In ricordo di P. Franco

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L’Apostolicità della Chiesa
nella fede celebrata
di Ildebrando Scicolone

L’antico adagio "la legge del pregare stabilisce la legge del credere" vale anche per la fede nell’apostolicità della Chiesa. La Chiesa è apostolica: lo dice il "credo", perché l’afferma la Chiesa stessa nella sua preghiera liturgica.

Basta sfogliare il messale per notare quante volte sono nominati gli Apostoli. Essi sono dodici, ma il titolo viene esteso a Paolo e Barnaba; ad essi poi vengono associati i due evangelisti Marco e Luca. Inoltre abbiamo due feste per S. Pietro (29.6 e la cattedra il 22.2) e due per S. Paolo (29.6 e la coversione il 25.1). Sono ricordati ancora nella dedicazione delle Bailiche loro intitolate a Roma (18.11). Per cui ci sono nel mesale sedici feste degli Apostoli ed evangelisti. Troviamo inoltre un formulario di messa votiva per S. Pietro, uno per S. Paolo, uno per tutti gli Apostoli e uno per un Apostolo.

Ma c’è di più: la memoria degli Apostoli è sempre esplicita nella preghiera eucaristica:

…ricordiamo e veneriamo…i santi Apostoli e martiri…
…e con tutti quelli che custodiscono la fede cattolica trasmessa dagli Apostoli.
…di aver parte nella comunità dei tuoi santi Apostoli e martiri…
…con gli Apostoli e tutti i Santi…

…con i tuoi santi Apostoli, i gloriosi martiri e tutti i Santi…

…con gli Apostoli e i Santi…

Nella preghiera per la pace si ricorda: Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi Apostoli: Vi lascio la pace…

Da un esame rapido dei testi sparsi in tutto il messale risultano le seguenti idee-forza:

La Chiesa è fondata sugli Apostoli, non nel senso che essi l’hanno fondata, ma nel senso che Dio (o Gesù Cristo) l’ha voluto fondata su di loro. Lo canta il II prefazio per gli Apostoli: Tu hai stabilito la tua Chiesa sul fondamento degli Apostoli. La loro testimonianza è il fondamento della nostra fede (Bened. Solenne per gli Apostoli). Sono essi che ci hanno trasmesso il primo annunzio della fede (Ivi); da loro anzi abbiamo ricevuto il primo annunzio della fede (Ivi).

Ciò vale soprattutto per Pietro (e Paolo): nella predicazione dei santi Apostoli Pietro e Paolo hai dato alla Chiesa le primizie della fede cristiana (29.6 Colletta della vigilia); i cristiani sono coloro che hai illuminato con la dottrina degli Apostoli (29.6 sulle offerte). Il prefazio della dedicazione delle basiliche romane canta: Città santa è la tua Chiesa, fondata sugli Apostoli e unita in Cristo pietra angolare.

Ciò si manifesta non tanto per la successione apostolica dell’episcopato, che il messale non ricorda mai, quanto per la continua presenza nella Chiesa dell’insegnamento, della preghiera e dell’esempio degli Apostoli: non si turbi la tua Chiesa he hai fondato sulla roccia con la professione di fede dell’Apostolo Pietro (22.2 colletta); fa che riconosca nell’Apostolo Poetro il maestro che ne conserva integra la fede e il Pastore che la guida all’eredità eterna( Ivi, sulle offerte); la tua Chiesa segua sempre l’insegnamento degli Apostoli, dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede (29.6, colletta); la preghiera degli Apostoli accompagni l’offerta che presentiamo (Ivi, sulle offerte)…

Nella liturgia facciamo la stessa esperienza di Cristo che hanno fatto gli Apostoli: in unione con gli Apostoli Filippo e Giacomo possiamo contemplare te nel Cristo tuo Figlio e possedere il regno dei cieli (3.5, dopo la comunione); fa’ che insieme all’apostolo Tommaso riconosciamo nel Cristo il nostro Signore e il nostro Dio (3.7 dopo la comunione). Si noti che queste espressioni si trovano nelle perghiere dopo la comunione, perché nella partecipazione all’eucarestia noi facciamo nostra l’esperienza degli Apostoli.

Gli Apostoli sono quindi i Padri della nostra fede. Non abbiamo l’abitudine di chiamarli "Santi Padri", riservando questo termine ai maestri della fede che li hanno seguito. Ma S. Paolo ci teneva a dire: "potreste ifatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù…" (1 Cor 4,15). Gli Apostoli infatti, dopo averci dato la fede, continuano a "sorreggerci", a "proteggerci", a "custodirci", con la loro dottrina, e con i sacramenti. La liturgia sa bene che gli Apostoli non sono soltanto i "predicatori", ma anche i "sacerdoti" del nuovo popolo: (concedici) di perseverare nella frazione del pane e nella dottrina degli Apostoli (29.6, dopo la comunione).

Dal termine "apostolo" deriva l’aggettivo "apostolico". Se accompagna termini come "zelo", "carità", "coraggio", esso determina quella missione della Chiesa che chiamiamo "apostolato": gli apostoli diventano allora i padri di una interminabile schiera di apostoli, e non parlo solo dei "missionari", ma di tutta la Chiesa che è "mandata" a tutte le genti, in ogni luogo e in ogni tempo: O Dio…che hai chiamato molti popoli dell’Oriente alla luce del vangelo con la predicazione apostolica di S. Francesco Saverio…; O Dio che hai dilatato i confini della Chiesa con lo zelo ardente e la dedizione apostolica di s. N. (comune dei missionari).

Almeno una volta però, nella memoria di S. Gaetano (7.8), l’aggettivo "apostolico" accanto alla parola "vita", ci rivela un altro aspetto della testimonianza apostolica: il santo di Thiene volle, al suo tempo, restaurare apostolicam vivendi formam. Gli Apostoli sono visti nel loro essere in rapporto a Cristo, prima che nel loro agire a favore degli uomini di cui sono pescatori. Sono gli innamorati di Cristo, pronti a fare la loro esperienza della carità, della sofferenza, della pasqua del loro Signore. E’ ciò che esprime la colleta di s. Giacomo (25.7): tu hai voluto che san Giacomo, primo fra gli Apostoli, sacrificasse la vita per il Vangelo…; …nel ricordo di S. Giacomo che primo fra gli Apostoli partecipò al calice della passione del tuo Figlio (sulle offerte).

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IL RUOLO
E L’ARTE DEL PRESIEDERE
di Dom Ildebrando Scicolone

In vista dell’ordinazione presbiterale, fino agli anni ’70, erano previsti degli esami presso la Curia vescovile. Questi vertevano su alcuni trattati teologici e sulla Praxis ordinandorum (= prassi degli ordinandi). Un capitolo di questa aveva come titolo: De munere praesidendi (= il compito del presiedere). Devo confessare che quando l’ho letto, non capivo di che cosa si trattasse. Perché, fino alla riforma dei libri liturgici del postconcilio, non si vedeva il ruolo del Presidente, perché non si aveva coscienza di una assemblea celebrante. Il vescovo o il prete non erano mai chiamati "presidente", ma celebrante, e i fedeli erano chiamati "popolo" o "tutti", o non erano chiamati affatto, perché il loro ruolo non erano previsto nei libri liturgici. Ne prendeva il posto il chierichetto, che rispondeva tutte le volte che nel libro era scritto: R/. (= risposta). Per fortuna, la situazione è cambiata. Il Concilio ha disposto che nei nuovi libri liturgici sia esplicitamente indicata la parte del popolo. Ora si comprende che celebra tutta la comunità riunita in assemblea, con un vescovo o presbitero che presiede (per alcuni sacramenti può presiedere anche un diacono, o alcuni sacramentali anche un laico).

Prendiamo in considerazione la celebrazione eucaristica. Essa è così descritta nel n. 7 di PNMR: "Nella messa o cena del Signore, il popolo di Dio è chiamato a radunarsi, sotto la presidenza del sacerdote, che agisce nella persona di Cristo, per celebrare il memoriale del Signore, ossia il sacrificio eucaristico". In una prima edizione il testo recitava addirittura così: "La Cena del Signore o Messa è la convocazione del popolo di Dio, sotto la presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore". Confrontando le due formulazioni risulta: a) il valore dell’assemblea: è la Chiesa concretamente radunata;

b) il ruolo del Presidente. Esso è chiamato "sacerdote", per includere sia il vescovo che il presbitero.

c) tale ruolo non è "democratico": il presidente non è eletto dall’assemblea, ma "agisce nella persona di Cristo", cioè, in forza dell’ordinazione, fa le veci di Cristo Capo. Alcune funzioni quindi sono propriamente sue.

Il Presidente si identifica normalmente con il "celebrante": ma può darsi il caso che un presbitero celebri alla presenza del vescovo. In questo caso il prete celebra, ma presiede il vescovo (lo stesso vale quando un cardinale celebra alla presenza del Papa). Il Vescovo infatti presiede la liturgia della Parola e dà la benedizione finale. Mentre il luogo della celebrazione è l’altare, il luogo della presidenza è la sede (si chiama "cattedra" la sede del vescovo, da cui "cattedrale").

Se il termine "presidente" è nuovo, il concetto è antico. Già S. Giustino, nella sua prima Apologia lo chiama "Colui che presiede". E’ lui che tiene l’omelia, a lui vengono portate le offerte, è lui che fa la preghiera eucaristica "secondo la sua capacità".

Compito del Presidente, nella celebrazione eucaristica, è quello di ripresentare Cristo Signore che siede a mensa con i suoi discepoli, e associa le membra del suo corpo al suo sacrificio. Nel "ministro" è presente Cristo, sia quando spezza il pane della Parola, sia quando fa ciò che Cristo ha fatto nell’ultima cena: riceve le offerte dei fedeli, pronuncia la preghiera eucaristica e spezza il pane e lo distribuisce ai fedeli.

Concretamente al Presidente sono riservate le preghiere: la grande preghiera eucaristica e le tre preghiere che concludono rispettivamente: i riti di ingresso (colletta), i riti di offertorio (sulle offerte), e i riti di comunione (dopo la comunione).

Non spetta a lui proclamare le letture, né intonare i canti. Egli comunque ha la responsabilità dell’intera celebrazione. Ciò significa che deve averne piena padronanza, avendola egli stesso preparata, avendo opportunamente scelto i testi (secondo le possibilità offerte dalle norme e dai giorni liturgici).

Dal ruolo di presidente deriva quindi la responsabilità, e quindi l’arte del presiedere. Non è più possibile che un prete pensi di celebrare la "sua" messa. Deve pensare di presiedere un’assemblea celebrante. Egli quindi è l’animatore di quella assemblea. Il suo sacerdozio si manifesta quindi come "mediazione", come "ponte" tra Dio, alla cui gloria è offerto il sacrificio, e il popolo per il quale è offerto.

Il Presidente è colui che sa, meglio di chiunque altro, che cosa si fa nell’assemblea: conosce i testi, conosce i gesti, conosce la finalità, e conosce le arti per raggiungerla. Di qui la sua sicurezza nel dirigere la celebrazione. Un celebrante incerto, impacciato, impreparato comunica all’assemblea incertezza e nervosismo; un presidente sicuro comunica sicurezza e partecipazione. Perché egli deve pur sapere quali sono i compiti di ognuno, perché tutti fanno riferimento a lui. Egli infatti, come benedice il diacono perché proclami il vangelo, così – anche se non è ritualizzato – distribuisce i vari compiti ad ognuno. Leggiamo nell’Ordo Romanus I, per riferire un esempio, che al Papa veniva comunicato chi era il lettore e chi il salmista, e dopo tale informazione e la sua approvazione, non era consentito cambiare. E’ vero che il diacono o un altro ministro suggerisce le intenzioni alla preghiera dei fedeli, ma è il Presidente che la introduce e la conclude. Altri ministri possono fare le monizioni, dove previsto, ma devono essere armonizzate con l’omelia che di solito spetta al Presidente. Gli stessi canti devono essere riconosciuti adatti al giorno e al momento celebrativo, per essere in sintonia con la Parola che vien proclamata.

