Vita nello Spirito

Sabato, 18 Agosto 2018 22:08

Il canto del corpo. Saggio su Maurice Bellet (Roberto Taioli)

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L'analisi del corpo passivo è in Bellet la scoperta delle forme della malattia, del degrado, dell'inferno ma rinvia al movimento opposto e  complementare del corpo attivo, alla percezione dell'apertura che svela la presenza di un paesaggio.


Tutto tende a semplificarsi
( Maurice Bellet)

 

Lo si lacera, lo si svelle,
questa stanza in cui noi ci stringiamo è lacerata,
le nostre fibre gridano
 (Philippe Jaccottet)  

 

Una fenomenologia della tenerezza si presenta e si rende possibile come una fenomenologia del corpo vissuto, del Leib precategoriale. Maurice Bellet non usa il linguaggio fenomenologico ma la sua analisi del corpo, assunto   nell'esperienza  lacerante della malattia, rivela un'attenzione verso quel terreno della carne e della sensibilità che è il luogo del nostro abitare e dell 'accordo o del disaccordo con il mondo circostante.

La divina tenerezza è carnale, "sta nelle mani, nello sguardo, sulle labbra, l'orecchio attento, il viso, il corpo intero"(1), si offre nel ritmo cinestetico che è sempre concreto, definibile. Il corpo è una forma ma è al contempo forma mutante, soggetto modificante e oggetto modificato. Il corpo non è nel tempo ma è il tempo che incarna se stesso come eidos, diventando telos, cammino, viaggio. Il viaggio muta il proprio paesaggio che appare sempre diverso all'osservatore, ma anche chi non si muove, chi sta fermo vede un paesaggio che pur restando lo stesso si trasforma ai suoi occhi ora più deboli e fiochi, dandosi come meno percepibile.

La vecchiaia, la malattia sono forme del mutamento del corpo come lo è più radicalmente la morte. Il diario del corpo, quale quello che Bellet tenta, è la trascrizione del mutamento operato dalla malattia, cronaca di un degrado ma anche di una rivelazione, di una abiezione ma anche di un riscatto. Il diario del corpo è reso possibile e scrivibile assecondando il lento svilupparsi del male, spiandone le mosse e esprimendone la voce dal vivo di un letto d'ospedale. La voce del corpo malato è il dolore, l'abiezione, l'umiliazione, la dipendenza.

Il corpo alla prova (2) non si sottrae all'aculeo del dolore ma ne assume tutto lo spessore e l'irruenza per sperimentarsi e nella prova rinascere, riplasmarsi. Il dolore è, usando un termine di Merleau-Ponty, logos selvaggio, carne, natura. La rimozione del dolore è così rimozione della più piena e vera umanità. La divina tenerezza è accoglienza, ascolto della propria carne e, al livello più alto, intersoggettività. Così Bellet parla di questa straordinaria scoperta: "Il mio vicino (scilicet: di letto in ospedale)  è un algerino di 76 anni... Tutto ci divide: la religione, la cultura (come si dice), il genere di vita, le preoccupazioni. Ci parliamo... Io sono stato il prossimo di quest'uomo e lui il mio. Molto più di altri con cui parlavo di mistica o di filosofia" (3).

La divina tenerezza è in un certo senso il tessuto precategoriale dell'intersoggettività dove tutto si fa semplice. Essa è irreale e impossibile, "contraria all'ordine del mondo" (4), perchè sfida la banalità ordinaria, la finzione, la menzogna. E' irreale perchè la realtà non è mai data come assoluta ma sempre nella rete del modale e quindi dellla nuova possibilità. Se leggiamo la Quinta meditazione cartesiana di Husserl come poema filosofico dell'intersoggettività, troviamo la presenza dell'altro e del corpo come fondamento primordiale, tessuto dell'evidenza. "L'altro, dice Husserl, per il suo senso costitutivo, rinvia a me stesso; l'altro è rispecchiamento di me stesso e tuttavia esso non è propriamente un rispecchiamento, un analogo di me stesso, né addirittura un analogo in senso comune"(5). L'ego corporeo avverte in sè l'"esperienza dell'"estraneo"(6) al di dentro, dice Husserl, della sua stessa appartenenza, come carne di sè e proprio destino.

