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Domenica, 20 Giugno 2004 16:57

Didachè (Lorenzo Dattrino)

LA DIDACHE'

di Lorenzo Dattrino

La Didachè. E' un'opera di autore ignoto , facente parte della letteratura sub-apostolica, scritta in lingua greca affine a quella neo-testamentaria. Il titolo completo è il seguente: Dottrina dei dodici apostoli.

Il manoscritto greco fu scoperto dal metropolita Briennios di Nicomedia nel 1873.

L'autore, probabilmente un giudeo cristiano, riflette lo stato, l'ambiente e la mentalità religiosa della comunità cristiana del primo secolo.

I sedici capitoli dello scritto sono distinti in quattro gruppi:

Catechesi morale per coloro che si preparano a ricevere il battesimo.

Vi si trovano descritte le due vie: quella della vita (cc. 1-4) e quella della morte (cc 5-6);

Istruzione liturgica, con particolare riguardo al battesimo (C.7 ), al digiuno e alla preghiera (c 8) e all'eucaristia (cc.9-l0);

Statuto disciplinare: istruzioni relative agli obblighi delle comunità nei confronti dei ministri del Vangelo itineranti (apostoli, profeti e dottori), con accenni atti a saper distinguere i veri dai falsi ministri;

Contenuto escatologico : esortazione a stare in guardia, pronti alla venuta dell'ultimo giorno ormai imminente (Parusia).

Perché il lettore possa farsi un'idea del contenuto di questa operetta, trascriverò due brani nella traduzione in lingua italiana ad opera di A. Quacquarelli in I Padri Apostolici , Roma 1978 ,pp. 29-30 e 34-36:

La via della vita e la via della morte. (Cap. 1)
Preghiera eucaristica (Capp. 9-10)

 

La via della vita e la via della morte

"Due sono le vie, una della vita e una della morte; la differenza tra le due vie è molta. La via della vita è questa: I . Amerai Dio che ti ha creato; II. Ama il prossimo tuo come te stesso; non fare ad altri tutte le cose che non vuoi che avvengano per te. L'insegnamento che deriva da tali parole è questo: benedite coloro che vi maledicono e pregate per i vostri nemici, digiunate per i vostri persecutori. Quale è il merito se amate quelli che vi amano? Anche i pagani non fanno lo stesso ? Amate quelli che vi odiano e non avrete nemici . Allontana le passioni della carne e della materia. Se qualcuno ti da uno schiaffo sulla guancia destra, offrigli anche l'altra e sarai perfetto. Se qualcuno ti costringe a fare un miglio , fanne con lui due; se qualcuno ti toglie il mantello, dagli anche la tunica. Se qualcuno ti prende una cosa tua, non chiederla; non lo potrai. A chi chiede, dai e non richiedere; a tutti il Padre vuole che siano dati i suoi beni. Beato chi dona secondo il comandamento: egli non è punibile. Guai a chi riceve; se riceve, avendone necessità, è senza colpa; se riceve, non avendone necessità, renderà conto. Posto in prigione sarà interrogato su ciò che ha fatto e non sarà liberato sino a quando non avrà restituito l'ultimo quadrante. Altre cose a tal riguardo sono state dette: "Suda la tua elemosina nelle tue mani, in modo che tu non conosca a chi la dai"."

Preghiera eucaristica

Per l'eucaristia ringraziate così.
Prima sul calice:
"Ti ringraziamo, o Padre nostro,
per la santa vite di Davide tuo servo,
che a noi rivelasti per mezzo di Gesù, tuo figlio.
A te la gloria nei secoli".
Per il pane spezzato:
"Ti ringraziamo, Padre nostro,
per la vita e la conoscenza
che a noi rivelasti per mezzo di Gesù tuo figlio.
A te la gloria nei secoli.
Come questo pane spezzato era sparso sui colli
e raccolto divenne una cosa sola,
così la tua chiesa si raccolga dal confini della terra nel tuo regno,
poiché tua è la gloria e la potenza per Gesù Cristo nei secoli".
Nessuno mangi o beva della vostra eucaristia,
tranne i battezzati nel nome del Signore.
Per questo il Signore disse "Non date le cose sante ai cani".

Dopo esservi saziati, ringraziate così:
"Ti rendiamo grazie, o Padre santo,
per il tuo santo nome
che hai fatto abitare nei nostri cuori
per la conoscenza, la fede e l'immortalità
che rivelasti a noi per mezzo di Gesù tuo figlio.
A te la gloria nei secoli.
Tu, Signore onnipotente, hai creato ogni cosa per il tuo nome
e hai dato agli uomini,
a piacere, cibo e bevanda perché ti rendano grazie,
a noi donasti un cibo spirituale,
una bevanda
e una vita eterna per mezzo del tuo Figlio.
Prima di tutto ti ringraziamo perché sei potente;
a te la gloria nei secoli.

(Didachè, cc. 1 e 9-10. Tr. di A. Quacquarelli, I Padri apostolici, Roma 1978, pp. 29-30 e 34-36)

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Domenica, 20 Giugno 2004 16:56

Età apostolica (Lorenzo Dattrino)

I PADRI APOSTOLICI

di Lorenzo Dattrino

Il compito svolto dai Padri apostolici, che possono essere definiti " l'eco della predicazione apostolica" è quello di custodire e trasmettere alle generazioni future il depositum fidei ereditato. L'esercizio vivo della trasmissione della fede viene attuato soprattutto attraverso la predicazione; tuttavia, non mancano alcuni scritti destinati all'istruzione delle prime comunità cristiane.

Il lettore in questi scritti, sgorgati dal cuore e dalla penna dei pastori, vi cerchi soprattutto la testimonianza che la chiesa primitiva rendeva a se stessa, e non opere organiche e dottrinalmente elaborate.

Dalla lettura di queste opere si riscontra il progresso della prima evangelizzazione nel mondo, iniziata già prima della caduta di Gerusalemme.

L'Asia Minore è la regione in cui il cristianesimo ha la sua prima fioritura , per indubbio effetto della lunga presenza di Giovanni. Gli scrittori di questo periodo ci fanno conoscere la chiesa primitiva, la sua vita, il suo culto, la sua fede.

Tali scritti, composti in lingua greca, sono diretti ai cristiani di chiese sorelle e non si riscontra ancora in essi quel coraggioso confronto con le realtà culturali del tempo come avverrà nel secondo periodo, quello detto degli apologisti.

Qui di seguito indico i nomi di questi illustri personaggi:

  • Clemente Romano, terzo vescovo di Roma dopo San Pietro (92-101);
  • Ignazio di Antiochia, morto martire a Roma sotto Traiano (107-110) [vedi dopo];
  • Policarpo di Smirne, discepolo di Giovanni apostolo e morto martire nel 155;
  • Papia di Gerapoli, amico di Policarpo;
  • Erma (il pastore di), forse fratello del papa Pio I (140-154);
  • La Didakè. Opera composta da autore ignoto negli ultimi decenni del primo secolo [vedi dopo];
  • Epistola dello Pseudo - Barnaba. Scritto, secondo alcuni, proveniente da un ambiente alessandrino oppure, secondo altri, da ambienti Siro - Palestinesi (dal 70 al 170).

Potrete trovare, nelle prossime pagine, qualche ragguaglio sugli scritti che vengono ritenuti più significativi.

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Domenica, 20 Giugno 2004 16:55

Introduzione

INTRODUZIONE


Il nostro sito si arricchisce di una nuova rubrica a cura di Don Lorenzo Dattrino, professore di storia e di letteratura cristiana antica (*). Vogliamo offrire un servizio religioso - culturale per far conoscere al vasto pubblico (non certo agli specialisti!) la vita delle comunità cristiane nei primi secoli dall'impatto del Kerigma cristiano, nato in contesto semitico, con il mondo greco romano fino agli inizi del Primo Medio Evo.

La rubrica ha come titolo: "I Padri, perché?" e vuole essere un breve corso, a carattere informativo, di Patrologia, la scienza che studia la vita, le opere e la dottrina degli scrittori dell'antichità cristiana, detti appunto Padri in quanto "genitori"di tanti "figli", noi tutti.

Per "antichità cristiana" si intendono, approssimativamente, i primi otto secoli della Chiesa dall'epoca apostolica a Carlo Magno. Per praticità si usa dividere la patrologia in greca e latina; in effetti, data l'unità della Chiesa primitiva, tale differenziazione non è sempre possibile (ad esempio nei primi due secoli tutti gli scrittori cristiani sia greci che latini scrissero in greco). Non potendo determinare con precisione l’antichità, limiteremo il nostro studio al periodo che va fino alla morte di S. Giovanni Damasceno per quanto riguarda la sezione greca († c. 750 ) e a S. Gregorio Magno per quella latina ( papa dal 590 al 604).

I Padri, perché?

I Padri, testimoni qualificati della Tradizione, ci hanno trasmesso i loro scritti. Gli studi storici, filosofici, teologici risulterebbero incompleti senza l'apporto del pensiero patristico. Tutti i più grandi pensatori, dall'Umanesimo ai giorni nostri hanno letto e leggono le opere dei Padri : lo si riscontra scorrendo le loro opere.

Nell'attuale clima post-conciliare di dialogo ecumenico, tutte le confessioni cristiane tengono in grande stima l'insegnamento dei Padri.

Sono convinto che lo studio delle opere dei Padri potrebbe condurre la cristianità ad una maggiore conoscenza dell'insegnamento di Cristo e contribuire, di riflesso, alla promozione dell'unità delle Chiese.

La storia dei Padri è la storia della Chiesa non ancora lacerata dalle divisioni anche se vive, al suo interno, delle contraddizioni. Nonostante la sua presenza numericamente irrilevante, la Chiesa prende i primi contatti con il mondo ellenistico e affronta il paganesimo, le eresie, gli scismi. La patrologia è la storia delle scelte e delle risposte degli uomini, storia che si ripete puntualmente oggi nella Chiesa e in ognuno di noi. La storia si apre al mistero e il mistero diventa storia. La cultura diventa luogo di tutto l'uomo e per tutti gli uomini. L'interesse scientifico perde la tentazione intellettualistica e recupera un'autentica carica esistenziale.

Col nome di Padri da principio si indicarono i capi delle varie Chiese, i vescovi, che tutelavano ad un tempo l'autorità disciplinare e quella dottrinale. Più tardi si occuparono quasi esclusivamente della lotta contro dottrine eretiche. Il nome "Padri" venne così ad indicare quasi tutti i difensori della fede, indipendentemente dalla dignità vescovile. Le note distintive dei Padri sono le seguenti: ortodossia della dottrina, santità della vita, approvazione della Chiesa, antichità. La patrologia però suole estendere la sua trattazione anche agli "scrittori ecclesiastici", cioè a quegli autori che furono nel seno della Chiesa e scrissero utili opere teologiche, ma per mancanza di ortodossia o di santità non meritarono l'approvazione ecclesiastica: cosi Tertulliano, Origene, Eusebio di Cesarea ecc. In questa sede noi ci occuperemo dei più grandi e famosi scrittori e faremo solo brevi cenni per i minori.

Le opere dei Nostri sono state scritte in lingua latina, greca, siriana, armena, copta. Le ultime tre sono numerose e a volte importanti, ma sono superate di gran lunga da quelle latine e greche, lingue in cui scrissero i più autorevoli autori. Noi li studieremo nel loro contesto storico - culturale secondo un criterio cronologico e geografico.

Seguendo una prassi consolidata, per praticità, divideremo la patrologia (oggetto del nostro studio) nei seguenti tre periodi:


1. Le origini della letteratura cristiana (I - III sec.);

2. Il periodo cosiddetto "aureo" della letteratura patristica (dal 300 al 430, morte di S. Agostino);

3. Gli ultimi secoli (430-850).

Le origini: attualmente è il periodo che desta i maggiori interessi. Questi scrittori che vissero a contatto con gli apostoli o con i loro diretti successori, sono importantissimi come testimoni delle dottrine tradizionali sulla Trinità, l'Incarnazione, la fondazione, costituzione e disciplina della Chiesa primitiva. I Padri Apostolici sono dunque estremamente importanti e così pure gli scrittori del II secolo. Quelli del III sono ormai lontani dall'età apostolica: tuttavia i loro tentativi per la sistemazione della dottrina sono assai degni di nota e fanno di loro i precursori dei grandi Dottori del IV secolo e del Concilio di Nicea (325).

Secondo periodo ( 300 - 430 ): si estende da S. Atanasio alla morte di S. Agostino. In esso apparvero le più fulgide menti della storia della Chiesa e vi si disputarono le grandi controversie teologiche sulla Trinità e la grazia.

Terzo periodo ( 430- 850): ingiustamente chiamato il periodo della decadenza. Si divide in due sezioni:

1° sezione: le grandi controversie cristologiche: si estende dal Concilio di Efeso (431) al II Concilio di Costantinopoli (553). Le discussioni incominciarono con l'apollinarismo, dottrina di Apollinare di Laodicea (315 - 391) il quale escuteva dall'essere del Cristo l'anima razionale, e continuarono con il semi-pelagianesimo (controversia sulla grazia di Dio ed il libero arbitrio dell'uomo).

Gli scrittori di questo periodo costituiscono un legame tra il mondo vecchio che decade ed il medio evo che comincia.

2° sezione: comprende le opere di quelli scrittori che evangelizzarono le popolazioni cosiddette barbare: S. Gregorio Magno in Italia, S. Gregorio di Tours in Gallia, S. Isidoro di Siviglia in Spagna, il "venerabile" Beda in Inghilterra. Più numerosi però furono gli scrittori d'oriente, la cui opera al servizio della Chiesa (contro il monoteismo) fu di vastissima portata.

(*) Docente di Patrologia presso la Pontificia Università Lateranense.

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MARIA NELLA BIBBIA
di Alberto Valentini

I. Maria profeticamente adombrata nell''Antico Testamento

L'Antico Testamento nel suo insieme non è altro che una lenta, progressiva preparazione a Cristo: preparazione, annuncio ed anticipo di lui e della sua opera. Su questo unto è difficile non essere d'accordo.

Meno semplice è il problema se nell'Antico Testamento ci sia anche una lenta e progressiva preparazione a Maria, la Madre del Messia. "Abituati dalle narrazioni evangeliche a vederli vicini come madre e figlio, viene spontaneo chiedersi se questa associazione risalga ancor più indietro nella storia della salvezza o cominci soltanto con la storia evangelica" (O. Da Spinetoli).

Per alcuni Maria è assente nella rivelazione veterotestamentaria, o vi appare in modo così fugace e indeterminato che non è possibile tratteggiarne la figura. Per altri, al contrario, la Vergine sarebbe presente un po' ovunque nell'Antico Testamento, perché, dicono, in ogni pagina si parla di Cristo, e dunque anche di lei.

Tra queste affermazioni estreme si inserisce tutta la una gamma di posizioni intermedie. La presenza di Maria nel Primo Testamento si fonda, a nostro avviso, sul fatto che Dio è l'autore principale della storia salvifica e della parola manifestata nelle Scritture. L'unità dei due Testamenti costituisce infatti un presupposto fondamentale di ogni sana esegesi. Risuona sempre attuale l'antico assioma della lettura cristiana della Bibbia, secondo la quale il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico, e l’Antico diventa chiaro nel Nuovo. In questo senso si parla di una preparazione e presenza di Cristo nel contesto del Primo Testamento (cf Dei Verbum 15). E si può anche parlare di una presenza della Vergine Madre del Messia.

Si tratta però di annunci, di anticipazione vaghe e frammentarie, che possono essere rettamente intese solo quando gli eventi siano compiuti: ossia, alla luce del Nuovo Testamento, all'indomani della Pasqua. E' questo il metodo esegetico messo in atto da Cristo stesso (cf Lc 24,25-27).

