In ricordo di P. Franco

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Venerdì, 18 Giugno 2004 14:33

La figura di Pietro

Atti 10-11: l'apertura di Pietro ai pagani

di Don Filippo Morlacchi


La figura di Pietro


La Scuola di Tubinga ha voluto leggere Atti come il tentativo di armonizzare le due anime del cristianesimo primitivo, e cioè l’universalismo di Paolo e la fedeltà rigorosa alla Legge mosaica di Pietro. In realtà Pietro risulta una figura molto più moderata e "liberale" di come venga normalmente dipinta.



  1. Pietro ha sicuramente alimentato la maggior parte delle tradizioni che sono confluite nel vangelo di Marco, rivolto a cristiani di provenienza e lingua greca: non era certamente ostile verso i greci.

  2. È vero che in un primo momento limitò la sua azione evangelizzatrice alla Giudea e alla Palestina: infatti si è mosso solo verso le città della costa poco ellenizzate (Lidda, che è ancora all’interno, e poi Joppe/Jaffa, sulla costa), e – secondo il racconto di Luca – solo per l’invito dei messaggeri del centurione si muove verso la paganissima Cesarea. Tuttavia il fatto che dimorasse a Joppe da Simone il conciatore (9,43) dimostra la sua larghezza di vedute (i conciapelli erano ritenuti "immondi" per il loro contatto costante con i cadaveri).

  3. La maggiore resistenza contro l’apertura dell’annuncio al di fuori del mondo ebraico fu sostenuta in modo rigoroso solo dopo il 44 d.C. In quell’anno Erode Agrippa I fece uccidere Giacomo il maggiore, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni (At 12,2) e Pietro fu costretto ad allontanarsi da Gerusalemme (At 12,17). L’astro nascente della comunità di Gerusalemme divenne Giacomo "fratello del Signore", favorito dal vincolo di consanguineità con il Maestro, e noto per la sua esemplare osservanza della Torah. [A conferma di ciò, in Gal 2,9 Paolo presenta "Giacomo, Cefa e Giovanni" come "le colonne"della Chiesa, e l’ordine nella menzione indica una gerarchia]. Si deve anzi supporre che il suo declino presso la comunità giudeocristiana di Gerusalemme sua stato causato, almeno in parte, dal suo "lassismo" nei riguardi della Torah.

  4. Si può dunque dire che se Paolo fu – suo malgrado, ma con un motivazione teologica che vedremo – l’apostolo dei pagani, Pietro fu l’apostolo degli ellenisti e di tutta la diaspora ebraica, fino a Roma, e Giacomo invece l’apostolo (o meglio, il capo, giacché non era uno dei dodici) dei giudeocristiani di lingua ebraica. Tuttavia, come Paolo non abbandonò mai la sua attività missionaria presso gli ebrei, così Pietro non si è limitato a loro soli.
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Venerdì, 18 Giugno 2004 14:32

La conversione di Saulo

Atti 6-9: il problema degli Ellenisti

di Don Filippo Morlacchi


La conversione di Saulo


Si può presupporla intorno al 33/34 d.C. La sua conversione portò all’"assenso incondizionato alla missione tra i pagani" (Hengel, op. cit., p.114s). Ma non si deve ritenere che la sua conversione sia stata un tradimento della sua fedeltà ebraica. Fu accolto e introdotto alla fede dalla comunità di Damasco. Fu costretto a fuggirne perché si attirò le antipatie dello sceicco nabateo, forse anche a causa dei giudei del luogo, delusi dalla sua trasformazione da fariseo in credente in Gesù. Su lui torneremo tra due incontri.