L'analisi del corpo passivo è in Bellet la scoperta delle forme della malattia, del degrado, dell'inferno (7) ma rinvia al movimento opposto e  complementare del corpo attivo, alla percezione dell'apertura che svela la presenza di un paesaggio. Non il "soggetto come solitudine"(8) ma nelle sue relazioni primordiali, nella "relazione con le cose"(9), nella depresentazione, intesa husserlianamente come una modificazione della presenza, un decentrarsi dell'ego che nel suo movimento compare in altri ego, si intreccia in altre presenze. L'ego è corpo, carne, animalità, governato dal bisogno, impiantato in un ordine necessario,  la cui soddisfazione è tuttavia già un movimento, un aprirsi all'altro e all'ambiente circostante, in un modo tale per cui io esisto e sopravvivo anche in quanto cerco e trovo fuori di me lo scambio energetico, l'insieme delle risorse indispensabili. Respirare, bere, mangiare, orinare, andare di corpo, dormire sono, dice Bellet, gli "stretti bisogni"(10), il tessuto di ciò che Merleau-Ponty chiama  il corpo libidinale, inteso come "sistema universale dentro-fuori"(11).

Esse sono le forme dell'assumere e del restituire, del riempire e del vuotare e, nella modalità del dormire, insieme dello svuotamento e del riempimento, dell'epochè che annulla il mondano consentendo l'emergere del sonno, l'installarsi di una percezione più profonda, radicale, capace di riconnetterci ai fili misteriosi della nostra animalità, al tessuto precategoriale del mondo-della-vita. "Il corpo che duole - scrive Bellet - ricorda brutalmente la sua animalità che lo sottomette ai bisogni organici" (12), evidenziandone così la dipendenza nella riduzione all'essenziale o al semplice.

E tuttavia il corpo che è rete di bisogni, è anche qualcosa d'altro, un surplus di senso non descrivibile nell'insieme delle appetizioni. Questo senso è per Bellet la funzione amorosa del corpo che "è oltre, verso ciò che supera la mia vita, verso coloro che nasceranno dopo di me"(13), in una forma di Einfuhlung  che non è più solo biologica ma teleologica, aperta ad una planetarietà di senso e di responsabilità non lontana dal principio-responsabilità di Hans Jonas (14).

Questa funzione amorosa del corpo Bellet chiama la divina tenerezza che riguarda il corpo carnale ma anche il corpo spirituale, il metacorpo che è sintesi armoniosa di materialità e intenzionalità, di necessità e volontà. Ma la volontà offre di sè una duplice immagine. La prima è strumentale, applicativa, l'altra è dolce, maieutica, semplice come il principio del non-agire (wu-wei) del taoismo, "vuole senza volere, lascia andare, accetta la stanchezza, non si irrigidisce di fronte all'inevitabile"(14), asseconda cioè il ritmo naturale di svolgimento degli accadimenti, come in una lunga traversata, termine 'chiave' nel pensiero di Maurice Bellet. La traversata è essenzialmente il cammino verso il semplice, il superamento-annullamento dell'inutile, del vano. Bellet dice, con parole poeticamente avvolgenti, che bisogna liberare la vita da ciò che "la strazia e l'acceca" (16) e quindi ricostituirla nell'esercizio incessante e paziente della donazione di senso.

L'epochè concretamente operante nel teatro quotidiano, è un togliere e un donare, un rimuovere ciò che è falso, marcio, malato per riaprire al di là di questo la strada alla ricerca della verità e del significato. Il ritorno al semplice è il ritorno all'origine di ogni uomo, al suo nucleo monadico irriducibile, all'essenza. Ma ciò che è essenziale si rivela a noi dopo la riduzione perchè prima era nascosto, negato. Come il male esiste in rapporto al bene in quanto ne rivela la negazione e la morte, la malattia installata nel corpo è rivelatrice e orientatrice perchè segnala la presenza di uno squilibrio, di un disagio. 

