presentazione e note di Michel Certeau. Trad. A. Dozon Daverio. Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore) 1969 175p.

Accomplir l’homme. Lettres inédites 1926-1952. Preface du Père d’Ouince s.j. Paris (Grasset) 1968. 288p.

Realizzare l’Uomo (Lettere inedite 1926-1952). Milano (Il Saggiatore) 1974. 348p.

Rivière, Claude. En Chine avec Teilhard 1938-1944 récit suivi de lettres inédites de Pierre Teilhard de Chardin. Preface de Jean de Beer. Paris (Seuil) 1968. 272p.

Lettres intimes à Auguste Valansin, Bruno de Solages, Henri de Lubac, André Ravier (1919-1955). Introduction et notes par Henri de Lubac. Paris (Aubier-Montaigne) 1974. 512p.

Dans le sillage des sinanthropes. Lettres inédites de Pierre Teilhard de Chardin et Jahan Gunnar Andersson 1926-1934. Presentation de Pierre Leroy. Paris (Fayard) 1971. 98p.

Pierre Leroy. Lettres familières de Pierre Teilhard de Chardin mon ami. Les dernieres années 1948-1955. Paris (le Centurion) 1976. 268p.

Giovedì, 03 Maggio 2007 00:54

Le «tavole del dialogo» (aa.vv.)

Islam e cristianesimo

Le «tavole del dialogo»




Il documento qui riprodotto è stato elaborato da: Paolo Branca, docente di Lingua e letteratura araba nell’Università Cattolica di Milano; Stefano Allievi docente di Sociologia nell’Università di Padova; Silvio Ferrari, docente nelle Università di Milano e Lovanio; Mario Scialoja, presidente della Lega musulmana mondiale-Italia e del suo direttore, Giovanni Sarubbi. E’ caduta tradizionalmente alla chiusura del periodo di digiuno e purificazione previsto dalla religione islamica (ramadan). Per conoscere le iniziative connesse alla Giornata (oltre che accedere a numerosi articoli e documenti sui temi del dialogo cristiano-islamico) si può consultare il sito www.ildialogo.org


E’ necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza.

Il diritto alla differenza non può mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.

La presenza di musulmani in Italia ha ormai raggiunto una tale «massa critica» da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d’intervento estemporanee e improvvisate, com’è spesso stato finora. L’impegno di molti che si sono prodigati, sia da parte italiana sia da parte islamica, con numerose iniziative conferma le potenzialità di un tessuto sociale vivo e attivo, ma proprio per non vanificare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri Paesi europei, ci sembra indispensabile che le istituzioni e i cittadini - italiani e non - coinvolti a vario titolo nella questione trovino modalità per riflettere e agire insieme all’interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi.

Per questo (…) riteniamo doveroso richiamare alcuni punti che ci paiono di cruciale importanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da sé che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni che seguiranno come pensate esclusivamente per loro, anche se il presente documento ne tratta in modo specifico: una buona legge sulla libertà religiosa, ad esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunità e non solamente di quella islamica. La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che a un indebolimento delle identità (reali o immaginarie) sta conducendo piuttosto a un loro irrigidimento che non sembra cogliere sufficientemente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensì tende a enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione.

Siamo consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identità ci spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l’unica in grado di portare a buoni risultati nell’interesse comune. Per questa ragione pensiamo che vada scoraggiato con ogni mezzo lo spirito di sospetto e di rivalsa che in taluni - da entrambe le parti - sembra purtroppo prevalere. I punti che ci pare necessario richiamare sono:

1. Incoraggiare la collaborazione con le istituzioni a ogni livello per promuovere una reale partecipazione. dimostrando che le regole della democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo è utile in particolare partire dal censimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto anche al fine di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziché su evidenze empiriche. Interventi formativi all’interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanità, carcere, personale di polizia, ecc.) sulle tematiche relative al pluralismo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che già affrontano da tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche (legislative e operative) più efficaci. 

2. Scoraggiare con fermezza ogni forma di illegalità per evitare il formarsi di società parallele o gruppi che si percepiscano e si presentino come corpi estranei: il diritto alla differenza non può e non deve mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.

3. Valorizzare le iniziative che si pongono nella prospettiva della condivisione di valori, interesso e impegno comune al servizio della collettività.