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Atti 6-9: il problema degli Ellenisti

di Don Filippo Morlacchi


L’attività di Filippo, esempio di missione ellenista

Filippo va dai Samaritani (8,5) e poi verso la città pagana di Gaza (8,26). Va contro il detto di Gesù: "questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: "Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani" (Mt 10,5). Il ministro etiope era invece probabilmente un timorato di Dio (eunuco = non poteva diventare proselito in senso pieno: Dt 23,2); ma forse era ebreo, perché leggeva Isaia? È l’inizio della missione ai pagani. Si tratta di un racconto parallelo (contrapposto?) a quello della conversione di Cornelio (cap. 10), solo che qui l’autore dell’apertura ai pagani è l’ellenista Filippo, lì il gerosolimitano Pietro.

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Venerdì, 18 Giugno 2004 14:29

La persecuzione degli ellenisti (At 8,1)

Atti 6-9: il problema degli Ellenisti

di Don Filippo Morlacchi

 La persecuzione degli ellenisti (At 8,1)

Si sviluppò una persecuzione nei confronti dei cristiani (non è necessario dire giudeo-cristiani, perché ancora non esistevano cristiani che non fossero anche giudei) ellenisti da parte dei giudei grecofoni (At 6,9).

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Atti 6-9: il problema degli Ellenisti

di Don Filippo Morlacchi


Perché il Vangelo ha presa tra i giudeo-cristiani di cultura greca?

Finora abbiamo parlato di "giudeo-cristianesimo" in generale; ma occorre distinguere due gruppi di fondo all’interno dei giudei che hanno creduto a Gesù: quelli palestinesi (di cultura giudaica) e quelli "ellenizzati" (di cultura piuttosto greca, ma sempre giudei).

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Venerdì, 18 Giugno 2004 14:27

I grandi discorsi di Pietro

Atti 2-4: la prima predicazione di Pietro

di Don Filippo Morlacchi


I grandi discorsi di Pietro


Leggendo i discorsi di Pietro in At si può risalire alla formula "originaria" del kèrygma. Altre formule antichissime sono quelle lettere paoline (ad es. 1Cor 15,1-5) che sono sicuramente precedenti a Paolo. Luca mette sulla bocca di Pietro delle parole volutamente arcaicizzanti, con abbondanti e voluti semitismi per cercare di rendere anche letterariamente il tenore dei discorsi petrini. Si tratta di discorsi composti da Luca in conformità ai modelli di predicazione della fine del I secolo in ambiente ellenistico; ma non mancano alcuni elementi precedenti, alcune formule molto antiche: At 2,22-24; 32-33.36; 3,13-15; 4,10-12; 5,30-32.


Si trovano infatti idee non comuni al resto della teologia di Luca: ad es. il concetto che Cristo divenne Salvatore con la sua Risurrezione ed esaltazione alla destra del Padre (non lo fu dal concepimento/nascita, come si direbbe da Lc 1-2): vedi At 2,36. È un’idea teologicamente antiquata quando Luca scrive, ma riporta questo pensiero.


Elementi base del kèrygma primitivo sono:



  1. Contrasto tra la malvagità umana di coloro che hanno ucciso Gesù e la bontà trionfante di Dio che risuscita Gesù suo Servo. Dio si rivela come il vincitore dell’iniquità umana.
  2. L’azione salvifica è l’innalzamento di Gesù alla destra di Dio dopo la morte. Dio si rivela come il vincitore della morte.
  3. A differenza degli scritti seriori, l’annuncio originario non vede la salvezza nella morte di Gesù. Non compare affatto l’idea "morì per i nostri peccati" (1Cor 15,3), ma "è risuscitato per la nostra santificazione". Dio si rivela come datore di vita in Gesù risorto.
  4. Troviamo i più antichi titoli cristologici: servo di Dio (pàis, 3,13) santo e giusto (hàghios kài dìkaios, 3,14) in quanto fede alla missione del Padre; messia (christòs, 2,36) iniziatore della vita (archegòs tès zoès, 3,15; 5,31) salvatore (sotèr, 5,31) signore (kyrios, 2,36) in quanto questa missione è compiuta e porta la salvezza a tutti quelli che si aprono alla grazia del perdono. Dio si rivela come colui che ha affidato la realizzazione della salvezza a Gesù e ora in Lui esaltato continua a salvare il mondo.

