IL RUOLO
E L’ARTE DEL PRESIEDERE
di Dom Ildebrando Scicolone
In vista dell’ordinazione presbiterale, fino agli anni ’70, erano previsti degli esami presso la Curia vescovile. Questi vertevano su alcuni trattati teologici e sulla Praxis ordinandorum (= prassi degli ordinandi). Un capitolo di questa aveva come titolo: De munere praesidendi (= il compito del presiedere). Devo confessare che quando l’ho letto, non capivo di che cosa si trattasse. Perché, fino alla riforma dei libri liturgici del postconcilio, non si vedeva il ruolo del Presidente, perché non si aveva coscienza di una assemblea celebrante. Il vescovo o il prete non erano mai chiamati "presidente", ma celebrante, e i fedeli erano chiamati "popolo" o "tutti", o non erano chiamati affatto, perché il loro ruolo non erano previsto nei libri liturgici. Ne prendeva il posto il chierichetto, che rispondeva tutte le volte che nel libro era scritto: R/. (= risposta). Per fortuna, la situazione è cambiata. Il Concilio ha disposto che nei nuovi libri liturgici sia esplicitamente indicata la parte del popolo. Ora si comprende che celebra tutta la comunità riunita in assemblea, con un vescovo o presbitero che presiede (per alcuni sacramenti può presiedere anche un diacono, o alcuni sacramentali anche un laico).
Prendiamo in considerazione la celebrazione eucaristica. Essa è così descritta nel n. 7 di PNMR: "Nella messa o cena del Signore, il popolo di Dio è chiamato a radunarsi, sotto la presidenza del sacerdote, che agisce nella persona di Cristo, per celebrare il memoriale del Signore, ossia il sacrificio eucaristico". In una prima edizione il testo recitava addirittura così: "La Cena del Signore o Messa è la convocazione del popolo di Dio, sotto la presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore". Confrontando le due formulazioni risulta: a) il valore dell’assemblea: è la Chiesa concretamente radunata;
b) il ruolo del Presidente. Esso è chiamato "sacerdote", per includere sia il vescovo che il presbitero.
c) tale ruolo non è "democratico": il presidente non è eletto dall’assemblea, ma "agisce nella persona di Cristo", cioè, in forza dell’ordinazione, fa le veci di Cristo Capo. Alcune funzioni quindi sono propriamente sue.
Il Presidente si identifica normalmente con il "celebrante": ma può darsi il caso che un presbitero celebri alla presenza del vescovo. In questo caso il prete celebra, ma presiede il vescovo (lo stesso vale quando un cardinale celebra alla presenza del Papa). Il Vescovo infatti presiede la liturgia della Parola e dà la benedizione finale. Mentre il luogo della celebrazione è l’altare, il luogo della presidenza è la sede (si chiama "cattedra" la sede del vescovo, da cui "cattedrale").
Se il termine "presidente" è nuovo, il concetto è antico. Già S. Giustino, nella sua prima Apologia lo chiama "Colui che presiede". E’ lui che tiene l’omelia, a lui vengono portate le offerte, è lui che fa la preghiera eucaristica "secondo la sua capacità".
Compito del Presidente, nella celebrazione eucaristica, è quello di ripresentare Cristo Signore che siede a mensa con i suoi discepoli, e associa le membra del suo corpo al suo sacrificio. Nel "ministro" è presente Cristo, sia quando spezza il pane della Parola, sia quando fa ciò che Cristo ha fatto nell’ultima cena: riceve le offerte dei fedeli, pronuncia la preghiera eucaristica e spezza il pane e lo distribuisce ai fedeli.
Concretamente al Presidente sono riservate le preghiere: la grande preghiera eucaristica e le tre preghiere che concludono rispettivamente: i riti di ingresso (colletta), i riti di offertorio (sulle offerte), e i riti di comunione (dopo la comunione).