Egli deve preoccuparsi non solo che tutto si svolga secondo le norme, ma soprattutto che l’assemblea venga coinvolta e interessata. A ciò gioveranno le tecniche della comunicazione: la dizione, l’uso ottimale degli strumenti audio-visivi, e quant’altro può aiutare; ma è necessaria soprattutto la sua personale capacità di comunicare la fede e "iniziare" al mistero. Il Presidente di un’assemblea liturgica è, per natura sua teologale, un "mistagogo", cioè uno che, "iniziato" egli stesso, è capace di introdurre i suoi fratelli nella comprensione e nella partecipazione al mistero di Cristo, reso presente nel rito.

Vale soprattutto per lui quello che scrive l’apostolo Giovanni all’inizio della sua prima lettera: "ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita…noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi". Il celebrante annunzia - non solo con l’omelia ma con tutto il suo essere e agire - quello che ha visto e udito, cioè ciò che crede. Il suo ministero passa necessariamente per la sua personale esperienza di fede. Egli non è un attore che recita (per quanto potremmo imparare molto da un bravo attore), ma è un testimone che proclama la sua fede ed incita gli altri a professarla. Egli diventa non soltanto colui che sta sopra il popolo, ma colui che va avanti, in testa al suo popolo, nel cammino verso il Regno. In questo senso egli rappresenta Cristo, che la lettera agli Ebrei (12, 2) chiama "autore e perfezionatore della fede" (il testo greco dice "condottiero").

Come è responsabile della preparazione e della conduzione di una celebrazione, così egli deve preoccuparsi anche del suo seguito, cioè della vita che segue ad essa. L’eucaristia ci fa diventare – sempre più- un solo corpo e un solo spirito; ora questo fatto si dovrà vedere anche nella vita quotidiana della comunità: dal mistero celebrato e partecipato scaturisce un nuovo modo di vivere in questo mondo, sempre in cammino verso "i cieli nuovi e la terra nuova". De aver chiaro perciò l’intimo nesso che c’è tra Parola, celebrazione e vita.

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Teologia della Liturgia
per la vita spirituale
di P. Adrien Nocent O. S. B.

 

Stranamente, un gran numero di battezzati ignora ciò che è la liturgia. Ne fa una raccolta di gesti, di preghiere, di cerimonie, di devozioni, di rubriche. A 30 anni dalla promulgazione della Costituzione sulla Liturgia non è ancora stato riconosciuto ciò che vi è scritto sulla massima importanza della liturgia, attività suprema della Chiesa, che oltrepassa ogni altra attività.

Il primo rimedio sarebbe la lettura dei numeri 3-13 della Costituzione sulla Liturgia. In questi numeri viene sviluppata una presentazione essenziale della liturgia come vita, in alcuni articoli chiari e semplici (che evitano alla teologia liturgica di presentarsi senza sfumature, con il pericolo di suscitare entusiasmi fanatici; entusiasmi che non coincidono mai con la verità né con la volontà stessa del Signore). Questi articoli dovrebbero essere letti, spiegati e meditati in comunità, nelle loro concrete conseguenze. Infatti sono capaci di creare una mentalità, cosa che abitualmente ci manca.

Le righe che seguono cercano di sviluppare il punto centrale di ciò che costituisce la specificità della liturgia.

La celebrazione liturgica è attuazione dei gesti di salvezza nell’oggi a nostro favore affinché possiamo diventare noi stessi attori nella e della storia della salvezza che continua nel tempo della Chiesa. Questo significa che la liturgia è essenzialmente "ricordo", anamnesis, memoria, zikkaron.

La civiltà ellenistica ha conosciuto l’anamnesis. Il culto ricorda ai contemporanei un avvenimento o un eroe importanti per la vita del paese che l’epoca presente non ha conosciuto e che possono servire d’esempio. Per ricordare questi avvenimenti o eroi, si organizzano rappresentazioni teatrali, processioni, si scrivono libri e poemi, si erigono monumenti, statue (per esempio, a Parigi, nel museo del Louvre, è conservata la Vittoria di Samotracia). L’oggetto della celebrazione è quello di ricordare nell’epoca attuale avvenimenti o eroi del passato.

La civiltà latina ha conosciuto lo stesso fenomeno. Notiamo nella civiltà latina anche i pranzi accanto alle tombe, destinati a ricordare ai contemporanei i morti. Questi pranzi funebri si chiamano refrigerium, parola che entrerà nel Canone romano al Memento dei morti: refrigerium lucis et pacis. Lo scopo è sempre lo stesso: ricordare ai contemporanei avvenimenti o eroi passati degni di essere richiamati alla memoria.

La civiltà palestinese, quella di Cristo e dei suoi Apostoli, ha conosciuto lo Zikkaron. Ma qui lo scopo del ricordo è molto diverso: si ricorda, non tanto ai contemporanei, quanto AL SIGNORE, avvenimenti o eroi che egli ha suscitato oppure eroi che hanno obbedito al suo comando. Per ricordare al Signore, il passato viene attuato sotto i suoi occhi affinché vedendolo si ricordi.

Quando Cristo dice: "Fate questo in memoria di me", questo significa: fate questo pranzo rituale che attualizza davanti agli occhi del Padre mio ciò che ho fatto obbedendo alla sua volontà per la Nuova ed eterna Alleanza. Una delle nuove preghiere eucaristiche dice: "Guarda, Signore, la vittima che tu stesso hai preparato". Il Canone romano ripete varie volte con questa o quella parola il fatto della presenza, della vittima presente, del sacrificio attualizzato.

Si deve dunque capire a fondo ciò che è la memoria. Molti articoli o libri contro la riforma liturgica, quando affermano che in questo modo siamo diventati protestanti, che l’eucaristia è così diventata semplice ricordo, dimostrano la loro ignoranza in rapporto alla "memoria".

Ignoranza inaccettabile di ciò che è la memoria, perché essa suppone la realtà, è la realtà attualizzata nell’oggi. Quando si dice che la celebrazione eucaristica è memoria della Passione, questo esprime molto di più che se si dicesse: la celebrazione eucaristica ripete il calvario. Non lo ripete, ma è questo sacrificio stesso attuato; e poiché attuati, ne diventiamo attori, collaboratori. Questo costituisce lo scopo dell’istituzione eucaristica.

Ecco dunque l’essenziale di ciò che è la liturgia. E dobbiamo applicare quello che abbiamo detto della celebrazione eucaristica anche agli altri sacramenti, alla Preghiera delle Ore e all’Anno Liturgico.

Se la Costituzione sulla liturgia insiste sul fatto che la liturgia sia la massima attività della Chiesa, si capisce facilmente che in questa attività la Chiesa realizza l’incontro Dio-Uomo nella realtà della presenza del Signore. Non si potrebbe dare niente di più grande. Incontro dell’uomo con i misteri attuati della salvezza affinché l’uomo diventi attore della salvezza del mondo. La liturgia si rivela così necessariamente missionaria.

Possiamo applicare quanto finora detto alla celebrazione dell’Anno liturgico. Questo non è soltanto un ricordo, ma è un oggi. Siamo contemporanei dei misteri ricordati. Ciò suppone che la liturgia celebri non teologie o idee, ma avvenimenti e personaggi. La celebrazione dell’anno liturgico non è dunque unicamente devozione, ricordo edificante, ma essa attua ciò che celebra. La spiritualità della liturgia non è dunque opzionale, come sarebbe la spiritualità francescana o quella ignaziana, ma essa è LA SPIRITUALITA’ necessaria, vincolante, nella quale sui incontra oggettivamente e non soltanto soggettivamente o psicologicamente il Signore.

Il mistero centrale celebrato ed attuato è sempre la Pasqua. Ma questo avvenimento centrale viene celebrato secondo visuali diverse nelle differenti celebrazioni. Per esempio, a Natale si celebra Pasqua secondo la visuale del suo inizio; celebrando un santo si celebra la Pasqua come riuscita in tale uomo; celebrando la Vergine Maria si celebra la Pasqua che in Lei ha raggiunto al massimo la divinizzazione di una persona umana, e così via.

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Le parabole di Galilea
ovvero il sovvertimento quotidiano
di François Brossier


 


Di norma si considerano i Vangeli, e soprattutto i sinottici (Marco, Luca e Matteo), come una buona testimonianza sulla vita quotidiana di Galilea. È esatto. Tuttavia, uno sguardo più attento al contenuto delle parabole consente di costatare che Gesù non si accontenta di prendere degli esempi nella vita quotidiana dei suoi compaesani. Egli li trasforma in funzione dell'annuncio del Regno di Dio.


Il radicamento della predicazione di Gesù nella sua terra di Galilea è evidente quando si leggono i Vangeli sinottici.


UNA PREDICAZIONE BEN ANCORATA ALLA TERRA DI GALILEA


Il viaggiatore che passa da Nazaret e sulle alture della regione di Cafarnao vede quanto questa terra è ingrata; la parabola del seminatore (Mc 4,1-9) non gli appare inverosimile in questa regione: un suolo sassoso, rovi, sentieri, dovevano essere il vero ambiente dei coltivatori della Galilea. Le scene di pesca sono ispirate alla vita dei pescatori del lago di Tiberiade (Mt 13,47). Il lavoro delle vigne è osservato minuziosamente, dalla piantagione (Mt 12,1), alla potatura (Gv 15,2), alla vendemmia, e la fatica dei pastori è descritta con finezza (Gv 10,11-16). La vita quotidiana delle donne è descritta sovente: la donna impasta il pane (Mt13,33) lavora alla mola (Mt 24,41), spazza la casa (Lc 15,5).


L’INVEROSIMILE NELLE PARABOLE DI GESÙ


Se Gesù trova una fonte di ispirazione nella vita rurale di Galilea, sarebbe tuttavia errato pensare che egli si limiti ad attingervi alcune immagini per farsi meglio comprendere. Le sue parabole appartengono più al genere dell'enigma da decifrare clic alla similitudine. E chiaro che egli trasforma i fatti quotidiani in storie sovente inverosimili.


· La parabola del Seminatore.


Si può immaginare un seminatore galilaico che spreca il suo grano prezioso gettandolo sulla strada, sul suolo sassoso o tra i rovi? La portata della parabola (Mc 4,1-9) non risiede proprio nello scarto tra quello che fa in genere un agricoltore e quello che invece fa il Seminatore della parabola? Il contadino galilaico sta attento a non sprecare nulla, il Seminatore semina con prodigalità: il seme darà comunque un rendimento che in Galilea non si è mai visto. In questo senso la parabola è immagine del Regno annunciato da Gesù. Egli semina la parola nel vento; il terreno non è sempre favorevole, ma il successo della semina sarà completo.


· La pecorella perduta.


Non è forse inverosimile che un pastore abbandoni novantanove pecore sulla montagna per andare a cercarne una sola che si è perduta? Tuttavia è ciò che Gesù fa per i peccatori, seguendo l'esempio del Padre (Mt 18,10-14).


· Gli operai dell'ultima ora.


Che un proprietario assuma dei lavoratori per la sua vigna in più riprese è un fatto del tutto naturale. Ma che paghi lo stesso salario a quelli che hanno faticato tutto il giorno e a quelli che hanno lavorato soltanto un'ora è impensabile. Tuttavia è così che Dio si comporta con tutti gli uomini nel suo Regno (Mt 20,1-16).


· I vignaioli omicidi.


È forse immaginabile che dei vignaioli si ribellino contro il proprietario al punto di maltrattare ed uccidere i messi del padrone e addirittura suo figlio? Non siamo più nella vita quotidiana: Gesù ci descrive la storia del suo popolo e la sua propria storia; dopo i profeti martiri, Gesù stesso sarà messo a morte dai responsabili della vigna-Israele (Mt 21,33-46)


· Il banchetto nuziale.


