Vita nello Spirito

Sabato, 13 Marzo 2010 21:21

Se uno mi apre... Libertà e malattie della libertà nell'esperienza cristiana (Giuseppe Grampa)

Vota questo articolo
(0 Voti)

La malattia della libertà è il peccato. Ma la possibilità di peccare ha in sé il proprio correttivo che è la libertà stessa: possiamo liberamente scegliere di seguire Cristo.

di Giuseppe Grampa

 

«Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me». La breve parabola di Apocalisse 3,20 racchiude i due tratti essenziali dell'esperienza religiosa: l'iniziativa di Dio che viene alla nostra porta e ci sollecita. Il ruolo decisivo della nostra libertà che ascolta e, se vuole, apre. Ma è possibile che il cuore non ascolti e che la mano non spalanchi la porta. È possibile che la libertà sia malata...

L'uomo è il suo cuore

L'esperienza religiosa ebraica e cristiana conosce la libertà dell'uomo perché ne riconosce la coscienza  alla quale Dio si rivolge perché liberamente accolga. Vuol dire allora che il cammino dell'uomo non è quello di un corpo inerte dominato da una forza più grande di lui. È il cammino di un cuore che liberamente si apre, di un orecchio che liberamente ascolta: «Beati coloro che ascoltano la Parola e la mettono in pratica» (Lc 11,28). Nel linguaggio dei due Testamenti un termine - cuore - esprime bene il ruolo della nostra coscienza e della sua libertà. Per la Bibbia cuore non indica tanto il muscolo cardiaco quanto ciò che di più intimo e segreto c'è nell'uomo: «L'uomo infatti vede il volto, Dio scruta il cuore» (1Sam 16,7). Dio viene spesso definito: «Colui che scruta i cuori» (Prov 24,12). Prov 23 indica nel cuore l'uomo stesso:  «Figlio mio, se il tuo cuore sarà saggio»… 15, «Il tuo cuore non abbia invidia per i peccatori»… 17, «Indirizza il tuo cuore sulla retta via»... 19, «Figlio mio dammi il tuo cuore»... 26. Il cuore indica la sede dei sentimenti, dei desideri, il potere di decisione dell'uomo: «Tutto ciò che hai in cuore va', fallo pure» (2Sam 7,3); «Dio ti conceda secondo il tuo cuore, e tutti i tuoi piani egli compia» (Sal 20,5); «Il cuore dell'uomo decide della sua condotta, ma il Signore dirige i suoi passi» (Prov 16,9). Il cuore è la sede della nuova alleanza con Dio: «Questa sarà la mia alleanza che io concluderò... porrò la mia legge nel loro intimo, la scriverò nel loro cuore, sarò il loro Dio ed essi il mio popolo» (Ger 31, 33-34).

«Darò loro un altro cuore, porrò nel loro intimo uno spirito nuovo, strapperò dal loro corpo il cuore di pietra per dare loro un cuore di carne» (Ez 11,19-20; 36,25-32). Il Nuovo Testamento pone con forza la centralità del cuore, ovvero il principio dell'interiorità come decisivo: «Ascoltate e cercate di capire. Non è ciò che entra nella bocca dell'uomo che può farlo diventare impuro. Piuttosto è ciò che esce dalla bocca: questo può far diventare impuro l'uomo… Perché è dal cuore che vengono tutti i pensieri malvagi che portano al male.. sono queste le cose che fanno diventare impuro l'uomo» (Mt 15,10-11.18-20). È nel cuore dell'uomo che viene seminata la Parola: Mt 13,19. Per questo: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). Qui purezza di cuore non indica solo la virtù della castità, bensì una vita totalmente limpida, non torbida ma aperta a Dio. E ancora: «Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera» (Rom 2,28). «Dio che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro (i Pagani) concedendo anche a loro lo Spirito Santo come a noi e non ha fatto nessuna discriminazione tra loro e noi purificando i loro cuori con la fede» (At 15, 8-9). Il cuore è decisivo per l'accoglienza della Parola. Basti pensare ai rimproveri di Gesù alla durezza di cuore. Tale durezza è uno degli ostacoli più grandi alla fede: una sorta di calcificazione, di pietrosità, di callosità del cuore (Mc 8,14-21; 8,32ss.; 9,30ss.); pensiamo al rimprovero ai discepoli di Emmaus: «Stolti e duri di cuore a credere...» (Lc 24,13). E per contro l'invito insistente da parte di Gesù ad ascoltare e a capire (Mc 7,14; Mt 13,51).