Non spetta a lui proclamare le letture, né intonare i canti. Egli comunque ha la responsabilità dell’intera celebrazione. Ciò significa che deve averne piena padronanza, avendola egli stesso preparata, avendo opportunamente scelto i testi (secondo le possibilità offerte dalle norme e dai giorni liturgici).
Dal ruolo di presidente deriva quindi la responsabilità, e quindi l’arte del presiedere. Non è più possibile che un prete pensi di celebrare la "sua" messa. Deve pensare di presiedere un’assemblea celebrante. Egli quindi è l’animatore di quella assemblea. Il suo sacerdozio si manifesta quindi come "mediazione", come "ponte" tra Dio, alla cui gloria è offerto il sacrificio, e il popolo per il quale è offerto.
Il Presidente è colui che sa, meglio di chiunque altro, che cosa si fa nell’assemblea: conosce i testi, conosce i gesti, conosce la finalità, e conosce le arti per raggiungerla. Di qui la sua sicurezza nel dirigere la celebrazione. Un celebrante incerto, impacciato, impreparato comunica all’assemblea incertezza e nervosismo; un presidente sicuro comunica sicurezza e partecipazione. Perché egli deve pur sapere quali sono i compiti di ognuno, perché tutti fanno riferimento a lui. Egli infatti, come benedice il diacono perché proclami il vangelo, così – anche se non è ritualizzato – distribuisce i vari compiti ad ognuno. Leggiamo nell’Ordo Romanus I, per riferire un esempio, che al Papa veniva comunicato chi era il lettore e chi il salmista, e dopo tale informazione e la sua approvazione, non era consentito cambiare. E’ vero che il diacono o un altro ministro suggerisce le intenzioni alla preghiera dei fedeli, ma è il Presidente che la introduce e la conclude. Altri ministri possono fare le monizioni, dove previsto, ma devono essere armonizzate con l’omelia che di solito spetta al Presidente. Gli stessi canti devono essere riconosciuti adatti al giorno e al momento celebrativo, per essere in sintonia con la Parola che vien proclamata.
Egli deve preoccuparsi non solo che tutto si svolga secondo le norme, ma soprattutto che l’assemblea venga coinvolta e interessata. A ciò gioveranno le tecniche della comunicazione: la dizione, l’uso ottimale degli strumenti audio-visivi, e quant’altro può aiutare; ma è necessaria soprattutto la sua personale capacità di comunicare la fede e "iniziare" al mistero. Il Presidente di un’assemblea liturgica è, per natura sua teologale, un "mistagogo", cioè uno che, "iniziato" egli stesso, è capace di introdurre i suoi fratelli nella comprensione e nella partecipazione al mistero di Cristo, reso presente nel rito.
Vale soprattutto per lui quello che scrive l’apostolo Giovanni all’inizio della sua prima lettera: "ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita…noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi". Il celebrante annunzia - non solo con l’omelia ma con tutto il suo essere e agire - quello che ha visto e udito, cioè ciò che crede. Il suo ministero passa necessariamente per la sua personale esperienza di fede. Egli non è un attore che recita (per quanto potremmo imparare molto da un bravo attore), ma è un testimone che proclama la sua fede ed incita gli altri a professarla. Egli diventa non soltanto colui che sta sopra il popolo, ma colui che va avanti, in testa al suo popolo, nel cammino verso il Regno. In questo senso egli rappresenta Cristo, che la lettera agli Ebrei (12, 2) chiama "autore e perfezionatore della fede" (il testo greco dice "condottiero").
Come è responsabile della preparazione e della conduzione di una celebrazione, così egli deve preoccuparsi anche del suo seguito, cioè della vita che segue ad essa. L’eucaristia ci fa diventare – sempre più- un solo corpo e un solo spirito; ora questo fatto si dovrà vedere anche nella vita quotidiana della comunità: dal mistero celebrato e partecipato scaturisce un nuovo modo di vivere in questo mondo, sempre in cammino verso "i cieli nuovi e la terra nuova". De aver chiaro perciò l’intimo nesso che c’è tra Parola, celebrazione e vita.