Un re organizza un banchetto per le nozze di suo figlio e manda a cercare gli invitati, ma costoro uccidono i messi! Il re muove guerra agli invitati indegni e invita degli sconosciuti al pranzo, le cui portate sono ancora calde e non sono bruciate! Un racconto inverosimile, ma che permette di comprendere la storia di Gesù e della sua missione (Mi 22,1-14).


· Le dieci vergini.


Si è mai visto un matrimonio in cui lo sposo tarda tanto a venire che le damigelle d’onore si addormentano? Ma se Gesù è appunto lo sposo che tarda a venire, la lezione per i cristiani di tutti i tempi è ovviamente: "Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora" (Mt 25,13).


· L’amministratore scaltro


Chi non è stato turbato dall’elogio che Gesù sembra rivolgere all’amministratore. disonesto? Ma ciò che Gesù loda è lo spirito di iniziativa di questo intendente; costui trova nel poco tempo che gli rimane la soluzione che garantisce il suo avvenire (Lc 16 1-8) Cosi deve essere per i cristiani: la vita è breve, ma è il periodo che ci è dato per farci un tesoro nei cieli


· Il servo vigilante


Ancora una storia abbastanza curiosa, quella del padrone che ritorna dalle nozze e notte inoltrata e, trovando i suoi servitori ancora svegli, si mette un grembiule e li serve (Lc 12,36-38). Tuttavia Gesù ci dice che è così che Dio tratterà i suoi servitori vigilanti.


UNA CHIAVE DI LETTURA: L'ANNUNCIO DEL REGNO


Fonte di ispirazione della predicazione di Gesù in Galilea, la vita quotidiana evocata nelle parabole non può tuttavia servire come chiave di lettura del suo insegnamento. Ciò che è primario e viene a sovvenire questa realtà è la predicazione del Regno e la persona stessa di Gesù. Questo è il motivo per cui le parabole non possono apparire come delle piatte similitudini destinate ad essere comprese facilmente da persone semplici. Esse sono piuttosto degli enigmi che devono essere decifrati per intravedere la via aperta da Gesù.


Quando parlava in parabole, non sembra che l'obiettivo di Gesù fosse quello di insegnare,. di giustificare i suoi atti o di discutere con i suoi avversari, ma piuttosto quello di far scoprire a coloro che lo ascoltavano il Regno di Dio. Questo Regno non è per lui una nozione astratta, ma una realtà che viene. Rendendo attivi gli ascoltatori, dal momento che li costringe a decifrare degli "enigmi", le parabole fanno avvenire questo Regno di Dio in loro. Ciò costituisce appunto la loro forza e conserva loro una profonda attualità: esse fanno vacillare le concezioni che gli ascoltatori hanno della realtà e svelano loro possibilità alternative insospettato. Ogni nuova generazione, cigni comunità è chiamata a decifrare le parabola per scoprire nel proprio presente l'annuncio dell'avvento del Regno. Poiché l'opera di decifrazione non è mai terminata le parabole sono ben lontane dall'aver esaurito tutto il loro significato.


(tratto da Il mondo della bibbia n. 21)


 

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Galilea delle genti:
vocazione di un paese di frontiera
di Michel Berder



Il Vangelo di Matteo apre la presentazione della vita pubblica di Gesù con una notazione nella quale i termini geografici relativi alla Galilea sono particolarmente numerosi. Perché questa insistenza? E soprattutto perché l'evangelista si preoccupa di cercare nell’Antico Testamento un riferimento che illumini questo punto? Il fatto che il Messia scelga questo territorio per iniziare la sua predicazione ha dunque un significato particolare?


Gesù venuto per "adempiere le Scritture"


In Matteo 4,15-16 abbiamo una delle famose "citazioni dell’adempimento" di questo Vangelo. L’autore si sforza di cercare nella Scrittura degli elementi che possano aiutare a comprendere la portata e il significato degli atti e delle parole di Gesù. È l’unico degli evangelisti che offre una citazione scritturale a sostegno della presenza di Gesù in Galilea. Nei capitoli precedenti aveva già utilizzato questo procedimento. A proposito dell’annuncio a Giuseppe della nascita di Gesù, cita l’oracolo dell’Emmanuele che si trova in Isaia 7,14. vediamo poi i consiglieri di Erode tentare di determinare in base all’Antico testamento il luogo di nascita del Messia: Betlemme in Giudea (2,6).


Ma il testo che più si avvicina al nostro è senza dubbio il passo in cui l’evangelista ci mostra Giuseppe che si stabilisce in Galilea con Maria e Gesù: "Si ritirò nelle regioni della Galilea e, appena giunto, andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: Sarà chiamato il Nazareno" (2,22-23). Come in Matteo 4,15 troviamo l’indicazione di una relazione tra Gesù e la Galilea e questo fatto viene messo in rapporto con la letteratura profetica.


In Matteo 4,15-16, l’interpretazione del testo citato non pone gli stessi problemi. Si tratta di due versetti di Isaia: 8,23 e 9,1. questo oracolo annunciava, grazie all’avvento di un nuovo re, un’èra di luce e di gioia per un gruppo di religioni sprofondate nella miseria. Il profeta aveva in mente un situazione politica ben precisa. Si riferiva infatti alle religioni del nord del paese, segnate da una situazione di umiliazione. Molti storici ci invitano a riconoscere il questa lista i distretti colpiti dalle incursioni assire degli anni 734-732 a.C. (cf Re 15,29).



Un’interpretazione della Scrittura


Oracoli di questo genere, riportati da tutta la tradizione ebraica restano aperti ad altre interpretazioni, in funzione di situazioni nuove. È questa un’illustrazione di ciò che in ebraico è chiamato "midraš" una ricerca operata sulla scrittura per attualizzarla. Affermando che il testo di Isaia si adempie, Matteo si situa in una posizione analoga a quella del Cronista che presenta la deportazione del popolo di Gerusalemme a Babilonia dicendo: "attuandosi così la parola del Signore predetta per bocca di Geremia" (2 Cr 36,21). Ma l’originalità della rilettura proposta da Matteo sta nel fatto che tale rilettura è in funzione di ciò che Gesù rappresenta. È quello che alcuni autori chiamano un "midraš cristiano".


Una regione di frontiera per un Vangelo universale


Citando questo passo della Scrittura, l’evangelista fa notare che l’èra che si apre con la predicazione di Gesù concerne i pagani. Egli riconosce implicitamente l’aspetto paradossale della scelta di queste regioni come punto di partenza della missione di Cristo. Una presentazione tradizionale del Messia lo collocherebbe istintivamente nell’ambito di Gerusalemme e della Giudea (è ciò che presuppongono le reazioni riferite in Gv 7, 41-42 e 52). I territori menzionati in Matteo 4,15 sono noti come regioni di frontiera, in contatto con il paganesimo. La formula "Galilea delle genti" conserva qui tutta la sua forza evocativa. La parola ebraica galîl significa "contrada", "distretto", "circoscrizione" (vedi anche Gs 12,23). Ma il testo greco di Matteo utilizza il nome proprio "Galilea delle genti". La Settanta, in Isaia 8,23 parla di "Galilea degli stranieri" (come Gl 4,4 e 1 Mac 5,15) la menzione delle tenebre diventa, nel contesto del vangelo, un modo per caratterizzare la situazione spirituale di queste regioni che godono del privilegio della venuta di Gesù, il Cristo, l’Emmanuele.


Questa prospettiva universalistica è affermata con forza in tutto il Vangelo di Matteo. Pur avendo cura di far percepire le radici ebraiche di Gesù, Matteo rende manifesta la portata universale della Buona Notizia da lui annunciata nella genealogia del capitolo 1, egli sottolinea il posto occupato dalle donne straniere in Israele tra gli antenati di Gesù (come Rut). È ancora Matteo che racconta l’episodio dei Magi venuti dall’Oriente che simboleggiano la venerazione delle nazioni pagane. Queste caratteristiche potrebbero suggerire che uno degli obiettivi di Matteo sia quello di provocare un risveglio missionario nelle comunità alle quali si rivolge. Risveglio missionario basato sia su una riflessione intorno all’itinerario stesso di Gesù, sia su una rilettura della Scrittura.


Per tutte le genti la luce è sprta


Il riferimento al testo di Isaia si accompagna ad un’altra convinzione che attraversa tutto il Vangelo: un certo numero di caratteristiche di ciò che era atteso per la fine dei tempi si è già realizzato. Non è un caso che il nostro testo presenti molti punti in comune con la scena finale del Vangelo di Matteo. Gesù resuscitato raggiunge i discepoli in Galilea. Nella missione che affida loro parla delle genti ("fate miei discepoli da tutte le genti"). E colui che all’inizio del Vangelo era presentato come l’Emmanuele (= "Dio con noi"), annunciato da Isaia, promette solennemente: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi". Nel Vangelo di Matteo, la missione dei discepoli parte dunque dalla Galilea e va verso le nazioni; e questo in una dinamica contrassegnata da una presenza nuova del Risorto, fino alla fine della storia umana. Si tratta ancora di una rilettura originale di un tema ben noto della tradizione biblica: la riunione di tutte le genti nell’ultimo giorno. Quello che è radicalmente nuovo è che questa riunione si realizzerà grazie alla missione dei discepoli di Gesù risuscitato, per mezzo del battesimo "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19).


Così, partendo da una semplice annotazione geografica, Matteo riesce a metterci in contatto con una delle realtà più misteriose del messaggio cristiano: ciò che è stato messo in gioco in Gesù di Nazaret, il Galileo, concerne gli uomini di tutti i paesi e di tutti i tempi. È per loto che "una grande luce" si è levata (Mt 4,16).


(da Il mondo della Bibbia n. 21)

Pubblicato in Bibbia
Sabato, 19 Giugno 2004 12:37

I due miracoli dei pani (François Brossier)

I due miracoli dei pani
François Brossier *



Un lettore attento del Vangelo di Marco rimane un poco sorpreso di scoprire al capitolo 8 un secondo racconto della "moltiplicazione dei pani". Si tratta di un miracolo diverso da quello riferito al capitolo 6 oppure è lo stesso raccontato una seconda volta? Preferiamo porre la questione in modo diverso: nella dinamica dell’opera dì Marco che significato hanno questi due racconti? Le differenze tra i due, per quanto piccole, non potrebbero rivelare il ruolo di ognuno dei due racconti nel quadro di questo Vangelo?


Dopo la prima parte del ministero di Gesù in Galilea (Mc 1,14-6,13), si pone per le folle la questione dell'identità di Gesù: chi è quest'uomo che insegna con tanta autorità e compie simili miracoli? Si apre a questo punto, dopo l'intermezzo della morte del Battista, quella che si potrebbe chiamare "la sezione dei pani" (6,30-8,21).


Il contesto letterario dei due miracoli dei pani


La struttura di questa sezione è chiara: una prima parte narrativa è centrata sulla prima moltiplicazione dei pani; la seconda parte discorsiva tratta del puro e dell'impuro; una terza parte narrativa è centrata sulla seconda moltiplicazione dei pani.


Uno stesso tema percorre tutta questa sezione, il tema dell'incomprensione dei discepoli; essa concerne precisamente il senso del miracolo dei pani. È dunque molto probabile che i due miracoli pongano la questione dell'identità di Gesù e del senso della sua missione.


Il primo miracolo sulla riva occidentale


Il primo racconto ha per quadro la riva occidentale, cioè la riva ebraica. L'azione di Gesù viene narrata secondo la lirica dei racconti veterotestamentari: la raccolta provvidenziale della manna e delle quaglie nel deserto (Es 16 e Nm 11)e la moltiplicazione dei pani compiuta dal profeta Eliseo (2 Re 4,42-48). In un primo tempo, è chiaro che viene stabilita una parentela di Gesù con le grandi figure dell'Antico Testamento, Mosè ed Eliseo. Tuttavia è altrettanto evidente che il racconto di Marco possiede una incontestabile tonalità eucaristica (6, 41).


