Vita nello Spirito

Mercoledì, 14 Marzo 2007 01:00

La lussuria (Luciano Manicardi)

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di Luciano Manicardi

L'ambito della sessualità rinvia a quanto di più profondo, misterioso e vulnerabile vi è nell'essere umano. Coinvolge anche quanto vi sia di più vitale: l'amore. E' arte difficile, quella dell'amore, e da apprendere con sapienza. Ordinare il desiderio, assumere il proprio corpo sessuato, sono compiti essenziali per entrare nella gioia della relazione e uscire dalla tristezza della cosificazione.

Sia Evagrio (che parla di porneìa) che Giovanni Cassiano (che parla di spiritus fornicationis) pongono la lussuria (termine con cui Gregorio Magno preferirà definire tale vizio) al secondo posto delle loro liste, dopo la gola. La successione intende descrivere un rapporto frequentemente verificabile: gli eccessi del cibo e la smodatezza del bere rendono fragile la vigilanza, allentano i freni inibitori, inducono desideri lascivi, conducono a atti sessuali disordinati. «La lussuria accoglie come alleata la sazietà» (Evagrio Pontico, Gli otto spiriti malvagi IV). Se Gregorio Magno potrà dire che la lussuria è dovuta a un’eccitazione degli organi genitali provocata dalla pressione del ventre gonfio a causa del troppo cibo, già Evagrio consigliava di ovviare a tale vizio con la moderazione nel bere: «Molto concorre ad assicurare la vita continente l’uso moderato dell’acqua» (Praktikòs 17). La medicina antica riteneva infatti che l’eccitazione fosse causata da un’eccessiva umidità nel corpo.

Il termine fornicazione (derivato dal latino fornix che designava le stanze a volta in cui le prostitute ricevevano i clienti), indicava l’unione sessuale fuori dal matrimonio ma anche tutti i peccati connessi alla sfera sessuale. La tradizione cristiana vi ha scorto un vizio del corpo (come la gola), dunque inerente alla natura umana in quanto tale, anzi ha affermato che nella lussuria sono coinvolti tutti i cinque sensi del corpo umano attraverso una progressione che comincia in genere con la gola, passa attraverso la vista, l’odorato e l’udito, e si conclude nel tatto. Tuttavia, la parola di Gesù riportata in Mc 7, 21-22 — «dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini, escono i pensieri cattivi: fornicazioni, ... adulteri, cupidigie, ... impudicizia...» - ha reso coscienti gli autori cristiani che la lussuria è vizio dell’anima e che questa pulsione disordinata richiede una lotta interiore tesa essenzialmente alla purificazione del cuore. Non esiste idolo senza uno sguardo che lo renda tale. Dunque, dice Cassiano, «la correzione di questo vizio dipende principalmente dalla perfezione del cuore... La carne infatti obbedisce al dominio e all’arbitrio del cuore» (Istituzioni VI, 2). Inoltre, la lussuria impegna la persona (particolarmente il monaco, votato al celibato e alla castità) in una lotta immane e terribile, «una lotta destinata a durare più a lungo delle altre, insistente e che pochi superano completamente» (Istituzioni VI, 1). Proprio i monaci hanno costituito la prova più evidente del carattere spirituale di questo vizio così carnale: separati dal mondo, lontani dalle donne, quotidianamente dediti a pratiche ascetiche, essi hanno condotto estenuanti lotte diurne e notturne contro i fantasmi dell’immaginazione che popolavano le loro austere celle di donne nude e lascive, di immagini conturbanti e seducenti. A riprova del fatto che il monaco non fugge il mondo per il semplice motivo che il mondo non fugge lui, ma abita in lui.

Questa dura lotta richiede un’ascesi dello sguardo («spogliare una persona con gli occhi» o «mangiarla con gli occhi» sono espressioni del linguaggio quotidiano), un’ascesi della parola e dell’ascolto (sempre di più il linguaggio corrente è intriso di doppi sensi, di espressioni volgari e allusioni sessuali), ma in profondità richiede un’ascesi dell’immaginazione, un silenzio interiore che purifichi ricordi e pensieri, affetti e immagini. Impresa non facile nel mondo ipererotizzato in cui siamo immersi. Né, per vincere questa lotta, bastano digiuni e veglie, lavoro manuale e frequenti prostrazioni o segni di croce (come spesso consigliato nella letteratura ascetica), ma occorre vigilanza sul proprio animo, lavoro interiore, amore e ascolto del proprio corpo, capacità di riconoscere le pulsioni che ci traversano e di assumerle come materiale da elaborare, come parola che dice qualcosa su di noi, come sintomo di una situazione da far evolvere. In questo lavoro l’ascesi è opera di ordine, di bellezza, di armonia, non di castrazione o di mortificazione. Sono i vizi e le deviazioni della carne che vanno combattute, non la carne stessa. L’ascesi, poi, è tesa alla libertà, a rendere l’uomo libero dalla schiavitù dei sensi, dalla tirannia del piacere, dall’idolatria che sempre cerca di far scadere i rapporti dal piano della comunione a quello del consumo. Dante, nell’Inferno, infliggerà ai lussuriosi la pena di essere avvolti nel buio, loro che sono stati accecati dalla passione, di essere sballottati dai capricci del vento, loro che furono sballottati dai capricci delle passioni (Inferno V 28-45). Traspare la penosa condizione di chi ha assoggettato la ragione agli impulsi divenendo dipendente da gesti e atti che necessitano di una disperante ripetizione e ha sacrificato il dominio di sé al piacere di cui è divenuto schiavo.