4. Dare priorità alle donne e ai giovani che, senza rinunciare alla propria specificità culturale e religiosa, dimostrano di voler sviluppare, con chi condivide i loro problemi e le loro aspirazioni, attività che favoriscono contatti, scambi e integrazione. 

5. Offrire, a livello universitario, percorsi di maturazione e di formazione a quanti intendono svolgere funzioni di servizio alle comunità, specie nei ruoli di orientamento e di guida. Non si tratta ovviamente di formare i ministri del culto, ma di favorire l’emersione e il consolidamento di competenze e capacità specifiche tra coloro che già operano nei diversi gruppi, affinché la loro azione sia maggiormente adeguata alle finalità dell’integrazione e della partecipazione alla vita del Paese in cui risiedono.

6. Stimolare, specie nelle scuole, la valorizzazione degli apporti delle differenti culture del Mediterraneo alla costruzione di una comune civiltà. Laddove siano presenti numerosi alunni arabofoni, appositi corsi per la conservazione e lo sviluppo della lingua d’origine (del resto già in atto, in forma sperimentale) andrebbero diffusi e sostenuti. Tali interventi non sarebbero ad esclusivo vantaggio degli immigrati, ma contribuirebbero alla trasformazione dell’intero settore scolastico non sarebbe adeguato che alla realtà di un mondo sempre più interdipendente se restasse ancorato a forme di istruzione centrate soltanto sulla cultura locale.

7. Incoraggiare i mass media a dare spazio alle numerose esperienze di collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le problematicità, ma ancora una volta di partire dalla realtà che è più ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di terreno empirico, informazione completa e imparziale.

8. Promuovere politiche che migliorino le condizioni di vita delle società di provenienza degli immigrati, con riferimento non soltanto alla situazione economica ma anche allo sviluppo della società civile, al rispetto dei diritti umani e alla valorizzazione del pluralismo ad ogni livello.

9. Valorizzare l’azione delle istituzioni locali, che sono a contatto diretto con le realtà di base, nel promuovere iniziative che - per la qualità degli interventi e le loro ricadute positive sul territorio - possono costituire dei modelli validi anche per analoghe situazioni, in stretto contatto con le agenzie culturali e religiose che già operano in tal senso.

10. Approfondire la conoscenza reciproca, nel mutuo rispetto pur senza rinunciare allo spirito critico e autocritico, non solamente con sporadiche iniziative informative, ma attraverso il lavoro permanente e sistematico di gruppi che affrontino insieme tematiche specifiche di comune interesse. Ciò favorirebbe inoltre lo sviluppo di prospettive professionali che facciano tesoro delle competenze e delle capacità di chi si distingue nel lavoro interculturale.

(da Popoli, ottobre 2006)

Quando i gesti contano più delle parole

di Cettina Militello

I lettori vorranno perdonarmi se questo mese al viaggio abituale tra le donne teologhe sostituisco alcune riflessioni a margine della visita di Benedetto XVI in Turchia. Lo faccio proiettandomi nel clima dell’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani e richiamando insieme quel lontano 25 gennaio del 1959, quando, a pochi mesi dalla sua elezione, papa Giovanni manifestò il suo progetto di indire un concilio. La visita del Papa a mio parere sta all’interno di entrambe le attenzioni. Da una parte l’impegno, la fatica, il desiderio di raggiungere finalmente l’unità visibile tra i cristiani. Dall’altra il Concilio come “bussola” grazie alla quale è possibile navigare nella complessità dell’oggi finalmente recependone il messaggio, sul fronte dell’unità delle Chiese cristiane come su quello del dialogo interreligioso.

Nei discorsi del Papa sono state diverse le citazioni del Concilio. Parlando ai musulmani, il riferimento è stato soprattutto a Nostra aetate, ma anche la Gaudium et spes ha avuto un suo spazio. Parlando al piccolo gregge dei cattolici, le citazioni più importanti sono state tratte dalla Lumen gentium. Indirizzandosi poi al patriarca Bartolomeo, il riferimento obbligato e diretto è stato a Unitatis redintegratio. Ma va da sé che alle spalle dell’incontro, come di quelli intercorsi in precedenza tra i due capi delle due Chiese sorelle, sta l’intero travaglio del Vaticano II culminato, come più volte ricordato, nella reciproca cancellazione delle scomuniche.