Il ruolo dei discepoli che sono associati alla distribuzione del pane e il numero di 12 panieri orientano verso la vita della Chiesa primitiva che celebrava la Cena in memoria del Signore. Quale che sia la natura del miracolo operato da Gesù, è chiaro che esso si riproduce ormai ogni volta che i cristiani celebrano la frazione del pane in memoria di lui: il pane eucaristico è offerto in sovrabbondanza a tutti i credenti.


* Professore presso l’Institut Catholique di Parigi



Il secondo miracolo in territorio pagano


Abbiamo detto che molti elementi sono comuni ai due racconti, in particolare la tonalità eucaristica (8,6) Appaiono tuttavia due differenze fondamentali: da un lato il racconto si attua sull’altra riva, in territorio pagano: inoltre insiste ripetutamente sul numero 7 (7 pani e 7 cesti). Il contesto pagano è sottolineato, nel capitolo precedente, nell’episodio della donna siro-fenicia e nella menzione di Tiro, di Sidone e della Decapoli.


Quanto al numero 7 in questo contesto delle nazioni pagane, esso non deve essere estraneo al numero delle 70 nazioni che si supponeva esistessero nel mondo. Infine, il numero di 7 cesti che corrisponde ai 12 nel primo racconto, presuppone una struttura comunitaria diversa da quella evocata dal numero 12. Noi vediamo comparire questa struttura dei "sette" in Atti 6,1-7 dove indica il numero degli "Ellenisti" incaricati del servizio delle tavole, carica esercitata in precedenza dai Dodici. Gli "Ellenisti", come indica il loro nome, sono di lingua greca e saranno i primi missionari al di fuori di Gerusalemme.


La funzione dei due racconti nel vangelo di Marco


Ci troviamo dunque in presenza di due racconti di un pasto di tono eucaristico: uno in un mondo ebraico, l'altro in un mondo pagano. Per i cristiani la lezione è chiara: Gesù è venuto a portare il pane di vita a tutti gli uomini e non soltanto al popolo ebraico. Non solo i pagani possono godere delle briciole che cadono dalla tavola (7,28), ma possono partecipare in piena uguaglianza al banchetto eucaristico.


Resta tuttavia una grave questione che agiterà i primi anni della Chiesa: è possibile una vera comunità di tavola tra Ebrei e pagani? (cf Atti 10,9-16; l5,l-29 Gai 2,11-12). L'ostacolo deriva dai tabù alimentari i degli Ebrei. Ora, proprio tra i due racconti, è collocata la discussione tra Gesù e i farisei sul puro e l'impuro; Gesù dichiara: "Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo..?" (7,15). Così viene tolto l'ostacolo per una vera comunione di tavola.


La struttura di questa sezione del Vangelo di Marco appare dunque densa di significato con i suoi due pasti separati dalla discussione sul puro e l'impuro. Alla fine del Vangelo (16,7), l'angelo della tomba vuota rimanda i discepoli in Galilea. È là che effettivamente scopriranno ciò che il Risorto attende da loro. In particolare, nel passo che ci interessa, scopriranno che la missione presso i pagani non à una iniziativa dei primi missionari cristiani: la Galilea ha posto Gesù direttamente alla presenza di pagani; è dunque nel ministero di Gesù che affonda le sue radici la missione presso le nazioni pagane.


(tratto da Il mondo della bibbia n. 21)

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Il desiderio di Dio
I salmi 42-43
di Sr. Germana Strola o.c.s.o.


Nella sua Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, concludendo la celebrazione del Giubileo del 2000 e dando inizio al Terzo Millennio, il Santo Padre invitava la Chiesa a prendere il largo (Due in altum) nella sequela del Signore Gesù. Una delle sottolineature maggiori di questo documento, come è stato più volte messo in risalto, verte sul primato della contemplazione del volto di Cristo (Cap. II-III), la prospettiva della santità (§ 30-31) e il primato della preghiera, nella vita cristiana (§ 32-34). E come esemplificazione concreta di questa direttiva pastorale, Giovanni Paolo II intraprendeva, nelle sue catechesi del mercoledì, un vero e proprio commentario esegetico-esistenziale al salterio. Facendo tesoro di queste indicazioni autorevoli, sembra quanto mai opportuno riprendere alcuni testi salmici, che si rivelano più vicini alla nostra vocazione monastica, chiamata a vivere interamente nella preghiera, cioè nel desiderio di Dio.


I Sal 42-43 (41-42) sono, insieme ad altri (Sal 26, 62, 84, ecc.) i più significativi a questo riguardo. Il sapiente commento del Papa a questi due salmi è stato oggetto della catechesi di mercoledì 6 febbraio 2002. (1)


L'immagine della cerva che anela ai corsi dacqua ha reso celebre questa bella pagina di lirica religiosa, ma non è facile comprendere in quale senso essa esprima il tema fondamentale del salmo, che celebra il desiderio di Dio come aspirazione alla comunione con Lui, nella celebrazione liturgica del Tempio. Come altre composizioni della stessa raccolta – dei figli di ore, Sal 42-49.84-85 e 87-88 - anche i Sal 42-43 celebrano, sotto una particolare angolatura, la centralità del Tempio di Gerusalemme nella religiosità ebraica e il fascino della sua liturgia. Composti in una situazione di esilio, essi riflettono l'esperienza umano-spirituale di colui che ha perso i beni più cari - Dio, la terra, e tutte le mediazioni di salvezza - ma li recupera nella speranza, cioè nella certezza di fede che Dio ricondurrà il suo popolo all'incontro con il Suo volto.


Mentre i salmi di pellegrinaggio al monte di Sion hanno come dimensione strutturante il rapporto distanza-presenza - il movimento del pellegrino parte da un luogo geograficamente distante dal Santuario, proteso verso l'incontro attraverso il percorso di un itinerario fisico e spirituale. - La dinamica del salmo 42-43 è invece la polarità assenza-presenza. L'esperienza della distanza, del vuoto, appare infatti come una componente particolare della dinamica del desiderio e si rivela una espressione come al negativo - attraverso la percezione della carenza - del richiamo all'incontro con la Presenza.


A livello di composizione letteraria, la sequenza si suddivide in tre parti quasi uguali, grazie alla ripetizione di un ritornello (42, 6.12; 43, 6). Altre riprese minori di termini o locuzioni intermedie collegano la prima e la seconda parte (vv. 4b e 11b, la sfida dei nemici), o la seconda e la terza (vv. 10b; 43, 2b, lamento e questionamento di Dio). Il ritorno costante degli stessi temi e delle stesse immagini non è solo un artificio letterario esterno che conferisce unità allo sviluppo dell'insieme, ma evidenzia soprattutto alcuni elementi fondamentali del messaggio religioso. Il desiderio di Dio si intreccia con la speranza, la fiducia, l'autoesortazione, nell'alternanza emotiva del sentimento spirituale, e deve fare i conti con la conflittualità esterna-interna, la contraddizione, ecc.


Due metafore dominano il poema; quella dell'acqua viva, immagine della vita, in apertura del salmo, e quella dell'acqua travolgente della prova immagine della morte, nella seconda strofa. La prima pennellata che apre Sal 42, 2 non è quindi un quadro idillico e sereno - come spesso siamo portati a credere anche ricordando le bellissime raffigurazioni dei mosaici protocristiani e bizantini (2) - quanto una evocazione che già in se stessa è altamente drammatica. La sete, infatti, è indissolubilmente associata, nella Bibbia, alla minaccia della morte, ma è anche l'ambito esperienziale in cui Dio salva, con l'acqua che sgorga dalla roccia, nel deserto.


Poeticamente, le immagini della cerva assetata del Sal 42 e della rondine che volteggia negli atri del Tempio del Sal 84, sono affini, espressione del desiderio come di una forza esistenziale iscritta nella natura della persona, che supera la sua dimensione strettamente razionale. La cerva in particolare, accompagna nella Bibbia nel Cantico dei Cantici e nei Proverbi, la descrizione dell'amore umano o, altrove, in Giobbe e nei Salmi, l'allusione alle tappe fondamentali dell’esistenza (la procreazione, i piccoli, ecc). Secondo l'esegesi rabbinica tradizionale, può essere letta soprattutto come immagine della sposa, di Israele. L'acqua è vita in un paesaggio assolato: la ricerca di Dio si colora di una evocazione primaria, fondamentale per l'esistenza. E’ questo il punto di partenza del salmo.


Ma all'inizio della seconda parte, il precipitare vorticoso e il fragore delle cataratte di abisso in abisso danno all'acqua un significato opposto; quello dell'evocazione della morte. Il paesaggio esteriore diviene di nuovo specchio, simbolo dell'esperienza interiore dell'orante, non solo quindi evocazione in positivo dell'attrazione verso Dio, ma, come in negativo, rappresentazione della sua angoscia mortale per l'allontanamento dalla sorgente della Vita. Le rocce montagnose dell'Hermon dove l'orante colloca il suo esilio - in località ignote, non meglio precisabili, da leggere probabilmente in chiave simbolica - fanno da sfondo alla metafora del vortice tumultuoso della prova. Gli estremi confini del Nord, indicano essenzialmente la lontananza dal centro vitale (il Tempio di Gerusalemme, da cui sgorga la fonte di Dio, le cui acque scorrono nel silenzio). Senza particella comparativa, il quadro geografico, insieme al vigore sonoro del verso originale, è di una forza espressiva abbastanza rara e fa da contrappunto al ritmo classico delle lamentazioni che percorre i due salmi.


La simbologia che collega le acque impetuose con la morte ricorre con frequenza nelle suppliche ispirate da malattie o angosce mortali (3) e per questo forse evoca essenzialmente, nel Sal 42, 8, l'annegamento che riconduce al caos primordiale. Al di là di una interpretazione realistica, bisogna sottolineare che l'orante, alla ricerca di acqua per la sua sete, la trova: ma non come acqua di salvezza, bensì come acqua di distruzione. Dio, che è per lui principio di vita, diventa inspiegabilmente causa della sua morte: "Dio è Colui che fa la ferita e la fascia, che dà la morte e la vita" (Sal 42, 10 e 43, 2); è Lui che tiene in mano le sorti della vita dell'uomo e che ne determina il cammino (4).


Come in controluce, in uno sfondo in cui si sovrappongono metafore ambivalenti, il dialogo dell'orante con se stesso, descritto nelle ripetizioni del ritornello è soprattutto espressione del suo travaglio interiore che si interroga sull'esperienza sconcertante a cui si trova esposto. Nella sua forzata solitudine e nel turbinio di una tentazione che sembra travolgerlo - per la sua fede, sono un tutt'uno la lontananza da Dio e dalla terra santa, dal tempio e dalla comunione con il Signore presente in essa. - Il salmista percepisce che le onde e i flutti che lo avvolgono sono in definitiva onde e flutti che vengono da Dio, voluti da Dio: una parola di giudizio (Dio di difesa e di fortezza... mi hai dimenticato... mi hai respinto). La prova, più a fondo, non è l'esilio, la perdita delle mediazioni storiche dell'alleanza, ma ciò che queste significano: l'apparente impotenza di un Dio che non lo salva (dov’è il tuo Dio?), la contraddizione stessa di un Dio Amante e Creatore, che sembra essere divenuto nemico della sua persona.