Ed è il metodo adottato e proposto dal Vaticano II: "I libri dell’Antico e del Nuovo Testamento e la veneranda Tradizione mostrano in modo sempre più chiaro la funzione della Madre del Salvatore nella economia della salvezza, e ce la mettono quasi davanti agli occhi. I Libri dell’Antico Testamento descrivono la storia della salvezza nella quale lentamente viene preparandosi la venuta di Cristo nel mondo. E questo documenti, come sono letti nella chiesa e sono capiti alla luce dell'ulteriore e piena Rivelazione, passo passo mettono sempre più chiaramente in luce la figura di una donna: la Madre del Redentore" (Lumen Gentium 55).

In questo senso possiamo parlare di una preparazione e presenza della figura di Maria nell'Antico Testamento. Si può distinguere una triplice preparazione: morale, tipologica e profetica.

Preparazione morale

"Maria primeggia tra gli umili e i poveri del signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da Lui la salvezza" (Lumen Gentium 55).

L'Antico Testamento nel suo insieme, si è detto, è una lunga preparazione a Cristo in costante rapporto dialettico con il Dio della salvezza. E' una storia di grazia e di peccato, di amore e insieme di infedeltà. Il dialogo dell'alleanza, da parte del popolo, si muove secondo un ritmo di impegno-peccato-ritorno al Signore. E' questo un movimento che scandisce in qualche modo l’intera vicenda spirituale d'Israele.

Ma dall'VIII secolo, epoca dei grandi profeti, la teologia dell'Alleanza si trasforma: Amos, Isaia e poi Sofonia denunciano la grave situazione morale del popolo; Geremia giunge a parlare di uno "stato di peccato", che rende praticamente impossibile il ritorno al Signore.

Nessuno di questi profeti può tuttavia dubitare della realizzazione delle promesse fatte ad Israele. Essi introducono allora nella predicazione una realtà nuova, fondamentale: il tema e la teologia del "resto". Si tratta di un resto santo, del vero Israele, di un Israele qualitativo, designato per il compito che era di tutto il popolo: nel resto avranno compimento le promesse antiche.

Sofonia, per primo, scorge nel resto d'Israele un popolo di poveri (Sof 3,11-13), gli anawîm, cui i profeti promettono i beni messianici.

Maria, serva del Signore (Lc 1,38-48), è il vertice della comunità del resto d'Israele, e riassume, come dice A. Gelin, "l'immensa attesa che costituisce la dimensione spirituale d'Israele, che infine genera Cristo".

Preparazione tipologica

Sulla continuità della storia salvifica, sull'unità dei due Testamenti e sul carattere pedagogico-progressivo della rivelazione nella storia, si fonda anche il fenomeno della tipologia biblica.

La prefigurazione si può collocare ad un triplice livello: tipologia individuale, tipologia comunitaria e tipologia della "cose".

1) Nella tipologia individuale vanno collocate le donne dell'antica alleanza, specie quelle favorita da una maternità miracolosa, quelle facenti parte della linea genealogica del Messia e quelle che hanno avuto un compito particolare nella storia e nella salvezza d'Israele. "Riprendendo, riguardo a Maria, i termini che concernevano Sara: 'Vi è forse qualcosa di difficile per il Signore?' (Gen 18,14 - Lc 1,37) o Giuditta (Gdt 13,18-19 - Lc 1,42), Luca ha posto le prime basi di questa tipologia" (R. Laurentin).

2) Spesso il tipo non è costituito dal singolo personaggio dell'Antico Testamento, ma da un gruppo, dalla comunità, da Israele nel suo insieme. E' quella che viene chiamata tipologia comunitaria. Per noi moderni e occidentali questa tipologia non è così evidente. E' pertanto necessario esaminare innanzitutto il linguaggio biblico e ricollocarlo nel suo ambiente vitale d'origine.

Nel Vangelo dell'Infanzia di Luca, in particolare, Maria rappresenta ed incarna la comunità del popolo di Dio: la Vergine di Nazareth viene presentata come la vergine "figlia di Sion", di cui parla Sofonia (3,14-17). Per questo il Concilio afferma: "Con lei, eccelsa Figlia di Sion, dopo una lunga attesa si compiono i tempi e si instaura una nuova economia (Lumen Gentiun 55). Inoltre, essendo Sion il luogo della residenza di Jahvè, Luca sembra aver intravisto in Maria, figlia di Sion, la nuova Arca dell'Alleanza, la residenza escatologica di Dio salvatore. E' Luca stesso che autorizza questa tipologia mariana, anche se questo non ci autorizza ad estenderla a nostro piacimento.

3) L'interpretazione biblica ha le sue leggi. Nel caso specifico di Maria, arca dell'alleanza, abbiamo a che fare con una tipologia fondata su una riflessione che non ha per oggetto delle parole, ma delle realtà, delle "cose" dell'antica alleanza, che anticipano le realtà future e definitive del Nuovo Testamento, perciò parliamo di tipologia delle cose. In questo senso l'"arca dell'alleanza", il "tempio del signore" ed altre realtà dell'Antico Testamento sono figura di una tipologia delle "cose" riferita a Maria.

Preparazione profetica

La figura della Madre del Messia è annunciata nel Vecchio Testamento, non soltanto da realtà e figure, ma anche da parole, da testi che, pur riferendosi a un contesto storico immediato, troveranno il loro senso pieno e profondo solo quando i tempi nuovi saranno compiuto. Si tratta di annunci non facili a interpretarsi, e l'esegeta, onestamente, deve riconoscere la complessa difficoltà E' quanto rileva A. Robert: "La liturgia canta le grandezze di Maria, mutuando le parole dai profeti, da salmisti e dagli autori sapienziali. Dal canto loro, i Padri e i teologi, convinti dello stretto legame che unisce i due Testamenti e dell'armonia mirabile del piano divino (1Cor 10,11), non hanno mancato di sfruttare in senso mariano un gran numero di testi. Sollecitato a studiare gli stessi passi, dal medesimo punto di vista, che farà l'esegeta formato ai metodi moderni?".

Proprio perché affrontiamo i temi da un punto di vista biblico, ricercando innanzitutto il senso letterale dei testi, il nostro lavoro dev'essere condotto con rigore e con prudenza, senza tuttavia cedere a miopi grettezze dell'interpretazione della parola, che in Cristo e nella chiesa trova il suo compimento. Riteniamo infatti che, circa la Madre del Messia, è presente nell'Antica alleanza "una rivelazione autentica, benché soltanto abbozzata, che sarà chiarita nel Nuovo Testamento, rivelatore dell'Antico, e nell'interpretazione tradizionale della Chiesa" (R. Le Déaut).

II. MARIA NEL NUOVO TESTAMENTO

Approccio introduttivo

Se nell'Antico Testamento Maria è semplicemente adombrata, attraverso parole, simboli e figure, compresi "alla luce dell'ulteriore e piena Rivelazione", nel Nuovo testamento ella è presente in maniera diretta. Anzi possiamo dire che la "Nuova Alleanza", annunciata dai profeti (cf Ger 31,31-34), inizia proprio quando lo Spirito di Dio, promesso per i tempi futuri, discende su di lei (cf Lc 1,35).

A chiunque apra con semplicità il testo del Nuovo Testamento, Maria appare immediatamente, tra coloro che attendevano la consolazione d'Israele (al vertice dell'antico Testamento) e tra quanti hanno visto la salvezza di Dio (cf Lc 2,30) (all'inizio del popolo della Nuova Alleanza). Chi, dunque, legga il Nuovo Testamento, secondo l'ordine attuale dei libri biblici, s'imbatte subito nella figura di Maria.

La prima menzione è il termine della genealogia di Cristo: ella vi è stata collocata con un'originale espressione che spezza vistosamente lo schema stereotipato della genealogia ed introduce la novità della nascita del Salvatore: "Maria, dalla quale fu generato Gesù, chiamato Cristo" (Mt 1,16).

Matteo insiste nei primi due capitoli sulla sua figura in rapporto a Gesù (la madre di lui: 1,18; 2,11; "il Bambino e sua madre": 2,13.14. 20,21), a Giuseppe (sposa di lui: cf 1,16.18.20.24) e anche allo Spirito (1,20).

Nei primi due capitoli di Matteo la presenza di Maria è notevolmente accentuata: non si può certo dire che si parla poco di lei. Ma ecco la sorpresa: al di là dei racconti dell'infanzia, nei ventisei restanti capitoli del lungo Vangelo si parla di Maria soltanto in un testo e apparentemente in senso negativo (12,46-50). Poi più nulla. Vedremo perché, ma non subito.

Proseguendo la "lettura continua" del Nuovo Testamento, siamo al Vangelo di Marco (che tuttavia - come è noto - è il più antico e tipico tra quelli a noi pervenuto) e qui aumenta la sorpresa: Marco è ancor più reticente su Maria ed omette addirittura le narrazione dell'infanzia. Egli parla di lei solo in due circostanze e in testi che pongono non facili problemi di interpretazione (3,31-35; 6,1-6).

L'indagine su Marco procura un ben magro bottino e giustifica forse il lamento diffuso che il Vangelo parli poco della madre del Signore.

Ma appena si inizia il terzo Vangelo ecco, di nuovo, e ormai in piena luce, la figura di Maria. I primi due capitoli di Luca sono talmente mariani, per ampiezza ed intensità, da far temere a qualcuno quasi una riduzione della cristologia. Timore ovviamente non giustificato, essendo il Bambino - il Cristo Signore! - al centro dei racconti dell'infanzia.

La figura di Maria in questi brani appare molto più sviluppata che nei testi, in certa misura paralleli, di Mt 1-2. Là, Maria era vista sistematicamente in riferimento a Giuseppe e al Bambino; qui acquista un notevole rilievo e per così dire un'autonomia molto maggiore.

L'Annunciazione, in Luca, è fatta direttamente a Maria (1,26-38), che dopo un dialogo di grande fede e responsabilità, si proclama Serva del Signore (1,38). E' lei che si mette in viaggio (Giuseppe non viene neppure nominato: si pensi agli spostamenti in Matteo guidati sempre da lui) e porta la gioia messianica a Giovanni, Elisabetta e a tutta la casa di Zaccaria. Riconosciuta quale Madre del Signore, viene benedetta ed esaltata dalla madre del Battista. Lei stessa, infine, canta con accenti grandiosi e commossi la misericordia senza fine del Signore verso il suo popolo.

La Vergine, ovviamente, è protagonista nella nascita del Figlio (2,6-7) e negli eventi concomitanti: i pastori trovano Maria, Giuseppe e il Bambino (2,16). Ella non solo partecipa direttamente e in posizione privilegiata a tali eventi, ma li vive in maniera esemplare, cioè "con sapienza", cercando di scrutarne il senso salvifico. In questo atteggiamento viene additata due volte all'attenzione dei credenti di ogni tempo: Maria, poi, conservava e confrontava tutte queste cose nel suo cuore (cf 19,51).

Quaranta giorni dopo la nascita, la madre sale con il Bambino al tempio - come già un tempo Anna (1Sam 1,24ss) - per offrirlo al Signore (2,22-38): piena di stupore - insieme con Giuseppe - ascolta gli annunci grandiosi riguardanti il Bambino. A lei sola, tuttavia, (pur essendo lì presente Giuseppe), viene rivelato il mistero di dolore di questo Figlio e l'incredulità del suo popolo; mistero che trapasserà la sua esistenza come una spada.

Lo smarrimento e il ritrovamento al tempio dopo tre giorni "a Gerusalemme nella festa di Pasqua", annunciano già i tre giorni della sua Pasqua di morte e risurrezione, e vedono ancora Maria angosciata a causa di lui. Ella non può ancora comprendere il mistero di Gesù che si allontana dai suoi e che solo nella fede può esseri ritrovato, dato che ormai deve restare presso il Padre. Maria sperimenta per prima la difficoltà della fede pasquale; né lei né Giuseppe comprendono le sue parole. Non comprende, ma con rinnovata fedeltà crede alla Parola, anticipando così l'atteggiamento del vero discepolo, il quale sarà beato non per aver visto, ma per aver creduto (cf Gv 20,29).

Dopo questi episodi neppure Luca parlerà molto di Maria nel suo Vangelo. Ma ormai ella è là quale "madre del Signore", beata per la sua fede. Fede che sarà ancora messa in rilievo in due circostanze (8,19-21; 11,28); beatitudine che sarà proclamata senza fine da tutte le generazioni.

Luca non si arresta alla vita di Gesù, ma prosegue il suo racconto con la vita della Chiesa (Atti degli Apostoli). Proprio agli inizi, al sorgere della comunità primitiva egli pone in maniera significativa la figura di Maria, insieme con gli apostoli, le donne e in fratelli del Signore. Essi tutti sono in preghiera con Maria la Madre di Gesù (At 1,13-14). Questa è la Chiesa delle origini e di ogni tempo.

E siamo al Vangelo di Giovanni, in cui abbiamo due scene (2,1-11 e 19,25-27) molto importanti nelle quali è presente Maria: all'inizio e al termine del Vangelo, prima della sua "ora" e nel momento in cui la sua ora si compie: il primo e l'ultimo dei suoi segni, con i quali inizia e matura la fede dei discepoli.

Giovanni, l'evangelista che riflette maggiormente sul senso della vita, dei gesti e delle parole di Gesù e cerca di rivelarne il mistero, è anche l'evangelista che si sforza di penetrare il senso profondo e meno immediato della figura e del ruolo di Maria. I brani di Giovanni sono da leggere a più livelli e nel contesto del suo vasto e ricco simbolismo. Così nell'episodio di Cana la figura di Maria (la "donna") e il suo ruolo devono essere interpretati non solo come presenza, intervento contingente, ma nel contesto delle nozze, del vino (simboli messianico-escatologici), dell'ora, dei segni, della fede dei discepoli. L'episodio di Cana è da leggere, ovviamente, in rapporto con quello di Maria presso la croce, nel quale l'ora sarà finalmente compiuta e si realizzerà in pienezza quanto a Cana era stato annunciato ed anticipato. Il Vangelo di Giovanni costituisce, anche riguardo a Maria, un vertice della riflessione teologica del Nuovo Testamento. Ma su questi passi ritorneremo in prossimi studi.

Proseguendo nella "lettura continua" del Nuovo Testamento, ci imbattiamo nel testo di Gal 4,4ss, che in realtà è il brano più antico tra quelli citati per la marialogia neotestamentaria (con questo passo inizia il capitolo VIII della Lumen Gentium (n. 52) e la Redemptoris Mater (n. 1), anche se non si tratta d'un testo direttamente mariologico.

E infine il molto discusso capitolo 12 di Apocalisse, che si riferisce alla Chiesa, ma che, indirettamente e per estensione, indica anche Maria, la madre del Figlio, vincitore del serpente antico.

Il Nuovo Testamento, come si vede, proietta molte luci sulla figura della Vergine ma con grande differenza da libro a libro. Ogni attento lettore si domanderà il perché di tanta diversità - circa Maria, tra gli evangelisti Marco e Luca o tra i massimi teologi del Nuovo Testamento Luca e Giovanni. Perché da una parte tanta reticenze e addirittura silenzio e dall'altra una così grande attenzione? Tali differenze si spiegano con l'intento, il disegno particolare dei diversi autori (per es. Paolo concentra la sua attenzione sul Cristo crocifisso e risorto) e più ancora con la cronologia, la maggiore o minore antichità dei diversi scritti, cronologia non rispettata dall'ordine in cui si susseguono gli scritti neotestamentari. Ora la Chiesa ha preso coscienza progressivamente e ha formulato in maniera sempre più ampia e completa la sua fede. Approfondendo il mistero di Cristo ella ha messo in luce sempre più chiara la figura e il ruolo della madre. Tale approfondimento si è svolto in tappe progressive, che potrebbero essere ricostruite nel modo che segue:

1. In un primo tempo si è avuta la predicazione apostolica, centrata sull'annuncio essenziale di Cristo morto e risorto e seguita da un appello alla conversione. E' uno schema che si trova per esempio nei discorsi degli Atti degli Apostoli, i quali presentano una terminologia e una struttura molto primitive. In questa prima fase - nella quale collochiamo in particolare gli scritti di Paolo - non c'è alcun accenni diretto a Maria. Del resto non si dice quasi nulla della vita terrena di Gesù, prima della sua Pasqua di morte e risurrezione. In questo periodo si colloca tuttavia il testo di Gal 4,4-5: "Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò il suo figlio, nato da donna…", che - lo ripetiamo - solo indirettamente può essere considerato mariano.