L'ascolto del corpo e del suo linguaggio, la decifrazione del suo alfabeto, non è solo compito del medico titolare di una competenza scientifica ma prima ancora del soggetto che percepisce il male in se stesso avvertendone la totalità e pienezza, mettendosi in discussione. La malattia può diventare allora, pur nella sua crudezza, occasione di scoperta e di apertura, di affermazione di una più piena e autentica umanità. Ci insegna un'etica dello spossessamento, allontanandoci dal senso di proprietà e di dominio come chiavi di volta dell'esistenza. Questo canto del corpo che pur piegato e sofferente annuncia e testimonia la vita  nella sua nudità ed essenzialità, che "evoca e si riallaccia al primo canto, quando l'uomo si è svegliato al mondo, dovremo farlo accadere in questo universo dove la fisica ha spazzato via i sogni" (17).

Il canto del corpo è nell'ordine empirico e al contempo oltre il suo perimetro. E’ irreale nel senso fenomenologico di una realtà che esiste in quanto  sempre si nasconde e si svela nel movimento intenzionale. Il corpo c'è nel suo negarsi e consumarsi nell'esistenza e tuttavia rinascere dalla deiezione che lo assedia e in cui pare sprofondare.

Lo statuto del corpo è duale: esso appare come una cosa tra le cose ma in realtà non lo è. Esso è piuttosto luogo di una relazione e di un rinnovato incipit che non lo assoggetta se non parzialmente alla condizione di forza strumentale, arnese, organismo. Il suo essere sempre oltre, proiettato al di là della passività in cui di volta in volta si presenta, lo restituisce ad una vitalità che non è più solo animale ma umana e più radicalmente intersoggettiva, relazionale. Questo tessuto non assiste alllo spettacolo dell'impossessamento che è negazione dell'intersoggettività e distruzione della stessa possibilità della relazione.

Questo ci sembra anche il senso del triplice movimento  evocato da Bellet, un cammino  dal chiuso all'aperto, dalla separatezza all'unità passando attraverso il crocevia dell'amore, punto d'arrivo e di continua ripartenza (18). L'amore è sostanzialmente una visione, un accorgersi dell'altro, appartiene alle modalità del guardare, del curarsi di..., dell'osservare. Non diversamente fa Monsieur Périer, protagonista del romanzo I viali del Lussemburgo, quando dopo un lungo e sofferto itinerario di scoperta e di esercizio al vedere e all'uscire da sè, trova "un essere umano, risvegliato nella tenebra dei mondi muti, una parola arditamente gettata sopra il grande vuoto, uno sguardo per uno sguardo, un volto per un volto..." (19).

L'offrirsi in primo luogo come carne debole e fragile è l'abbandonarsi alla propria finitezza, "cancellarsi, non pesare in nulla, farsi vuoto" (20), non lontano dal principio del wu-wei del tao e all'impermanenza del buddhismo. Così Bellet recupera tra l'altro i temi della gratuità e dell'offerta, coessenziali a tutte le religioni, legame tra i punti più altri della speculazione dell'Oriente e dell'Occidente. Il gratuito è l'inutile, il non-economico, in non-finalizzato, l'assunzione della propria carnalità come "corpo di terra e corpo di luce"(21), uomo attraverso la donna e donna attraverso l'uomo.

Femminile e maschile non come centri di una irresolvibile alterità ma toni del corpo e voci del corpo che si parlano e si abitano, come la malattia coesiste e abita sottesa e fungente in un organismo sano. L'abitare, dice Bellet con risonanze heideggeriane, è vivere il mondo non per farne oggetto dei nostri fini.. Ma per questo è necessario il grande scarto: il nostro corpo appartiene a tutta l'umanità e tutta l'umanità è in esso riflessa. Ogni corpo è tutto il mondo pur restando uno e irripetibile, differenziato e singolare. Universale e singolare si toccano.

Una filosofia del toccarsi e del riconoscersi o meglio ancora dell'incontrarsi, passa attraverso l'emergenza della corporeità dell'altro e il suo pieno riconoscimento, prima ancora che nelle forme giuridiche del diritto, nella carne precategoriale del grande mare dell'umanità di cui siamo parte. "O poema perduto! O viso sepolto sotto le montagne di cenere!"(22), scrive Maurice Bellet parlando dell'uomo entità  corporea, husserlianamente in carne ed ossa, abitante del grande altrove (23), versante inaudito dell'esistenza umana. Ernesto Balducci avrebbe parlato a questo punto di carattere inedito (24) dell'uomo che ancora non si è espresso pienamente ma che vive allo stato fungente, imbozzolato e intrappolato nelle categorie del dominio. Non diversamente Bellet parla dell'ascoltare come "ascoltare al fondo di sè il più nascosto"(25), portare alla luce ciò che è più intimo, avviluppato e inespresso, risveglio della parola come aurora e segnale di una comunione universale.