I testimoni sono coloro che non tanto testimoniano la risurrezione (sembra quasi un fatto sperimentabile), quanto piuttosto sono garanti del fatto che il Kyrios risorto è proprio quel Gesù che avevano conosciuto prima della pasqua.


I tre discorsi di Pietro sono:



  1. discorso di pentecoste: 2,14-41
  2. discorso al tempio (dopo il miracolo): 3,12-26
  3. discorso davanti al sinedrio: 4,8-12

Ili discorso di pentecoste è tripartito.



  1. Interpretazione escatologica della pentecoste (il presente illuminato dalla fede): 2,14-21
  2. Annuncio cristiano con prove scritturistiche tratte dalla LXX: 2,22-36
  3. Invito alla conversione: 2,37-39

Si rimarca pesantemente la colpevolezza degli ebrei (v. 23); ma non per accusarli, bensì per invitarli al pentimento e al riconoscimento di Gesù come Messia e Signore. L’essenziale è che tutto ciò che è avvenuto, è stato guidato dalla mano di Dio, e anche la morte di Gesù inserita nel piano della prescienza provvidente di Dio (cfr la storia di Giuseppe in Egitto: Gen 45,7-8).


Il discorso al tempio è parallelo al primo:



  1. Fraintendimento del senso del miracolo (fatto da spiegare): 3,12
  2. annuncio pasquale adattato alla situazione: 3,13-16
  3. appello al pentimento e alla conversione: 3,17-21
  4. conferma mediante citazione da Mosè: 3,22-26
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Venerdì, 18 Giugno 2004 14:26

Come leggere la storia degli Atti

Atti 2-4: la prima predicazione di Pietro

di Don Filippo Morlacchi


Come leggere la storia degli Atti


Secondo C.M. Martini, la storiografia degli Atti non procede secondo un modello "lineare" (un processo graduale e quasi inarrestabile, quasi un "crescendo" continuo, un progresso senza soluzione di continuità), ma secondo un modello "critico" (da krìsis, giudizio). "Si tratta delle difficoltà, sofferenze, tentazioni che perennemente la Chiesa deve affrontare. Questo modello, che chiamiamo critico, non si evolve attraverso premesse e conseguenze, secondo una linea di sempre maggiore efficienza, ma si svolge attraverso il ritmo della costruzione e della dispersione, della morte e della rinascita".


Un metodo di questo genere riconosce e coordina i fatti storici secondo una linea logica non puramente orizzontalistica, ma secondo una logica che potremmo chiamare pasquale, che è poi la logica secondo cui è leggibile e accettabile la storia di Cristo e la storia della salvezza in genere (C. Ghidellli).


La prima parte presenta uno sviluppo lineare, nonostante qualche persecuzione contro gli apostoli; poi, a partire dal capitolo 6 inizia la crisi, con il martirio di Stefano. Ma da quello che potrebbe sembrare l'inizio della catastrofe emerge invece una straordinaria ripresa della vitalità della Chiesa. Proprio in questo momento Filippo riprende la predicazione del Vangelo (cap. 8). Altri in Antiochia evangelizzano e fondano una comunità (cap. 11). Intanto, per opera di Pietro, Cornelio e la sua famiglia si convertono: lo Spirito del Signore risorto è vivo ed operante più che mai (capp. 9-10).


Ma ecco di nuovo una crisi, la quale sfocia nella celebrazione del primo concilio, quello di Gerusalemme. Ci sono sì delle conversioni, ma a quali condizioni è possibile ammettere i pagani nella comunità nascente? Non è forse necessario che assumano in pieno la fede mosaica con tutte le sue prescrizioni? Questa problematica, che a noi potrebbe sembrare oziosa, ha portato la Chiesa primitiva sull'orlo della divisione interna. Paolo aveva ravvisato la soluzione: Cristo ci ha liberato, non c'è circoncisione che tenga. È quanto ha capito anche attraverso l'esperienza accumulata durante il suo primo viaggio missionario (capp. 13-14), ma era difficile, per non dire impossibile, farlo comprendere ai cristiani venuti dal giudaismo. Per questo Paolo e Barnaba devono salire a Gerusalemme per un confronto aperto con i fratelli nella fede (Atti 15,1ss), in particolare con Giacomo, rappresentante dei giudeo-cristiani (15,13-22) e per ascoltare la lettura del decreto finale (15,23-29).