2. Un secondo stadio comporta la formazione dei vangeli, allargando la prospettiva - sempre centrata sulla Pasqua - viene narrata la vicenda di Gesù a partire dal Battesimo, vale a dire dall'inizio della vita pubblica. A questo livello sono da collocare i testi "mariani" dei Sinottici Mc 3,20-21. 31-35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21; 11,27-28).

3. In una terza fase si va oltre la vita pubblica e ci si interroga circa le origini, la nascita e i primi anni di Gesù. Entriamo così nell'ambiente familiare, domestico e troviamo, com'è ovvio, la ricca e molteplice presenza di Maria. Su questo sfondo vanno collocati i cosiddetti vangeli dell'infanzia (Mt 1-2 e Lc 1-2), testi molto recenti e teologicamente elaborati, premessi quale "ouverture" al resto del Vangelo.

4. La maturazione della riflessione su Cristo, proietta la sua luce su Maria sua Madre, che nel Vangelo di Giovanni e nell'Apocalisse acquista una densità teologica e simbolica particolare.

Sullo sfondo del complesso e ricchissimo mondo giovanneo bisogna leggere gli episodi di Cana (Gv 2,1-11), della Croce (19,25-27) e apocalisse 12. E' una lettura tutt'altro che semplice, anzi polivalente e in parte ancora misteriosa, ma che può fare intravedere, insieme con la concretezza la ricchezza molteplice e appunto misteriosa della figura di Maria che si intreccia in qualche modo si confonde con quella della Chiesa di Cristo.

I testi "mariani" più antichi

Dopo aver presentato un essenziale itinerario "mariano", seguendo la successione dei libri del Nuovo Testamento, da Matteo all'Apocalisse, è necessario ora compiere un itinerario più vero, che è logico e cronologico insieme: seguiremo lo sviluppo della presenza di Maria nelle diverse fasi della formazione del Nuovo Testamento.

Iniziamo dal testo ritenuto più antico.

"Nato da donna"

"Quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, che grida: Abbà, Padre" (Gal 4,4-5)

Con questo brano inizia il capitolo VIII della "Lumen Gentium" del Vaticano II (LG 52); con le medesime parole si apre l'Enciclica mariana "Redemptoris Mater (n 1).

Benché non si tratti di un testo direttamente mariano - "aperto", tuttavia, a una lettura ed esplicitazione mariana - è una pericope importante, valorizzata ampiamente dalla tradizione liturgica e dalla fede secolare della Chiesa. E' un testo notevole per antichità e ricchezza dottrinale.

Per antichità, è da collocare negli anni cinquanta dell'era cristiana, dunque tra i primissimi scritti del Nuovo Testamento. Per il contenuto, è una pericope particolarmente densa, centrata sulla "pienezza del tempo" e sugli eventi straordinari che la caratterizzano. "Pienezza del tempo" che ha colpito, in maniera straordinaria, Giovanni Paolo II, che ne ha fatto oggetto di una celebre omelia (1.1.1987) e l'ha posta quale sfondo e introduzione dell'enciclica "Redemptoris Mater".

Possiamo dire che nell'immagine della "donna", madre del Figlio di Dio, Maria è presente - anche se indirettamente - nella primitiva formulazione della fede cristiana. E data l'importanza del brano, tale "donna" è inserita, in un contesto non secondario, ma decisivo, nella storia della salvezza: nella pienezza del tempo, al centro della storia, nel momento in cui si compiono i massimi eventi, di cui sono protagonisti il Padre, il Figlio e lo Spirito.

"Questa pienezza del tempo definisce il momento fissato da tutta l'eternità, in cui il Padre mandò il suo Figlio, "perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). Essa denota il momento beato, in cui "il Verbo, che era presso Dio, … si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,1.14), facendosi nostro fratello. Essa segna il momento, in cui lo Spirito Santo, che già aveva infuso la pienezza di grazia in Maria di Nazareth, plasmò nel suo grembo verginale la natura umana di Cristo" (Red. Mat. 1).

Dopo il testo di Galati, sempre in ordine cronologico, troviamo due brani, molto essenziali in Marco, il più antico degli evangeli a noi pervenuti: Mc 3,31-35 e 6,1-6.

Ci limitiamo al primo che, per il nostro discorso, appare più significativo.

"Sua madre e i suoi fratelli"

"Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: "Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano". Ma egli rispose loro: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre"" (Mc, 31-35).

Si tratta, com'è facile intuire, di una pericope non facile. In passato era considerata un testo antimariano, dunque negativo nei confronti della Vergine; ora, grazie ad un'esegesi più matura, non appare così.

Da questo brano - che è collegato in qualche modo con Mc 3,21 (in cui "i suoi" vanno per impossessarsi di lui) - appare chiaramente la radicalità delle esigenze del Vangelo e la nuova parentela, che scaturisce dall'ascolto della Parola e dall'adesione alla volontà di Dio. E' una dimensione fondamentale, che vale per tutti coloro che stanno "attorno a lui", per i suoi parenti e in particolare per sua madre. Maria è madre e "consanguinea" di Cristo, insieme con tutti coloro che compiono la volontà di Dio.

Già in Marco - l'evangelista più antico - si può scorgere in abbozzo la figura evangelica di Maria, che sarà sviluppata in Matteo e soprattutto in Luca. Questo episodio, apparentemente così scarno e ambiguo nel secondo Vangelo, verrà infatti ripreso dagli altri due "sinottici" (evangelisti con "ottica comune"), vale a dire Matteo e Luca (cf Mt 12,46-50; Lc 8,19-21). Questi, essendo più tardivi, testimoniano uno sviluppo maggiore della figura di Maria e una comprensione più profonda dell'episodio.

In esso, anzitutto, è caduto il testo di Mc 3,21, dal quale si può aver l'impressione che Maria fosse tra quei "suoi" che volevano impedire la missione di Gesù ella non poteva certo condividere un tale atteggiamento.

Matteo racconta semplicemente che la madre e i parenti "cercano Gesù per parlargli" (Mt 12,46-50). Ciò non impedisce che il primo evangelista sia radicale almeno quanto Marco nell'affermare i vincoli spirituali e la loro preminenza su quelli della carne. Ma chi sono i veri parenti di Gesù secondo san Matteo? Non semplicemente quelli che stavano "attorno" (cf Mc 3,34), ma i discepoli. Ora è noto che i discepoli, in Matteo (a differenza di quanto avviene in Marco, ove appaiono rudi e tardi a comprendere), occupano un posto di privilegio: essi sono i sapienti, i profeti e scribi della nuova Legge (cf Mt 13,52; 23,34): sono l'immagine del vero discepolo del Regno. Maria è "madre" in tal senso, quale discepola del Signore.

Matteo vede la madre di Gesù e i suoi fratelli come li vedeva la chiesa del suo tempo, quand'egli scriveva il vangelo: in un posizione importante all'interno della comunità di Gerusalemme. Ciò gli impedisce di pensare che essi avrebbero potuto ostacolare l'attività apostolica di Gesù. In Matteo, che è posteriore a Marco, la figura di Maria è vista dunque in una luce diversa e ovviamente più positiva.

Con Luca, l'episodio della madre e dei fratelli (Lc 8,19-21 + 11,27-28) assume una connotazione tutta particolare: non dà più alcuna impressione di poter essere un testo antimariano. Come già Matteo, egli omette di riferire la scena di Mc 3,21; non solo, ma aggiunge qualcosa di molto significativo. Egli colloca l'episodio, nel capitolo ottavo, subito dopo le parabole, che hanno come scopo di inculcare l'ascolto della parola di Dio. in tale contesto, la madre e i fratelli vengono perché "vogliono vedere Gesù" (cf Lc 8,20). Coerentemente con il discorso condotto fino a quel punto, egli risponde che sua madre e i suoi fratelli sono coloro che "ascoltano la parola di Dio e la compiono" (8,21).

Se per Marco, madre e fratelli erano quelli che stavano attorno, e per Matteo, i discepoli, per Luca sono quelli che ascoltano la Parola. E' la degna conclusione del discorso in parabole ed insieme la rivelazione dell'identità profonda di Maria. Ella è madre per l'accoglienza della Parola, che in lei ha portato frutto in pienezza (cf Lc 8,8). Nella risposta di Gesù è contenuto anche l'elogio di Maria, già proclamato da Elisabetta: "Beata te che hai creduto…" (Lc 1,45) e più tardi ripetuto dallo stesso Gesù: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono" (Lc 11,28).

Considerando, a questo punto, il cammino percorso da Marco fino a Luca, siamo in grado di costatare la progressiva presa di coscienza, da parte della primitiva comunità cristiana, della figura di Maria all'interno della sua fede. Questo è avvenuto a tappe, per stadi successivi. Gli sviluppi presenti in Luca a proposito dell'episodio dei parenti non erano certo prevedibili a livello di Marco.

Si comprende allora perché nel secondo Vangelo si parli così poco di Maria, e come invece Luca abbia potuto trasmetterci il Vangelo dell'infanzia, nel quale la figura della Vergine occupa un posto unico accanto a Cristo.

III. MARIA NEI "VANGELI DELL'INFANZIA" DI MATTEO E LUCA

Dopo aver presentato i brani più antichi del Nuovo Testamento, concernenti in maniera diretta o indiretta la Vergine Maria, consideriamo ora i cosiddetti Vangeli dell'infanzia, presenti in Matteo (1-2) e Luca (1-2). Essi segnano una fase ulteriore ed una tappa significativa nello sviluppo della presenza di Maria nel Nuovo Testamento. La fede della comunità primitiva - partendo dal nucleo centrale della morte-risurrezione di Cristo - ha espresso per fasi successive, in maniera sempre più completa, il mistero della salvezza. un analogo ampliamento e approfondimento si è avuto anche a proposito della madre del Signore: dopo il timido e indiretto accenno paolino di Gal 4,4ss e dopo gli episodi della vita pubblica, presenti in Marco, Matteo e Luca, questi ultimi - più recenti di Marco - sono risaliti a una fase ancor precedente della vita di Gesù: alla nascita e all'infanzia. E qui si è aperta un'ampia possibilità di mettere in rilievo la madre e il suo ruolo. Anche all'interno di questo scritti, tuttavia, è evidente una netta progressione: da Matteo a Luca si dà uno sviluppo notevole: approfondendo il mistero di Cristo si rivela, in luce sempre più chiara, anche la figura della madre.

I primi due capitoli di Matteo e di Luca costituiscono una sezione particolare e caratteristica nella letteratura del Nuovo Testamento, sono per così dire "i gioielli dei vangeli canonici" (A. Vögtle) e le pagine più edificanti degli scritti neotestamentari. Le narrazioni (con le scene del presepio, dei magi, dei pastori, con sogni e apparizioni di angeli…) sono affettivamente molto suggestive, ma presentano difficili problemi di esegesi. In particolare ci si interroga circa l'origine e l'ambiente di queste pericopi e il loro rapporto col resto dei vangeli. Pur non potendo dare delle risposte esaustive e perentorie, circa l'origine e l'ambiente, ci si orienta verso i circoli gerosolimitani, che facevano capo alla madre di Gesù e ai "fratelli del Signore". Questi ultimi avevano un grande influsso nella comunità di Gerusalemme e più in generale in ambiente palestinese. Mentre la predicazione ufficiale prescindeva dai ricordi dell'infanzia, era ben naturale che in tale ambienti se ne continuasse a parlare.

Circa il rapporto con i rispettivi vangeli, Mt 1-2 e Lc 1-2 non solo riferiscono il periodo dell'infanzia, omessa nella tradizione sinottica, che inizia con la vita pubblica (esattamente con la predicazione di Giovanni Battista (Mc 1,1-8; Mt 3,1-12; Lc 3,3-18), ma ne costituiscono al tempo stesso l'inizio e il termine, la premessa e il punto d'arrivo. In altre parole, nell'infanzia di Gesù (presentato da Matteo come il "Dio-con-noi" che i Magi adorano e da Luca quale Cristo Signore, luce delle genti e gloria d'Israele) è proiettata la gloria del Risorto. In questa luce i vangeli dell'infanzia appaiono composizioni postpasquali altamente teologiche, che manifestano la fede ella Chiesa che ha contemplato la gloria della risurrezione. La luce e la gloria si riflettono, oltre che sul Figlio, anche sul volto della madre.

Una Madre Vergine

Iniziamo con Matteo, che cronologicamente precede Luca e nel quale la figura di Maria, pur sottolineata, non attinge gli sviluppi del terzo Vangelo.

L'interesse di Matteo, non è direttamente mariologico, ma cristologico come viene proclamato a chiare lettere fin dal primo versetto: "Libro della 'genesi' di Gesù Cristo, figlio di David, figlio di Abramo" (1,1) e - subito dopo la genealogia (vv 1-17) - narrando il modo della sua nascita: "Così avvenne la 'genesi' di Gesù Cristo" (v. 18).

Di Maria si parla all'interno della genealogia (v. 16): non c'è ascendenza reale di Cristo senza di lei, se ne parla ancora all'interno della nascita di Gesù, nel racconto che piega "come" effettivamente avvenne la sua generazione.

Non solo l'interesse è eminentemente cristologico (si parla di Maria sempre in riferimento a lui), ma inoltre l'attenzione di Matteo à in questo profondamente giudeo - è concentrata su Giuseppe: egli non è semplicemente il rappresentante dinastico (v.- 1,16) e il responsabile della famiglia di Nazareth, ma anche colui, al quale l'angelo rivela il mistero della natività per opera dello Spirito. Ciò che in Luca, nell'annunciazione, sarà comunicato direttamente a Maria.

Nonostante tali prospettive, la presenza di Maria è marcata e significativa. Anzi proprio in tale contesto i riferimenti alla Vergine acquistano speciale rilievo.

Ella è presentata anzitutto come la madre di Gesù:

"…Maria, dalla quale fu generato Gesù chiamato il Cristo" (v. 1,16);
"…la madre di lui, Maria…" (v. 1,18);
"…videro il Bambine con Maria, sua madre" (v. 2,11);
"…il Bambino e sua madre (v. 2,13.14.20,21), formula caratteristica e particolarmente efficace, ripetuta quatto volte, a sottolineare il mistero di quella maternità. Sì, perché di mistero si tratta: siamo di fronte a una nascita miracolosa.

Matteo presenta Maria come madre di Gesù, ma tutte le volte che ne parla fa notare, per lo più discretamente, che si tratta di una maternità verginale. Nella genealogia, giunti a Giuseppe - ultimo anello della catena che da Abramo e da Davide conduce a Cristo non si ripete come per tutti gli altri antenati: ""generò", ma, con formula originalissima: "Giuseppe, sposo di Maria, dalla quale fu generato Gesù…" (v.1,16). La locuzione efficace, ma alquanto enigmatica in sé, viene presto spiegata (a Giuseppe) con grande chiarezza: ella è "incinta per virtù dello Spirito Santo" (v. 1,18); "quel che è generato in lei viene dallo spirito Santo" (v. 1,20). "Tutto questo avvenne affinché si compisse la parola del Signore che dice per messo del profeta: 'Ecco la Vergine concepirà e darà alla luce un Figlio…" (v. 1,22s).

In questa luce - tralasciando diversi altri indizi, va notata l'espressione caratteristica già citata: "il Bambino e sua madre". Essa cela un mistero che riguarda il Figlio e la madre, nel quale Giuseppe - presente sulla scena e da protagonista - non entra, ma si ferma discretamente sul limitare.

Maria, dunque, nei primi capitoli di Matteo, appare come la Madre-vergine dell'Emmanuele. L'evangelista è testimone prezioso di tale fede della comunità primitiva. L'origine del mistero viene spiegato a Giuseppe: "quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo" (v. 1,20).