Lo sfogo dell'amarezza assume i toni di un abbattimento tutto ripiegato all'interno (non è uno sfogo davanti a Dio) (5); sembra, tuttavia, dalle immagini descritte in Sal 42, 5, che l'identificazione tra desiderio di Dio e lo splendore della celebrazione sia ancora troppo piatta e materialistica (quasi che l'orante confonda ancora la gratificazione emozionale procurata dalla celebrazione antica, con l'autenticità dell'incontro con il Dio Vivente). Prevale forse la nostalgia della festa (sonus epulantis!) sul suo significato propriamente religioso. Così, il ritornello maggiore descrive l'abbattimento, il lamentarsi su se stesso, pur aprendo già verso dimensioni di speranza la lode, la salvezza donata dalla presenza di Dio, il voto di rendimento di grazie. Tuttavia, nostalgia e scoraggiamento diventano l'occasione per una riscoperta della fiducia e della certezza interiore.


Se Dio fa sentire dolorosamente la sua assenza, questa diviene stimolo e occasione di crescita, proprio al cuore della prova. Il modo in cui Dio è presente, ora, non è più lo splendore del culto, ma - precisamente - la dolorosa percezione della sua assenza e il rimpianto. Se l'assenza non provasse duramente la fede, non procurerebbe dolore; ma quando fa soffrire, la stessa assenza rende colui che è Assente presente nell'intimo, proprio con la sua lontananza. Il ripiegamento interiore trova spazi di salvezza quando si apre, ripercorrendo nella memoria la gioia della festa e la memoria di Dio presente in essa. Il modo in cui Dio riemerge come certezza interiore dell'orante non è più lo splendore della liturgia, ma la forza del desiderio, di cui Egli è misteriosamente il principio. Anche le sfide dei nemici acuiscono la sofferenza dell'allontanamento e approfondiscono la nostalgia. In riferimento ad esse, la metafora della sete di Dio viene rovesciata nell'immagine del pane di lacrime, nell'inghiottire lacrime amare. L'orante, invece di poter estinguere la sua sete di Dio, deve portare le sfide beffarde dei nemici, che lo provocano all'ateismo. Al cuore della sua cattività, Dio si rivela come il Signore dell'esistenza e significato del suo misterioso svolgersi nel tempo. Si direbbe che Dio si comunica più intensamente attraverso il suo essere lontano.


Le coordinate del tempo e detto spazio emergono in tal modo in questi due salmi, come le dimensioni strutturanti del desiderio. La lettura della prima e della terza strofa orientano chiaramente verso l'incontro con il Dio vivente, che si rende presente nel culto: ad esempio, in Sal 42, 5 viene descritto impressionisticamente il pellegrinaggio verso la casa di Dio, nel giubilo e nella lode, nell'esultanza della festa; nel Salmo 43, 3-4 il testo poetico delinea a grandi tratti il Monte Santo, la dimora, l'altare, la festa del rendimento di grazie. La prima strofa ricorda nostalgicamente un passato già remoto e impossibile da recuperare; mentre la terza desidera e spera un futuro già percepito come ormai prossimo. E la seconda strofa? La situazione presente, la prova, media tra l'esperienza del passato e l'anticipazione del futuro. Se oggi si levano davanti agli occhi la visione delle montagne dell'esilio (opposte al Monte Santo), le sfide e gli schemi dei nemici, il tumultuare fragoroso delle cascate, la dinamica del desiderio si protende tanto più intensamente dal passato verso il futuro. Al centro della seconda strofa (Sal 42, 9), la supplica e il canto al Dio della vita, che continuano ad accompagnare il salmista, di giorno e di notte, aprono la fonte della speranza, pur nell'incessante scorrere delle lacrime. Nell'oggi di un nuovo diluvio (Sal 42, 8), dal travaglio della memoria che si ripiega nostalgicamente sul passato (Sal 42, 5), si riaccende la speranza che rilancia verso il futuro (Sal 42, 6). Dai confini della terra (Sal 42, 7), la forza del desiderio si protende verso il centro del mondo, il luogo della Presenza, e anticipa le immagini dell'esaudimento della preghiera (Sal 43,3-4). Viene in tal modo descritta una trasformazione interiore, nel passaggio dalla prima alla terza strofa, proprio in forza della continuità della preghiera di fede, che invoca grazia (Sal 42, 9), nel crogiolo della prova.


Nell'intimo dell'orante, la voce di Dio emerge dapprima sotto forma di sete, e quindi nella certezza che ispira l'autoesortazione a permanere, fedelmente nell'attesa. Dio gli si dona nell'anelito del suo desiderio, nella scintilla interiore che accende il dono della preghiera (come dice Sant'Agostino; non potresti desiderare se già non ti fisse dato in qualche modo Colui che tu desideri). Già nel travaglio interiore, nel confluire della memoria, della nostalgia e della speranza, agiscono nell'orante la fedeltà, la verità e la luce di Dio. Il suo dialogo interiore lo conduce come per mano. Secondo tale dinamismo, il ritornello cambia di volta in volta risonanza e tonalità. Infatti alla fine della prima strofa è voce timida e soffocata, alla seconda è affermazione e rimprovero e nella terza professione sicura della fede. La soluzione della prova avviene quando, anche nel movimento alterno del suo mondo emotivo, l'orante recupera la certezza che Dio invia grazia, verità e luce (Sal 25, 21), e difende la causa dell'oppresso (Sal 79; 26, 1 35, 24). La fiducia e la speranza permettono di intravedere e di gustare in anticipo il compimento del desiderio: il ritorno al monte santo, al tempio, all'altare, la gioia della Presenza: Mio Signore e mio Dio! Pur restando ancora lontano, nell'alternanza di scoraggiamento e autoesortazione (Sal 43,5), si dilata un orizzonte di comunione piena nella presenza reciproca con Dio.


L'affermazione centrale che quindi soggiace all'intero svolgimento della sequenza, mette in risalto che il Dio Vivente, principio fondamentale dell'esistenza dell'Antico Israele, è presente, secondo la teologia tradizionale, nel dono che egli fa di se stesso nella Liturgia del tempio. All'immagine della sete - istinto primario per l'autoconservazione - si sovrappone il desiderio della visione del Volto, espressione più classica nell'Antico Testamento per significare la pienezza della comunione (cf Es 33, 14) Secondo il contesto, il desiderio di vedere il volto di Dio significa essere protesi verso l'incontro con la sua Presenza, nella comunione vivificante percepita nello splendore del culto.


Il fondo della prova è raggiunto – ma anche risolto - quando l'orante intravede e raggiunge orizzonti di abbandono, di gratuità e di fiducia, proprio nella contraddizione della fede. Anche nella morte, Dio è il Dio della vita, della luce, della verità e della grazia. Le lacrime inghiottite di giorno e di notte diventano supplica, domanda di grazia, riconoscimento che la prova misteriosa viene da Dio, ma che Egli ci può salvare proprio da essa. Dio è l'autore della vita e della morte, e proprio nella morte - come rivela pienamente la Pasqua di Cristo - si rivela come il Signore della gratuità, della risurrezione, del dono originario, preveniente e gratuito, del vivere.


Ma come leggete questa pagina salmica alla luce del compimento delle Scritture, la morte e la risurrezione di Gesù? Come assumere in dimensione cristiana la dinamica del desiderio, nella sua dialettica di assenza e presenza? Si potrebbe rispondere a diversi livelli, e tentiamo qui di abbozzare solo alcune prospettive interpretative.


Nel Nuovo Testamento, il significato che il Tempio assumeva nell'Antico Testamento riceve una particolare forza e pienezza cristologica, ecclesiologica ed escatologica. Il Padre si è donato, si è rivelato definitivamente a noi nella persona di Cristo, In Lui, via, verità e vita, è possibile adorare il Padre, nello Spirito. La presenza di Dio in Gesù Cristo, secondo l'insegnamento del Vangelo (Mt 18, 20), si dà a noi in molteplici forme (cf SC 7) E tuttavia Dio non è a nostra disposizione: l'incontro con Lui non è automatico né direttamente alla portata dei sensi, né si può dare per scontato, quando lo vorrebbero le nostre pretese emotive.


Nella crescita della fede, i tempi di assenza si alternano alla gioia dei momenti della presenza, secondo una sapiente pedagogia che purifica, accresce e affina il desiderio di comunione. L'assenza è una componente ineliminabile dell'esperienza del tempo presente. La polarità presenza-assenza è costitutiva, nella rivelazione dell'Essere (secondo la filosofia contemporanea). Dio è sempre più grande del nostro cuore ed anche la sua vicinanza permette solo di affacciarci a una insondabile e infinita profondità. Quanto più il Signore è presente, tanto più fa sentite la sua irraggiungibile assenza. Dio non resta un ricordo dell'emozione del passato: il suo avvicinarsi è venuta, presenza, ed è l'imminenza dell'ultimo "Incontro". I mistici di tutti i tempi, del resto, sono coloro che hanno più intensamente sperimentato ed espresso tale mistero.


La vita cristiana è di conseguenza interamente attraversata dal mistero del già e del non ancora, dell'anticipo della promessa già sperimentabile e della pienezza definitiva che ci descrive l'Apocalisse, usando proprio le immagini dei salmi 42 e 43. Dal trono di Dio scaturisce il fiume dell'acqua viva (Ap 22) a cui sono invitati ad attingere, gratuitamente, tutti coloro che hanno sete (Ap 22, 17; 21, 6). Lo stesso fiume costituisce il pieno fluire della fonte vitale che ha dischiuso per noi il costato di Cristo (Gv 7, 37; 19, 31-34). E solo nel pieno compimento dell'escatologia, il desiderio di vedere il Volto di Dio potrà essere definitivamente saziato (Ap 22, 4), perché Gesù è sempre vivo ad intercedere per noi, davanti al Volto del Padre (Eb 9, 24).


Il nostro pellegrinaggio nel tempo verso questi orizzonti definitivi resta sempre determinato dal mistero dell'abbandono del Figlio, che, proprio per aver attraversato la morte, ha aperto per tutti noi il miracolo della vita nuova, la sorgente che zampilla per la vita eterna (Gv 4). E’ molto significativo che il testo del Nuovo Testamento riprenda, per l'orazione di Gesù al Gethsemani, "l'anima mia è triste fino alla morte", proprio la versione greca di Sal 42, 6.12; 43, 5 e che il libro degli Atti alluda al Salmo 42, 8 quando dice, al cap. 3, 9; "Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte". Gesù ha assunto nella sua carne tutto il mistero umano - nella tensione estrema della presenza e della assenza: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato" - non risparmiando a noi di attraversarlo, ma conducendoci con lui attraverso di esso, nella fede e nella speranza della sua vittoria. La contraddizione, il limite e la morte restano per noi, suoi discepoli, il luogo dove si dispiega la potenza della Risurrezione, il sovrabbondante miracolo della gratuità, la pienezza dell'esultanza dell'incontro definitivo.


Note


1) Cf. L’Osservatore Romano di giovedì 7 febbraio 2002.


2) Cf. SANT’AGOSTINO: Corri alla fonte, aspira a questa sorgente viva (la Torah, lo Spirito). Non correvi tuttavia come un animale qualsiasi, ma con la rapidità prodigiosa e la leggerezza veloce del cervo...


3) Cf Gio 2, 4; Salm 88, 8, ecc.


4) Dt 43, 39b; 1 Sam 2, 6; Is 42, 8; Sap 16, 13; ecc.


5) Cf Sal 62, 9; 102, 1; 142, 3.

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Le nozze di Cana
ALCUNE GLOSSE ANNOTATE AL MARGINE DEL TESTO (Gv 2, 1-11)
di Sr. Germana Strola o.c.s.o.


Il breve racconto del primo segno compiuto da Gesù alle nozze ai Cana assume nel Vangelo di Giovanni un grande rilievo sia come punto di arrivo dell'ingresso del Messia nella scena della storia dopo la costituzione della comunità dei discepoli (1,35-51), sia come inizio della sua vita pubblica, in dittico con la purificazione del Tempio (2,13-25). Il significato dell'episodio diviene più luminoso se questo viene situato all'interno nel disegno dell'intero Vangelo di Giovanni, che intende condurre alla fede in Cristo (2,11 cf 20,31). L’evangelista lo presenta infatti come l'inizio (arché, cf Gv 1,1) dei segni che nel tempo della storia manifestano la Sua gloria, attraverso la trasformazione dell'acqua (delle abluzioni dei Giudei, v. 6) nel vino messianico delle nozze escatologiche.