Come possiamo definire oggi la “lussuria”, essendo assodato che il corpo e la sessualità sono realtà buone, volute e benedette da Dio? Possiamo dire che si tratta di un trattare il corpo, proprio e altrui, come oggetto, come una “cosa”. È l’atteggiamento che parcellizza e frammenta il corpo scindendolo dal volto che è epifania dell’identità personale. Il feticismo (p. es. del piede femminile) è un esempio efficace di questo stravolgimento della finalità della sessualità, che è l’incontro personale, l’incontro faccia a faccia nell’intimità della reciproca donazione. Trattare l’altro come oggetto di piacere e non come soggetto di relazione e di amore rientra all’interno di questo pervertimento del senso profondo della sessualità. Certamente, non possiamo dimenticare che spesso, dietro ad atteggiamenti sessuali cosiddetti “negativi” stanno sofferenze profonde, ferite antiche, che abbisognano di essere ascoltate, accolte e non giudicate. Di fronte poi al peccatore (si pensi all’adultera nel vangelo di Gv 8, 1- 11) Gesù si astiene dal giudicare e dal condannare, e fa del peccato manifesto di una persona l’occasione per svelare il peccato nascosto degli altri.

L’ambito della sessualità rinvia a quanto di più profondo, misterioso e vulnerabile è in noi. Rinvia anche a quanto vi sia di più vitale: l’amore. Imparare ad amare, ordinare il desiderio, assumere il proprio corpo sessuato, sono compiti essenziali per entrare nella gioia della relazione e uscire dalla tristezza della cosificazione. E amare significa acconsentire alla distanza, rinunciare all’abuso, ad aver potere sull’altro, a voler possedere. Amare non è prendere, ma dare e perdere, è rallegrarsi di ciò che non si può possedere, è gioire di ciò che ci manca, di ciò che ci rende infinitamente poveri ed è il nostro solo bene e la nostra sola ricchezza. «Povertà assoluta della madre accanto al letto del suo bambino: lei non possiede nulla perché lui, il suo figlio, è tutto e lei non lo possiede. “Tesoro mio”, mormora lei. E se ne sente privata come non mai. Povertà di colui che ama, povertà del santo: hanno posto tutto il loro bene in ciò che non si può né possedere, né consumare» (André Comte-Sponville).

Parlando della purezza dell’amore, cogliamo cosa sia la castità, ovvero la capacità di abitare nella limpidezza il corpo sessuato e mortale e di vivere nella trasparenza e nella libertà le relazioni affettive e amorose.

Un’interessante prospettiva sulla castità, sempre indicata dai padri della chiesa come l’antidoto alla lussuria, ci viene da un monaco contemporaneo (morto pochi anni fa), l’abate di Ligugé, Pierre Miquel. Egli ricorda che la castità è rifiuto dell’incesto (in-castus, non-casto), cioè rispetto radicale dell’alterità e della differenza e rigetto della fusionalità.

«La vera castità rifiuta la confusione e la fusione con cui si definisce l’incesto:

  • fusione con la madre nel desiderio regressivo di ritorno al seno materno 
  • fusione con il proprio corpo nel desiderio di una coincidenza che dispenserebbe dalla relazione con l’altro (autoerotismo) 
  • fusione con un parente nel desiderio di perdita di sé o di assorbimento dell’altro 
  • fusione con i fratelli (o con le sorelle) nel desiderio di una comunità calorosa a tendenza omosessuale (nella vita religiosa cenobitica) 
  • fusione con Dio stesso nel desiderio di un’identificazione totale. La vera castità comporta la rottura del cordone ombelicale (è dunque una nascita), la presa di coscienza di un corpo sessuato, la volontà di aiutare l’altro a diventare se stesso (sia nella vita coniugale che nella vita comunitaria) senza cercare di fagocitarlo o di lasciarsi assorbire in lui, di perdersi in lui. Essa comporta anche l’unione con Dio, senza cercare di asservirlo con procedimenti magici o a perdervi la propria identità attraverso pseudomistiche più o meno affascinanti».

Infinita pazienza e capacità di ricominciare: questo è richiesto a chi cerca di ordinare l’amore. Il tutto ricordandosi la dignità eminente del corpo, che è «tempio dello Spirito Santo» (1Cor 6, 19). L’Eucaristia, in cui il corpo del Signore si dona ai cristiani, esprime al meglio l’affermazione paolina per cui «il corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo« (1Cor 6, 13), ed è magistero efficace del rapporto con il corpo e con la sessualità.

(da L’Ancora, dicembre 2006)

Letto 2485 volte Ultima modifica il Sabato, 23 Ottobre 2010 22:39
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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