Vita nello Spirito

Venerdì, 23 Novembre 2007 00:13

La speranza che aiuta nella quotidianità (Biagio Bonardi)

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di Biagio Bonardi

L’uomo è un essere che spera, ma oggi molti ostacoli impediscono il pieno esercizio di questo atteggiamento. La mancanza di fede, il neo-paganesimo, l’indifferentismo, l‘ateismo hanno cancellato e reso molto ardua la speranza soprannaturale. Ma anche la speranza naturale si è resa difficile e il nostro futuro si fa problematico.

È ancora possibile sperare nonostante la vita interiore di tanta gente sia sempre più desolata, più difficile? Sono sempre meno le persone che vedono una luce alla fine del tunnel che stanno attraversando nel corso della loro esistenza.

«La possibilità della speranza è fuori discussione. Essa rimane uno dei tratti caratteristici dell’umanità, come tanti pensatori antichi e moderni hanno constatato e affermato. L’uomo è un essere che spera. La speranza è una delle sue caratteristiche fondamentali e, come tale, può anche definirne la natura. Ogni uomo spera e solo l’uomo spera. Oggi però sono molti gli ostacoli che ne impediscono il pieno esercizio. La mancanza di fede, il neo-paganesimo, l’indifferentismo, l’ateismo che sembra ritornato dopo decenni di latitanza hanno cancellato o reso difficile la speranza soprannaturale. Ma anche la speranza naturale è resa difficile dalle molte delusioni. Restano le speranze a piccola gittata, le speranze quotidiane. Il futuro come tale è messo in questione. Del futuro è facile distinguere tre momenti in questi ultimi decenni: dal fascino del futuro (anni ‘60) si è passati alla paura del futuro (anni ‘70) e, con l’avvento del pensiero debole, all’assenza e alla negazione del futuro. No future, portavano scritto sulle magliette i nostri giovani. Una constatazione che aveva colpito e meravigliato anche Giovanni Paolo Il».

In un recente libro il cardinale Danneels scrive: «La speranza è realmente come una “bambina” che ha problemi di crescita» (Sperare, San Paolo 2006, Cinisello Balsamo, p. 7). Concorda con questa affermazione e quali le motivazioni?

«Sulla speranza ha scritto le cose più belle Charles Péguy. Anche lui considera la speranza una bambina, schiacciata e umiliata dalle due grandi sorelle: la fede e la carità. Ma senza di essa la vita diventa un cimitero. L’uomo ha bisogno della speranza, come i polmoni hanno bisogno di aria per respirare. Per farla crescere, il poeta francese ha speso gran parte della sua vita e della sua produzione poetica. Una vera e propria teologia in versi, che può arricchire anche la riflessione degli specialisti. In particolare, ho in mente quanto egli scrive a proposito del giudizio divino. Facile è mettere insieme le sue suggestioni con i pensieri di un’altra francese, di cui si parla sempre di più: la santa di Lisieux. Il loro pensiero è dominato dall’affermazione della paternità di Dio. La comunità cristiana non ha ancora sufficientemente fatte proprie le loro affermazioni».

Si parla di speranza cristiana che, come si afferma nel suddetto libro, «non si appoggia sull’uomo, ma sulle promesse di Dio e sulla sua potenza» (p. 35). Viene spontaneo chiedere: l’uomo del XXI secolo ha perso la speranza perché con tutto il suo affanno ha perso Dio?

«Certo, quando parliamo di speranza, dobbiamo chiaramente distinguere la speranza cristiana dalle speranze umane. La prima è frutto della rivelazione e della grazia divine; la seconda è caratteristica della natura umana, che, non dobbiamo mai dimenticarlo, è creazione di Dio. L’uomo, immagine di Dio, porta in sé questa orma che lo avvicina al suo Creatore. La prima, la speranza teologale, è onnicomprensiva. Fa proprie, cioè, anche le vere speranze umane. Si tocca un caso tipico del rapporto fra creazione e rivelazione, fra ordine naturale e ordine soprannaturale. Umano e cristiano stanno sostanzialmente sulla stessa linea. Il Dio della salvezza è lo stesso Dio della creazione. Certamente dobbiamo registrare una discontinuità, ma anche una vera e propria continuità. E’ chiaro che senza Dio questa speranza integrale non può avere luogo. E anche la semplice speranza umana senza Dio manca del suo ultimo punto di riferimento. In sostanza sta qui la tragedia dell’uomo contemporaneo. Con Dio, si è detto, è stato ucciso pure l’uomo».

Giovanni Paolo Il ha affermato che è qui nella storia che dobbiamo seminare la speranza.