Tutte le scienze umane si pongono sulla soglia preliminare, all'entrata, prima della riflessione. Il corpo irrompe dal canale dell'ascolto, supera le sponde che vorrebbero contenerlo, frenarlo. Una scienza del corpo segue e non precede la sua presenza. Ma il corpo si muove nello spazio di una pre-scienza, in una regione precategoriale dove lo schema non è ancora schema e organizzazione ma tensione, torsione, figura.

L'abbozzo di analisi del corpo proprio in Bellet parte da qui, dal riconoscimento del corpo di contemplazione come luogo non della inerte giacenza ma della parola totale, dell'offerta della sua interezza senza mediazione e riflessione.  Il corpo è così dono, "fuori da quella riduzione materialista nella quale ci troviamo tutti” (26), che è il guardare il corpo come oggetto oggettivato, cosa, passività.

Saltano così le contrapposizioni tra materiale e spirituale, frutto di una abitudine dicotomizzante, in quanto essi si intrecciano e si impastano senza posa. Non ci può essere corpo senza carne ma non c'è carne senza la tenerezza che ne accarezzi e ricomprenda la piena presenza. Essa anzi, dice Bellet, viene prima, in principio, come forma del kairòs, il tempo propizio che spezza l'inerzia del tempo lineare. Il corpo tenero è così il corpo vissuto che si palesa nella condizione relazionale, che appare come sede di un incontro e non di una funziome, come luogo dell’abitare e afferrare la vita e, se leggiamo Philippe Jaccottet, a “ immagine del cielo” (27).

Roberto Taioli
 
Note

1)  M. BELLET, L'épreuve ou le tout petit livre de la divine douceur, Desclée de Brouwer, Paris 1988, trad. it. Il corpo alla prova o della divina tenerezza, Servitiun editrice, Sotto il Monte (BG) 1996, p. 10.  D'ora in poi CP.
2) Qui l'espressione che dà il titolo al libro, è assunta nel significato husserliano di corpo proprio (Leib) e non Korper, il corpo-cosa inerte che si pone come resistenza e limite alla mia prassi.
3) CP, cit., pp. 36-37.
4) Ibidem, p. 49.
5) E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, trad. it. di F. Costa, Bompiani, Milano 1960, p. 104.
6) Ibidem, p. 104.
7) Vedansi le considerazioni di Bellet sulla stanchezza come annichilimento totale dell’essere, eclissi, degrado, grande torpore etc. in CP, cit., pp. 33-34.
8) M. BELLET, Incipit o dell’inizio, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG) 1997, p, 28. D’ora in poi IN.
9) IN, cit., p. 28.
10) Ibidem, p. 28.
11) M. MERLEAU-PONTY, La natura, ed. it. a cura di M. Carbone, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, p. 398.
12) CP, p. 23.
13) CP, p. 24.
14) H. JONAS, Il principio responsabilità, trad. it. di P. Rinaudo, Einaudi, Torino 1990.
15) CP, p. 28.
16) IN, p. 33.
17) Ibidem, p. 43.
18) p. 55.  
19) M. BELLET, Les allées du Luxembourg, Desclée de Brouwer, Paris 1966, trad. it. I viali del Lussemburgo, a cura di G. J. Forzani, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG) 1997, p. 100.
20) IN, cit., p. 56.
21) Ibidem, p. 60.
22) CP, cit., p. 61.
23) Ibidem, p. 61.
24) E. BALDUCCI, La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Edizioni cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI) 1992, p. 42.
25) CP, p. 61.
26) Ibidem, p. 82.  
27) P. JACCOTTET, Paesaggi con figure assenti, trad. it. di F. Pusterla, Armando Dadò Editore, Locarno 1996, p. 132.

Letto 1598 volte Ultima modifica il Sabato, 18 Agosto 2018 22:34
Fausto Ferrari

Religioso Marista
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