La Madre del mio Signore

Luca, non meno di Matteo - anzi, con maggior arte e attenzione - sottolinea la centralità di Cristo nei primi due capitoli del suo Vangelo. Ma, a differenza di Mt 1-2, in cui Maria appare quasi esclusivamente come "la madre di Gesù", in Luca la figura della Vergine acquista contorni più netti e diverso spessore.

In Matteo, inoltre è in primo piano Giuseppe, al quale ufficialmente e giuridicamente fanno capo il Bambino e la madre. Gesù si innesta sulla genealogia del suo popolo, grazie a Giuseppe (v. 1,16), che viene salutato come "figlio di Davide" (v. 1,20); a lui si rivolge l'angelo del Signore (vv. 1,20; 2,13.19.20); lui impone il nome al Bambino (v. 2,14), di ritornare nella terra d'Israele (2,21) e di fissare la residenza a Nazareth (v. 2,23).

In Lc 1-2, al contrario, Giuseppe rimane nell'ombra e la figura della vergine appare in primo piano. Ella è la "creatura amata" oggetto della costante benevolenza di Dio; riceve un saluto denso di gioia messianica (v. 1,28); ha trovato grazia davanti al suo signore (v. 1.30): sarà madre del Salvatore, Figlio dell'Altissimo e discendente davidico (v. 1,32); è serva del Signore (v. 1,38), nella quale si compirà la Parola di salvezza. porta la gioia messianica ad Elisabetta e viene salutata, con grida di festa, "Madre del mio Signore" (v. 1,43) e beata per aver creduto (v. 1,45). Ella stessa dà libero sfogo ai sentimenti del suo cuore con un canto sublime (vv. 1,46-55) di esaltazione e di lode a Dio Salvatore, che ha guardato la sua miseria ed ha fatto cose portentose per lei e per tutto Israele suo servo.

Nella nascita di Gesù ella è al centro della scena: nei vv. 2,5-7 si parla quasi esclusivamente di lei. Non soltanto vive gli eventi da posizione privilegiata, accanto a Cristo, ma riflette, medita con atteggiamento sapienziale (cf 2,19.51) tutto quanto concerne il Figlio.

In occasione della presentazione al tempio offre Gesù al Padre e forma con lui come un unico sacrificio. Simeone la accomuna nel destino del Figlio, segno contraddetto, di fronte al quale si sveleranno i pensieri perversi dei cuori.

Nello smarrimento e ritrovamento al tempio - episodio misterioso e premonitore del mistero pasquale - in cui Gesù scompare per tre giorni e in fine viene ritrovato, la fede di Maria - come avverrà un giorno per quella dei discepoli - è messa duramente alla prova. In quel momento s'affretta ad aggiungere: "la madre di lui conservava tutte queste cose nel suo cuore" (v. 2,51). In tale atteggiamento Maria è immagine del discepolo del Signore, che accoglie la parola in cuore sincero e generoso (cf Lc 8,15), la custodisce e porta frutto nella perseveranza.

Si può dire, in conclusione, che in Lc 1-2 non solo Maria è costantemente presente, ma che gli avvenimenti sono raccontati in larga misura dal suo punto di vista. Ella è talmente al centro dell'attenzione da far quasi temere una carenza di cristocentrismo.

La sua importanza è dovuta alla missione da lei svolta nella nascita e nell'infanzia del Signore e alla sua fede, che la rende tipo del credente e per la quale, nel Vangelo di Luca, ripetutamente viene proclamata beata (v. 1,45.48; cf 11,28).

In Lc 1-2, Maria è non solo immagine del credente, ma anche figura della comunità dell'alleanza: tema che qui non possiamo sviluppare, ma col quale vogliamo concludere. La Vergine povera ed eccelsa figlia di Sion (cf LG, 55), Maria compendia in sé la spiritualità dell'antico Israele e inaugura la fede della Chiesa sposa senza macchia del suo Signore.

IV. MARIA A CANA

Queste scene neotestamentarie fanno parte della letteratura giovannea, la più tardiva e dunque la più matura, particolarmente densa di riflessione teologica. Qui, più che altrove, il racconto è al servizio del messaggio.

Non che gli scritto giovannei non siano occupino di storia; si tratta però di una storia "sacramentale", che nasconde e rivela al tempo stesso realtà altamente spirituali. Nell'umiltà delle vicende di questo mondo ha fatto irruzione la divinità ("Il Verbo si è fatto carne") e la realtà è stata investita e trasfigurata dalla gloria di Dio.

Eventi, azioni, gesti e personaggi presentano un marcato orientamento cristologico: sono al servizio della rivelazione del Figlio di Dio. in tale luce va considerata anche la figura di Maria.

La tradizione giovannea - a differenza di quanto avviene in Luca - appare piuttosto sobria, quantitativamente, nei confronti di Maria: ne parla solo all'inizio (a Cana) e al termine del vangelo (presso la Croce) e indirettamente in Apocalisse 12.

Ma, almeno per quanto concerne il Vangelo, è il caso di dire che la quantità è inversamente proporzionale alla qualità: nei due episodi - di Cana e presso la Croce - si tocca il vertice della riflessione su Maria nel Nuovo Testamento. Ella non è più soltanto la credente e la madre di Gesù, ma - proprio in quanto credente e madre - è posta all'inizio e al termine del Vangelo, al servizio della fede e della vita dei discepoli del Signore. In tal modo ella è coinvolta direttamente e in maniera unica con "la persona e l'opera del Figlio" (cf LG 56).

Le nozze di Cana

Gv 2,1-11 (12) è un brano che tanti hanno studiato, ma che cela ancora ricchezze misteriose, quasi inesauribili. E' un episodio-chiave non solo per la comprensione della figura di Maria, ma anche per penetrare nel cuore del vangelo di Giovanni, nel suo messaggio e in particolare nella sua cristologia.

Dopo il fondamentale capitolo primo, comprendente il Prologo al Vangelo, la testimonianza resa a Gesù da Giovanni Battista e la chiamata dei primi discepoli (il tutto scandito da una sequenza precisa di giorni e di ore, importanti per l'evangelista), ecco, subito, nel capitolo secondo, la presenza dilla madre di Gesù. La pericope di Cana non riguarda in primo luogo Maria, nonostante ella vi sia profondamente inserita. Tuttavia, proprio perché "incastonata" nel mistero di Cristo, tra realtà teologico-salvifiche grandiose, la figura della Vergine acquista un rilievo particolare. Ciò appare più evidente se si confronta questo episodio con quello di Maria presso la croce (Gv 19,25-27). Posti all'inizio e al culmine del mistero di Gesù e dei "segni" che lo rivelano, i due brani formano come una grande inclusione. Costituiscono, in certo modo, gli estremi in mezzo ai quali si compie l'intera opera salvifica di Cristo.

Il "principio" dei "segni"

Come si può già intravedere, la ricchezza della scena di Cana è impressionante; ma per non affastellare gli elementi, cominciamo a presentare il brano con le sue parti.

Il testo inizia con una determinazione di tempo e di luogo e si conclude con un'indicazione locale:

  • v. 2,1: "E il terzo giorno ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea…"

  • v. 2,12: "Dopo questo discese a Cafarnao…".

Un episodio inquadrato con tale cura e solennità - lo si capisce subito - non può essere una normale festa di nozze, ma un evento di salvezza che si svolge nel tempo e nello spazio dell'esistenza umana. A dissipare ogni equivoco, giunge puntuale la voce dell'evangelista che, al termine dell'episodio, commenta: "questo fece Gesù come "principio" dei "segni"…" (v. 11).

Il "segno" è un'azione o un'opera compiute da Gesù per rivelare la sua identità di Figlio di Dio, la presenza in mezzo a noi del Verbo fatto carne.

Cana è il "principio" dei segni che seguiranno: un archetipo, un segno-tipo, che sta all'inizio, prefigura e anticipa tutti gli altri, rivelandone il senso e la finalità. Non si tratta dunque di un semplice episodio, ma di un evento fondamentale, che inaugura la missione di Gesù. Con esso egli rivela la sua gloria, lo splendore e la potenza che aveva presso il Padre prima della creazione del mondo (cf 1,1ss; 17,5) e quella di cui sarà rivestito nella sua risurrezione. Il segno manifesta la gloria, e la contemplazione della gloria conduce alla fede: "e i suoi discepoli - conclude l'evangelista - credettero in lui!" (v. 11). Queste realtà fondamentali della teologia giovannea: segno-gloria-fede mostrano come la pericope di Cana sia profondamente radicata nel quarto Vangelo, e ne annunci i principali sviluppi.

Non saremo dunque stupiti quando sotto termini e realtà apparentemente comuni vedremo emergere realtà e simbologie densissime.

"Il terzo giorno"

Il brano inizia dunque con l'espressione: "il terzo giorno" (v.1). Non si tratta ovviamente di un semplice dato cronologico: la formula evoca il mistero della risurrezione, il segno per eccellenza, nel quale effettivamente si manifestò la gloria di Gesù e i suoi discepoli credettero in lui. "Il terzo giorno" esprime ancor oggi la nostra fede nella risurrezione.

In tale ampio e denso contesto di memoria e profezia il quarto Vangelo introduce Maria: "e la madre di Gesù era là" (v. 1). Il racconto inizia sottolineando la sua presenza. Nel brano ella viene indicata ripetutamente con la formula "la madre di Gesù" (vv. 1.3.5.12). come tale, nel v. 3, ella interviene presso Gesù perché ponga rimedio a una situazione difficile.

La madre di Gesù, la "donna" e l'"ora"

Maria - secondo lo stile dei personaggi giovannei (cf. Nicodemo, la samaritana, i giudei, il cieco nato…) - all'inizio si colloca e parla su un piano umano: "non hanno il vino" (v. 3). Gesù però la trasporta immediatamente ad un livello diverso e superiore, prospettandole un altro tipo di intervento e di presenza: "che c'è tra me e te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora" (v. 4).

E' una frase a prima vista enigmatica e sconcertante, dalla quale emergono tuttavia rivelazioni preziose.

Chiamandola "donna" e non madre (come sarebbe stato logico) Gesù prende distanza dai legami familiari, per riaffermare la sua identità e la sua missione. La sua risposta echeggia quella data nel tempio di Gerusalemme al "padre" e alla madre: "Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo stare presso il Padre mio?" (Lc, 48-49); e richiama le parole riferite dai sinottici circa sua madre e i suoi fratelli (cf. Mc 3,31-35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21). La carne ed il sangue devono cedere il posto alle esigenze del Padre e della missione da lui ricevuta.

D'altra parte il termine "donna" verrà ripreso ufficialmente nel testo parallelo della Croce (Gv 19,26), come titolo dato a sua madre, per sottolinearne una nuova identità e un compito particolare nel mistero della redenzione.

Già qui a Cana il temine sembra rivestire un senso positivo e nuovo, come si può arguire dalle parole che Maria pronuncia immediatamente dopo.

Gesù dunque rivendica un suo spazio anche nei confronti della madre. Per il momento, del resto, non è ancora giunta la sua ora (cf v. 4).

L'"ora" di Gesù è il tempo della sua passione- morte e glorificazione, nella quale il Padre e il Figlio saranno glorificati (cf. Gv 13,31; 17,1). A quest'ora è orientata tutta l'esistenza di Gesù. indubbiamente c'è un'inclusione ed una tensione su cui si muove tutto il quarto vangelo, tra l'espressione iniziale "non è ancora giunta la mia ora" (2,4) e quella del compimento "Padre, è giunta l'ora" (17,1). Essa determinata dal Padre e nessuno vi può interferire.

Dopo la risposta misteriosa e insieme rivelatrice di Gesù, l'intervento di Maria - prima legato a una situazione contingente à si trasforma e diventa invito ai servi a fare la volontà del Figlio: "Fate quello che egli vi dirà" (v. 5). Tale formula - si noti -echeggia l'antica professione di fedeltà all'alleanza (cf. Es 24; 7). Con quelle parole, legate a un fondamentale evento passato, ci si apre ad un evento nuovo che qui si va compiendo, ad un "segno" che rivelerà la gloria del Figlio di Dio.

Simbolo, memoria e profezia

E' sempre più evidente che l'episodio di Cana non è una semplice festa di nozze: tutto appare sacramentale e simbolico ed evoca altri gesti, come quello in cui Gesù moltiplica i pani, per poi rivelare che vero pane è il suo corpo e vera bevanda il suo sangue (cf. Gv 6,55). Tutto a Cana diventa simbolo, memoria e profezia: le nozze sono il segno della comunione finale di Dio con il suo popolo, nozze che si attuano in Cristo, sposo della Chiesa (si noti che nel capitolo seguente, in Gv 3,29, il Battista si definisce "amico dello Sposo", che, evidentemente, è Cristo).

Nelle nozze c'è naturalmente un banchetto, e sulla tavola non può mancare il vino. Il vino è particolarmente sottolineato nel nostro brano (ricorre cinque volte sulle sei di tutto il quarto vangelo) e il suo significato emerge in particolare da contrasto con l'acqua. L'acqua di cui qui si parla è lustrale, usata per la purificazione dei giudei. Come elemento rituale è legata alla legge antica. Essa viene trasformata nel vino nuovo, simbolo dei tempi messianici finalmente presenti, con la gioia che li caratterizza.

Il vino indica non solo i tempi messianici con la nuova legge e la gioia concomitante, ma Cristo stesso. Il maestro di tavole, infatti, non sa "donde venga" (secondo il tipico linguaggio giovanneo, il mondo non sa "donde venga" Gesù), a differenza dei servi che, avendo fatto quello che egli ha detto, sono diventati suoi amici, ai quali Gesù ha rivelato tutto (cf. Gv 15, 14s). Egli non comprende come mai lo sposo (che in realtà è Gesù) abbia riservato il vino buono fino a quel momento.

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Maria
secondo la rivelazione biblica
di Alberto Valentini


 



 


L’opinione, tuttora diffusa, secondo la quale la Scrittura parlerebbe poco di Maria è certamente un giudizio acritico, anzi un pregiudizio che misconosce il carattere non quantitativo, ma qualitativo della Parola di Dio e la sua finalità storico-salvifica. La Scrittura infatti - a differenza della letteratura apocrifa e devozionale - non si interessa direttamente della biografia e della vicenda particolare della Madre di Gesù -, ma del suo ruolo e significato all’interno del disegno salvifico. "Chiunque voglia approfondire biblicamente la dottrina mariana - osserva giustamente Feuillet - non può farlo che mediante una maggiore comprensione della storia della salvezza".


Statisticamente i brani espliciti concernenti la Madre di Gesù non sono numerosi, ma neppure scarsi; in ogni caso, sono testi strategici e di eccezionale densità. Strategici, perché collocati alle svolte fondamentali della storia della salvezza: Incarnazione - Mistero pasquale - Pentecoste; di straordinaria densità, in quanto vitalmente inseriti in tali misteri, da cui traggono valore e significato.


Ampie prospettive e mistero pasquale


Ma non ci si deve limitare ai testi espliciti, né restar prigionieri di contesti particolari ed angusti: è necessario dilatare la prospettiva, andando oltre ciò che è immediato e manifesto, cercando di cogliere la reale portata della figura di Maria sullo sfondo dell’intera Rivelazione. Essa appare allora un crocevia obbligato verso cui convergono e dal quale si diramano le principali linee vettoriali del disegno salvifico, concernenti il credente, la Chiesa e l’intera famiglia umana. Si giustifica in tal modo la solenne e impegnativa affermazione conciliare: "Maria per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per così dire e riverbera i massimi dati della fede" (Lumen Gentium 65). La Madre di Gesù, dunque, è tutt'altro che marginale nella fede cristiana: ne è componente decisiva e qualificante; non è una semplice figura individuale, ma segno ed espressione privilegiata della comunità dell'alleanza.


