Il destinatario della decisione non è Dio, a cui il culto è rivolto, perché egli comprende molto bene le lingue attuali, forse meglio del latino. In fin dei conti, la Bibbia dice che lui è il Dio che ascolta il clamore degli oppressi. Nel mondo antico, la Chiesa abbandonò l’uso del greco e passò a parlare in latino, che era la lingua delle masse più povere. Di sicuro, lì anche Dio parlava latino. Ora il ritorno al latino serve solo a gruppi conservatori che vogliono separare il sacro dal profano, la Chiesa dal popolo. C’è da chiedersi se Dio riuscirà a capire questo latino. Molti vescovi, sacerdoti e fedeli cattolici soffrono perché sentono che, dietro questa decisione del papa, c’è, come si diceva in Brasile delle comunità ecclesiali di base, “un modo di essere Chiesa e un modo della Chiesa di essere”. Il problema non è recuperare il rito romano usato prima del Concilio Vaticano II, né il solo ritorno al latino. Si tratta di seppellire una volta per tutte un modello di Chiesa, quella che si è tentato di attuare nel Concilio, che si disponeva a vivere in dialogo con l’umanità, più come popolo di Dio che come un governo centrale degli affari religiosi.Tutti sanno che, in realtà, dall’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II, le proposte più profonde del Concilio e il relativo modo di comprendere la Chiesa non erano più accettate. In diverse occasioni, l’attuale papa, quando era ancora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, si è mostrato contrario all’idea che le Chiese locali siano pienamente Chiese, così come nega la piena ecclesialità delle Chiese evangeliche e afferma che solo la Chiesa cattolica è quella vera. In particolare, dal 2003, quando è cominciata la preparazione del conclave, egli ha sempre espresso chiaramente la proposta di Chiesa che avrebbe realizzato fedelmente nel caso fosse stato eletto. Sapevano questo tutti quelli che lo hanno votato e lo hanno scelto per questo. Anche quelli che non lo hanno votato, ma sostengono questo sistema, sanno perfettamente cosa stanno facendo e ora non hanno da meravigliarsene. Il fatto che il rito sia celebrato in latino o in portoghese, con gesti più arcaici o più moderni, non cambia molto se, anche nel rito attuale in vigore dopo il Concilio, gli indios dell’Amazzonia, le comunità nere della Nigeria e gli aborigeni dell’Australia sono obbligati a leggere le stesse letture, a recitare le stesse preghiere e a fare gli stessi gesti pensati e decisi a Roma.Per il Vaticano II l’importante era la partecipazione attiva e cosciente della comunità locale ad una celebrazione che fosse fonte ed espressione della vita di ogni Chiesa, riunita qui e ora, in comunione con la Chiesa universale. Nella misura in cui il carattere specifico di ogni Chiesa locale viene negato e la maggioranza dei vescovi appare connivente, poco importano la lingua e il rito in cui si celebra la liturgia o per quali strade si deciderà di realizzare il sogno di ricostituire la cristianità medievale romana in pieno secolo XXI. L’umanità laica, cui poco interessa se una determinata Chiesa usa questa o quella lingua o compie questi o quei gesti, si scandalizza alle notizie provenienti dal Vaticano perché in queste beghe ecclesiastiche percepisce che ancora una volta le religioni verranno meno alla missione di unirsi a servizio della pace del mondo e della difesa del pianeta Terra. Probabilmente il rito latino non si riferirà più agli ebrei come perfidi o ai non cattolici come empi. Ma, dietro le parole, continuerà lo stesso trionfalismo poco amorevole. Dietro la decisione di Giovanni XXIII di togliere dal rito tali espressioni c’era la scelta del dialogo e dell’accoglienza di ogni essere umano. L’11 ottobre del ‘62 egli aprì il Vaticano II invitando tutta la Chiesa a rallegrarsi perché stava giungendo una nuova primavera per la Chiesa e per l’umanità. In quella notte di luna piena, il papa guardò dalla sua finestra del Vaticano e vide nella piazza una moltitudine di persone con le candele in mano. Nel cielo, la luna sembrava bearsi di quello spettacolo. Il papa buono si affacciò alla finestra e disse alla gente lì riunita che la luna era venuta a festeggiare con loro la nuova apertura della Chiesa. Propose che ogni persona lì presente, al ritorno a casa, desse un bacio a chi sentiva più vicino. E che lo facesse a nome del papa, come segno del suo affetto. Questa è la lingua che Dio capisce, e non c’è bisogno di motu proprio per spiegarla. Se questo linguaggio del dialogo è diventato estraneo a molti uomini della gerarchia, è normale che il papa preferisca la messa in latino, una forma di preghiera auto-centrata e poco amorevole. Per non perdere la fede nell’essere umano e nel futuro della vita, l’umanità deve sapere che, malgrado tutto, la Chiesa cattolica ha molti missionari e missionarie che, in tutti i Paesi, stanno donando la propria vita al servizio degli impoveriti. Il popolo di Dio, costituito da comunità sempre più mature e degnamente autonome, non si lascia sconvolgere da queste cose e testimonia che Dio non si preoccupa che la messa sia in latino o in questo o quel rito, ma che la vita dell’umanità e del pianeta sia protetta e che noi siamo gravidi di un mondo nuovo possibile.
(da Adista 2007)