L’atto di vestire la nudità dell’inizio e della fine della vita pone l’intera esistenza umana sotto il segno della cura che un altro (a partire dalla madre) ha e manifesta per noi.
Il vestirsi è un’arte che il bambino impara grazie alla madre che lo veste; l’anziano poi deve spesso farsi aiutare a vestirsi e a svestirsi. E durante l’esistenza sono le situazioni di povertà e di miseria che possono spogliare dei beni e ridurre alla nudità. Una nudità che significa non solo esposizione alle inclemenze del tempo, ma anche umiliazione, indegnità, inermità, assenza di difese, pericolo. La nudità è abbandono allo stato di natura, mentre il vestito è opera di cultura e distingue l’uomo dagli animali. Questo passaggio dalla natura alla cultura è ben espresso nel romanzo di Daniel Defoe La vita e le avventure di Robinson Crusoe quando il protagonista, dopo aver salvato dai cannibali colui che diventerà il suo servo, Venerdì, provvede a vestirlo. “Gli feci capire che gli avrei dato qualche vestito.. perché era tutto nudo.., In primo luogo gli diedi un paio di calzoni di tela,.., poi gli feci un giubbotto di pelle di capra; poi gli diedi un cappello. Vero è che al principio si muoveva molto a disagio in questi panni; indossare i calzoni era molto disagevole per lui, e le maniche della giubba gli scorticavano la pelle all’interno delle braccia; ma dopo averle allargate un po’ nel punto in cui diceva che gli facevano male, e dopo che lui si fu un poco abituato, alla fine se ne trovò benissimo”.
L’atto di vestire chi è nudo implica un prendersi cura del suo corpo, un’intimità dunque, un toccare e misurare il corpo per poterlo adeguatamente vestire. Ma implica anche un prendersi cura della sua anima, in quanto il vestito protegge l’interiorità e sottolinea che l’uomo è un’interiorità che necessita di custodia e protezione. Il vestito traduce quel senso di pudore che forse è il più antico gesto che distingue l’uomo dagli animali e che non si limita all’ambito sessuale, ma ha a che fare con la totalità dell’essere umano, e soprattutto con il senso dell’identità e della soggettività.
In particolare, il pudore regola il rapporto con l’alterità, mantenendolo nella libertà: “Il pudore costituisce un limite fra gli individui e sta a dimostrare l’esistenza di un luogo interno del soggetto, requisito della sua libertà, ossia del suo pieno sviluppo individuale all’interno della collettività” (Monique Selz). Il pudore poi non è solo un non mostrare, ma anche un non voler vedere ciò che pure potrebbe essere visto (come Sem e Jafet che, a differenza del loro fratello Cam, non vogliono vedere la nudità del loro padre Noè: Gen 9,20-23): “Per salvare la nostra umanità, alcune cose che potremo voler vedere, devono rimanere fuori dalla scena” (John Maxwell Coetze).
Essere sprovvisti di vestiti o a malapena vestiti o coperti di stracci è dunque una condizione che ha rilevanti connotazioni psicologiche e spirituali: è interessante, a questo proposito, il fatto che buona parte della valenza simbolica della nudità nella Bibbia sia negativa.
Si tratta della nudità che toglie identità, la nudità dell’anonimo, del senza-dignità: lo schiavo che viene venduto (Gen 37,23), il carcerato privato della libertà (Is 20,4; At 12,8), la prostituta esposta agli sguardi di chiunque (Ger 13,26-27; Os 2,4-6), il malato di mente che vive una condizione di alienazione (Mc 5,1-20). La Bibbia mostra particolare interesse per la nudità innocente e umiliata del povero, della vittima, dell’emarginato. Il semplice narrarla significa già dare voce a chi non ha voce e tende a suscitare l’attiva compassione di chi incontra tali situazioni. Si dice nel libro di Giobbe a proposito dei poveri: “Nudi passano la notte, senza abiti, non hanno da coprirsi contro il freddo. Sono resi fradici dagli scrosci della montagna, senza riparo si rannicchiano sotto una roccia.., vanno in giro nudi, senza vestiti, sono affamati” (Gb 24,7-8.10). La Scrittura elabora così una compassione per il corpo che si esprime in comandi (“Fa’ parte dei tuoi vestiti a chi è nudo”: Tb 4,16), che rientra fra gli attributi della giustizia (“il giusto... copre di vesti chi è nudo”: Ez 18,5. 7.16), che sta al cuore di una prassi di digiuno autentica (“Questo è il digiuno che voglio:.., vestire uno che vedi nudo”: Is 58,7).
L’atto umano di vestire chi è nudo si fonda per la Bibbia sul gesto originario di Dio stesso che ricoprì la nudità umana preparando gli abiti e poi vestendo Adamo ed Eva dopo la loro trasgressione: “Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” (Gen 3,21). La trasgressione dell’uomo nel giardino dell’in-principio ha fatto sì che gli umani siano usciti dallo spazio della comunione e si siano resi conto della loro “nudità”, cioè della loro condizione creaturale limitata e fragile, che abbiano cominciato a sentire diffidenza e timore l’uno dell’altro, che l’alterità abbia cominciato ad essere vissuta come minaccia. Ecco dunque nascere la paura dell’altro e la vergogna davanti all’altro, vergogna che nel testo di Genesi non ha a che fare direttamente con la sfera sessuale. È così che Adamo ed Eva “intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Gen 3,7). Ma sarà solo nel momento in cui Dio stesso farà tuniche di pelli e li vestirà (cfr Gen 3,21) che essi si vedranno reintegrati nella loro dignità, vedranno la loro fragilità avvolta dalla misericordia divina, i loro limiti protetti e coperti.