Il significato del festino delle nozze nell'AT e nel NT


Fin dall'inizio del Vangelo di Giovanni, non mancano allusioni, per quanto velate, alla dimensione nuziale della presenza del Verbo fatto carne. Giovanni Battista confessa di "non essere degno di sciogliere la cinghia del suo sandalo" (1,27 cf Rut 4,7-8), presentandosi come "l'amico dello Sposo" (3,29), che gioisce alla sua voce, dando testimonianza della prospettiva nuziale del Messia, "Colui che ha la sposa" (3,29). Nei profeti non mancano inoltre i testi che evocano l'era messianica nei termini di una festa di nozze come figura del ritorno in grazia, della pienezza di bene che Dio prepara per il suo popolo (Is 54,1-11; 62,4-5; cf. 1 Sam 2,5; Sal 113,9; Os 1,16-17; si veda anche Is 25, 6-8).

Il terzo giorno


Giovanni introduce l'episodio con la connotazione temporale "il terzo giorno" (Gv 2,1): inquadrando il racconto di conseguenza, con un riferimento implicito al grande segno compiuto nel terzo giorno della risurrezione (cf Os 6,1-2; Gl 2,1; 1 Cor 15,4; cf Lc 24,46; Gv 2,19). Ma nel terzo giorno si verificano molti eventi decisivi della storia di Israele, a partire dal terzo giorno della creazione (Gen 1,11-13): è il giorno del sacrificio di Isacco (Gen 22,4-8), il giorno che scandisce il ciclo di Giuseppe (Gen 42,18-19,24), il giorno del grande scisma tra Israele e Giuda (1 Re 12,12-13.19); il terzo giorno è soprattutto il momento in cui viene ratificata l'alleanza sinaica (Es 19,16), che nel giudaismo è stata interpretata in chiave escatologica e nuziale. Al Sinai, "il terzo giorno", il Signore rivelò la sua gloria dando la legge dell'alleanza a Mosè, affinché il popolo credesse anche in lui (Es 19,10.11.16). A Cana, "il terzo giorno", Gesù rivela la sua gloria dando il vino nuovo, simbolo del suo vangelo, che è la legge della nuova alleanza: allora i discepoli credettero in lui (Gv 2, 1-11).


Alla luce delle reminescenze bibliche del "terzo giorno", l'alleanza in chiave nuziale di Dio con l'uomo raggiunge nella persona di Gesù il suo punto culminante: il compimento escatologico si riallaccia all'origine.


Qui Giovanni introduce ex abrupto, senza nessuna preparazione, la figura di Maria: "La Madre di Gesù era là" (come ai piedi della croce, Gv 25-27). Nel contesto di queste nozze emerge in primo piano la relazione Madre-Figlio: si parla della Madre - quindi della fecondità dell'alleanza nuziale - prima che della Sposa, come se nell'alleanza di tipo nuziale, venisse simboleggiato in primo luogo l'effetto che ne deriva, cioè la menzione della presenza dei discepoli chiamati anch’essi alla partecipazione del festino nuziale.



Non hanno più vino


Nel momento in cui si svolge la celebrazione della festa di nozze, manca qualcosa di essenziale perché lo sposalizio sia completo: il vino. Ce n’era stato prima? Può darsi, ma non viene detto. In ogni caso, la funzione della Madre di Gesù, che opera simbolicamente il passaggio verso il compimento della nuova alleanza, consiste semplicemente nel dire con la sua parola la situazione a Gesù: Non hanno più vino.


Nella sua risposta, "Che cosa c’è per me e per te? Donna, non è ancora giunta la mia ora?" Gesù sembra, per così dire, prendere le distanze da sua Madre: segnalando un'alterità - tra un "lo" maschile e un "tu" femminile: è superato il tempo delle relazioni puramente familiari - Gesù invita sua Madre a situarsi con lui nella prospettiva della sua missione messianica, evidenziando anche un termine di tempo da rispettare: l'ora della piena rivelazione della gloria del Padre nel Figlio, nel mistero della Pasqua in un crescendo che tende verso il compimento.


Il titolo Donna (cf. Gen 2,23; Is 54,5) e la menzione dell'ora ritornerà nel dialogo fra Gesù e la Samaritana - Credimi, donna, viene un ora in cui né su questa montagna né in Gerusalemme adorerete il Padre - ma anche nell'incontro con Maria di Magdala, nel mattino di Pasqua (20,15), e soprattutto nell'affidamento di Giovanni a Maria, ai piedi della Croce (19,26-27), quando l'"ora" è veramente compiuta. Il titolo Donna non è quindi un'allusione alla donna del Protovangelo (Gen 3,15.20), ma un riferimento alla "figlia di Sion", quella fìgura femminile che nella tradizione biblico-giudaica simboleggiava Israele (cf. Os 1-3; Is 62,11; Zc 9,9).


Nell'ambito di questi richiami il tra il Sinai e Cana trova collocazione anche l'invito di Maria ai ministri (diakonoi) delle nozze: "Quanto egli vi dirà, fatelo" (v.5), una parola che sembra volutamente riprendere la dichiarazione di fede emessa da Israele al Sinai: "Quanto il Signore ha detto noi lo faremo" (Es 19.8; Ef 24,3.7). Giovanni pone sulle labbra della Vergine le parole che il popolo eletto pronunciò all'inizio della sua storia, significando implicitamente una identificazione tra la comunità di Israele e la Madre di Gesù. Nel linguaggio biblico-giudaico il popolo è rappresentato sovente sotto l'immagine di una "donna". Si può comprendere allora come Gesù, rivolgendosi alla Vergine, usi il termine "donna" (Gv 2,4). Sarebbe questa la versione giovannea del tema lucano di Maria "figlia di Sion". In termini più espliciti: Giovanni presenta nella Madre di Gesù la fede ideale di Israele giunta alla pienezza dei tempi


Le giare della purificazione dei Giudei


Con la menzione delle giare, al centro del racconto, emerge un elemento sconcertante nel contesto di un matrimonio: come se si cominciasse a condurre gli sposi al fonte battesimale. Giovanni ne precisa il numero e la capienza: sono sei, il numero della perfezione (sette, meno uno); la menzione della purificazione chiama in causa le antiche categorie della legge giudaica. La loro capienza è impressionante (se una metreta corrisponde a circa 40 litri, ed ognuna ne conteneva due o tre, avremmo in totale da 5 a 7 ettolitri di vino eccellente): una sovrabbondanza che in Giovanni sottolinea una delle caratteristiche del dono di Dio. Gesù ha bisogno delle giare e dell'acqua che esse contengono, cf l'acqua della creazione (Gen 1,6-10), del diluvio (Gen 6,17), del Mar Rosso e del Giordano, ma anche l'acqua che esce dal lato destro del Tempio (Ez 47) e l'acqua della nuova alleanza (Ez 36,25), ecc. per rivelarsi, nella sua persona, come il fondamento e il fine della creazione e della storia. Gesù raccoglie e trasforma tutti i riti di purificazione, portando ogni cosa al suo compimento (Mt 5,17).



Mescevano vino: il gesto miracoloso dell'obbedire


Raramente viene sottolineato un dettaglio significativo: Giovanni dice laconicamente che i "servi" (diakonoi) dopo aver riempito le giare fino all'orlo, nell'atto di mescere, versavano vino. L’evangelista non descrive quindi il segno miracoloso se non nel gesto obbediente dei ministri delle nozze, che compiono fedelmente l'ordine ricevuto. Gli addetti al servizio del banchetto di festa sono quindi i testimoni autorevoli di quanto si compie attraverso l'umile esecuzione del loro compito. La loro ministerialità diventa trasparenza credibile di quanto un Altro compie, attraverso di loro.


Felicitazione e conclusione del racconto


La conclusione che trae il maestro di tavola illumina la portata dell'avvenimento. Il vino buono è stato conservato fino ad ora. L'acqua divenuta vino riecheggia, dal punto di vista dell'espressione formale, l'annuncio del Prologo: la Parola divenuta carne. La trasformazione dell'acqua in vino prolunga e manifesta la realtà dell'Incarnazione, che continua a compiersi in noi.


La ricchezza dell'affermazione fino ad ora si rivela in tutta la sua profondità se viene collocata, di nuovo, sullo sfondo dell'Antico Testamento. Per i tempi messianici la voce profetica annunciava che in quel giorno le montagne stilleranno vino nuovo (Gl 4,18, Am 9,13-14). È ora presente la Sapienza che ha preparato il vino... e dice, "Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato a voi". (Pr 9,2.5).


Nel Cantico dei Cantici, il vino è il simbolo dominante dell'amore tra l'amata e l'amato.


Ora, al presente il vino buono è dato in misura sovrabbondante, significando che in Gesù si è inaugurata l'era escatologica. Nella persona dello "sposo" si intravede la presenza effettiva della Sposo.


Il "vino buono" conservato fino ad ora (v. 10) rappresenta la rivelazione messianica, "la grazia della verità" presente in Gesù (1,17) "il suo vangelo"; per mezzo del simbolismo delle nozze, egli si manifesta come lo Sposo della nuova comunità messianica (cf. anche 3,2 ss) È questa l'esegesi più diffusa nella tradizione antica.


Cana è quindi un simbolo della nuova alleanza. Questo simbolismo messianico, specificato in quello delle nozze messianiche, non vale solo per Gesù, ma anche per Maria. Nei loro gesti e nel loro dialogo, la Vergine e il Cristo, superando largamente i festeggiamenti locali, soppiantavano i giovani sposi di Cana per diventare lo sposo e la sposa spirituali del banchetto messianico.


Però Maria, la sposa, svolge qui anche una funzione materna: la sua esortazione ai "servitori" (cf 12,26: "servire" Gesù).


L'ultima parola di Maria nei vangeli, suscita in loro la perfetta docilità alla parola di Gesù (2,7s), il vero atteggiamento dei credenti, nell'alleanza nuova. Maria diventa così "Madre delle membra (di Cristo)".


E i discepoli credettero in lui


Il segno di Cana, secondo la lettura del testo, viene narrato come tale soprattutto dal punto di vista dei discepoli. Credere in Gesù significa vedere, udire, gustare ciò che avviene, come epifania della Sua gloria: penetrando il significato profondo della realtà, in cui si dispiega il miracolo di Dio, nell'oggi di Cristo.


 

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Le nozze di Cana
in San Bernardo di Chiaravalle
di p. Giuseppe Brienza*, o. cist.



 


Il secondo mistero luminoso che ha per oggetto la contemplazione dell'episodio delle nozze di Cana, trova degli agganci in alcuni dei sermoni di Bernardo di Chiaravalle.


Mi riferisco a quello sulla prima domenica dopo l'ottava dell'Epifania, al sermone 54,12 sul Cantico dei Cantici e ai sermoni 55 e 56 pubblicati nell'edizione italiana delle opere sul santo 7(1). La riflessione proposta prenderà in considerazione i sermoni 55 e 56, i cui titoli rispettivi sono:


a) Le sei giare della purificazione,


b) Come riempire le giare mistiche con un triplice timore.


"Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili" (Gv 2-6).


Su questo breve versetto delle nozze di Cana, Bernardo incentra la sua meditazione, si attarda a modo di lectio divina sul testo sacro per poi applicarlo in concreto ad alcune osservanze della vita monastica cistercense.


Da premettere che la Vergine Maria, viene citata dall'Abate solo nel sermone 56, mentre sappiamo che a differenza degli altri misteri luminosi, Maria ha un ruolo importante, nella meditazione del secondo mistero. (2)


Evidentemente Bernardo è preoccupato di applicare l'allegoria spirituale ai monaci, più che tenere un discorso prettamente esegetico.