Indirizzandosi al ministro per gli affari religiosi, il Papa ha ricordato come «per più di quarant’anni, l’insegnamento del concilio Vaticano Il ha ispirato e guidato l’approccio della Santa Sede e delle Chiese locali di tutto il mondo nei rapporti con i seguaci delle altre religioni. Seguendo la tradizione biblica, il Concilio insegna che tutto il genere umano condivide un’origine comune e un comune destino: Dio, nostro Creatore e termine del nostro pellegrinaggio terreno. I cristiani e i musulmani appartengono alla famiglia di quanti credono nell’unico Dio e che, secondo le rispettive tradizioni, fanno riferimento ad Abramo» (cf Nostra aetate 1; 3). E ricevendo gli ambasciatori accreditati presso il governo turco, di nuovo richiamandosi al Vaticano Il, il Papa ha affermato che «la Chiesa cerca ugualmente di collaborare con i credenti e i responsabili di tutte le religioni, e particolarmente con i musulmani, per “difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà” (Nostra aetate 3)». «Spero», concludeva il Papa, «che, in questa prospettiva, il mio viaggio in Turchia porti numerosi frutti».

Il reciproco riconoscimento

Possono apparire affermazioni di routine o d’occasione. In verità, nella prospettiva di un reciproco riconoscimento e di un reciproco rispetto, non lo sono. Il dialogo è tale se l’altro ci è interlocutore alla pari; il che in altre parole vuol anche dire: se l’altro è oggetto del nostro amore. E’ certamente difficile muoversi, capovolgendo malintesi secolari e pregiudizi sempre vivi. Ma il vero dialogo non può nascere da considerazioni opportunistiche sul fronte della religione messa ai margini da un mondo globalizzato e secolarizzato; nasce piuttosto dal sincero riconoscimento che Dio si rivela anche oltre i confini rassicuranti della Chiesa e – ancor di più - che la Chiesa deve essere segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità con tutto il genere umano (cf LG 1). E questo appunto credo abbia testimoniato la preghiera silenziosa del Papa in direzione della Mecca. Ha condiviso al massimo ciò che ci unisce - la fede nel «Dio uno e misericordioso» (lo ha ricordato al piccolo gregge nella cattedrale di Istanbul citando LG 16) - e se ne è fatto testimone.

Anche sul fronte del dialogo ecumenico i gesti contano più delle parole - penso alle mani strette e levate insieme del Papa di Roma e del Patriarca di Costantinopoli -. E tuttavia, anche le parole possono suggerirci qualcosa in più oltre le difficoltà e la stanchezza di un dialogo - ahimé fermo, e da oltre un decennio -. Provo a selezionarle in questo senso a partire dalla dichiarazione comune, nella quale Benedetto e Bartolomeo auspicano che il loro incontro costituisca «un segno e un incoraggiamento (…) a condividere gli stessi sentimenti e gli stessi atteggiamenti di fraternità, di collaborazione e di comunione nella carità e nella verità». C’è un affidarsi allo Spirito Santo che, quando e come Dio lo vorrà, li aiuterà a preparare il grande giorno del ristabilimento della piena unità. Ma proprio da quest’intrecci di gioia e speranza emerge la consapevolezza che solo allora potranno rallegrarsi ed esultare veramente.

Sappiamo che la via conciliare al ristabilimento dell’unità visibile corre lungo il doppio binario del dialogo teologico e del dialogo della carità. Va detto che l’uno non corre senza l’altro e la stasi del dialogo teologico ha non di poco complicato anche il dialogo della carità. Riaffermare il valore del dialogo teologico, la sua funzione, il suo scopo dichiarato di «ristabilire la piena comunione», diventa dunque importante. Così come è importante la congiunta affermazione circa il non aver tratto dall’abolizione mutua delle scomuniche «tutte le conseguenze positive che ne possono derivare per il nostro cammino verso la piena unità».

Ripresa del dialogo

In verità il dialogo con l’ortodossia, il dialogo teologico, è ripreso nello scorso settembre, come la dichiarazione ricorda. E il tema a cui si è lavorato e al quale si continuerà a lavorare è quello della “Conciliarità e autorità nella Chiesa” a livello locale, regionale e universale. Con ciò la commissione, afferma ancora la dichiarazione, «ha intrapreso una fase di studio sulle conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Ciò permetterà di affrontare alcune delle principali questioni ancora controverse». E’ chiaro che siamo al cuore di un tema non solo portante per l’ecclesiologia ecumenica, ma portante tout court. Autorità e conciliarità sono i due poli del vissuto ecclesiale e il problema è quello di considerarli insieme, l’uno e l’altro, senza sbilanciarsi a favore dell’uno piuttosto che dell’altro.

