Le parole che rivelano le cose essenziali sono semplici e trasparenti. Proprio questa risposta a Qualcuno da l’inizio alla fede. Una chiamata venuta non si sa da dove attira la nostra attenzione. Senza rendercene conto, in modo spontaneo, diciamo sì ai volti, alle ombre, all’odore dell’erba, al grillo dei campi, al fiocco di neve, con una sensazione infallibile che la nostra eco è ascoltata e accolta. Così si forma un legame tra Colui che ci chiama e quella parte dell’io che risponde.
“La fede è sostanza di cose sperate e argomento di cose non viste” (Eb 11, 1). Indefinibile in sé, la si definisce attraverso i beni sperati. Questi beni non sono quei “sì” che diciamo senza accorgercene? La definizione di san Paolo è uno specchio del mistero, dove una sostanza ne riflette un’altra, si trasforma pur restando la stessa. La fede si manifesta nel pensiero che si illumina nella fede. Altrimenti, come avrebbe potuto la Parola di Dio esprimersi in parole umane? E un uomo può trasmettere la sua fede a un altro? La fede ha la sua lingua, universale, une specie di esperanto: la speranza.
Il tessuto della nostra anima, in cui si annidano tutti i “sì” detti al Creatore nella sua opera, diventa un cantiere dove Dio viene a costruire “la sua dimora “(cf Gv 14, 23). La fede è la trasmutazione (e perciò il cambiamento ontologico) della nostra speranza, il sacramento del sì iniziale dato al dono di esistere, che trasforma questa esistenza decaduta, condannata alla morte, in voto di eternità presagita. Non è la paura della morte che ci spinge verso la fede (quelli che trovano la fede partendo psicologicamente da zero possono testimoniarlo), ma la scoperta della pienezza della vita che, con le sue innumerevoli bocche e i suoi innumerevoli occhi, ci parla di Colui che comunica con noi. Il nostro accesso a quella comunicazione, la porta sempre aperta, comincia dalla fede, la cui origine, spesso dimenticata, è la speranza.
Anche se l’uomo la perde? Se vuole distaccarsene completamente? Se sceglie la morte volontaria? C’è un animo umano, che abbia completamente respinto quel demone e il suo richiamo seduttore verso il nulla? Sì, quel nulla, sordo, soffocante, umido, fa parte anche della nostra vita di quaggiù. Il mio amico suicidologo era convinto che anche il tentativo di darsi volontariamente la morte sia in fondo una ricerca disperata di vivificarsi attraverso la morte. Fare qualche cosa per contrastare la speranza, risvegliarla con la nostra vendetta, provocarla con la rivolta, trarla in inganno con la ragione pura e disperata. Il male uccide o profana la vita; esso abita nella disperazione. La disperazione ci mente, benché troppo spesso sia più insistente della speranza, con la sua voce flebile. Ora, “la speranza non delude” (Rm 5, 5); siamo noi che il più delle volte la inganniamo. Talvolta con la morte volontaria, che è il più amaro degli adultèri.
Ora, la speranza, il rimedio contro la morte, fa parte del nostro essere e non si può soffocarla. Costituisce un ponte che conduce dall’altro lato del visibile, del vissuto, del presentito, del pensato, dell’amato. La speranza ci procura quelle specie del nostro mondo interiore che Dio prende e trasforma in un angolino del suo Regno. La fede è un frutto della trasformazione eucaristica, ma, senza i doni che l’uomo offre a Dio, non ci sono sacramenti.
La speranza è il primo di questi doni, il pane e il vino dell’anima, il cibo che diventa comunione, manna che il cielo ci manda. “La speranza, dice Dio per bocca di Péguy, ecco ciò che mi stupisce”, perché non teme di seguire quella fiamma del cuore che squarcia le tenebre della morte e che è anche dentro di noi. E Rimbaud gli fa eco: “Ella è ritrovata./ Che cosa? L'Eternità./ E il mare è andato via / col sole.”[1].
Non è forse un’altra icona della seconda virtù teologale quella che il cielo scrive sull’acqua? Perché il sole che tramonta sulle creature e il Sole di Giustizia, il Salvatore che ci ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa, parlano lingue diverse, ma recano lo stesso messaggio: quello della Risurrezione verso la quale si cammina sulle acque.
Due ombre incombono su tutto ciò che ci circonda: l’ombra della vita eterna e l’ombra della morte eterna. Scegli la vita, dice il Signore. Scegli ciò che la vita promette, la sua pienezza iniziale, uscita dalle mani di Dio. Spesso l’uomo decide la sua scelta senza sapere bene quale delle due ombre sta per seguire. Contesta, si acceca e allo stesso tempo vorrebbe vedere ciò che la vita veramente rivela. Perché “la creazione aspetta con ansia la manifestazione dei figli di Dio” (Rm 8, 19). Non si tratta soltanto degli animali o del mondo vegetale, ma in primo luogo dell’uomo, della sua natura ferita, assoggettata alla vanità, che agisce e geme in lui, che soffre, che vive nella speranza nonostante l’evidenza.
Tutta la creazione si trova in stato di attesa del giorno imperituro, l’uomo per primo. “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, recita il Credo. Ma attendo anche che il mare trovi la sua strada verso il sole, verso la promessa di quella luce che non è stata esaudita nella mia vita di quaggiù. Si tratta di un’altra fede? In questo mondo destinato a perire, ci sono tracce assolutamente infallibili, i sentieri del sole, a misura dell’uomo, della sua capacità di vederli. “Perseverò, come se vedesse colui che è invisibile », dice san Paolo (Eb 11, 27) che sapeva seguire quelle tracce.
La speranza ci introduce nello spazio dove sparisce la frontiera invalicabile tra ciò che è naturale e ciò che è soprannaturale. Qui il posto di controllo che separa due vite e due paesi, quello di quaggiù e quello che ci attira, è abbandonato dai doganieri. Non c’è più censura sulle vie dei pensieri e delle sensazioni, delle intuizioni e dei sogni; i guardiani sono in vacanza, il muro di Berlino è distrutto di nuovo per ogni speranza che si accende. Dall’intera opera di Dio, può partire il sentiero verso quel Sole che in essa è nascosto; in ogni cosa è celata la Parola che l’ha chiamata all’esistenza e che si rivelerà sulla terra nuova, sotto il nuovo cielo. Ogni volta che quella Parola è riconosciuta e confessata, la luce del secolo che verrà diventa più vicina, irresistibile. Così ogni creatura ritorna al suo sì iniziale, a quel segreto che la speranza ci rivela, non con carta e inchiostro, ma “a viva voce”, come dice san Giovanni il Teologo.
Vladimir Zelinskj , teologo russo ortodosso
(testo pubblicato in Rivelami il tuo Volto, Effatà 2010, pp. 177-182)