Tale ricchezza di significato emerge solo se si considera Maria in prospettiva storico-salvifica, partendo - come sempre - dal mistero pasquale di Cristo, criterio fondamentale e chiave ermeneutica della Rivelazione. La didattica del Risorto che spiega ai discepoli di Emmaus "in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (Lc 24,27) è testimonianza preziosa di come le primitive comunità cristiane leggessero la Parola di Dio, ed esortazione per i credenti di ogni tempo a fare altrettanto. Per comprendere che tutte le Scritture parlano di Cristo, si richiede una lettura "spirituale" e plenaria dei testi: il semplice approccio letterale e storico-critico non è in grado di "comprendere" Cristo e il suo mistero nelle parole dell’Antico Testamento.


Anche nei confronti della Vergine Maria si impone una lettura "cristiana", maturata alla luce dell’evento pasquale, iniziando dagli strati più arcaici della rivelazione neotestamentaria. Tale metodo permette di seguire la progressiva presa di coscienza delle comunità primitive circa la Madre di Gesù, che procede parallelamente all’esplicitazione cristologica, trinitaria ed ecclesiale della fede cristiana.


Sviluppi della riflessione neotestamentaria


Come è noto, gli scritti neotestamentari si sono formati secondo un ordine diverso rispetto alla disposizione nella quale ci sono pervenuti.


I1 Kerygma apostolico e la predicazione cristiana originaria si concentrarono in maniera essenziale sull'evento di morte-risurrezione del Cristo, come attestato in particolare dalle formule presenti in testi come 1Cor 15,3-4; At 2,23.32.36; 3,14-15; 4,10;10,39-40. I1 problema prioritario che occupava le comunità delle origini, sia in ambiente palestinese che ellenistico, era costituito dalla necessità di giustificare e dimostrare attraverso le Scritture che il crocifisso era il Signore della gloria. In questa fase primitiva - in cui sono assenti sviluppi posteriori - manca una riflessione diretta sulla Madre di Gesù, alla quale si accenna solo in maniera occasionale ed implicita, anche se in contesti di notevole spessore dottrinale, come Gal 4,4-7 e Rm 1,3-4.


In un secondo tempo l'interesse si estese a tutta l'attività di Gesù "cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui fu di tra noi assunto al cielo" (At 1,22). La predicazione apostolica è chiamata allora a testimoniare la continuità tra Gesù di Nazaret e il crocifisso-Signore. A questa fase appartiene il materiale della cosiddetta vita pubblica, che forma l’oggetto del genere "vangelo", testimoniato in maniera tipica da Marco e dalla tradizione sinottica. In tale contesto, centrato sull’annuncio del Regno e sui suoi destinatari, la figura di Maria compare quale Madre di Gesù e in rapporto al discepolato cui sono tenuti anche i parenti.


In questo itinerario a ritroso verso le "origini" di Gesù, mentre la riflessione giovannea - come già precedentemente quella paolina - risale fino alla preesistenza e condizione divina del Figlio, alcuni ambienti cristiani si soffermano sulla sua nascita secondo la carne, presentandola però non in chiave biografica o di semplice documentazione storica, ma alla luce della risurrezione. Sorgono allora i cosiddetti "vangeli dell’infanzia", nei quali Gesù viene proclamato Messia, Salvatore, Emmanuele, Re e Signore. In tale ambito - testimoniato dai primi due capitoli di Matteo e di Luca - la fisionomia della Vergine, specie nella redazione lucana, appare notevolmente ricca e articolata.


Nell’opera giovannea, infine, pur nella rarità e concisione dei testi, la figura della Madre di Gesù attinge il massimo spessore teologico-cristologico ed ecclesiale, in sintonia con la ricchezza e il simbolismo di quella straordinaria letteratura.


Oltre i singoli testi


L’itinerario indicato mostra non solo lo sviluppo della riflessione sulla Vergine Maria all’interno della teologia neotestamentaria, a partire dalle fondamentali – anche se indirette e concise - affermazioni paoline fino alla densità della visione giovannea, ma anche il suo radicamento nella storia della salvezza e il significato per la comunità ecclesiale, che in lei si rispecchia e in qualche modo si identifica.


Se la Vergine - oltre che persona singola - è immagine del credente e della stessa Chiesa, la riflessione su di lei non deve limitarsi ai brani mariologici espliciti e diretti, ma va estesa - ovviamente, senza violenza ai testi - alle pericopi riguardanti la vita nuova in Cristo, il discepolato, e l’identità stessa della Chiesa "sposa senza macchia e senza ruga" del Signore. Molti passi ecclesiologici rivelano la loro pienezza solo se applicati a Maria, nella quale il progetto di Dio concernente la Chiesa rifulge in tutto il suo splendore. E non si tratta di una novità; il fenomeno è diffuso e tradizionale: si pensi alle riletture - al tempo stesso ecclesiali e mariane - non solo di pericopi neotestamentarie, ma anche di numerosi brani dell’Antico Testamento e di interi libri come il Cantico dei Cantici.


"Quello che le antiche Scritture annunciavano profeticamente della Chiesa – afferma De Lubac – riceve come un’applicazione nuova nella persona della Vergine, di cui la Chiesa diviene così la figura... e, reciprocamente, ciò che il Vangelo riferisce della Vergine, prefigura altrettanto bene la natura ed i destini della Chiesa... In tutto ciò che da esso ci vien detto, latent Ecclesiae sacramenta. "Così la Vergine Maria, che fu la parte migliore dell’antica Chiesa prima di Cristo, è divenuta la Sposa di Dio Padre per diventare anche l’esemplare della nuova Chiesa, Sposa del Figlio di Dio". ... Tra la Chiesa e la Vergine, i legami non sono soltanto numerosi e stretti: sono essenziali. Sono intessuti dal di dentro. Questi due misteri della nostra fede sono più che solidali: si è potuto persino affermare che essi sono un solo ed unico mistero. Diciamo, almeno, che essi sono tra loro in un tale rapporto che si avvantaggiano sempre ad essere chiariti l’uno con l’altro; anzi, che all’intelligenza dell’uno è indispensabile la contemplazione dell’altro".


La totalità delle Scritture


La riflessione sulla Vergine deve dunque prendere in considerazione l’intera Rivelazione biblica. Ma si può veramente parlare di una "presenza mariana" nell’Antico Testamento? Per alcuni Maria è assente, o vi è accennata in maniera così fugace e indefinita che non è possibile tratteggiarne la figura. Per altri, al contrario, la Vergine sarebbe presente un po’ dovunque nelle pagine dell’Antico Testamento, perché – dicono - tutte le Scritture parlano di Cristo e indirettamente anche di lei. Tra queste affermazioni estreme si inserisce tutta una gamma di posizioni intermedie. In ogni caso, bisogna dire che l’Antico Testamento presenta accenni, anticipazioni vaghe e frammentarie, che possono essere comprese solo alla luce del Nuovo Testamento e della Tradizione ecclesiale. "I libri dell’Antico e del Nuovo Testamento e la veneranda Tradizione mostrano in modo sempre più chiaro la funzione della Madre del Salvatore nell’economia della salvezza... E questi documenti, come sono letti nella Chiesa e sono capiti alla luce dell’ulteriore e piena Rivelazione, mettono sempre più chiaramente in luce la figura di una donna: la Madre del Redentore" (Lumen Gentium, 55). In questo senso si può parlare di una preparazione e presenza di Maria nell’Antica Alleanza. Una preparazione morale, tipologica e profetica.


La preparazione morale è riscontrabile in maniera privilegiata nell’atteggiamento degli umili e poveri del Signore, i quali costituiscono "la dimensione spirituale d’Israele, che infine genera Cristo" (A. Gelin). Maria si pone al termine e al vertice di tale porzione qualitativa del popolo di Dio, che costituisce il resto santo depositario della promessa e della speranza d’Israele.


La preparazione tipologica può essere individuale, comunitaria o riguardante le realtà dell’Antico Testamento.


- Della tipologia individuale fanno parte persone che in qualche modo anticipano la figura della Vergine. In questa linea si collocano, per esempio, Sara, Miriam, Debora, Giuditta, Ester..., ma non solo donne: la figura di Abramo, per esempio, anticipa diversi tratti e atteggiamenti fondamentali della Madre di Gesù.


- La tipologia comunitaria presenta Maria come punto di arrivo della comunità dell’alleanza. Il Concilio, in merito, propone la figura della "Figlia di Sion", titolo di derivazione profetica, recentemente riscoperto e proposto in maniera autorevole dal Concilio: "Con lei, eccelsa Figlia di Sion, dopo una lunga attesa si compiono i tempi e si instaura una nuova economia" (Lumen Gentium, 55).


- Nella tipologia delle realtà veterotestamentarie vanno annoverate, in particolare, l’arca dell’alleanza e il tempio del Signore, sulla scorta di alcuni indizi e di riletture neotestamentarie.


La tipologia profetica è data da parole, annunci, oracoli, che pur riferiti a un contesto storico particolare, trovano senso pieno e profondo solo alla luce degli eventi neotestamentari. La rilettura di tali testi in chiave mariana dev’essere fatta con rigore ed oculatezza, non dimenticando, tuttavia, che si tratta di "una rivelazione autentica, benché soltanto abbozzata, che sarà chiarita nel Nuovo Testamento, pienezza dell’Antico, e nell’interpretazione tradizionale della Chiesa".


Come si vede, la figura della Madre del Signore è legata intimamente alla storia della salvezza culminante in Cristo e cresce con la manifestazione sempre più luminosa del suo mistero. Un’adeguata comprensione della donna Maria di Nazaret e del suo "mistero" si può avere all’interno di tale contesto; solo così è possibile scorgere la sua icona biblica, nella quale si rivela il volto autentico d’Israele e della Chiesa secondo il progetto del Padre.

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Maria, il volto nascosto
di una donna
Carla Ricci




La collocazione fuori dal tempo ha favorito l’astrazione e la nascita di un’immagine stereotipata di Maria. Una storia nascosta, quella delle donne, da riportare alla luce. Per evidenziare le molte negazioni cui sono state sottoposte nella storia: la negazione della presenza fisica, la negazione della parola, la negazione della conoscenza. Ma lo Spirito rende tutti partecipi del suo dono: figli e figlie, schiavi e schiave, giovani e anziani…


 



La formazione religiosa ricevuta aveva prodotto in me un’immagine ingombrante, irreale, stereotipata, lontana, ed in fondo estranea di Maria.


La madonna della mia formazione era una donna di una sola età, irrigidita nell’"immagine". O forse meglio ancora, era una donna di nessuna età, posta fuori dall’umano scorrere del tempo e con ciò lontana dalla percezione concreta, quotidiana.


Mi fu sottratta quindi non solo una persona, ma anche una bambina, un’adolescente, una donna.


La giovane che è promessa sposa a Giuseppe è, ma anche allo stesso tempo non è, la donna nella cui esperienza sono trascorsi più di trent’anni e alla quale viene ucciso il figlio.


Il volto della donna che soffre ai piedi della croce raccoglie il vissuto d Maria da molti anni addietro: dall’infanzia, dall’incontro con Giuseppe, dal parto di Gesù, dal primo problema creato dalla crescita e dal distacco del figlio (va a parlare con i dottori), dal momento in cui Gesù abbandona la sua casa per andare ad annunciare il regno. Maria giunge qui attraverso il succedersi degli anni. Quando Gesù muore l’età della madre deve porsi vero i cinquant’anni.


Un’immagine storpiata di donna


Mi appare chiaro ora che è la collocazione fuori dal tempo che ha favorito l’astrazione e la nascita dell’"immagine". L’eliminazione della categoria di tempo, poi, creo forse un effetto di trascinamento che porta con sé quello di spazio.


Dove, dall’ambito più vicino a quello più ampio, Maria è collocata? Lo spazio immediato della persona è costituito dalla sua realtà fisica, il corpo.


A questo punto mi si pone innanzi uno scoglio che, se non è possibile in questo ambito affrontare, non posso nemmeno ignorare. Quali complesse operazioni sono avvenute in riferimento alla realtà corporea di Maria? Al di là delle convinzioni di fede, la condizione di verginità è divenuta centro di coagulazione di quali situazioni culturali, interiori, psichiche?


La dicotomia male-bene, la contrapposizione corpo-anima, che ruolo hanno avuto nella cristallizzazione di concetti che presentano la sessualità come negativa e affermano, contrapponendola, la verginità come positiva? Le trilogie male-corpo-sessualità e bene-anima-verginità intersecano relazioni articolate con dipendenze interne e conseguenze di intorpidimento di tutte le singole realtà.


La sessualità vista negativamente può portare ad una esaltazione della verginità intesa come non-sessualità, non-corporeità. Così come la non accettazione della realtà corporea può indurre a considerare le realtà spirituali in modo disincarnato, disancorato e avulso dalla concretezza anche corporea in cui la persona umana è stata voluta.


Maria da questo processo esce con un'immagine storpiata di donna quasi privata del corpo oltre che della componente sessuale, cosicché avviene che mentre il Figlio di Dio in lei "si fa carne", sembra svanire nel nulla la "carne" della madre. E ciò proprio quando il Creatore ha scelto, sia di farsi uomo (con un corpo), sia di farlo attraverso il corpo di una donna.



La "storia nascosta" di Maria


Ritrovare la storia delle donne è compito arduo, perché la loro subalternità è generalmente sepolta sotto il silenzio e il disinteresse di secoli di predominio patriarcale che ha visto gli uomini non solo dominare la storia ma interpretarla e, come storici e letterati, trasmettercela. Maria di Nazareth purtroppo non sfugge a questa regola generale.


Come tentare di riportare alla luce ciò che giace nascosto? Come liberare Maria dalle stratificazioni concettuali depositatesi attraverso secoli di elucubrazioni intellettuali di uomini generalmente celibi? Come ritrovare Maria donna? Come "andare" a scoprirla nella Palestina di 2000 anni fa? Due possibili strade: vedere la condizione della donna in quell'epoca e analizzare i brani del Nuovo Testamento al riguardo.


In sintesi si può parlare di storia negata alle donne, ma contemporaneamente di una storia nascosta da riportare alla luce. Delle tante negazioni se ne segnalano tre:




  • La negazione della presenza fisica: la domina non contava per costituire il numero minimo di dieci persone necessario per svolgere la funzione religiosa nella sinagoga. Incontriamo un'influenza di questa negazione anche nel redattore del vangelo di Matteo, quando per due volte troviamo l'espressione: "senza contare le donne e i bambini" (Mt 14,21; 15,38).


  • La negazione della parola: era bene che la donna non parlasse, soprattutto in pubblico e anche con parenti stretti; la parola della donna non aveva valore come testimonianza giuridica.


  • La negazione della conoscenza: alle donne era interdetta la frequenza di scuole e anche l’insegnamento religioso era strettamente limitato ad alcuni precetti, soprattutto negativi, contraddistintiti dal "non fare". Si trova scritto nel Talmud palestinese: "Le parole della Torah vengano distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne (Sotah 19°).

Della storia nascosta di Maria affiorano nei Vangeli alcune tracce rivelatrici. All'interno di questa cultura e come madre di un primogenito maschio Maria avrebbe dovuto vedersi riconosciuto un valore importante. Ma Gesù opera una rottura dei legami parentali e di clan ebraici che coinvolge anche quelli della famiglia. Dalle scarse tracce che il Nuovo Testamento ci ha tramandato del rapporto e dei dialoghi di Gesù con Maria (Lc 2,48-49: "Gesù fra i dottori"; Gv 2,3-5: "Nozze di Cana"; Gv 19,26-27: "Maria presso la croce"; Mt 12,46-50/Mc 3,3 1-351/Lc 8,19-21: "I veri parenti di Gesù"), si evidenzia un rovesciamento dell'impostazione tradizionale.


Nei discorsi diretti Gesù non si rivolge mai a Maria coni l'espressione "madre", la chiama invece "donna": "Che ho da fare con te, o donna?" (Gv 2,4): "Donna, ecco tuo figlio" (Gv 19,26) termine che usa anche con Maria di Magdala quando le appare risorto: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?" (Gv 20,15).


