di Giacomo Grasso, o.p
Le parole del titolo sono di Dante Alighieri. Le ha scritte nella Commedia. Siamo agli inizi del XIII secolo. Lì chi le pronuncia è Catone l'Uticense, I secolo avanti Cristo. Si uccise. Dunque Dante lo mette nell'Inferno, ma a custodire le porte del Purgatorio. Si uccise per non perdere la sua libertà, e perché non cessasse la libertà del Senato romano. Dunque è quasi salvo. Nel VI secolo dopo Cristo, un filosofo, un vero filosofo, Severino Boezio scrisse il De consolatione philosophiae.
Di come possa consolarti la filosofia che ti rende libero, anche se in prigione. Lui politico, ma soprattutto vero filosofo, fu trucidato in carcere. Per non rinunciare alla verità, che in qualche modo vive della libertà, Tommaso More, grande avvocato amministrativista e Cancelliere d'Inghilterra, nel XVI secolo, fu decapitato per ordine del suo re, a Londra. In nome della libertà, della fraternità e dell'eguaglianza si è scatenata la Rivoluzione francese. Nel 1789. È una teologia della libertà quella che scorre tra le righe della Leggenda del Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov di Fedor Michajlovic Dostoevskij. Un sapiente medievale, san Tommaso d'Aquino (1225-1274), scrive, più o meno nel 1272: «L'uomo è la fonte delle sue azioni. Ha infatti il libero arbitrio e potere sulle sue azioni», e ancora: «È proprio della creatura razionale tendere al fine, come chi agisce e si auto-conduce al fine. La creatura irrazionale, invece è mossa e condotta da altri» (Summa theologiae, Prima Secundae, Proemio e questione 1, articolo 2°). Lo aveva già scritto Aristotile, IV secolo avanti Cristo, scrivendo a suo figlio Nicomaco, nell'Etica Nicomachea. Da parte sua san Paolo, I secolo dopo Cristo, ha detto varie cose della libertà (in greco eleutheria). Così nella Lettera ai Romani, 8, 21 scrive: «La creazione stessa attende... di essere lei pure liberata... per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio». E nella Lettera ai Galati, 5,4: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi». Nel mondo ebraico di libertà avevano già parlato i profeti, e sullo sfondo c'era pur sempre la liberazione del Popolo di Dio dall'Egitto. Così Geremia, VII secolo avanti Cristo afferma, in Ger 34, 8. «Questa parola fu rivolta a Geremia dal Signore…, di proclamare la libertà degli schiavi». Dunque il mondo ebraico, quello greco-romano, quello medievale, il secolo dei Lumi che inizia in fondo dall'umanesimo, sanno dell'importanza della libertà.
E ognuno di noi, e quanti ci circondano, sappiamo di questa importanza. Ma c'è un ma. «Che cosa è la libertà?», chiedo ad Emiliano, e a Federica. Mi rispondono allo stesso modo: «Si è liberi quando si può fare quel che si vuole». «Bravi! La risposta è assolutamente esatta». Emiliano vuol aggiungere qualcosa. «Dì pure». Ed Emiliano: «Sia però chiaro. La mia libertà finisce dove inizia la libertà di un altro. La mia libertà non deve conculcare nessuno. Altrimenti diventa violenza, libertinaggio, e io divento un liberticida». «Merlo! – rispondo -, se dici così, uno, distruggi la splendida definizione che hai dato di libertà che è tale solo se assoluta, secondo, fai degli altri i tuoi nemici. Quelli che castrano la tua libertà e te stesso. Non a caso Sartre, filosofo e letterato francese, 1905-1980, affermava che l'inferno sono gli altri». A questo punto Emiliano, e con lui Stefano, Enrico, Paolo, Vittore e cento altri escono di scena, e così Federica, Caterina, Eugenia Carola e cento altre.