Il seme e i terreni: la libertà è esposta al rischio

Conosciamo la parabola del seminatore e dei diversi terreni, ci aiuta a riconoscere le malattie della libertà.

«Disse Gesù:... intendete la parabola del seminatore. Tutte le volte che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l'uomo che ascolta la parola e subito l'accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della Parola egli ne resta scandalizzato. Quello seminato tra le spine è colui che ascolta la parola, ma le preoccupazioni del mondo e l'inganno della ricchezza soffocano la Parola ed essa non fa frutto. Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende, questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta» (Mt 13).

La spiegazione della parabola pone l'accento sui terreni ossia sulle condizioni di accoglienza del seme. Tali condizioni possono impedirne la fecondità o favorirla. È il ruolo della nostra libertà di fronte ai doni di Dio. Sant'Agostino scrive: «Colui che ha fatto te senza di te non vuole salvarti senza di te». Dinanzi a Dio non siamo né passivi né irresponsabili. Dipende da noi che il seme abbia le condizioni migliori per la sua fruttuosità.

Ma dentro la coscienza e attorno ad essa molteplici sono le possibilità di malattia. La spiegazione della parabola ci aiuta a riconoscerne alcune.

Il peccato: malattia della libertà

L' esperienza del peccato indica la nostra terribile capacità di perderci, di sbandare, di deviare. Ma anche d'essere ritrovati, salvati, perdonati.

L'uomo religioso sta di fronte a Dio consapevole di non essere degno di..., non essere all'altezza, eppure cercato instancabilmente da Colui che non vuole la morte del peccatore ma che viva.

Si intrecciano nel cammino religioso la consapevolezza - amara - del nostro peccato, ma non nella disperazione o nell'indifferenza, bensì nella certezza - dolce - che c'è Qualcuno che aspetta solo di fare festa perché il perduto è stato ritrovato.

Questa consapevolezza ha trovato il suo canto più intenso nel Salmo 50, «Miserere». Charles de Foucauld pregava così: «Grazie, mio Dio, per averci dato questa divina preghiera del Miserere. Questo Miserere che è la nostra preghiera quotidiana... Esso parte dalla considerazione di noi stessi, e della vista dei nostri peccati e sale fino alla contemplazione di Dio».

Tra i molti testi soffermiamoci sulla parabola stupenda di Luca 15,11-32. È la parabola denominata: Il figlio prodigo. Eppure questo titolo non è esatto. Punta l'attenzione sul figlio sbandato, mentre il vertice della parabola è il Padre. Sarebbe meglio indicarla così: il padre prodigo di misericordia verso il figlio peccatore.

Dividiamo la parabola in diversi momenti.

1.: è l'elemento fondamentale, il padre che aspetta sempre, il padre che noi possiamo abbandonare, tradire.

2.: è il giovane figlio che se ne va. Quando la Bibbia parla del peccato usa immagini significative: la freccia che manca il bersaglio, il gregge che si svia dal sentiero, il figlio che tradisce l'amore paterno,  lo sposo o la sposa che rompono il vincolo di fedeltà. Spesso Gesù per indicare il peccato usa la parola «adulterio». Non perché questo sia l'unico o il principale peccato, ma perché in ogni peccato c'è il venir meno ad un legame d'amore, un voltar le spalle a qualcuno che ci ama. Anche Davide riconosceva: Contro di te ho peccato. Il peccato è sempre nei confronti di qualcuno, nei confronti di Dio e dei fratelli.