Tuttavia in quel breve inciso, a Maria viene attribuita una funzione importante, laddove dice:


"… i servi, ai quali tuttavia già Maria aveva suggerito per prima; "fatte tutto quello che vi dirà"; non devono arrogarsi il diritto di predicare senza prima essere istruiti dalla Madre della grazia, Maria". (3)


Le sei giare prese in esame da Bernardo, corrispondono ad altrettante osservanze monastiche, con le quali, i monaci, servi di Dio, come veri Giudei, dovranno purificare la loro vita.


Le osservanze menzionate in ordine di citazione sono:


· il silenzio,
· la salmodia,
· le veglie,
· il digiuno,
· il lavoro manuale,
· la purezza del corpo.


Nella giara del silenzio, il monaco dovrà purificarsi dai peccati che riguardano la loquacità, definita senza ombra di dubbio un vizio. Otto sono gli aggettivi negativi usati da Bernardo per indicare la loquacità. È la parola stolta, vana, bugiarda, inutile, ingannevole offensiva, impudica, sempre in cerca di scuse.


L'immagine che evoca il santo per definire gli effetti devastanti della parola intrisa da tali attributi, è forte:


"Questa peste nasce dalla loquacità, e con la censura del silenzio o la si estirpa alla radice, o almeno la si controlla perché non faccia troppi danni". (4)


Nella giara della salmodia, il monaco, attraverso la recita o il canto di salmi, inni, cantici, loda Dio e a lui solo attribuisce quel bene che vede in sé mentre, a se stesso attribuisce il male. Il monaco si purificherà con questa giara, quando riconosciuto il suo peccato nello stato di vita precedente la sua conversione, un peccato fondamentalmente di bestemmia, in cui emergeva il proprio io, riempie ora la sua bocca di salmodia che lo aiuta a confessare il suo peccato e a correggere il suo modo di vivere, mettendo al centro della propria vita Dio.


"... Fino a che uno loda se stesso e accusa Dio cosa fa se non bestemmiare? Non sono forse blasfemi quelli che dicono: "Le vie del Signore non sono rette"? Ma una volta che uno si converte e confessa il suo peccato, ed è istruito nei cantici divini, dopo aver corretto il suo modo di vivere corregge anche te parole: accusa se stesso a attribuisce a sé i suoi mali; loda invece Dio, e il bene che vede in sé lo attribuisce a lui, non a sé: tutto questo lo si canta nella salmodia". (5)


La terza giara si riempie con le veglie, ad imitazione di Cristo che passava le notti in orazione. La preghiera insistente, espressione di una vigilanza continua che si oppone al torpore e alla sonnolenza spirituale, è condizione indispensabile per non cedere alla tentazione.


Il digiuno riguarda la quarta giara. Un digiuno che Bernardo invita a praticare come rimedio contro i peccati di gola, non restringibili alla sola sfera culinaria evidentemente, ma estensibili a tutto quello che nella vita dell'uomo diventa un idolo da perseguire e conquistare. L'allusione si deduce quando afferma:


«La giara del digiuno ci fa acquistare forza per scacciare i demoni, memori dell'esortazione del Signore che dice: "Questa specie di demoni non può uscire in alcuna maniera se non con l'orazione e il digiuno"». (6)


Nella quinta giara, come mezzo di purificazione, si trova il lavoro manuale. Bernardo è consapevole della meraviglia che tale asserzione suscita nell'ascoltatore. Sul Commento a questa giara, spende qualche parola in più, anche se si rende conto che il discorso andrebbe ampliato. Cita a più riprese, l'apostolo Paolo, per dare vigore e spessore alla sua affermazione.


Sulla scorta degli insegnamenti del dottore delle genti, Bernardo indica il lavoro come mezzo di autosussistenza e indipendenza economica, necessario per una vita ordinata e disciplinata, lavoro che opposto all'ozio, padre dei vizi, consente al monaco di purificare il suo cuore e di vivere in pace:


"Vi esortiamo fratelli, a fare ancora dei progressi, e a farvi un punto di onore di vivere in pace... alfine di condurre una vita decorosa di. fronte agli estranei, e per non aver bisogno di nessuno". (7)


L'ultima giara contiene lo sforzo di purificazione che il monaco è chiamato a compiere attraverso la purezza del corpo. Grazie ad essa vengono purificati i peccati commessi con i cinque sensi: vista, udito, gusto, odorato, tatto. Le giare precedenti, con relative osservanze, hanno valore, se accompagnate e confermate dalla purezza del corpo; giara che più delle altre riguarda Dio, per piacere a lui solo e compiere la sua volontà, che è la nostra santificazione.


"Mantenere il vaso del proprio corpo con santità e rispetto", (8) è dunque impegno urgente per il monaco. Bernardo commenta che se le prime quattro giare le dobbiamo a noi stessi, la quinta al prossimo, la sesta la dobbiamo a Dio.


Il sermone conclude con una riflessione allegorica sul significato del complemento di materia delle giare.


La pietra difficilmente si rompe o si frantuma. Non è un materiale fragile, quello che contiene il prezioso liquido della grazia, bensì un materiale duro, la pietra appunto, che indica anche le difficoltà che il monaco dovrà sostenere per avere la vita. La via aspra da percorrere, trova stabilità e fondamento su Cristo, pietra su cui costruire. Le giare sono dette di pietra, per dire che sono cristiane, fatte cioè, di fede in Cristo.


Note


*) P. Giuseppe Brienza, Priore del Santuario Santa Maria dei Lumi in S. Severino Marche (Mc).


1) Le Opere di San Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Sermoni diversi e vari, vol, IV, Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 2000, pag. 382-391.


2) Cfr. Rosarium Virginis Mariae, GIOVANNI PAOLO II, Edizione Paoline, 2002, n .21, pag. 31.


3) Ibid., Le Opere di S. Bernardo... serm., 66, pag. 389.


4) Ibidem, serm., 55, 1, pag. 383.


5) Ibidem.


6) Ibidem, serm. 55, 2, pag. 385.


7) Ibidem, serm. 55, 3, pag. 385.


8) Ibidem, serm. 55, 4, pag. 387.



Uno sguardo al sermone cinquantasei


Il sermone cinquantasei commenta l'episodio delle nozze di Cana dal versetto sette fino al decimo incluso. È un dialogo che ha per protagonisti i servi, Gesù, il maestro di tavola, lo sposo e sullo sfondo la Vergine Maria. Le sei giare possono essere talvolta piene, talvolta vuote.


Non sempre la giara è colma di liquido buono come l'acqua e il vino, può essere piena anche di veleno, sostanza che uccide.


Il riferimento alle osservanze monastiche è allegorico. La giara colma di veleno simboleggia lo stato d'animo del monaco, quando compie i suoi doveri con rancore e malcontento. La giara colma di acqua sta ad indicare il monaco che pratica le osservanze per timore di Dio. La giara piena di vino è propria del monaco che trasforma le osservanze dal timore, all'amore verso Dio. Stato ottimo, raggiungimento di una vita che si spende per amore e non per paura del giudizio. È il vivere l'obbedienza da figli e non da schiavi.


Compito del monaco è quello di far sì che le giare siano colme di acqua, perché il Signore lo comanda; con l'intercessione di Maria, quell'acqua è destinata a convertirsi in vino, e questo è lo stesso Signore che lo fa. Per grazia di Dio, sono quello che sono, dirà l'apostolo Paolo, cioè un buon vino.


Sono allora da escludere nella vita del monaco le giare vuote, sterili e quelle piene di veleno. I servi non tengono tutto per loro il vino, lo portano alla tavola imbandita, al maestro di tavola; essi sono coloro che il Signore ha posto a capo della sua famiglia perché distribuiscano a tempo debito la razione di cibo. La distribuzione del cibo avviene mediante l'annunzio della Parola in due modi: presentando la meravigliosa dolcezza del regno e minacciando gli orrendi tenori del supplizio. In coloro che ricevono la Parola nasce un grande timore per ambedue le realtà. Il timore di essere esclusi dal possesso delle bellezze del regno e quello di subirne i tormenti della preclusione. Le giare ricevono in questo modo due misure, ma siccome il passo evangelico afferma che vi erano sei giare, contenenti due o tre barili, bisogna aggiungere un terzo timore per colmare il terzo barile.


È il timore che riguarda ogni atto presente, per cui l'uomo ha la paura di essere abbandonato dalla grazia interiore. Mentre i primi due timori riguardano il futuro, il terzo interpella il presente. Una volta riempite le giare fino all'orlo, l'acqua è trasformata in vino. Il maestro di tavola fa una constatazione che trova riscontro nella vita civile e politica. Rivolto allo sposo dice:


"Tutti servono in principio il vino buono, e quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono". (9)


A detta di Bernardo, capita purtroppo in chi vuole conquistare un potere, di offrire ai propri sudditi prima l'amore, una volta però ottenuto lo scopo si trasforma in tiranno, seminando terrore. Non così avviene sul piano spirituale:


"Il nostro Sposo si comporta esattamente al contrario Riserva sempre per la fine il vino buono; quello invece che al confronto appare inferiore lo propina all'inizio dicendo: "Figlio, disponendoti a servire Dio, mantieniti nel timore"... E così l'acqua del timore sarà cambiata nel vino dell'amore". (10)


Note


*) P. Giuseppe Brienza, Priore del Santuario Santa Maria dei Lumi in S. Severino Marche (Mc).


9) Ibidem, serm. 56,2, pag. 391.


10) Ibidem.



Riflessione


Nel sermone 54,12 sul "Cantico dei cantici", Bernardo torna sul tema dell'acqua e del vino. Sua preoccupazione costante è di incitare il monaco a conservare gelosamente la grazia di Dio.


"Beato te, se riempirai il tuo cuore di questo triplice timore, che tu tema, cioè, quando ricevi la grazia, tema maggiormente quando la perdi, e ancora molto di più quando l'hai recuperata". (11)


Nei sermoni Gesù è lo Sposo, nel cui amore trinitario, il monaco trova il punto di partenza e di arrivo, aspirando con umiltà al possesso completo della visione trinitaria.


La contemplazione del mistero dell'incarnazione in sintonia con la teologia paolina mostra il Figlio di Dio nell'atto di spogliare se stesso, per uno svuotamento e abbassamento totale, per assumere la condizione del servo obbediente, umiliato e sofferente.


Bernardo assorto nella contemplazione del Verbo che si è fatto carne, esprime tutta la sua ammirazione e gratitudine:


"Come sei bello, Signore Gesù... sei bello per me, Signore mio, nello stesso spogliarti di questa tua bellezza! Per il fatto che ti sei annichilito, che ti sei spogliato Tu, lume perenne...". (12)


Sull'esempio di Cristo, il monaco dovrà svuotare il suo cuore da tutto ciò che gli è di scandalo, di impedimento, da ciò che lo allontana dall'amore di Dio. Ancora una volta, come nel primo mistero, si parte dalla spiritualità del cuore, per colmarlo del vino della carità verso Dio e il prossimo.


«Dio ama un dono completo, un affetto pieno, un sacrificio perfetto. Cerca pertanto, di portare alle celesti nozze un'idria piena, perché si possa dire di te: "Lo ha riempito lo spirito del timore del Signore"... Se temerai pienamente e perfettamente, la carità darà sapore alle tue acque... è la carità, il vino che rallegra il cuore dell'uomo». (13)


Ho preferito in questo commento far parlare di più Bernardo. Come sempre la sua è una parola ricca e coinvolgente.


Da quanto ci ha proposto, è evidente che la vita del monaco è un cammino di purificazione verso la luce. "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5,8.).


Le scelte che Gesù ci chiede, benché radicali e impegnative, sono liberanti e gioiose. Il monaco che si dedica con impegno nel condividere il cammino di Cristo, meriterà un giorno di vedere nel suo regno, Colui che ci ha chiamati (Cfr. RB, prol, 21).