E certo allora doveva risuonare in modo inconsueto e di non facile lettura. Ma al di là anche dei problemi di analisi delle redazioni degli scritti evangelici e quindi della storicità dei singoli detti di Gesù e quindi anche di questi, forse è illuminante l'episodio che solitamente viene chiamato "I veri parenti di Gesù" e che si trova in parallelo nei tre vangeli sinottici di Matteo, Marco e Luca. Lo si riporta nella redazione di Marco, quella considerata oggi la più antica: "Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero "Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e li cercano". Ma egli rispose loro: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Girando la sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli. Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre"" (Mc 3,31-35). Parole probabilmente dure e inconsuete allora per quell'uditorio abituato a considerare la donna soprattutto, e quasi solamente, in quanto madre.


Ce lo attesta un'altra espressione. Secondo Lc 11,27-28 una donna si rivolse a Gesù dicendo: "Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!". Ma egli le disse: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parolai di Dio e la osservano!".


La risposta di Gesù nei due brani è omogenea: ciò che ha valore non è un dato biologico o una funzione in se stessi, ma la realtà totale della persona come capace di ascolto e di attuazione della parola. E la donna viene considerata tale: una discepola. E così anche Maria.


Il rapporto madre-figlio


Il rapporto madre-figlio può essere percepito con due connotazioni diverse, ma poi nemmeno troppo, nell’episodio "Gesù fra i dottori" e alle nozze di Cana.


Nel primo vediamo Gesù dodicenne compiere un gesto di autonomia dalla famiglia e dalla madre, e questo ci fa cogliere in Maria le ansie e le difficoltà che ogni donna vive quando un figlio crescendo promuove il proprio distacco e la propria indipendenza. L'equilibrio precedente si rompe, le proiezioni della madre a seguire e proteggere costantemente il figlio devono essere rivedute alla luce della vitale esigenza della maturazione dell'autonomia del figlio.


Maria è qui colta donna dalle donne in questa difficoltà di passaggio per un sentire profondo, collegato alla realtà di comunicazione non verbale, fisica, del corpo nel corpo, del feto nella donna, condizione che la pone in modalità di percezione molto coinvolgenti, nelle quale deve imparare a muoversi e che deve riuscire a gestire.


In questa situazione è molto importante la presenza dell'uomo che, partendo da modalità diverse, ma avendo un rapporto profondo con la donna, ne coglie le difficoltà e le è un riferimento a fianco per superarle.


Per la donna vivere la maternità in modo non totalizzante significa anche restituire all'uomo, là dove l'avesse persa o non l'avesse acquisita pienamente, la paternità.


Una fiducia che va "oltre"


Restano ora i due passi di Giovanni: sono gli stessi citati per l'espressione "donna", usata da Gesù per rivolgersi a Maria (2,4; 19,26). Altro però vi si potrebbe osservare, soprattutto nel racconto delle nozze di Cana e del modo di porsi rispettivamente prima di Maria verso il figlio, e poi di Gesù verso di lei. Solo un accenno che andrebbe approfondito.


Questo il dialogo: "La madre di Gesù gli disse: "Non hanno più vino". E Gesù rispose: "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora". La madre dice ai servi: "Fate quello che vi dirà"" (Gv 2,3-5).


Al di là delle problematiche redazionali che la pericope presenta si incontra un testo che mette in evidenza l'iniziativa di Maria nel sottoporre al figlio una situazione di disagio. È una sottolineatura importante per un contesto sociale che vedeva la donna non poter assumere certi ruoli e dover evitare di parlare in pubblico. In Giovanni poi il gesto di Maria porta a quello che viene considerato il "primo miracolo". Gesù risponde alla madre con un'espressione che ci fa riflettere per la forza con cui sembra voler mettere in chiaro la distinzione di sé dalla madre, la propria autonomia e quasi l'invito a non interferire con quanto dovrà avvenire, le cui modalità e i tempi hanno altrove il loro fondamento. Questa specie di situazione di contrasto non scompare, ma apparentemente si rafforza nel seguito. Maria si rivolge ai servi dicendo: "Fate quello che vi dirà". E un insistere quasi inopportuno? Forse è la fiducia di Maria che va oltre il proprio figlio, al figlio dell'Uomo, che va oltre questa contingente situazione, oltre la maternità fisica, oltre il tempo presente e immediatamente umano. Pare che ciascuno, madre e figlio, si assuma distintamente la propria specifica responsabilità, esprima la propria voce e risponda alla propria chiamata.



Le altre donne del Vangelo


È difficile fare ipotesi circa contatti concreti di Maria con le donne che assieme ai "dodici" seguivano Gesù. La presenza di Maria vicino a Gesù durante il ministero pubblico assai raramente compare nei testi evangelici. Anche nell'episodio dei veri parenti appare chiaro che Maria non seguiva il figlio nel suo itinerare: lo va infatti a cercare. La sua presenza è esplicitata in Gv 19,25 sotto la croce: "Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala". Qui troviamo Maria di Nazareth insieme con Maria di Magdala, la donna che emerge all'interno del gruppo del seguito e che, nella successione del racconto giovanneo, è poi scelta da Gesù per la prima apparizione. Il coinvolgimento e la partecipazione di Maria alla realtà del gruppo delle donne che aveva seguito Gesù è invece testimoniata nel racconto degli Atti dove in 1-14 ci viene data una conferma importante della presenza di Maria con le altre donne subito al formarsi della comunità post-pasquale: "Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui".


A questo gruppo verrà fatto dono dello Spirito e di esso sono resi partecipi i "figli" e le "figlie", gli "schiavi" e le "schiave", i "giovani" e gli "anziani" in una realtà di pienezza che nessuno esclude né per sesso, né per condizione sociale, né per età, ma tutti accoglie e, abbracciando i tempi, dà compimento alle parole del profeta Gioele e viene proclamata da Paolo:


"...io effonderò il mio spirito
sopra ogni uomo
e diverranno profeti i vostri figli
e le vostre figlie;
i vostri anziani faranno sogni
i vostri giovani avranno visioni.
Anche sopra gli schiavi
e sulle schiave,
in quei giorni effonderò
il mio spirito"
(Gi 3,1-2).



"Non c'è più giudeo né greco, non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna" (Gal 3,28).



(da Famiglia domani, 1/2000)

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IL PROFETA MARIA
"Grandi cose ha fatto
in me l'Onnipotente"
di P. Alberto Valentini



E' necessario ricondurre la figura di Maria dalla periferia della fede al cuore del mistero della salvezza. Sin dai più antichi tempi del cristianesimo il popolo di Dio, nella sua dignità profetica, sacerdotale e regale, per ispirazione dello Spirito Santo, ha espresso su Maria concetti molto profondi, che spesso solo più tardi sono stati recepiti dai teologi. Così pure ci sono stati molti santi che hanno intuito sulla Vergine verità dopo molti secoli espresse dal magistero ufficiale della Chiesa.


Vediamo quindi come la semplice e saggia pietà popolare abbia anticipato tante riflessioni.


"La premessa al culto di Maria è iscritta nelle pagine dell'Antico Testamento."


Ciò si nota soprattutto nella narrazione dell'incontro con Elisabetta (Le 1,39-45). Costei, rivolgendosi a Maria, usa parole che riecheggiano il cantico vetero-testamentario di Giuditta (Gdt 16,15). In esso, infatti, per manifestare la gioia dell'avvenuta liberazione, si dice: "I monti fin dalle fondamenta con le acque sobbalzeranno". Questo "sobbalzare" dei monti trova un preciso riscontro nel sobbalzo gioioso del piccolo Giovanni ancora nel seno materno. Elisabetta così dice a Maria: "Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha sobbalzato di gioia nel mio grembo, e beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore".


L'evangelista Luca non avrebbe attribuito ad Elisabetta tali espressioni se Maria non fosse stata già proclamata beata dalla primitiva comunità cristiana in cui egli viveva. Una simile riflessione può essere fatta anche per le parole del Magnificat: "Tulle le generazioni mi proclameranno beata" (Lc 1,48), che rispecchiano la particolare considerazione di cui la Vergine godeva nella Chiesa delle origini.


La proclamazione della beatitudine si ricollega direttamente al retroterra dell'Antico Testamento, in particolare modo al linguaggio di alcuni salmi. E veramente Maria sarà sempre proclamata beata fino a che durerà il regno di suo Figlio, "e il suo regno non avrà fine" (Lc 1,33).



"Ripensare a Maria come ci è stata presentata dai Padri antichi."


Nel corso dei secoli tanti Padri della Chiesa, tanti eminenti teologi antichi e moderni hanno dato spazio a Maria nella loro riflessione, mettendo soprattutto in risalto il profondo collegamento della Vergine con il mistero della Chiesa e con l'esperienza di fede di ogni singolo credente. A tal proposito si può ricordare Karl Rahner, secondo il quale il culto spontaneo, ricco di fede, verso Maria, può farci capire a che punto siamo giunti nella nostra personale esperienza di fede. Anche il cardinale De Lubac sottolineava in un suo trattato come i rapporti tra la Vergine e la Chiesa non fossero solo stretti, ma addirittura intessuti dal di dentro, tanto da non poter parlare di una senza parlare dell'altra.


Nel Pedagogo (opera composta nel III sec. d.C.) l'autore, Clemente Alessandrino, affermava di conoscere una sola Vergine e madre, cioè la Chiesa. In tempi a noi molto più vicini, U. Rahner sottolineava l'urgenza di recuperare alcuni valori presenti nell'antica comunità cristiana e concernenti gli strettissimi rapporti tra Maria e la Chiesa: secondo i Padri, infatti, solo attraverso Maria si può arrivare a comprendere il volto materno della Chiesa.


Dobbiamo quindi ripensare con serietà e con molto amore alla figura di Maria così come ci è stata presentata dai Padri antichi.


E' straordinario constatare come essi, che pure vivevano in un contesto socioculturale non certo propizio a recepire i valori femminili, abbiano saputo sottolineare quanto una donna abbia potuto collaborare con Dio nell'opera della salvezza, facendosi portatrice di Cristo.


Nel commento al Vangelo di Giovanni, fatto da Origene, una delle menti più aperte e feconde nell'ambito della riflessione teologica antica, si può cogliere, per via indiretta, la convinzione che non è possibile essere discepoli amati se non si accoglie, oltre a Cristo, anche sua Madre, come Giovanni ha accolto Maria ai piedi della croce.



"Ma chi è il profeta?"


Tutti i dubbi che talvolta noi ci poniamo intorno alla figura della Vergine se li era già posti Giuseppe quando aveva pensato di " rinviarla in segreto ". Ma l'intervento dell'angelo (Mt 1,20) convince Giuseppe a non ostacolare l'opera dello Spirito Santo che si sta compiendo nella sua sposa.


Maria è veramente figura profetica, nella quale si compie il passaggio dal profetismo antico a quello neo-testamentario. Essa, come Cristo suo figlio, è profondamente inserita nell'orizzonte culturale, spirituale e istituzionale dell'antico Israele, in cui erano presenti ed operanti realtà quali il profetismo, la regalità e il sacerdozio.


Cristo concentra su di sé tutti questi valori, rinnovandoli profondamente e comunicandoli a tutti coloro che sono battezzati in suo nome. Egli è sacerdote, re e profeta (vedere a questo proposito la Lettera agli Ebrei, che sviluppa in modo esemplare tale riflessione).


Il discorso sul profetismo ci riconduce a Maria: il titolo di profeta le appartiene, poiché essa è come noi inserita nel mistero di Cristo. Ma chi è il profeta? Egli è colui che proclama con potenza, attraverso le sue parole e le sue opere, il giudizio, la parola, i disegni di Dio. Il profeta gioca tutta la sua vita su questa parola e rivela il volto amoroso di Dio, il significato delle vicende umane, il senso della storia, che è sempre unitamente teologico e ideologico (cioè teso a realizzare un fine ultimo: la costruzione del Regno di Dio) e cammina sempre secondo i disegni del Signore.


La Lettera di Paolo ai Colossesi contiene, a tal riguardo, parole mollo significative. Infatti, riferendosi a Cristo, dice: "Tutto è stato creato per mezzo di Lui e per Lui...tutto trova il suo fondamento in Lui" (Col 1,16-17). E veramente Cristo ricapitola tutta la creazione sotto il suo dominio. Tutta la storia, infatti, è progetto di Dio ed il profeta lo rivela.


Il profeta è una persona afferrata dal Signore e animata dal soffio impetuoso del suo Spirito, secondo le parole di Geremia: " Tu mi hai sedotto. Signore, ed io mi sono lasciato sedurre" (Ger 20,7).


Per sottolineare questa sua totale appartenenza a Dio, spesso il profeta deve cambiare il suo nome. Così pure Maria, nella sua dimensione profetica, viene chiamala dall'angelo "kecharitomène", cioè "piena di grazia", oggetto della più profonda tenerezza di Dio. Ma ancora, sempre nel racconto di Luca, possiamo trovare altre espressioni che mettono in risalto il particolare rapporto che ha la


Vergine con il Signore. Elisabetta, infatti, la definisce, in un continuo crescendo, "benedetta", "beata", "colei che ha creduto", ed infine "la madre del mio Signore".


I profeti sono afferrati, turbati, scossi dal soffio dello Spirito. Maria pure è scossa violentemente, è turbata dall'annuncio ricevuto. Il verbo greco "diataràsso" bene esprime lo sconvolgimento provato dalla vergine.


Come i profeti spesso pagano con la sofferenza, e talvolta pure con la morte, la fedeltà alla loro vocazione, cosi pure Maria paga il "sì" con tutta la sua esistenza.


I profeti prendono posizione opponendosi ai potenti, della terra, poiché proclamano i progetti di Dio, spesso in opposizione con quelli umani. La loro missione consiste nella liberazione del popolo da ogni forma di idolatria e di oppressione (esemplari a questo proposito sono i canti del Servo di Javè, nel Libro di Isaia).


Anche in Maria possiamo vedere tutto questo: essa è al vertice dei profeti dell'Antico Testamento, poiché quelli scorsero da lontano, "desiderarono di vedere...ma non videro" (Lc 10,24) la salvezza, mentre la vergine questa salvezza, Cristo, la ha contemplata da vicino, la ha tenuta tra le braccia. L'arrivo dei Magi, narrato da Matteo (Mt 2,1-12), prefigura la venuta di tutti coloro che, in seno alla


Chiesa, si vedono presentare il bambino da Maria sua madre.


I profeti non possono tacere quanto hanno visto ed udito, ma si sentono spronati a portare il loro annuncio anche in luoghi molto lontani. Allo stesso modo Maria, una volta ricevuto l'annuncio, si reca a portare il messaggio di salvezza alla casa di Zaccaria, in particolar modo ad Elisabetta, sua cugina. E' riduttivo spiegare il viaggio affrontato dalla vergine solo con il desiderio di aiutare la sua parente, attempata e incinta. Già S. Ambrogio aveva visto in quel viaggio la manifestazione della gioia dell'annuncio, una gioia ben conosciuta nella spiritualità veterotestamentaria. "Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero che annuncia la pace !" (Is 52,7). I piedi dei missionari, dei profeti, degli inviati da Dio corrono, poiché devono portare la proclamazione della salvezza. Una simile gioia in Maria è scaturita dal messaggio che ha ricevuto, dal saluto a lei dato dall'angelo.


E' interessante considerare che, nel testo greco, la parola "saluto", "aspasmòs", ha una forte connotazione affettiva, indica un saluto che scaturisce da una profonda relazione di amore. E' quindi la percezione di tutto questo a riempire di felicità Maria, a farla andare "in fretta" dalla cugina, alla quale il suo saluto, pure definito "aspasmòs", fa sobbalzare di gioia il bambino nel grembo, proprio come nell'Antico Testamento il Profeta Malachia aveva affermato che avrebbero saltellato di gioia i


vitellini per la venuta del giorno del Signore (Mal 3,20).



"... dalla salvezza sperimentata può scaturire la gioia vera"


Sempre in un simile contesto gioioso bisogna ricordare che, come Maria, anche gli Apostoli annunciano il messaggio di salvezza subito dopo aver ricevuto lo Spirito Santo. C'è un evidente parallelismo tra la narrazione dell'annuncio alla casa di Zaccaria e quella della prima predicazione degli Apostoli, tra l'infanzia di Gesù e quella della Chiesa. Del resto Luca, autore di questo Vangelo, è pure autore degli Atti degli Apostoli.