A differenza di una cintura, la tunica è un vero vestito che copre tutta la persona; se le cinture sono state intrecciate dagli uomini, le tuniche che sono fatte da un altro, da Dio; se le cinture erano state indossate direttamente da Adamo ed Eva, invece è un altro, Dio stesso, che riveste i due con tuniche. Dio veste chi è nudo: ovvero, egli ama e protegge la creatura umana accogliendola in tutti i suoi limiti e le sue fragilità.
Condividere gli abiti con il povero è gesto di intimità che richiede delicatezza, discrezione e tenerezza, perché ha a che fare in modo diretto con il corpo dell’altro, con la sua unicità che si cristallizza al massimo grado nel volto, che resta nudo, scoperto, e che con la sua vulnerabilità ricorda la fragilità di tutto il. corpo, di tutta la persona umana, e rinvia ad essa.
Condividere gli abiti con il povero - non nel modo impersonale e efficiente della raccolta di aiuti da spedire ai poveri del terzo mondo, ma nell’incontro faccia a faccia con il povero - diviene allora narrazione concreta di carità, celebrazione di gratuità, scambio in cui chi si priva di qualcosa non si impoverisce ma si arricchisce della gioia dell’incontro, e chi fruisce del dono non è umiliato perché fatto di essere vestito introduce in una relazione ed egli si sente accolto nel suo bisogno come persona, cioè nella sua unicità, non come anonimo destinatario di una spedizione di abiti dismessi dai ricchi.
Solo nella misura in cui il “vestire gli ignudi” è incontro di nudità, la nudità del volto di chi dona e del volto di chi riceve, e soprattutto la nudità degli occhi, che sono la parte più esposta del volto, tale gesto sfugge al rischio di essere umiliante e avviene nel solo spazio che conferisce verità a ogni gesto di carità: l’incontro con l’altro. Nella tradizione cristiana occidentale il gesto di vestire chi è nudo è espresso in modo a tutti noto dall’episodio in cui Martino di Tours taglia il proprio mantello per farne parte a un povero indifeso contro i rigori di un gelido inverno. Scrive Venanzio Fortunato nella sua Vita di san Martino di Tours: “Ad un povero incontrato sulla porta di Amiens, che si era rivolto a lui, Martino divide in parti uguali il riparo della clamide e con fede fervente lo mette sulle membra intirizzite. L’uno prende una parte del freddo, l’altro prende una parte del tepore, fra ambedue i poveri è diviso il calore e il freddo, il freddo e il caldo diventano un nuovo oggetto di scambio e una sola povertà è sufficiente divisa a due persone”.
La vestizione della nudità non si trova solo agli inizi della vita umana e del passaggio dalla natura alla cultura, ma ha anche un’importanza notevole nell’iniziazione cristiana, come appare dalla prassi battesimale antica (dal III fino al VI secolo). Alla fine del IV secolo in area siriaca lo svolgimento del rito battesimale comprendeva l’atto con cui il (o la) neofita si spogliava dei propri abiti e li calpestava; l’unzione del suo corpo nudo; l’immersione (sempre nella totale nudità) nelle acque battesimali; e infine l’atto con cui, risalito dalla vasca, il neobattezzato veniva rivestito di un abito bianco. La nudità gloriosa del Cristo morto (e sulla croce il condannato era nella totale nudità per significare la sua indegnità) e risorto riveste e protegge il neobattezzato che si sa ormai immerso in una vita nuova avendo “rivestito Cristo”: “Battezzati in Cristo, voi avete rivestito Cristo” (Gal 3,27).
Rivestiti di Cristo, nel battesimo, a partire dalla nudità della propria condizione umana limitata e fragile, i cristiani si sanno immersi nella misericordia di Dio (Tt 2,4-5), coperti e avvolti da essa, sicché la loro prassi di carità verso chi è nella nudità e nella vergogna, nell’impotenza e nella miseria, nell’umiliazione e nella privazione della dignità, non sarà che un riflesso e una testimonianza della misericordia divina
Le 14 opere di misericordia
La Chiesa - servendosi della Bibbia, ma anche della propria esperienza bimillenaria - riassume l’atteggiamento positivo verso chi è in difficoltà, con due serie di opere di misericordia: quelle corporali e quelle spirituali.
Le sette opere di misericordia corporale
- Dar da mangiare agli affamati
- Dar da bere agli assetati
- Vestire gli ignudi
- Alloggiare i pellegrini
- Visitare gli infermi
- Visitare i carcerati
- Seppellire i morti
Le sette opere di misericordia spirituale
- Consigliare i dubbiosi
- Insegnare agli ignoranti
- Ammonire i peccatori
- Consolare gli afflitti
- Perdonare le offese
- Sopportare pazientemente le persone moleste
- Pregare Dio per i vivi e per i morti
Ricorrendo al numero sette per due volte, la Chiesa intende dare a quel numero il valore simbolico raccolto nella Bibbia. Come a dire che in quel numero, che significa completezza, si vuoI esprimere tutto ciò che riguarda l’aiuto verso il prossimo.