Note


*) P. Giuseppe Brienza, Priore del Santuario Santa Maria dei Lumi in S. Severino Marche (Mc).


11) BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sermoni sul Cantico dei cantici, a cura di Domenico Turco, serm. LIV, n. l1, pag. 511, Ed. Vivere In, Trani 1982.


12) Ibidem, serm. XLV, 9, pag. 435.


13) Ibidem, serm, LIV, 12, pag. 512.


 


 

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Pellegrini di Dio
P. Michel Bureau s.j. e Cyril Douillet


Quando la marcia occupa da sei a sette ore al giorno, può sembrare naturale che i pensieri siano in armonia con questa attività ripetitiva. Invece non è così. "Camminare umilmente con il proprio Dio" si attua nella ripetitività dei giorni. Un giorno dopo l’altro. Come un modo di essere nella quotidianità, piuttosto che agire in circostanze particolari. Il quotidiano deve essere lo stato abituale. La frase che segue, risponde alla domanda: "Cosa vuole il Signore che io faccia per lui"? "Ti è stato detto, o uomo, ciò che il Signore attende da te. Null’altro che camminare umilmente con il tuo Dio, praticare la giustizia e amare con tenerezza"(Mi 6, 8).


La Bibbia, testimone di una lunga marcia


Marciare, può rappresentare il passaggio dalla marcia fisica, che mette a dura prova, alla memoria dei racconti biblici. La Bibbia è, essa stessa, il racconto o la testimonianza di un lungo cammino, di una lunga evoluzione dei rapporti tra l’uomo e Dio.


Prendiamo l’esempio di Abramo, il primo pellegrino. Partì, senza conoscere la direzione da prendere, per il paese che Dio gli aveva indicato. La decisione presa di partire, era il suo modo di manifestare la sua fedeltà, e ciò gli fu riconosciuto come cosa giusta. La decisione di partire diventa allora un modo di tradurre nel concreto della sua vita, un’esigenza interiore, La chiamata, l’invito di Dio a lasciare il suo paese, la casa di suo padre, la sua famiglia, trasformò Adamo da nomade a pellegrino. "Da accampamento in accampamento, Abramo si diresse verso il Negeb" (Gen 12, 9). La decisione di partire, per quanto giustificata dalla necessità, non è che la risposta ad un richiamo interiore, ad un invito benevolo, se non addirittura amorevole.


Dio invita a partire


Abramo è invitato ad abbandonare il paese e lo abbandona; invitato a sacrificare il suo unici figlio si appresta ad obbedire. Essere pellegrino, è forse un invito ad abbandonare tutto? Gli ascendenti e i discendenti? L’essenziale consiste forse nell’essere in questo rapporto che lega, che nutre? Alcuni si legano con i legami dell’amicizia, lui, con l’obbedienza ad una parola che scopre man mano. Nessuno l’aveva sentita prima di lui , nessuno aveva messo in gioco la sua fiducia in un tale invito. E un uomo stupefacente: egli vede e non si ferma, Egli vede il paese che il Signore ha promesso a lui e alla sua discendenza e continua. Perché? La storia non lo dice. E forse tentato di restare nel paese che gli è stato promesso con solennità? Nemmeno questo dice la storia. Egli cammina, senza porsi domande.


Per alcuni giorni Abramo è con il proprio figlio, i suoi servitori, alcuni asini. Tre giorni di marcia, fianco a fianco in silenzio, è lungo…Bisogna averlo provato per sapere cosa significa. Ciascuno cammina, immerso nel suo segreto: il padre con questa nuova chiamata che lo fa mettere in cammino per un luogo che solo più tardi gli sarà rivelato, con questa richiesta che sembra togliergli la discendenza che ha impiegato tanti anni ad avere; il figlio, la sua progenie, frutto di una promessa, come il paese. Preferirebbe egli forse rinunciare al paese, piuttosto che alla sua discendenza? Forse…. la storia non lo dice.


Il figlio è preso come si prende un agnello del gregge per accogliere l’ospite di passaggio. Preso ed abbandonato a sé stesso senza una parola di spiegazione. Quando i servitori non saranno più con loro, dopo tre giorni di marcia, alla domanda su chi sarà la vittima offerta in sacrificio, padre e figlio si ritroveranno davanti alla parola: Dio provvederà. "e se ne andarono tutti e due insieme"(Gen 22, 6).


Marcia iniziatica, ove il padre introduce il figlio nella fede alla parola. Il ritorno non ha bisogno di commenti: Abramo ritornò verso i suoi servitori e si misero in cammino insieme , verso Bersabea. Tre giorni di cammino, in silenzio, per imparare che la vita di un uomo è unica. Capito questo, si può essere padre, stabilirsi in qualche luogo, morire.


Dio cammina con il popolo


Il Signore ha accompagnato Abramo ed accompagna anche il popolo di Israele. "Il Signore camminava con loro, di giorno, in forma di colonna di nube"(Es 13, 21)Cosa c’è di più stupefacente: che l’uomo cammini con Dio, o che Dio si metta al passo dell’uomo? Si saprà un giorno, che Dio si rivela al suo figlio("Il mio figlio primogenito è Israele". Es 4, 22)camminando al suo fianco, affinché non abbia paura la notte, e guidandolo di giorno, come fece durante l’Esodo. . Dio manifesta la sua onnipotenza, rifiutando di servirsene. Cammina con l’uomo. La stessa logica gli impedirà di intervenire nei momenti della Passione e della Croce. Dio cammina con l’uomo anche correndo il rischio di sparire o di non essere riconosciuto. Quando Gesù camminerà sulle acque, i discepoli avranno paura. Quando camminerà con i discepoli di Emmaus, costoro non lo riconosceranno. La buona novella è che Dio cammina, e cammina con l’uomo. L’uso della parola "camminare" può essere inteso in quattro differenti significati: in senso letterale - "camminare", "camminare nel deserto"-; in senso figurato, "camminare con Dio ", con le sue molteplici declinazioni, "secondo la sua parola", "le sue leggi", "le sue istruzioni". "Camminare" può essere utilizzato anche nel senso di "far camminare", in senso fisico: " il Signore ti ha fatto camminare per quarant’anni nel deserto" (Deu 8, 2);lo stesso significato lo si ritrova poi, in senso figurato: "il Signore ti ha fatto camminare secondo le sue leggi. "Questa ultima formula, ripresa da molti profeti, diventerà uno dei segni della presenza di Dio presso il suo popolo, la nuova alleanza. Non potendo citare tutti i passi relativi, ci basti questo versetto: "Io darò loro un cuore solo, e metterò in essi uno spirito nuovo (…. )affinché essi camminino secondo le mie leggi"(Ez 11, 19-20).


Questi differenti significati attribuiti al verbo "camminare", si possono applicare anche , sia a momenti del pellegrinaggio che a quelli della vita del cristiano. In primo luogo , il cammino fisico. Questa attività, sensibile, è anche occasione di un’altra esperienza: ti è stato dato di camminare, sia perché qualcuno ti ha aiutato, aspettato, curato, sia anche perché qualcuno ti ha permesso di "avanzare". L’inizio di un cammino di fede, consiste nel riconoscere di aver ricevuto una forza che non proviene da se stessi, e nel nominarne l’origine, l’autore.


Dio, per rivelarsi, utilizza una via imprevista: Egli invita dapprima il suo popolo a mettersi in viaggio per rendergli culto. Non ci sarebbe nulla di straordinario in questo, se non gli chiedesse di andare nel deserto. Faraone , non è tratto in inganno e rifiuta l’invito. Per di più, questa richiesta di uscire, di andare nel deserto, è per Dio l’occasione di liberare Israele dal suo oppressore. ""Camminare" nel senso più letterario del termine, si precisa dunque, come "camminare secondo le istruzioni del Signore". Abbandonare il proprio paese per andare a rendere culto ad un Dio che non si è avuto ancora occasione di conoscere e, con il fatto stesso di mettersi in cammino, ricevere una libertà che non si sperava più di ottenere, poiché si era condannati a morte. Ecco il modo di agire di Dio.



Richiamo alla libertà


Dio chiama a quello che l’uomo pensa essere un rapporto di adorazione, di culto divino, ma la realtà è che egli ricostruisce l’uomo in tutta la sua grandezza. In questo egli si manifesta per ciò che egli è veramente. Da questo momento, gli uomini si trasmettono di generazione in generazione questo paradosso: "servire dio, rende l’uomo libero come lui" (Pour que l’homme soit un fils, Didier Rimaud, ed. CNPL).


Così, poco a poco, con il superamento dei chilometri, l’usura delle calzature e le intemperie, attraverso la sola grazia, o forse anche l’apporto di questi elementi esterni, il pellegrino si apre all’altro, all’opera che si realizza in lui, e che gli permette di compiere ciò che credeva essere il suo più intimo bene. Nel momento in cui prende la sua decisione per un’iniziativa personale, viene a scoprire che essa non era altro che la risposta a un invito. Ugualmente, il saggio avverte il cristiano che la sua conversione ha origine da un richiamo più grande di lui:


Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo,
Rinnova i nostri giorni come un tempo,
Se non ci hai respinto.
Sei troppo irato contro di noi.
(Lam 5, 21-22)


E necessario avere molta audacia, fede e humor per rivolgersi a Dio in questi termini.


La vita è un pellegrinaggio


Lungo il camino le debolezze del corpo, le sue fragilità, le sue piaghe e le asperità della strada, si mostrano in piena luce, con pudore e semplicità. La stessa cosa avviene per le debolezze dell’anima, dell’essere umano completo. Più che altrove o in circostanze diverse, la lontananza dalla propria casa o l’assenza di barriere abituali, permettono alla parola di ritrovare libertà , spogliandosi di schemi e sovrastrutture. Nessuna ostentazione, solo un modo semplice di manifestarsi.


Per il credente , da lungo tempo, la vita umana sulla terra è un pellegrinaggio. Questo concetto può essere inteso in almeno due maniere: per Giacobbe, essa è pellegrinaggio, in quanto passaggio più o meno lungo. Si può dunque misurare, paragonare, valutare. D’altra parte un pellegrinaggio comporta sempre un arrivo, una destinazione finale(per un Ebreo credente, Gerusalemme prima di tutto). La vita è dunque, più che un passaggio, un cammino verso una "fine", intendendo questa parola, come termine e come finalità. . ed ecco che il concetto assume il significato di buona novella: la vita non è assurda. E chiara l’evoluzione successiva del concetto: la vita è un pellegrinaggio per arrivare a "possedere "un termine e uno scopo. L’uomo difficilmente percepisce questa idea della meta da raggiungere: egli avanza passo dopo passo, come un bue che lavora la terra. Da questa ignoranza, nascerà la preghiera del salmista:


Apri i miei occhi
che io contempli le meraviglie della tua legge.
Io sono pellegrino sulla terra;
non nascondermi i tuoi comandamenti.
(Sal 118, 18-19)


Nel Nuovo testamento il termine "pellegrinaggio" ritorna parecchie volte. Per Pietro, gli uomini sono degli stranieri e dei viaggiatori(1 Piet 2, 11) ed è la stessa cosa per l’autore della Lettera agli Ebrei (Ebr 11, 13). Ciò che era ancora confuso nell’Antico Testamento, diventa chiaro nel Nuovo: la vera dimora dell’uomo, è presso Dio. Sulla terra, l’uomo è uno straniero, non è a casa sua. La sua vita è un viaggio, un pellegrinaggio, che trova luce nel modo in cui il Cristo ha percorso, per primo, il cammino. Ha aperto la strada. L’uomo, non domina il suo camminare, ma nemmeno procede come un cieco. Compiere un pellegrinaggio, è dunque mettersi nella situazione di scoprire l’essenziale di ciò che fa la condizione dell’uomo.


(Traduzione dal francese di M. Grazia Hamerl da Fêtes et Saisons 563)


 


 

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