«È un’affermazione che colloca il Papa sulla linea del concilio Vaticano Il. Una dimensione, quella della storicità della speranza, abbastanza disattesa nella riflessione e nella prassi della comunità cristiana. Su di essa aveva a lungo riflettuto la teologia della speranza, ma le affermazioni conciliari superano di gran lunga quanto era stato affermato in questo campo. Una novità esaltante che non ha avuto la trattazione che si meritava nemmeno al convegno di Verona. Ne rimane impoverita in particolare la teologia del laicato, che invece si dice di voler esaltare sino alle sue ultime conseguenze. Proprio a proposito del loro impegno si legge nella Lumen gentium: “Questa speranza non la nascondano all’interno del loro animo, ma con una continua conversione e lotta “contro i dominatori di questo mondo tenebroso e contro gli spiriti maligni” (Ef 6,12) la esprimano anche attraverso le strutture della vita secolare” (n. 35). Una professione pubblica della speranza, che deve penetrare dentro le pieghe più profonde dei pensieri e della prassi della comunità cristiana.

«La nuova teologia della speranza ha messo in luce dimensioni disattese nel passato. La storicità è forse la più importante. Anche l’insegnamento di Giovanni Paolo Il è da leggersi e ricordarsi in questo senso. Le altre dimensioni sono l’universalità dell’oggetto, espresso molto meglio dal concetto di Regno che da quello di vita eterna; la comunitarietà, perché la speranza è un sentimento collettivo che chiama in causa non solo gli individui, ma l’intero popolo di Dio e, con esso e per esso, l’intera umanità. È sulla base di queste nuove dimensioni che dovrebbe essere rivisto l’attuale atto di speranza, frutto di una teologia passata; certamente non sbagliata, però incompleta».

Come si può esprimere concretamente il rapporto fra speranza teologale e speranza storica?

«È questo il punto massima concentrazione dell’insegnamento del Vaticano II sulla speranza, una delle affermazioni più coraggiose non soltanto della costituzione pastorale, ma di tutti i documenti conciliari.

«Il testo fondamentale è Gaudium et spes 39. Premesso che è l’attuale creazione che sarà rinnovata e non sostituita da un’altra, si apre all’opera dell’uomo la possibilità di una valorizzazione che oltrepassa la storia per immergersi nell’eternità. Il mondo nuovo, i cieli nuovi, la terra nuova sono da considerarsi anche opera dell’uomo. Naturalmente non solo dell’uomo, ma dell’uomo in collaborazione con l’opera di Dio.

«Il comando della Genesi va riletto alla luce di questa dottrina. La terra è stata data all’uomo come un dono e insieme come un compito, un dono da portare a compimento. L’uomo è chiamato a portare il suo insostituibile contributo, perché Dio, come avvertiva uno dei grandi teologi del nostro tempo, padre Congar, “non fa mai niente da solo”. L’uomo è partner, collaboratore, aiutante, socio di Dio. A questo, secondo Von Rad, intendeva alludere la parola “immagine”, con cui la Bibbia qualifica fin dalle prime pagine la natura dell’uomo. Ora tutte queste cose si possono leggere con buona chiarezza nelle pagine dei documenti conciliari. Con il lavoro, l’uomo è chiamato a collaborare attivamente al completamento della divina creazione”, afferma la Gaudium et spes 67, a preparare attraverso il suo servizio degli uomini sulla terra “quasi la materia per il Regno dei cieli”, aggiunge il n. 38. Finalmente il n. 39 afferma che “i beni, quali la dignità dell’uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre “il Regno eterno e universale: che è Regno di verità e di vita, di santità e di grazia, Regno di giustizia, di amore e di pace”. Qui sulla terra il Regno è già presente, in mistero; ma con la venuta del Signore, giungerà a perfezione”».

Secondo lei, la speranza può essere ancora ritenuta una virtù in un tempo come il nostro in cui le virtù perdono terreno di fronte all’affermarsi del materialismo?

«Anche, ma non solo, per il motivo posto nella domanda, credo che non sia più il caso di continuare a parlare della fede, della speranza e della carità come tre virtù (teologali, per distinguerle da quelle morali), una denominazione, del resto, cominciata soltanto con Gregorio Magno. Negli autori precedenti, il termine virtù non si trova. Ciò spiega anche il fatto che negli autori scolastici, il trattato delle tre virtù viene collocato soprattutto nei testi di teologia morale: un altro inconveniente da evitare. Meglio parlare di dimensione costitutiva, di atteggiamento fondamentale dell’animo umano. Il termine “virtù” non rende piena ragione di queste tre dimensioni totalizzanti dell’esistenza cristiana.

Juan Alfaro, che ha portato fino in fondo queste riflessioni, suggerisce anche altre espressioni, come “infrastrutture antropologiche”, “dimensioni costitutive dell’esistenza”, “strutture ontologiche della persona”. Formulazioni tutte che, specialmente per quanto riguarda la speranza, collegano insieme la dimensione filosofico-naturale a quella soprannaturale. Perché la speranza è un atteggiamento fondamentale dell’essere umano in quanto tale. Una concezione, questa, in cui l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale si trovano in continuità, naturalmente salvaguardando anche la necessaria discontinuità. L’infrastruttura antropologica diventa la base, secondo la terminologia classica, la “potenza obbedienziale”, della speranza cristiana».

