"Completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne"
di Luciano Manicardi
La sapienza del testo biblico è spesso travisata da letture preconcette e tesi assunte come assolute senza alcuna valutazione critica. In particolare, guardando alla sofferenza e alle attitudini spirituali ad essa connesse, emergono letture che frenano inutilmente un autentico cammino di fede. Le lettere paoline contengono in particolare due testi che, ben compresi, risultano particolarmente illuminanti.
E difficile portare uno sguardo spirituale sulla sofferenza che sia equilibrato dal punto di vista umano ed evangelico. La storia della spiritualità cristiana ci mostra affermazioni e giudizi che rappresentano esempi di deviazioni in senso doloristico che non hanno nulla a che fare con lo spirito dell' Evangelo, della vita e della predicazione di Gesù, e che non sono nemmeno conformi a una visione autenticamente umana della malattia e della sofferenza.
Anche dal punto di vista teologico sono a volte discutibili o addirittura aberranti. Eppure spesso simili affermazioni, che poi ispiravano atteggiamenti esistenziali e nutrivano ed esprimevano al tempo stesso una "spiritualità", erano tratte o fatte derivare da testi biblici.
Certamente questi testi erano letti in modo maldestro, estrapolati dal loro contesto, assolutizzati, non bene interpretati, ma nulla toglie che fosse ad essi che ci si riferiva, trasferendo indebitamente l'autorità della parola di Dio, contenuta nella Scrittura, dal testo biblico alle affermazioni teologiche o spirituali che da esso si facevano derivare. E questa storia non è solo di ieri, ma continua anche oggi: certe frasi bibliche o che.echeggiano testi biblici, divengono luogo comune, opinione non verificata ma resa autorevole dal fatto di essere sempre ripetuta, ed acquisiscono così, il basso prezzo, quell' autorevolezza che dovrebbe essere invece guadagnata sul campo, dopo seria e puntuale verifica, a seguito di attenta riflessione e di confronto con la realtà.
Sappiamo, ad esempio, che il paradosso espresso da Paolo in 2Cor 12,10 con le parole: “Quando sono debole (o "malato"), allora sono forte”, estrapolando dal contesto in cui esso si manifesta la maniera con cui Paolo integra, nella propria fede pasquale e nella propria personale sequela del Crocifisso, la sua preghiera inesistente e non esaudita di essere liberato dalla misteriosa "spina nella carne" che lo affligge, ha potuto essere utilizzato per fondare affermazioni veramente non equilibrate sulla malattia e sulla sofferenza.
Questo testo tardomedievale ne è una buona espressione: «Se l'uomo sapesse come la malattia gli sarebbe oltremodo utile, non vorrebbe mai vivere senza malattia. Perché? Perché l'infermità del corpo è la salute dell'anima... Come? Grazie alla malattia del corpo, la sensualità viene spenta, la vanità distrutta, la curiosità cacciata, il mondo e la vanagloria ridotti a nulla, l'orgoglio svuotato, l'invidia allontanata, la lussuria bandita... Facendo odiare il mondo essa dispone all'amore di Dio».
Altre volte è una cattiva traduzione del testo biblico che può ingenerare affermazioni teologicamente e spiritualmente erronee. È il caso di Col 1,24, normalmente tradotto: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa». Questa traduzione sembra implicare l'idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che essa abbia bisogno delle sofferenzedi Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivi. In realtà, se ci si attiene scrupolosamente al testo greco, rispettando l'ordine sintattico della frase, la traduzione del versetto deve suonare così: «
Non a passione di Cristo è insufficiente per la salvezza; non è ad essa che manca qualcosa; non è neppure che questo qualcosa possa esservi portato da Paolo o dai credenti, ma è alla partecipazione dell'Apostolo e dei credenti alle sofferenze di Cristo che manca ancora qualcosa. Non la passione di Cristo è deficitaria, ma è «nella mia carne», cioè alla «mia povera persona umana», come traduce Rinaldo Fabris, che manca qualcosa alla pienezza di partecipazione alle tribolazioni di Cristo. «Ciò che ancora manca, ciò che Paolo deve condurre a termine, è il proprio itinerario, che egli chiama "tribolazioni di Cristo nella mia carne", e che riproduce quello di Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire per l'annuncio del Vangelo e a causa sua e per la Chiesa» (J.N. Aletti). Erveo di Bourg-Dieu (1075/1080 1149/1150), commentando la lettera ai Colossesi, si chiede "dove" manchi ciò che manca alle sofferenze di Cristo e risponde: «Nella mia carne. Infatti nella carne di Cristo, generata dalla Vergine, non manca alcuna sofferenza, ma tutte le sofferenze trovano la loro pienezza in essa (cioè, nella carne di Cristo). Tuttavia rimane ancora una parte delle sue sofferenze nella mia carne, che io ogni giorno sopporto a favore del suo corpo universale che è la chiesa» (PL 181,1325).