Per fortuna, o meglio per intervento dello Spirito Santo (Atti 15,28), la questione viene risolta con buona pace di tutti. Non ci sono vinti o vincitori, ma la verità del Vangelo viene nettamente affermata, la libertà con cui Cristo ci ha liberato viene difesa in modo altrettanto netto, e la carità viene raccomandata a tutti al di sopra di tutto. Ricuperata l'unità essenziale, con l'affermazione di ciò che nella Chiesa è fondamentale e non può essere assolutamente sottoposto alle bizze personali, Paolo, con alcuni compagni di lavoro apostolico, può ripartire per i suoi viaggi missionari (capp. 15-28), che contribuiscono in modo decisivo alla diffusione della Parola di Dio e alla dilatazione della Chiesa.
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Venerdì, 18 Giugno 2004 14:25

Rilettura giudeo-cristiana del NT

Ecclesiologia degli Atti e giudeo-cristianesimo


di Don Filippo Morlacchi


Rilettura giudeo-cristiana del NT


I giudeocristiani, ossia i giudei credenti anche in Gesù messia, erano il nocciolo duro di tutta la Chiesa, e solo dopo furono sopraffatti dai gentilo-cristiani. Al tempo della scrittura di At forse già stavano diventando "minoranza" ("the mighty minority": J. Jervell 1980). Tutto il NT è prodotto non di chiese dei Gentili, sganciate ormai dalla matrice giudaica, ma di Chiese "della Circoncisione" composte di giudeocristiani, o – almeno – di chiese "miste" nelle quali la "potente minoranza" giudeocristiana ha dato l’impronta fondamentale. Difficile dire come e quando questa potente minoranza si stata eliminata o si sia eclissata; certamente era però il gruppo più importante della Chiesa tra il 70 e il 135 d.C. (cioè tra la distruzione del tempio ad opera di Tito e la definitiva sconfitta della guerra giudaica con la riduzione di Gerusalemme alla colonia di Aelia Capitolina), e questi sono gli anni in cui sono stati redatti gli scritti del NT.


Se fino alla metà del secolo lo studio comparativo del Cristianesimo si faceva a partire dalle religioni pagane e dall’ellenismo, con L. Goppelt nel 1954 si iniziò a vedere il giudeocristianesimo non come una dottrina eretica e marginale del cristianesimo, ma come la sua matrice originaria. Dopo di lui J. Daniélou ha studiato a fondo il fenomeno, e gli archeologi francescani della Custodi di Terra Santa (B. Bagatti, V. Corbo, E. Testa) hanno fornito le prove di queste ipotesi, risalendo alla stato pre-costantiniano dell’architettura (ossia prima del Cristianesimo come religione ufficiale dell’impero [Editto di Costantino, 313 d.C.] e dell’uso massiccio di categorie filosofiche mutuale dalla filosofia greca per esprimere i dogmi di fede [Concilio di Nicea, 325 d.C.]). È la c.d. Ipotesi giudeo-cristiana: le comunità giudeo-crisitiane non furono piccole sette devianti, ma la matrice della Chiesa che ha redatto l’intero NT. Se questo è vero, un ebreo non si "converte" ad un’altra religione quando diventa cristiano, ma si "con-verte", si ri-volge al suo Signore, riconosciuto come proprio Messia, Gesù. Il Cristianesimo, rispetto al giudaismo, non è un’altra religione, ma – in una continuità trasfigurata – la pienezza compita del Giudaismo nella persona di Gesù, Figlio di Davide e Figlio di Dio.