Le grandi opere di Dio ricordate nell'Antico Testamento trovano la loro pienezza in Cristo, che porta la liberazione e salvezza. Solo dalla salvezza che è stata realmente sperimentata può scaturire la gioia vera. La liberazione dalla schiavitù egiziana, il passaggio, da parte degli Ebrei, del Mar Rosso, mentre i carri del Faraone e l'esercito sono travolti nel mare (Es 14,19-31), fa toccare con mano l'amore misericordioso e salvifico del Signore verso il suo popolo. Nel capitolo 15 dell'Esodo esplode la gioia attraverso il grande cantico di liberazione che è la falsariga del Magnificat e che sarà ripetuto poi ogni volta che Israele sperimenterà la salvezza.


La liberazione dall'Egitto è l'evento fondante dell'antica storia della salvezza, come la Pasqua di Cristo è l'evento fondante della nuova. Ancora, in Apocalisse 15 riecheggia l'aulico cantico per bocca dei redenti dal Signore. Il cantico di Esodo 15 si sviluppa intorno al ritornello che la profetessa Miriam, sorella di Mosè e di Aronne, intona, danzando e scuotendo nelle mani i timpani, insieme a tutte le altre donne. Un canto simile viene intonato dalla profetessa Debora (Gdc 5) come pure da Giuditta, "e il popolo tutto a gran voce ripeteva questo canto di lode" (Gdt 15,14).


Anche Maria con il suo Magnificat si inserisce a buon diritto nella schiera di donne forti e coraggiose capaci di sperimentare e di cantare la salvezza.



"Il Magnificat è..."


Il Magnificat è un canto di Pasqua. Tutti i Vangeli dell'infanzia sono testi pasquali composti più tardi delle altre parti, quando già nella primitiva comunità cristiana era maturata una profonda riflessione teologica sulla storia della salvezza, quando già sulla culla del bambino Gesù rifulgeva la gloria del Risorto.


In passato il Magnificat è stato letto come un canto spirituale, personale, individuale Tale chiave di lettura, cosi intimistica, non è più ammissibile. A partire dal 1968 si privilegiò un'interpretazione sociale e politica del canto, quasi fosse una "Marsigliese" del popolo di Dio. Ma anche questa interpretazione è contestabile, in quanto porta a una totale mondanizzazione del testo.


Il Magnificat proclama con la forza la salvezza di Dio che si estende a tutto il popolo e ciascuna persona. Dobbiamo avere una visione teologica, umana e incarnata della salvezza, che però trascende la storia e i progetti mondani. Pertanto il Magnificat è un canto salvifico in cui si celebra la Pasqua di Cristo e della liberazione definitiva. Esso esprime bene ciò che doveva aver provato Maria quando le era stato dato l'annuncio. Per dirla col Manzoni, "di tal genere, se non tali appunto" dovevano essere stati i sentimenti della Vergine espressi nel canto, sgorgato, come ogni vera preghiera, solo da chi ha veramente sperimentalo la salvezza, l'esperienza pasquale.


Il Magnificat è dunque un canto di lode gratuita a Dio, ma è anche inno, benedizione senza fine, ringraziamento: riunisce in se stesso elementi derivati da vari generi letterari.


Il Magnificat è un canto eminentemente teologico, poiché ogni sua espressione ci riporta al Signore, che è il soggetto di quasi tutti i verbi presenti nel testo, ad eccezione di due, di cui è l'oggetto, e che opera una radicale liberazione.


Il Magnificat è un canto pasquale. Nel suo centro, nel cuore del testo, sono presenti i poveri e gli affamati, mentre i superbi e i potenti sono citati verso la fine del cantico. II Signore è interessato a liberare i poveri, non ad umiliare di proposito i potenti. A questi ultimi Egli mostra il suo volto severo solo se si rifiutano di ascoltare la sua parola e perseverano nell'oppressione dei più deboli.


Tale durezza ha un profondo valore pedagogico, poiché richiama ad una autentica conversione. Il Magnificat è quindi un canto di salvezza e di misericordia. poiché, come afferma l'enciclica "Redemptoris Mater", ci rivela il volto di Dio e insieme quello dei poveri, poiché i poveri sono del Signore.

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Nato da donna
Galati 4,4:
di P. Alberto Valentini



 


[1] Ecco, io faccio un altro esempio: per tutto il tempo che l'erede è fanciullo, non è per nulla differente da uno schiavo, pure essendo padrone di tutto;
[2] ma dipende da tutori e amministratori, fino al termine stabilito dal padre.
[3] Così anche noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo.
[4] Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge,
[5] per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.
[6] E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!
[7] Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio. (Gal 4, 1-7).



Il testo di Galati 4,4ss appare emblematico: vi è racchiuso, per così dire il Mistero di Maria, donna umile e sublime, colei che primeggia tra i poveri del Signore ed è l'eccelsa Figlia di Sion e la kecharitoméne. (1)


Gli studiosi si accostano a questa pericope con molta circospezione: premettono che essa si riferisce a Maria solo in maniera indiretta, quasi incidentale, ma finiscono generalmente con accenti di entusiasmo, che possono anche lasciare perplessi. Essi parlano, in conclusione, di "preziosissima testimonianza di Paolo", di mariologia in germe, di condensato e anticipo degli sviluppi presenti nei vangeli dell'infanzia. "Dal punto di vista dogmatico - afferma O. Söll - l'enunciato di Gal 4,4 è il testo mariologicamente più significativo del NT... Con Paolo ha inizio l'aggancio della mariologia con la cristologia, proprio mediante l'attestazione della divina maternità di Maria e la prima intuizione di una considerazione storico-salvifica del suo significato".


Effettivamente il testo di Galati presenta una sintesi notevole, di tale densità da orientare validamente la mariologia di ogni tempo. Se ci si fosse attenuti a tali linee sobrie, ma di straordinaria concretezza, la storia della mariologia sarebbe probabilmente ben diversa. Il "mistero" della donna in Gal 4,4ss è totalmente inserito in un disegno cristologico-trinitario-ecclesiale.


La donna, di cui non si menziona neppur il nome - ma tutti sanno chi sia - è interamente al servizio dell'evento salvifico che impegna la stessa Trinità ed è a vantaggio di tutti gli uomini. Ella è coinvolta nella realtà della pienezza del tempo, decisa non dalla semplice maturazione della storia, né da eventi mondani o da scelte umane, ma dalla libertà e sovrana decisione del Padre di inviare il proprio Figlio. La missione del Figlio di Dio non è conseguenza della pienezza del tempo, proprio il suo ingresso nella storia che realizza tale pienezza, trasformando il chrònos in kairós. (2) Il tempo della fine è il tempo in cui il "principio" divino della nostra esistenza, Gesù Cristo, è penetrato in essa. La comparsa di Gesù Cristo in questo eone si basa sull'atto dell'invio e consiste nell'incarnazione. Il Figlio di Dio così inviato, si inserisce nella natura umana, determinata dalla donna, come il "divenuto dalla donna"" (H. Schlier).


 


(1) Piena di grazia.
(2) Momento, tempo propizio.



Il testo di Galati è pieno di paradossi e di confronti sconcertanti. Da una parte c'è Dio, il Padre, che prende l'iniziativa e invia il Figlio nel mondo; dall'altra c'è la donna, e con lei la condizione di fragilità, caducità, povertà radicale. Nascendo da donna, il Figlio di Dio nasce sotto la legge, in condizione di non-libertà - secondo la visione paolina - pur essendo l'erede e il signore di tutto (cf GaI 4,1). C'è in questo evento l'infinita condiscendenza del Padre e la kènosi (3) estrema del Figlio. Nella donna si nasconde la povertà della terra, con la quale, tuttavia, Dio non ha mai cessato di dialogare e nella quale, realizzando la pienezza del tempo, va ad abitare.


Se è paradossale il fatto che il Figlio di Dio nasca da donna, sotto la legge, in condizione di fragilità e di schiavitù, non è meno paradossale la logica che intende redimere gli uomini e renderli figli proprio attraverso tale condivisione di povertà esistenziale e di non-libertà. Come può un nato da donna conferire la dignità di figli di Dio, e come può uno schiavo liberare quanti attendono di essere affrancati? Nella nascita del Figlio di Dio dalla donna e nell'assunzione della condizione di schiavitù si manifesta effettivamente il mistero della follia di Dio che è più sapiente degli uomini e della debolezza di Dio che è più forte degli uomini (cf 1 Cor 1.25). La donna diventa così il segno visibile della kènosi di Dio, ma anche l'itinerario attraverso il quale gli uomini possono ottenere la loro dignità. Parafrasando l'antico effato liturgico, si può affermare che il Figlio di Dio è nato da donna perché tutti i figli di donna siano resi figli di Dio. E a coloro che sono diventati tali, il Padre (che ha inviato il Figlio) invia lo Spirito, come garanzia e sigillo di libertà. Animati dallo Spirito del Signore, essi possono finalmente gridare l'Abbà della confidenza, in totale parresia (4) e nell'inconcussa certezza di essere non più schiavi, ma figli ed eredi, per grazia di Dio.


(3) Abbassamento, annientamento.
(4) Libertà di parlare.



Colpisce in questo testo "mariologico" il protagonismo trinitario, del Padre, del Figlio e dello Spirito. Da questo punto di vista siamo di fronte ad una testimonianza esemplare dell'agire divino nell'opera della salvezza.


Anzitutto il Padre, il quale appare con evidenza come l'iniziatore e il perfezionatore della salvezza. Le due proposizioni principali che costituiscono i pilastri portanti della pericope di Gal 4,4-7, hanno per soggetto il Padre e per verbo principale l’"inviare", concernente la missione del Figlio e dello Spirito. Il Padre non soltanto si trova in posizione dominante, come soggetto dei verbi principali, ma è collocato all'inizio e alla fine dei vv. 4-7, formando una significativa inclusione. Egli appare con evidenza - lo ribadiamo - come il principio e il fine dell’opera salvifica.


Anche il Figlio, ovviamente, ha una posizione di rilievo: il testo è marcatamente cristologico e il riferimento al Figlio è posto al centro del discorso, tra il Padre e lo Spirito. Egli appare implicitamente nella sua preesistenza divina ed esplicitamente nel suo essere "nato da donna". È l’"inviato" del Padre, il redentore e colui che comunica agli uomini la figliolanza divina. Il Figlio di Dio incarnato è l'operatore della nostra salvezza.


L'invio del Figlio, atto escatologico di Dio, che ha posto fine alla schiavitù dell'umanità con la grazia della dignità filiale, non esaurisce tuttavia il dono di Dio. La condizione di figliolanza richiede la presenza dello Spirito, che conferisce il carattere e la coscienza di figli con tutta la libertà che ne consegue. Questo secondo dono è postulato dal primo: all'invio del Figlio corrisponde, come necessario complemento, la missione dello Spirito. Il testo è esplicito in tal senso: lo stesso verbo col quale Dio manda il Figlio viene ripetuto per il dono dello Spirito. Non ci si limita alla trasformazione oggettiva, ma si è introdotti nell'esperienza personale, nella coscienza beata di sentirsi figli.


Insieme con la dimensione trinitaria, in questo testo che parla di schiavi liberati, è presente anche una nota essenziale, ma preziosa, di soteriologia e di antropologia soprannaturale, concernente la condizione nuova in Cristo e nello Spirito di quanti, sottratti alla schiavitù della legge e degli elementi mondani, sono diventati liberi, figli ed eredi, per grazia di Dio.



Tutte queste dimensioni - fondamentali nell'opera divina e nella salvezza delle genti - dicono riferimento più o meno diretto, ma imprescindibile, alla "donna" dalla quale è nato il Figlio di Dio. La sua figura appare in qualche modo un crocevia nei disegni divini. Alla luce di questo antico ed autorevole testo paolino acquistano concretezza le parole solenni del Concilio: "Maria... per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per così dire e riverbera i massimi dati della fede" (LG 65). Non a caso il testo di Galati viene citato con grande frequenza dai Padri e trova ampia valorizzazione nella liturgia della Chiesa. Anche i documenti magisteriali vi ricorrono volentieri. Con questo brano si apre il capitolo VIII della Lumen Gentium e con il medesimo testo ha inizio l'enciclica Redemptoris Mater. Giovanni Paolo Il non si limita a citarlo, ma ne sottolinea l'eccezionale portata trinitaria, ecclesiale e storico-salvifica: "Sono parole infatti che celebrano congiuntamente l'amore del Padre, la missione del Figlio, il dono dello Spirito, la donna da cui nacque il Redentore, la nostra filiazione divina, nel mistero della pienezza del tempo" (Red. Mat. 1).


GaI 4,4ss è dunque un testo di rara densità, sul quale bisognerà riflettere a lungo. È anche un brano dalle prospettive molteplici, da intendere in maniera sinfonica. Un approccio del genere corrisponde allo spirito dell'AMI (5) e ai criteri orientativi della sua rivista, che intende proporre una lettura interdisciplinare per far emergere la nascosta e. variegata ricchezza dei testi.


 


(5) Associazione Mariologica Italiana. La rivista è Theotokos è pubblicata dalle Edizioni Monfortane.

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CHI È MIA MADRE
E CHI SONO I MIEI FRATELLI
di P. Alberto Valentini



Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare.
Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano».
Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?».
Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli!
Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre»
. (Mc 3, 31-35).


Il brano sinottico concernente "la madre e i fratelli di Gesù" (Mc 3, 31-35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21) appare particolarmente difficile; non tanto in sé, ma per le interpretazioni parziali e talora polemiche alle quali è stato sottoposto. L'episodio continuerà probabilmente a suscitare discussioni, soprattutto nella redazione di Marco: un testo misterioso e sconcertante per alcuni e un cavallo di battaglia per altri, che vi scorgono un forte pregiudizio nei confronti della famiglia di Gesù e di sua madre. Le posizioni difficilmente evolveranno finché non si prenderà atto che:


- l'intento di questa tradizione sinottica e' positivo, non negativo: si parla della vera famiglia di Gesù, non dell'esclusione di quella naturale;


- non si tratta di un testo antimariano, per il semplice fatto che la pericope non è mariana, ma si occupa della madre e dei fratelli solo in rapporto al Regno;


- Mc 3,31-35 non dev'essere strettamente congiunto e tantomeno reso dipendente da 3,20-21, anche se allo stato attuale i due brani presentano un innegabile collegamento;


- le pericopi non vanno studiate e comprese isolatamente, ma alla luce del contesto immediato e remoto; anzitutto sincronicamente e sullo sfondo della teologia del redattore, e poi diacronicamente, prestando attenzione allo sviluppo delle tradizioni e agli apporti redazionali dei diversi autori del Nuovo Testamento, tenendo presenti le riletture dell'antica tradizione ecclesiale.


Alla luce di queste ed altre premesse - che permettono di intendere la Parola secondo lo spirito con il quale è stata scritta e trasmessa - si può comprendere quanto fragili e riduttive siano le interpretazioni suggerite dalla polemica e inversamente dall'apologetica. Non è più tempo di superficiali e sterili diatribe, ma di religioso ascolto della Parola nella sua densità e globalità: è la condizione, secondo Luca (8,2 1), per entrare nella famiglia di Gesù; è fare la volontà di Dio, nella prospettiva di Marco e Matteo (cf Mc 3,35; Mt 12,50).


In queste riflessioni ci soffermeremo sul brano di Marco, sia perché costituisce il testo-base, cui Matteo e Luca si richiamano o dal quale si differenziano, sia perché pone particolari problemi e suscita maggiori perplessità.