3.: la conversione. Il giovane «rientra in se stesso» cioè interroga la sua coscienza e decide di far ritorno.

4.: di nuovo il padre che spia l'orizzonte, vede il figlio, gli va incontro, lo accoglie, lo perdona, lo festeggia.

5.: è ancora al centro il padre accanto all'altro figlio che rappresenta coloro che non sanno perdonare, ma solo giudicare, condannare.

Per capire questa parabola dobbiamo guardare allo stile di Gesù: il suo mangiare con i peccatori e il dichiarare di essere venuto per i malati, il gesto di Gesù che si invita nella casa di un peccatore incallito come Zaccheo, la chiamata di Matteo un uomo poco raccomandabile, il dialogo con la Samaritana - donna di facili costumi - alla quale riserva il suo più lungo colloquio. Pensiamo alle guarigioni compiute da Gesù e che sono segno della sua misericordia per l'uomo. Le parole e l'agire di Gesù sono la rivelazione del volto di Dio.

L'esperienza del peccato è possibile solo in un uomo libero, responsabile di sé. Ad un robot o ad un burattino non si possono imputare colpe. L'esame di coscienza è uno dei gesti più alti della vita perché ci fa toccare con mano la nostra libertà. L'uomo peccatore è un uomo libero che non è «programmato» in anticipo, non è rigidamente determinato dall'ambiente, dalle abitudini, dai conformismi. Poter dire 'mea culpa' vuol dire poter riconoscere la propria libertà.

Il peccato ci rivela un volto di Dio «alleato», «amante», interessato a noi. Solo chi ha scoperto il volto di Dio carico di amore e si sottrae a questo amore può essere detto «peccatore». Prima di confessare i nostri peccati dobbiamo sempre confessare, cioè riconoscere, quanto Dio ci ama. È solo sullo sfondo di questo amore che si riconosce il nostro peccato. Chi non ha un traguardo da raggiungere può «vagabondare», «girovagare». Ma noi abbiamo una meta verso la quale andare e per questo se volontariamente la manchiamo siamo in peccato. Solo se la vita non ha traiettoria, non ha un fine, allora non ha senso interrogarsi sulla qualità dei miei atti.

Ma il peccato non è l'ultima parola. San Paolo dice: «Dove abbondò il peccato, lì sovrabbondò la grazia» (Rom 5,20). Possiamo dire che Dio offre a tutti, sempre, la possibilità di fare ritorno...

Perdonare, guarire la libertà

È interessante notare come la tradizione cristiana abbia preso sul serio la condizione dell'uomo peccatore rifiutando le posizioni fanatiche di coloro che pretendevano di estromettere da essa i peccatori. Più volte, contro queste tendenze - l'eresia catara, dal greco katharos cioè puro - la chiesa ha ripetuto che le parole che diciamo nella preghiera «Rimetti a noi i nostri debiti» descrivono la nostra condizione, quella appunto di «debitori» nei confronti di Dio.

Molteplici testi del N.T. ci dicono questa consapevolezza della prima comunità d'essere responsabile del ricupero del peccatore, anche ricorrendo ad una sua esclusione in vista del pieno ricupero: 2 Cor 2,5ss.; Gal 6,1; 2Tess 3,14; Giac 5,19; 2Tim 2,25. In una parola la Chiesa non ha dimenticato d'essere il campo in cui crescono insieme grano e zizzania. Il tempo della chiesa è il tempo della pazienza di Dio, come è attestato dalla paraboletta di Lc 13: al fico infruttuoso è dato «ancora un anno». Questo tema ha trovato una ampia ripresa nella Costituzione conciliare Lumen Gentium (cap.VII): la chiesa è adorna di santità imperfetta, è sempre bisognosa di purificazione, mai tralascia la penitenza e il rinnovamento, non cessa di rinnovare se stessa.

(in Servire. Rivista scout per educatori, n. 1, gen-mar 2005, pp. 7-11)

Letto 3460 volte Ultima modifica il Domenica, 31 Ottobre 2010 20:17
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search