La tradizione cristiana, fin dall'antichità, ha spiegato che il valore salvifico della passione di Cristo è pieno e ad esso non vi è nulla da aggiungere. Tommaso d'Aquino, nel suo commento alla lettera ai Colossesi, metteva in guardia dal rischio di interpretare in modo inadeguato le parole dell'Apostolo: «Queste parole, intese in modo superficiale, possono essere comprese male, cioè nel senso che la passione (passio) di Cristo non sia sufficiente per la redenzione e che perciò le sofferenze (passiones) dei santi siano state aggiunte per completarla. Ma questa affermazione è eretica, perché il sangue di Cristo è sufficiente per la redenzione, anche di molti mondi: "Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; e non solo per i nostri ma anche per quelli di tutto il mondo" (1 Gv 2,2)”.
Del resto, proprio la lettera ai Colossesi sottolinea la pienezza e completezza della persona e dell'agire di Cristo in ordine alla redenzione, sicché nulla può essere aggiunto: «Piacque a Dio di fare abitare in lui (il Figlio) tutta la pienezza e per mezzo di lui riconciliare tutte le cose, avendo rappacificato con il sangue della sua croce, per mezzo di lui, le cose della terra e quelle del cielo» (Col 1,19-20). Insomma: «Colossesi insiste troppo sulla pienezza, sulla supremazia totale e attuale del Cristo glorificato, a cui non manca nulla, perché lo si possa dimenticare; Colossesi non dice nemmeno che Cristo non ha compiuto tutto ciò che doveva compiere o che non ha sofferto abbastanza perché l'Apostolo debba portare a compimento le sofferenze redentrici per la Chiesa: allora, infatti, la mediazione di Cristo non sarebbe perfetta e la lettera non cessa di dire il contrario» (J.N. Aletti).
Per ben comprendere il passo bisogna inoltre notare che l'espressione tradotta dalla Bibbia CEI con «patimenti di Cristo», andrebbe più correttamente resa con «tribolazioni di Cristo». Il termine greco thlipsis non indica mai le sofferenze redentrici di Cristo, ma sempre le tribolazioni, le fatiche, le angustie escatologiche dell' Apostolo o della chiesa: persecuzioni, opposizioni, violenze, privazioni, ecc. La passione e la morte redentrice di Cristo è sempre espressa da termini come "sangue", "morte", "croce", "morte in croce", ma mai tribolazione.
Queste tribolazioni caratterizzano i tempi escatologici, quelli cioè inaugurati dall' evento pasquale di Cristo e segnano in particolare l'attività apostolica ed evangelizzatrice, che viene svolta nella fede in Cristo e sotto la guida del suo Spirito. Questa attività è il compito che Paolo ha ricevuto da Dio, compito che lo rende diakonos, servo della chiesa, e che consiste nel portare a compimento l'annuncio e la predicazione della parola di Dio (Col 1,25). Compiendo questo servizio, Paolo conosce sofferenze (pathémata: «Trovo la mia gioia nelle mie sofferenze per voi») e incontra tribolazioni (thlipseis: «completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne») che egli vive nella dedizione ai cristiani delle sue comunità, spendendo la vita per loro e per l'edificazione della chiesa.
E in quel vivere le sofferenze in Cristo e per i cristiani delle sue comunità, egli trova anche la sua paradossale gioia nelle tribolazioni. Capiamo allora che l'espressione «tribolazioni di Cristo» designa le tribolazioni che l'Apostolo patisce a motivo di Cristo e vive in lui, nella fede cioè nel Figlio di Dio «che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (GaI 2,20) e, al tempo stesso, indica le tribolazioni di cui, nella persona dell' Apostolo, è soggetto ancora Cristo: infatti il disegno salvifico che ancora deve compiersi nella storia - disegno con destinatarie tutte le genti -, ha in Cristo morto e risorto il protagonista centrale.
«Ciò che manca», dunque, «alle tribolazioni di Cristo», ha a che fare con l'attività missionaria, evangelizzatrice, con il compito di servo del Vangelo e della Chiesa che Paolo ha ricevuto da Dio. «Tale missione egli deve esercitare negli ultimi tempi, contrassegnati appunto dai travagli escatologici che preparano il compimento finale, e che, accolti, indubbiamente riempiono, secondo il piano di Dio, il tempo della Chiesa, e completano, nel senso che consentono a Cristo di estendere la sua salvezza ad ogni carne e fino ai confini del mondo» (F. Jovino).
In questo modo il testo viene riconsegnato al suo contesto biblico e può essere compreso all'interno di corrette coordinate di teologia biblica.