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Venerdì, 18 Giugno 2004 14:24

Ecclesiologia degli Atti

Ecclesiologia degli Atti e giudeo-cristianesimo


di Don Filippo Morlacchi


Ecclesiologia di Atti (cfr F. Rossi de Gasperis, Cominciando da Gerusalemme)


Per comprendere At bisogna partire dal fatto che ne è protagonista non una "chiesa" generica, ma la Chiesa di Gerusalemme, madre di tutte le chiese. È la Chiesa dei "santi" (Atti 9,13.41; 20,32; 26,10.18: la traduzione spesso non è fedele); dei "fratelli" (ad es. 1,15-16), dei "discepoli" (ad es. At 9,1.10), dei "credenti" (ad es. At 2,44), dei cosiddetti "natzorei" (At 24,5), del gruppo che si definiva "la via" (Atti 9,2; 19,9.23; 22,4; 24,14.22: spesso è tradotto con "la dottrina"). I "santi" sono consapevoli di essere proprio quell’Israele a cui Jhwh ha fatto le sue promesse, non "un altro"" o "un nuovo" Israele, ma lo stesso, l’unico che essi conoscono. L’evento di Gesù segnava per loro l’ultimo e totalmente compiuto rinnovamento dell’alleanza, il culmine di quell’"alleanza nuova" e di quei giorni che erano stati annunziati dai profeti.


La Chiesa non è un "nuovo" Israele (cfr la "teologia della sostituzione" e la teologia di Matteo secondo W. Trilling, Das wahre Israel): esiste un unico Israele "spaccato in due" da quella spada che è Gesù (la spada che trapassa l’anima di Maria, madre della Chiesa, "Figlia di Sion" simbolo di Israele: Lc 2,25-38). Tale frattura è dovuta al carattere inaspettato del messianismo di Gesù, tanto che i vecchi capi (= il sinedrio) non lo hanno capito né accolto. I Dodici non sono l’inizio di un nuovo popolo, ma sono giudei che diventano capi di Israele, mentre i vecchi capi che hanno rifiutato Gesù (solo loro, non tutto Israele!) vengono ripudiati: la spaccatura avviene all’interno di Israele. L’evangelo di Gesù Messia, per At, è la buona notizia della salvezza destinata, in primissimo luogo, alla casa d’Israele. Tanto che agli occhi dei pagani la questione della controversia tra giudei e giudeocristiani appare una faccenda interna alla religione dei giudei (vedi At 25,18-20). La novità consiste nel fatto che questa salvezza si estende oltre i confini del popolo eletto, come era stato profetizzato.


La Visita di Dio: Lc dà un valore teologico al verbo "visitare" (episkèptomai) e al termine "visita" (episkopè): significa che Dio viene a "visitare il suo popolo" (Lc 1,68) portandogli la salvezza. Gesù stesso è l’episkopè di Dio quando compie il suo viaggio a Gerusalemme. La colpa di Gerusalemme è che "non ha riconosciuto il tempo in cui è stata visitata" (cfr Lc 19,44). Se Gesù è la Visita di Dio ad Israele, la Chiesa è la Visita di Dio alle genti: cfr At 15,14, tradotto "fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome": ma letteralmente sarebbe: "Dio ha visitato le genti per prendersi un popolo per il suo nome".