La questione investe l’unica Chiesa che è presente in ogni Chiesa locale e investe la communio ecclesiarum, ossia il rapporto reciproco, la rete delle Chiese nella diversa circolarità anche canonica del luogo, della regione, della Chiesa intera e delle strutture che ne manifestano il mistero. Ripeto, se tutto ciò investe direttamente la questione delle Chiese in situazione di unità non ancora piena, investe anche il vissuto della Chiesa cattolico-romana, l’equilibrio anche in essa di un’articolazione sinodale - direi conciliare - che senza inficiare il referente dell’autorità, veramente lasci trasparire la soggettualità del popolo peregrinante, tutto intero in cammino, tutto intero attivo, come lo stesso papa Benedetto ha ricordato con dense parole, nell’omelia del 1’ dicembre, al piccolo gregge di Istanbul.

Rileggere il servizio petrino

E il problema dei problemi resta quello del Papato, resta il suo esercizio fuori da una contestualità sinodale quale fu attestata nel primo millennio. Resta il paradosso cattolico di ispirarsi a un concilio, il Vaticano Il, che pure “ecumenico” non è nel senso più proprio del termine, visto che a celebrarlo, sia pure invitando osservatori delle altre confessioni, è stata la Chiesa cattolico-romana. Il Papa ha ricordato, salutando il patriarca di Costantinopoli, come «in questa parte del mondo orientale si sono tenuti i sette concili ecumenici che ortodossi e cattolici riconoscono come autorevoli per la fede e la disciplina della Chiesa. Essi costituiscono permanenti pietre miliari e guide lungo il cammino verso la piena unità».

Ma basta ricordarlo oppure occorrerebbe riaprire il cantiere di un’effettiva conciliarità ecumenica? Verrà, insomma, il giorno nel quale cattolici e ortodossi e i battezzati tutti saranno raccolti in un concilio di nuovo veramente e pienamente ecumenico? Di più, verrà il giorno in cui il servizio petrino sarà riletto come tale e perciò liberato dalle pastoie di un esercizio del primato che altro non dovrebbe chiedere se non di servire alla verità e alla carità, senza prevaricazioni, senza offendere in alcun modo la ricchezza che lo Spirito elargisce a ogni Chiesa? Ecclesiae seu ritus, affermava Orientalium ecclesiarum 2.

Di quanto cambierebbe il rapporto delle Chiese ora separate se solo avessimo il coraggio di leggerne la storia come «espressione di quella mirabile varietà di cui è adornata la Sposa di Cristo». Così il Papa plaude alla molteplicità dei riti a cui fanno riferimento i fedeli e i vescovi convenuti alla cosiddetta casa di Maria ad Efeso, e aggiunge: «Purché sappiano convergere nell’unità e nella comune testimonianza». Credo sinceramente che occorra avere il coraggio - reciproco s’intende - d’assumere la provvidenzialità delle differenze che connotano le Chiese. Non c’è altra strada.

Occorre dar credito allo Spirito e riconoscerne il soffio diversificato. Insomma un consenso diversificato su ciò che ci ha divisi nel secondo millennio e, invece, assunzione totale, senza riserve, di ciò che ha visto le Chiese convergere nel primo millennio e di tutto quanto, pur essendo proprio a ognuno, non incrina la propria specifica identità ecclesiale. Che la questione del primato sia un punctum dolens i Papi lo riconoscono da Paolo VI in poi.

Superare le riserve al dialogo

Anche papa Benedetto nota che «il tema del servizio universale di Pietro e dei suoi Successori ha sfortunatamente dato origine alle nostre differenze di opinione, che speriamo di superare, grazie anche al dialogo teologico, ripreso di recente».E aggiunge: «Il mio venerato predecessore, il Servo di Dio papa Giovanni Paolo II, parlò della misericordia che caratterizza il servizio all’unità di Pietro, una misericordia che Pietro stesso sperimentò per primo (Ut unum sint 91). Su questa base papa Giovanni Paolo fece l’invito a entrare in dialogo fraterno, con lo scopo di identificare vie nelle quali il ministero petrino potrebbe essere oggi esercitato, pur rispettandone la natura e l’essenza, così da “realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri” (ibid. 95). E’ mio desiderio oggi richiamare e rinnovare tale invito» (discorso del 30 novembre nella chiesa patriarcale di San Giorgio al Fanar).