Rifletto da solo. Perché la libertà è fare quel che si vuole, in assoluto? Stiamo analizzando il termine libertà ma nella frase che la definisce sono entrati due verbi. Il verbo «fare» e il verbo «volere». Vanno esaminati da vicino. Cominciamo con «fare». È evidente che non riguarda il campo unicamente fisico. Io non sono in grado di fare un cerchio quadrato. Non sono in grado di fare un paio di pattini di burro. Non servirebbero. Questi limiti fisici, però, non limitano la mia libertà. Sono però un campanello di allarme. Il «fare» della mia definizione riguarda, invece, l'ambito etico. Per questo i medievali distinguevano il facere dall'agere. Il primo corrisponde al costruire qualcosa, da un mattone alla Cupola di San Pietro, da uno scarabocchio su un foglio a Guernica di Pablo Picasso. Il secondo corrisponde all'azione morale, all'aiutare un altro o strattonarlo, e così via. In riferimento alla libertà il «fare» è detto dell'agire morale. E «volere»? Il «volere» è una spinta della pulsione intelligente. La spinta della pulsione intelligente non può che essere verso un bene, o, comunque, verso qualcosa che io ritengo un bene. Tutto il mio essere psicofisico tende sempre al bene. Anche chi calunnia tende al bene, calunniando ne ha un intimo piacere. Fatti come siamo fatti, cioè esistendo, non può che essere così. Anche il male più grande non è che una modesta privazione di bene. L'universo è una tale massa di bene da non rimanere scosso da un po' di latte che diventa acido, e neppure da un ragazzo che muore in Iraq. Se poi ci volessimo proiettare in quell'immensità infinita che è Dio, mille anni davanti al Signore sono come il giorno di ieri che è passato (cfr. Sal 90, 4), e allora anche un male assai grande sarebbe ancor più identificabile con una piccola privazione di bene.
Dunque «volere» è «volere il bene». Non a caso si identifica con «amare». Carlo preferisce dire a Carlotta: «Ti amo», Maria preferisce dire a Ludovico: «Ti voglio bene». Tutti noi confermiamo. I due dicono la stessa verità.
La difficoltà, a questo punto, non nasce dalla libertà che è assoluto desiderio di fare quel che si vuole, ma dal capire cosa è bene e cosa è male. La difficile libertà non è tale, cioè difficile, a causa della libertà. È difficile perché si tratta di discernere cosa è bene e cosa è male. Il discernimento, però, è possibile. È bene ciò che è totale, male ciò che non è totale perché privato di qualcosa che è bene totale. Dunque è male ciò che è privo di qualcosa che lo renderebbe bene. Una pentola è un bene. Se è bucata diciamo: «non è più buona». Un ragazzo e una ragazza si conoscono in discoteca. Sono arrivati con amici alle undici di sera. Dopo un po' si sono casualmente conosciuti. Hanno smesso di ballare.Verso le due il ragazzo pensa: «Vedi un po' che ci sta». E dice alla ragazza: «Andiamo, vieni a casa mia. Ho un monolocale». Il bello è che lei ci sta davvero. Tutti e due hanno venti anni. Sono lontani dagli intrighi. A casa di lui fanno all'amore. E bene o è male? Se glielo chiedessi mentre lo fanno ti direbbero che è bene. E lo è davvero, e non solo fisicamente, ma anche spiritualmente, perché sono presi dall'amore, che è volontà di bene. Solo che dopo due ore tutto finisce, e quello che poteva essere una totalità buona, e che tale era durante l'esercizio, finisce. La mancanza di bene diventa enorme. Quello che era un tutto non è più neppure un frammento. È un bene privato di qualcosa. Un male. La gestualità fisica considerata è un male perché privata di tutte quelle colleganze che richiede per essere totale. La stessa gestualità, compiuta però da due sposi, è un bene perché è una totalità inserita in una totalità. È davvero il tutto nel frammento.
C'è ancora qualcosa da dire della libertà. Ed è questo. La libertà non è un monolite. Ha diverse componenti. E ci devono essere tutte, altrimenti non è libertà. È libertà da. Dalle catene e dai condizionamenti psichici, sociologici, eccetera. È anche libertà per. Sono libero per raggiungere il fine che mi propongo, per servire gli altri, per, eccetera. Non solo. C'è la libertà come libero arbitrio, fare quel che si vuole, e la libertà come perfezionamento, fare quel che si vuole facendo il bene. Si è già detto qualcosa delle due. E così finisco.
PS.: una precisazione. Quando uso il termine «assoluto», lo uso come tale per l'uomo. Non si tratta, cioè, di un «assoluto-assoluto», ma di un «assoluto-relativo», perché l'uomo è creatura e partecipa dell'essere divino, ma limitatamente.
(da Servire. Rivista Scout per educatori, n. 1, gen-mar 2005, pp. 16-18)