Nell’Antico Testamento assume rilevanza, in tema di speranza, il libro di Giobbe. Lei nel recente saggio Dio, il Male e il dolore (Ed. Camilliane 2006, Torino, pp. 43, € 6,00) cita le inquietanti domande di Giobbe: “Perché dare alla luce chi, poi, nella vita sarà un disgraziato? Che esistenza è quella di chi incontra solo amarezza?”. Cosa risponde a questi interrogativi che, in un modo o nell’altro, si
sono tramandati nel corso dei secoli fino ai giorni nostri, facendo scemare le sempre più fievoli speranze di una sia pur relativa felicità sulla Terra?

«Il problema del dolore meriterebbe un discorso a parte. Nel trattarlo, nel breve testo da lei ricordato, non ho seguito le vie di un superato provvidenzialismo o la facile ma ingannevole concezione del Dio che rimedia ai nostri mali, il famoso “Dio tappabuchi” di Bonhoeffer. Il problema del male è soprattutto nelle mani dell’uomo: il male morale è esclusivamente opera sua, il male fisico è legato alla natura incompiuta e imperfetta della creazione. Per questo l’uomo va visto in lotta aperta contro il male (tutto il male), che non rientra nel piano definitivo di Dio. In questa lotta l’uomo può godere dell’assistenza paterna del suo Creatore, perché egli è per definizione l’anti-male. Dio soffre con noi ed è vicino a noi nell’ora del dolore con affetto insieme materno e paterno. Ma il miracolo deve farlo l’uomo. In questa eliminazione o, meglio, diminuzione del male si può vedere uno degli aspetti dell’avanzamento del regno di Dio nella storia. In questo compimento l’uomo è chiamato a portare il suo contributo. Siamo ancora a riflettere sulla dimensione storica della speranza e del principio prima ricordato che Dio non fa mai niente da solo».

Qual è la connessione del tema la speranza con Teresa di. Lisieux (santa Teresa di Gesù Bambino)? A lei ha dedicato un saggio di grande interesse, Teresa di Lisieux e l’Aldilà (Dehoniane 2006, Bologna, pp. 217 € 19,00), da cui emerge come il percorso terreno della santa ha trasmesso e continua a trasmettere speranza “perché fa leva su una concezione singolare e del tutto evangelica della paternità di Dio”.

«Il riferimento alla santa di Lisieux mi pare molto pertinente. La presa di coscienza della paternità divina rinnovata e approfondita nel nostro tempo è un motivo di speranza anche per la sorte finale di tutti gli uomini. L’avvicinamento che nel mio libro ho fatto fra santa Teresa e Hans Urs von Balthasar (forse il più grande conoscitore della piccola Teresa) mi è sembrato sufficientemente probante. Il clima attuale della speranza rimette in discussione l’intera presentazione dell’escatologia cristiana. Un’opera che dovremmo saper compiere in questo decennio dedicato alla speranza. Le indicazioni offerte in questo senso dalla nostra Conferenza episcopale nel documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia sono molto preziose (cf in particolare il n. 2)».

Un accenno ancora al suo testo sulla speranza. A pagina 193 di Il ritorno della speranza lei scrive: “Segno di speranza è la ricerca sincera e spassionata della pace”, la quale non può che riposare “sulla giustizia, sulla verità e sulla solidarietà”. Le domando: nel nostro secolo queste condizioni dove sussistono?

«Il testo citato si riferisce alla presentazione dei nuovi peccati contro la speranza. Il tempo della secolarizzazione, dicevo nel testo, impone un’attenzione particolare alla dimensione storica della speranza, anche perché questa rimane sostanzialmente l’unica lunghezza d’onda captabile dall’uomo contemporaneo. Ciò significa impegno per un mondo nuovo, una società diversa, un mondo di giustizia, di amore e di pace. Sono tutte dimensioni del Regno, alla cui crescita la Chiesa (con il mondo) è chiamata a portare il suo contributo.

«La pace, fra l’altro, appare oggi come il segno dei tempi che induce a parlare di ritorno della speranza. I milioni di giovani che si sono negli ultimi tempi interessati per la pace, che hanno partecipato alle marce organizzate, che hanno sventolato le bandiere iridate, sono un segnale di pace da assecondare, da sorreggere, da potenziare. Non c’è niente di già bell’e fatto. Molto rimane ancora da fare, specialmente per quanto riguarda i responsabili delle nazioni, ma la sensibilità per i cosiddetti fondamenti della pace (giustizia, solidarietà, verità, libertà) è cresciuta, anche nella Chiesa, nel nostro tempo. La comunità cristiana del terzo millennio avverte in questo programma l’eredità di Giovanni Paolo II, il Papa del Regno».

(da Vita Pastorale n. 2, 2007)

Letto 1115 volte Ultima modifica il Sabato, 23 Ottobre 2010 23:15
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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