Voglio davvero augurarmi che papa Benedetto, ponendo la questione ecumenica tra i temi peculiari del suo pontificato - penso ancora con commozione alla metafora della rete “smagliata” nell’omelia d’inizio del suo ministero - oltrepassi autorevolmente da pastore e teologo le riserve che facilmente vengono opposte al riguardo. Purtroppo, spesso nella difesa del privilegio petrino, di certe sue forme, si nasconde più la volontà di esercitare ciascuno per la sua parte un piccolo/grande potere vicario, che non la volontà di riconoscere al successore di Pietro quanto a parole gli si riconosce.

Nella questione ecumenica - e non solo da parte cattolica - spesso è la pigrizia, il quieto vivere a prevalere. Si finisce con il rifuggire da tutto ciò che impegnerebbe altrimenti la Chiesa tutta, nell’interezza delle membra, come ha ben ricordato il Papa ai fedeli raccolti a Efeso e nella cattedrale di Istanbul. Il Papa però d’altro sentire si è fatto garante: «Posso assicurarvi», ha detto nel medesimo discorso al Fanar, «che la Chiesa cattolica è pronta a fare tutto il possibile per superare gli ostacoli e per ricercare, insieme con i nostri fratelli e sorelle ortodossi, mezzi sempre più efficaci di collaborazione pastorale a tale scopo». L’ecumenismo non è un processo dall’alto, né tanto meno è un processo elitario.

L’unità visibile della Chiesa è nelle mani di tutti; non a caso la dichiarazione comune si conclude facendo appello a tutti «i fedeli delle nostre Chiese presenti ovunque nel mondo, vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, uomini e donne laici impegnati in un servizio ecclesiale, e a tutti i battezzati». Papa Benedetto, poi, commentando ai fedeli raccolti nella cattedrale di Istanbul le parole di Mt 16,17: «Beato te, Simone figlio di Giona: perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (e siamo all’interno di un “testo fondativo” del primato) ha aggiunto rivolto a tutti i presenti: «Sì, siamo beati quando lo Spirito Santo ci apre alla gioia di credere e quando ci fa entrare nella grande famiglia dei cristiani, la sua Chiesa, così molteplice nella varietà dei doni, delle funzioni e delle attività, e nello stesso tempo già una, “poiché è sempre lo stesso Dio che agisce in tutti”». Voglia lo Spirito renderci consapevoli del suo dono e accompagnarci nella consapevolezza dell’unità donata e nella fatica dell’unità da additare come tale a noi stessi e al mondo.

(da Vita Pastorale, Gennaio 2007)

Senza pace non c'è futuro

di Gerolamo Fazzini

Il rispetto della persona, immagine di Dio, è alla base della vera pace. Altrimenti, i diritti umani vengono svuotati del loro senso autentico.

«Rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale. È così che si prepara un futuro sereno per le nuove generazioni». È uno dei passaggi-chiave del messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della pace 2007. Un messaggio ampio e articolato, ma con una forte unitarietà interna e un nucleo centrale chiarissimo: «La persona umana cuore della pace», come suona il titolo.

Mai chiaramente come stavolta, il Papa - che si rivolge «ai governanti e ai responsabili delle nazioni» ma anche «a tutti gli uomini e le donne di buona volontà» - ha rimesso al centro lo strettissimo legame («trascendente grammatica» lo chiama) tra il rispetto della dignità della persona e la pace. Non c’è futuro senza pace, dice il Papa; ma non c’è pace senza il riconoscimento della persona. Ergo: occorre ripartire dalla verità dell’uomo, immagine di Dio, perché la pace non sia vuoto slogan o mero anelito spiritualista.

All’apparenza, quello di Papa Ratzinger sembra un richiamo formale: chi oggi non si direbbe d’accordo con la tutela dei diritti umani? «Se però - puntualizza Benedetto XVI - questi diritti si fondano su una concezione debole della persona, come non ne risulteranno anch’essi indeboliti?». La dignità dell’uomo - sottolinea il Papa - sta nel fatto che «nella sua natura si rispecchia l’immagine del Creatore». Di qui, come per cerchi concentrici, nascono e si sviluppano i diritti fondamentali, in primis alla vita.