La figura di Paolo: emerge da At come un perfetto israelita, fariseo zelante anche dopo la sua "conversione" (Atti 16,3: circoncisione; 18,18: nazireato; 21,17-22,5: discorso a Gerusalemme!; 22,17: preghiera al tempio; 23,1-9: davanti al sinedrio; 24,5-21: autodifesa; 25,7-12: davanti a Festo; 26,1-11.22-23.30-32: davanti ad Agrippa; 28,17-23: con i giudei di Roma). In realtà l’"apostolo delle genti" (Rm 11,13) fu, prima di tutto, l’evangelista di Israele e dei giudei della Diaspora. Paolo – come Gesù – evangelizza cominciando sempre dalla sinagoga; nessun passaggio ai pagani è per lui così definitivo da impedirgli di ricominciare, nella città seguente, dalla comunità Israelitica. Questo ritratto di Paolo non è diverso da quello che si evince dalle lettere, se si considera l’evoluzione del suo pensiero, in particolare dopo il concilio di Gerusalemme (48 d.C.): Rm 9-11 è sicuramente più equilibrato nel giudizio su Israele di 1Ts 2,14-16, o Fil 3,2-21, o Gal: si passa dall’animosità dell’apostolo contro chi ostacola il suo ministero all’ipotesi che il suo annuncio sia stato un ostacolo all’accoglienza del vangelo da parte dei suoi fratelli. Il problema pastorale si trasforma in questione teologica: l’indurimento di tutto Israele (Rm 11,26) come mistero di Dio. Dunque: nessun conflitto tra fonti di prima mano e storiografia lucana.

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Venerdì, 18 Giugno 2004 14:15

Teologia universalistica


Ecclesiologia degli Atti e giudeo-cristianesimo


di Don Filippo Morlacchi


Teologia universalistica


At è stato definito "il vangelo dello Spirito", parallelo al "vangelo di Gesù". La struttura organica di Lc + At risulterà evidente se si considera l’importante inclusione costituita dal duplice richiamo di Is 40,5 ("ogni uomo vedrà la salvezza di Dio") in Lc 3,6 (a proposito del Battista) e At 28,28 (a conclusione del libro, citato in maniera sfumata). All’interno di questo percorso che porta da Gerusalemme fino ai confini della terra si costruisce la vicenda degli Atti.


La storia della salvezza è unica: nei discorsi di Stefano, di Pietro, di Paolo, la figura di Gesù viene presentata come messianica attraverso numerose citazioni dell’AT. Gesù è la nuova chiave per spiegare le Scritture di Israele, che non vengono mai rinnegate o ritenute obsolete. È il Dio di Israele che ha suscitato Gesù dalla stirpe di Davide, lo ha inviato come suo servo ai giudei, consacrandolo con l’unzione dello Spirito, lo ha risuscitato dopo l’ingiusta condanna e la morte causata dal rifiuto.


La teologia di Lc-At è alquanto differente da quella di Paolo. Questo ha fatto pensare che Lc non abbia conosciuto direttamente Paolo (dunque le "sezioni-noi" sarebbero un artificio letterario). È vero che si tratta di due pensieri con notevoli divergenze: in primis l’assenza totale in Lc della teologia crucis. Per Lc la croce è un fatto puramente negativo, è il rifiuto del Giusto da parte del popolo eletto. La salvezza viene vista non nella morte, ma nella potenza della risurrezione messa in atto da Dio il "Dio fedele", che non può vedere la sconfitta del suo progetto universale di salvezza per colpa dell’ottusità umana. Il centro di Lc-At non è "Cristo crocifisso" (cfr 1Cor 2,2), ma il Signore risorto e glorioso. Contro ogni gnosticismo, Lc enfatizza la continuità tra Gesù prepasquale e Kyrios risorto. In questo senso Paolo e Luca presentano due facce complementari del modo di intere la salvezza. Ma una sintonia profonda tra i due si trova nell’apertura universale della salvezza: l’espansione del vangelo oltre i confini di Israele e oltre le pastoie della legge mosaica narrate da At sono l’equivalente della chiave di volta della soteriologia paolina: "non c'è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti" (Rm 10,12). O meglio: la priorità dell’antico Israele è custodita dal Dio fedele: "il vangelo è salvezza per ogni credente, del giudeo prima e poi del greco" (Rm 1,16; 2,9s).


Lc ridimensiona l’impazienza apocalittica della prima generazione cristiana, e dà pieno valore al tempo presente, all’"oggi" della salvezza (ad es. Lc 2,11; 19,9; 23,43).

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