La prima difficoltà, vera "pietra d'inciampo" - che talora impedisce una lettura adeguata, secondo i criteri sopra accennati - è costituita dal v. 3,21, al quale la pericope 3,31-35 è legata in maniera più o meno diretta. Circa tale legame, da qualche decennio sembra divenuto di moda parlare di struttura a sandwich, di Framings, Ineinanderschachtelungen, Verschmelzungen..., termini ed espressioni che possiamo rendere con intercalazioni, strutture ad incastro, a forma concentrica... : un procedimento che compare con relativa frequenza nel vangelo di Marco. Esso consiste nell'interrompere un brano già avviato, introducendo un tema differente che spezza la narrazione, per poi riprendere il brano iniziale portandolo a conclusione. Uno degli esempi più evidenti e noti di questo genere è il racconto della figlia di Giairo, frammezzato dall'episodio dell'emorroissa e ripreso dopo tale interruzione (Mc 5,21-24.[25-34]35-43).


Secondo diversi autori, gli esempi di tale procedimento sarebbero piuttosto numerosi; ma proprio per questo i singoli casi devono essere vagliati con attenzione. Bisogna chiedersi se esista effettivamente continuità tra i due brani collegati e se realmente si possa parlare di struttura ad incastro. In una tesi di laurea, dedicata al nostro argomento e sostenuta presso l'università Gregoriana, A. Yoonprayong nega che in 3,20-35 si possa parlare di procedimento a sandwich. Mancherebbero componenti decisive come la continuità dei principali caratteri del racconto, un sufficiente accordo tra i soggetti e i verbi delle due parti, e in particolare l'effetto dei verbi della prima parte sulla seconda.


In realtà, coerenza e continuità tra i vv. 20-21 e 31-35 non sembrano evidenti: i soggetti sono diversi, come pure le intenzioni che essi manifestano, né si dà continuità a livello di conclusione. D'altra parte, perché si possa parlare di struttura concentrica si richiedono elementi obiettivi, molteplici e convergenti: solo in tal caso gli indizi sono probanti.


Detto questo, bisogna però riconoscere che tra i vv. 31-35 e 20-21 esiste un collegamento formale e tematico che merita attenta considerazione. C'è discussione tra gli studiosi se il blocco 3,20-35 risalga alla tradizione premarciana o se l'evangelista abbia ricevuto i tre episodi indipendenti e li abbia collegati così come adesso si presentano, o ancora se egli abbia diviso una tradizione unitaria tradizionale circa i parenti (3,21.31-35), inserendovi l'episodio degli scribi (vv. 22-30). Senza pretendere di risolvere tale problema, del resto non decisivo per noi, prendiamo atto della struttura tramandataci.


Nel blocco 3,20-35 si hanno dunque tre parti, riguardanti i parenti, gli scribi e la famiglia di Gesù, ma in realtà siamo di fronte a due temi che prendono l'avvio e sono raccordati dal v. 21: il primo, quello del 'incredulità nei confronti di Gesù, che trova accomunati - anche se a livelli nettamente diversi i parenti e gli scribi; l'altro, riguardante la vera famiglia di Gesù, nei confronti della quale sia oi par autou (coloro che gli stanno intorno) la madre e i fratelli sono fuori, in rapporto non tanto alla casa, ma a coloro che sono dentro, vale a dire intorno a Gesù.


 



In tale contesto, aperto dalla scena dei familiari e concluso dalla venuta della madre e dei fratelli, l'episodio degli scribi, oltre che aggiunto, sembra anche piuttosto marginale. Ciò è vero, ma bisogna affermare, paradossalmente, che tale inserzione (vv. 22-30) è responsabile per buona parte del clima negativo che grava sul v. 21 - col quale è collegata - e in qualche misura anche sui vv. 31-35, che immediatamente seguono.


Eppure il brano concernente gli scribi è profondamente diverso. La sua diversità, già insita nel fatto che si tratta di un elemento che interrompe il discorso, appare da molteplici indizi. Gli scribi non sono uditori occasionali, ma ascoltatori puntigliosi e sistematici del Maestro, pur non facendo parte della folla, né tantomeno dei discepoli: sono personaggi che si pongono sulle orme di Gesù per spiarne - direbbe Paolo - la libertà evangelica (cf Gal 2,4). Messi in discussione dalla sua azione e dalle sue parole - Gesù parla con autorità e non come gli scribi (cf Mc 1,22) -, essi compaiono fin dall'inizio del suo ministero e ne ostacolano in ogni modo lo svolgimento. Dopo un'impressionante sequenza di dispute (cf 2,1-12; 2,13-17; 2,18-22; 2,23-26; 3,1-6), giungono alla determinazione - già nella prima fase del ministero galilaico - di eliminare Gesù (cf Mc 3,6). Gli scribi, menzionati non di rado insieme con farisei, sommi sacerdoti ed anziani, ed anche con gli erodiani, sono gli avversari dichiarati di Gesù, il quale nei loro confronti usa un atteggiamento di severità e durezza estreme. Qualificandoli, nel nostro caso, con la formula "venuti da Gerusalemme", Marco li presenta come "I peggiori nemici", essendo Gerusalemme, nel secondo vangelo, la città notoriamente ostile a Gesù.


La punta estrema e isolata dell'incomprensione e del rifiuto, nella nostra pericope, si ha pertanto nei vv. 22-30: a differenza degli stessi spiriti maligni, che confessano la sua messianicità, gli scribi di Gerusalemme lo accusano di essere indemoniato - Lui che è venuto per distruggere le opere del diavolo (cf 3,27)- e di agire col potere del principe del demoni.


Nel confronto con i personaggi dei vv. 22-30, oi par autou risultano del tutto diversi e il loro giudizio, per quanto obiettivamente grave, si riduce a ripetere una voce (elegon) raccolta forse dagli stessi scribi (come potrebbe suggerire il vicino elegon del v. 22), ma senza la carica di negatività presente nella posizione di questi ultimi: si noti che l'accusa di peccato contro lo Spirito lanciata da Gesù, non è legata alle parole dei parenti ("è fuori di sé", v. 2 1), ma a quelle degli scribi ("ha uno spirito immondo", v. 30; cf v. 22). "I suoi" non vengono da Gerusalemme, né fanno parte delle autorità che han già deciso il suo destino: si muovono piuttosto per difenderlo e sottrarlo ad una situazione che a loro parere rischia di travolgerlo.


Ma chi sono concretamente i personaggi indicati con quel vago oi par autou? Rinunciando a spiegazioni ingegnose, ma poco convincenti, proposte da alcuni studiosi anche recentemente, e senza la pretesa di volerli identificare con esattezza, diciamo che sono quelli "dalla parte di Gesù"; possiamo qualificarli come familiari in senso lato, nei confronti della madre e dei fratelli che sarebbero i familiari più stretti. Il loro giudizio su Gesù: "è fuori di sé" e i loro intenti di "impossessarsi di lui", per quanto forse condizionati, rivelano un atteggiamento di forte incomprensione. Nonostante il dubbio formulato da Taylor, che i parenti "abbiano detto più di quanto effettivamente pensassero", oi par autou possono essere assimilati ai personaggi nazaretani - tra i quali sono inclusi anche quelli della sua casa e della sua famiglia - i quali "si scandalizzavano di lui", suscitando lo stupore di Gesù a motivo della loro incredulità (cf 6,1-6). Della mancanza di fede dei parenti abbiamo testimonianza anche nella tradizione giovannea (cf Gv 7,5). Ma si badi, né in ambito sinottico, né in contesto giovanneo si accenna mai a carenza di fede da parte della madre di Gesù. E neppure la si coinvolge, almeno esplicitamente, in iniziative in contrasto con la missione del Figlio.


 



Siamo così introdotti nel terzo episodio - quello della madre e dei fratelli, che conferma quanto ora si è affermato. Il brano non soltanto non presenta alcun contatto con la pericope degli scribi, nonostante la vicinanza, ma rivela un clima diverso anche nel confronti del v. 21: qui non c'è nessun giudizio o pregiudizio nei confronti di Gesù, né si ha intenzione di condizionarne l'attività. Più che le affinità, tra i vv. 20-21 e 31-35 emergono le differenze: i personaggi dei vv. 31-35 non necessariamente sono da identificare con quelli del v. 21; la stessa ambientazione della scena è diversa: la madre e i fratelli restano fuori e mandano a chiamare Gesù non a causa della folla che riempie la casa (come nel v. 20), ma a motivo della gente seduta intorno a Lui. Il fuori, che non è semplice indicazione spaziale, si spiega in rapporto al dentro, dove sono quelli che ascoltano il Maestro: in tale scenografia, Gesù appare come il centro di una cerchia interiore, di una nuova famiglia, che si distingue da tutti coloro che sono all'esterno, compresi i suoi familiari. Tale cerchia non va confusa con la folla del v. 21, nonostante il lettore sia portato ad identificarle. L'episodio dei vv. 3lss non si fonda su alcun precedente: "Nulla in 31-35 fa pensare a 3,21" (B. RIGAUX). Attenzione in 3,31-35 è centrata sulle parole di Gesù e non sulle intenzioni e le parole dei parenti.


Le differenze tra i vv. 31-35 e 21 sono dunque molteplici e di non lieve entità. Tuttavia il loro inserimento in una struttura del tipo A-B-A', nel blocco di 3,20-35, non si può ridurre a semplice artificio letterario: certamente i due episodi nell'intenzione dell'evangelista obbediscono ad una medesima tendenza. La domanda-risposta di Gesù circa la sua vera famiglia costituisce non solo il punto centrale dei vv. 31-35, ma influenza in qualche modo anche il v. 21.


Non sarebbe dunque la scena del v. 21 a condizionare quella dei vv. 31-35 - come frequentemente si sostiene - ma è quest'ultima, più articolata ed esplicita, caratterizzata dalla parola autorevole di Gesù, ad illuminare l'episodio del v. 21. Sullo sfondo dei vv. 31-35, la prima scena - molto breve e senza alcuna conclusione - appare più compiuta e positiva. I due episodi, lo ribadiamo, nonostante le differenze e l'originaria indipendenza, rivelano una medesima tendenza: affermare la nuova famiglia, costituita da quelli che sono dentro, seduti intorno al Maestro e aperta a tutti coloro che fanno la volontà di Dio. Tale famiglia è fondata sull'ascolto della Parola di Gesù espressione concreta della volontà del Padre - e si distingue, perfino si contrappone a tutti coloro che sono fuori, non esclusi i familiari. I vv. 31 – 35, sia ben chiaro, non intendono rifiutare la madre e i fratelli di Gesù, ma affermare positivamente la nuova famiglia spirituale ed escatologica nella quale gli stessi parenti sono invitati ad entrare.


L'assoluto del Regno ha segnato, anzitutto, l'esistenza di Gesù, il quale ha lasciato ogni cosa per dedicarsi alla sua missione e alla famiglia escatologica da Lui inaugurata. La sua dedizione al disegno del Padre è così radicale e totalitaria da causare l'incomprensione dei parenti, i quali si decidono a intervenire ritenendolo fuori di sé. Per tale forma di vita, Gesù ha costituito i "dodici" ("li fece dodici perché stessero con Lui" [3,14]); al medesimo genere di esistenza, subito dopo, invita i suoi familiari. La scelta dei dodici (3,13-19), che costituiscono il nucleo centrale della famiglia spirituale ed escatologica, precede infatti immediatamente la pericope dei parenti (3,20-35). Tale famiglia non è limitata, come quella terrena, ad alcuni con esclusione di altri, ma è spirituale ed universale: vi appartengono tutti coloro che fanno la volontà di Dio.


 



L'intenzione della nostra pericope pertanto non è polemica, anzitutto, ma kerigmatica: lo scopo non è di svalutare la famiglia terrena, ma di affermare la priorità e la necessità di entrare a far parte della comunità escatologica, attraverso la parola di Gesù e il compimento della volontà del Padre.


La necessità di passare da fuori a dentro risponde alla concezione marciana circa il segreto messianico del Figlio dell'uomo, che percorre tutto il vangelo. E un segreto che nessuno comprende, neppure i discepoli, i "dodici" e lo stesso Pietro - nonostante la professione di 8,29 - finché non sarà svelato dalle parole del centurione ai piedi della croce (15,39).


Su tale sfondo, si ridimensiona il contrasto - spesso notevolmente gonfiato - con la famiglia di Gesù, almeno come elemento caratterizzante della pericope. La "durezza" del linguaggio di Marco, del resto, è cosa ben nota: non soltanto i suoi nemici gerosolimitani vengono presentati ostili a Gesù, ma anche i suoi concittadini e familiari (cf 6,1-5); gli stessi discepoli appaiono dissociati da lui, mancano di fede (4,10), sono tardi a comprendere (4,13; 6,49-52; 7,18; 8,17-21; 9,32). Tale incomprensione e dissociazione si manifesterà soprattutto nella passione: nessuno come Marco ha sottolineato la solitudine di Gesù e l'abbandono da parte di tutti (cf 14,50).


Si dissolve così anche la presunta interpretazione "antimariana" della pericope: un aspetto che non emerge dal testo, per il fatto che in esso non è riscontrabile alcuna diretta intenzione mariologica. La madre di Gesù viene nominata insieme con i fratelli e le sorelle per affermare che la nuova parentela, che si instaura con Gesù e intorno a Gesù, presenta i connotati di una vera famiglia, non di semplice fraternità.



Ad eliminare dalla pericope ogni eventuale influsso negativo, derivante dal v. 21, hanno provveduto Matteo e Luca, i quali concordemente hanno omesso la scena dei parenti che vanno per impadronirsi di Gesù. Così facendo, essi hanno liberato il testo non solo dai pregiudizi derivanti dal v. 21, ma anche - sciogliendo la struttura concentrica A-B-A' di Mc 3,20-35 dall'influsso proveniente dall'episodio degli scribi.


Si noti che gli altri due sinottici, i quali hanno eliminato la prima scena, non hanno incontrato difficoltà nel riferire l'episodio della madre e dei fratelli, che pure costituisce una netta presa di posizione nei confronti della famiglia terrena di Gesù. Matteo non solo ripropone con immutata forza le medesime esigenze del Regno, ma, come Marco, addita la nuova famiglia in alternativa a quella naturale.


Luca, pur insistendo sulla comunità spirituale di Gesù, evita di contrapporre i due gruppi. Egli omette la domanda discriminante di Gesù ("chi è mia madre e chi sono i miei fratelli"), col gesto degli occhi o della mano, presenti rispettivamente in Marco e Matteo (cf Mc 3,33-34; Mt 12,48-49), ed esprime in positivo la condizione richiesta per essere madre e fratello di Gesù: l'ascolto e la pratica della parola di Dio. In ciò è evidente una trasformazione del logion riferito da Marco; non meno evidente è la sottolineatura della figura di Maria, quale credente (cf Lc 1,38.45; 2,19.51 b; 11,28), madre prima nella fede e poi nella carne. Ciò viene confermato dalla disposizione redazionale dell'episodio:


Luca colloca la scena della madre e dei fratelli, in un contesto diverso rispetto a Marco e Matteo: mentre questi riferiscono il brano prima della sezione delle parabole, Luca lo pone dopo di essa, presentando la madre di Gesù quale "terra buona", che accoglie la Parola, la custodisce e produce frutto nella perseveranza (cf Lc 8,15).


In conclusione - al di là di queste ed altre differenze dovute ai redattori ci sembra di poter affermare con B. Maggioni che: "In nessuno dei tre vangeli si scorge, nell'episodio preso in esame, un qualche tratto direttamente mariologico, se non la preoccupazione (assente in Marco, ma profondamente presente in Luca) di togliere qualsiasi ombra dalla figura della Madre. Si può dunque parlare di una crescente attenzione mariana, non però di una teologia mariana"; in ogni caso, è escluso un atteggiamento negativo nei confronti della madre di Gesù.


 

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UN BRANO DIFFICILE:
LA RIVELAZIONE DI GESU' DODICENNE
AL TEMPIO (Lc 2,41-52)
di P. Alberto Valentini



 


[41] I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua.
[42] Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza;
[43] ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.
[44] Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti;
[45] non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
[46] Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava.
[47] E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
[48] Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».
[49] Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
[50] Ma essi non compresero le sue parole.
[51] Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.
[52] E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

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