È sulla originaria dignità dell’uomo come figlio di Dio che si fondano, altresì, il diritto alla libertà religiosa - al quale Benedetto XVI dedica un passaggio cruciale - così come l’urgenza di un’uguaglianza piena, superando discriminazioni sessuali o ingiustizie nell’accesso ai beni; è sulla «persona cuore della pace» che si radica l’impegno per una «ecologia umana e sociale» e la costruzione paziente di un’architettura internazionale a servizio della pace.

Le conseguenze non sono né poche né di poco conto. Innanzitutto, lottare in difesa della vita non è meno importante che protestare contro le troppe guerre che insanguinano il mondo o adoperarsi per abbattere le ingiustizie. Per converso: non ha senso battersi per l’embrione se questo significa chiudere gli occhi su tante altre insidie alla vita e alla pace che si verificano oggi nel mondo.

Ancora. Pensare di risolvere i problemi della pace semplicemente ristrutturando l’Onu e, in generale, rimodellando i rapporti politici tra Stati sarebbe miope, sembra dire il Papa. In causa, infatti, siamo chiamati tutti, grandi e piccoli, politici e cittadini, aziende e consumatori. La pace - ossia «la capacità di vivere gli uni accanto agli altri tessendo rapporti di giustizia e di solidarietà» - è qualcosa che ciascuno deve costruire nel suo spazio di vita, ogni giorno. Perché «la pace è insieme un dono e un compito». E dunque tutti, in misura diversa, siamo chiamati a farci carico di quanto avviene oltre il cortile di casa, siano il conflitto del Darfur o le tensioni del Libano. Tutti, in qualche modo, siamo corresponsabili delle varie emergenze citate dal Pontefice, dalla fame al pericolo nucleare, dalla violenza brutale delle armi a quella più sofisticata della bioetica piegata a fini disumani.

Infine. Se «il riconoscimento e il rispetto della legge naturale costituiscono la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti», quella che si profila è la possibilità di una nuova alleanza fra tutti coloro che riconoscono l’insopprimibile dignità dell’uomo, a fronte di chi vede nella persona «una dignità cangiante» e «diritti sempre negoziabili». Una sfida antica, ma che oggi - in un contesto com’è il nostro, segnato da fortissime derive tecnologiche ed economicistiche -assume un significato e una portata inauditi

(da Mondo e Missione, Gennaio 2007)

Pace e Dialogo Interreligioso

Un appello per la pace, «nome di Dio»

di Gabriele Mandel khân



Riteniamo utile premettere al prezioso testo di Gabriele Mandel khân un appello formulato da credenti di ogni religione al termine dell’annuale incontro Uomini e religioni, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, nello spirito della preghiera di Assisi (1986). Centrale il passo che indica «la pace (come) il nome di Dio. Dio non vuole l’eliminazione dell’altro. Dio ha compassione per chi soffre sotto i colpi della violenza, del terrorismo, della guerra. Chi usa il nome di Dio per affermare un interesse di parte o legittimare la violenza, avvilisce la religione».

Uomini e donne di religione differente ci siamo ritrovati nell’antica città di Lione per pregare, per dialogare, per far crescere un umanesimo di pace. Rendiamo omaggio alla memoria di Giovanni Paolo II, che è stato un maestro di dialogo e un testimone tenace della santità della pace. Siamo convinti che, senza pace, questo mondo diviene disumano. Abbiamo ascoltato il grido di tanti che soffrono per la guerra o per il terrorismo. Ci siamo chinati, pensosi, sulle nostra tradizioni religiose e vi abbiamo letto un messaggio di pace. Abbiamo pregato per la pace nel mondo.

E in nome della pace che ci rivolgiamo ai nostri correligionari, agli uomini e donne di buona volontà, a chi ancora crede che la violenza migliori il mondo. E diciamo: è tempo che finisca l’uso della violenza! La vita umana è sacra. La violenza umilia gli uomini e la causa di chi la utilizza. Il mondo è stanco di vivere nella paura. Le religioni non vogliono la violenza, la guerra, il terrorismo. Lo diciamo con forza a tutti gli uomini!

Deploriamo la distruzione dei luoghi religiosi dell’una o dell’altra comunità: le moschee, le chiese, le sinagoghe, i templi. I simboli della fede altrui non siano calpestati, perché ricordano a tutti il nome santo di Dio che non appartiene agli uomini. Come domandiamo il rispetto per la vita umana, chiediamo pure quello per i luoghi santi della vita spirituale.

La pace è il nome di Dio. Dio non vuole l’eliminazione dell’altro. Dio ha compassione per chi soffre sotto i colpi della violenza, del terrorismo, della guerra. Chi usa il nome di Dio per affermare un interesse di parte o legittimare la violenza, avvilisce la religione. Nessuna guerra è mai santa. L’umanità non si migliora con la violenza e con il terrore.

Le religioni insegnano che la pace del cuore è decisiva. Dio la dona a chi crede in Lui. La nostra ferma speranza è che la pace, dono di Dio, si estenda a tutti gli uomini e le donne, abbracci tutti i popoli della terra, fermi le mani dei violenti e sconvolga i disegni di terrore. Per questo abbiamo pregato a Lione.

Abbiamo anche constatato che i dolori del mondo sono tanti: l’umanità è ancora ben lontana dal realizzare quegli obiettivi del millennio, che si era data per abbattere la povertà, per il diritto alle cure, all’istruzione, all’acqua, alla sicurezza di vita, alla libertà dalla fame. Questo è molto grave! Il nostro mondo resta segnato da disperanti povertà. E’ una constatazione dolorosa che manifestiamo, con grave preoccupazione, ai responsabili politici. Ci facciamo carico della disperazione e del bisogno di milioni di poveri della terra. Chiediamo una più forte concentrazione di energie e di risorse per rendere meno povero e più umano il mondo del XXI secolo.

La pace e la giustizia rendono più possibile un mondo migliore. La via della pace è il dialogo. Il dialogo non abbassa la difesa verso l’altro, ma protegge; trasforma l’estraneo in amico; rende possibile quel lavoro in comune per lottare contro la povertà e ogni male.

A Lione abbiamo vissuto un dialogo franco, illuminato dallo spirito religioso della preghiera. Abbiamo dialogato tra esponenti delle varie comunità religiose e con gli umanisti del nostro tempo. Sono emerse le profonde diversità tra religioni e culture. Il mondo, pur globalizzato, non è divenuto tutto uguale. Ma si è fatto chiaro che c’è un destino unico. E’ tempo di lavorare assieme con coraggio per un umanesimo capace di costruire la pace tra i popoli e gli individui. L’obiettivo non è l’affermazione dell’uno o dell’altro, ma realizzare una civiltà in cui si vive insieme. L’arte del dialogo è la strada paziente per costruire questa civiltà del vivere insieme.

Conceda Dio al mondo e a ogni uomo e a ogni donna il dono meraviglioso della pace!

Lione, 13 settembre 2005

(da Vita Monastica, 233, Gennaio-marzo 2006)

La lite tra Girolamo e Rufino,
due umani padri della Chiesa

di Marco Ronconi *

Se perfino tra Girolamo e Rufino è scoppiata la « discordia che ora ci fa piangere, quale amico non si potrà d’ora in poi temere come un possibile futuro nemico?». Sant’Agostino cercava così, nel 404, di appianare un dissidio che fece epoca e che, a raccontarlo, sembra un romanzo. Girolamo dì Stridone è lo stesso san Girolamo cui si attribuisce l’inizio della traduzione latina della Bibbia, la cosiddetta Vulgata. Le sue opere sono capisaldi dell’arte poetica cristiana, dell’esegesi e della letteratura ascetica. Già prima di divenire segretario di papa Damaso, la padronanza della retorica latina e greca, oltre che la discreta conoscenza dell’ebraico, ne facevano un intellettuale ricercato da molti, famoso per la rara competenza cosmopolita, ma anche per il carattere passionale e poco incline alla diplomazia. Rufino di Concordia non fu mai elevato agli altari, ma a lui si rifecero, tra gli altri, Agostino, Giovanni Cassiano, Cassiodoro, Benedetto da Norcia e Isidoro di Siviglia. Secondo j. Gribomont e buona parte della critica contemporanea, le traduzioni che elaborò dal greco al latino di opere capitali per la cristianità hanno «recato un contributo decisivo alla cultura, biblica e non, del Medioevo latino». E grazie a lui, ad esempio, se ancora oggi conosciamo alcuni testi di Origene, andati perduti nell’originale.

Entrambi cresciuti vicino ad Aquileia alla scuola del vescovo Cromazio, entrambi traduttori ed esegeti, entrambi monaci e legati a nobildonne romane (Melania per Rufino e Paola per Girolamo), con cui fondarono monasteri in due diversi punti di Gerusalemme, avevano chiaramente idee diverse sui metodi di traduzione della Bibbia e sull’interpretazione della vita ascetica, ma nessuno immaginava quanto sarebbe accaduto nella controversia su Origene, il primo intellettuale cristiano di livello enciclopedico, vissuto ad Alessandria nel III secolo. La controversia nacque dal fatto che i testi di Origene, scritti evidentemente prima delle elaborazioni dottrinali dei grandi concili, si prestavano a interpretazioni difficili. All’epoca di Girolamo e Rufino, erano guardate con sospetto alcune sue spiegazioni sulla resurrezione della carne, sulla salvezza del diavolo, sull’esegesi allegorica e sulla preesistenza delle anime.

Nel 398, in particolare, inizia una “raccolta di firme” per mettere all’indice l’alessandrino. Girolamo, che pure ha mostrato fino a quel punto incomparabile stima per colui che ha elogiato come grandissimo maestro aderisce al movimento antiorigenista, suscitando le critiche di molti, tra cui Rufino, che lo bollano in modo sottile ma inequivocabile come un traditore. Per lettera, volano parole grosse - soprattutto da parte di Girolamo - ma i due, complici anche amici comuni, riescono a riconciliarsi quasi subito, al punto che Rufino, presentando la traduzione di una delle opere più notevoli di Origene, cita Girolamo come modello del particolare metodo adottato. Il cardinale della Repubblica ceca Tomàš Špidllìk lo spiega così: «Non tutti coloro che traducono letteralmente i termini rendono bene anche il pensiero dell’autore. Per comprendere bene un testo bisogna amarlo. Ed è ciò che fa Rufino. Egli ammira il pensiero di Origene e perciò, nonostante la sua libertà nei termini, rende spesso meglio le idee principali del grande maestro alessandrino». Per preservare il buono della dottrina di Origene, quindi, non esita a smussare, togliere e ricomporre i testi, come del resto era costume tipico dell’epoca.

Il problema è che quando Girolamo legge la dedica, va su tutte le furie. Non vuole in nessun modo il suo nome legato all’alessandrino e, tra gli epiteti più lievi con cui parla di Rufino, risuonano «scorpione», «asino», «canaglia». Traduce poi la stessa opera senza nessuno degli accomodamenti di Rufino, per mostrare non solo quanto sia pericolosa, ma anche quanto poco credibile sia il lavoro dell’ex amico. Questi dà allora alle stampe un’Apologia, in cui ribatte chiedendo a Girolamo: «Che cosa è più audace e temerario: tradurre questi libri di Origene, dei quali quasi tutta la materia avevi già esposto in altre opere e tutte le dottrine che ora condanni avevi già pubblicate in opere tue: oppure alterare i libri della Sacra Scrittura [...] basandoti su una traduzione nuova del testo ebraico? Quale di queste due azioni ti sembra più illecita?». La tenzone crescerà ancora, fino a livelli d’acrimonia e di colore stupefacenti, su cui non ci addentriamo oltre. A un certo punto Rufino smise di replicare, mentre «finalmente è stata schiacciata la testa dell’idra», è la non criptica frase con cui Girolamo commentò la morte dell’altro.

Personalmente, pur comprendendo lo scoramento di Agostino, quando mi capita oggi di considerare l’importanza che hanno avuto le opere di questi uomini nella tradizione cristiana, avverto un qualche retrogusto di consolazione: amo infatti immaginare Girolamo e Rufino da qualche parte, sotto lo sguardo paziente e vigilante di un angelo, continuare ancora a discutere animatamente, l’uno un po’ più burbero e focoso, l’altro più sospirante e silenzioso, e capisco sempre più come il termine “Padri della Chiesa” sia sapientemente ricco di umanità e soprattutto plurale.

* teologo e insegnante di religione

(da Jesus, dicembre 2006)

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