Vita nello Spirito

Domenica, 18 Dicembre 2005 19:54

"Completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne" (Luciano Manicardi)

Vota questo articolo
(2 Voti)

“Piacque a Dio di fare abitare in lui tutta la pienezza” (Col 1, 19)

"Completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne"

di Luciano Manicardi

La sapienza del testo biblico è spesso travisata da letture preconcette e tesi assunte come assolute senza alcuna valutazione critica. In particolare, guardando alla sofferenza e alle attitudini spirituali ad essa connesse, emergono letture che frenano inutilmente un autentico cammino di fede. Le lettere paoline contengono in particolare due testi che, ben compresi, risultano particolarmente illuminanti.

E difficile portare uno sguar­do spirituale sulla sofferenza che sia equilibrato dal punto di vista umano ed evangelico. La storia della spiritualità cristiana ci mo­stra affermazioni e giudizi che rap­presentano esempi di deviazioni in senso doloristico che non hanno nulla a che fare con lo spirito del­l' Evangelo, della vita e della predi­cazione di Gesù, e che non sono nemmeno conformi a una visione autenticamente umana della ma­lattia e della sofferenza.

Anche dal punto di vista teolo­gico sono a volte discutibili o ad­dirittura aberranti. Eppure spesso simili affermazioni, che poi ispi­ravano atteggiamenti esistenziali e nutrivano ed esprimevano al tempo stesso una "spiritualità", erano tratte o fatte derivare da testi biblici.

Certamente questi testi erano letti in modo maldestro, estrapola­ti dal loro contesto, assolutizzati, non bene interpretati, ma nulla toglie che fos­se ad essi che ci si rife­riva, trasferendo inde­bitamente l'autorità della parola di Dio, contenuta nel­la Scrittura, dal testo biblico alle affermazioni teologiche o spiritua­li che da esso si facevano derivare. E questa storia non è solo di ieri, ma continua anche oggi: certe fra­si bibliche o che.echeggiano testi biblici, divengono luogo comune, opinione non verificata ma resa autorevole dal fatto di essere sem­pre ripetuta, ed acquisiscono così, il basso prezzo, quell' autorevolez­za che dovrebbe essere invece gua­dagnata sul campo, dopo seria e puntuale verifica, a seguito di at­tenta riflessione e di confronto con la realtà.

Sappiamo, ad esempio, che il paradosso espresso da Paolo in 2Cor 12,10 con le parole: “Quando sono debole (o "malato"), allora so­no forte”, estrapolando dal contesto in cui esso si manifesta la maniera con cui Paolo integra, nella propria fede pasquale e nella propria personale sequela del Crocifisso, la sua preghiera inesistente e non esaudita di essere liberato dalla misteriosa "spina nel­la carne" che lo affligge, ha potuto essere utilizzato per fondare affermazioni vera­mente non equilibrate sulla malattia e sulla sofferenza.

Questo testo tardomedievale ne è una buona espressione: «Se l'uo­mo sapesse come la malattia gli sa­rebbe oltremodo utile, non vorreb­be mai vivere senza malattia. Per­ché? Perché l'infermità del corpo è la salute dell'anima... Come? Gra­zie alla malattia del corpo, la sen­sualità viene spenta, la vanità di­strutta, la curiosità cacciata, il mondo e la vanagloria ridotti a nulla, l'orgoglio svuotato, l'invidia allontanata, la lussuria bandita... Facendo odiare il mondo essa dis­pone all'amore di Dio».

Altre volte è una cattiva tradu­zione del testo biblico che può in­generare affermazioni teologica­mente e spiritualmente erronee. È il caso di Col 1,24, normalmente tradotto: «Sono lieto delle soffe­renze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa». Questa traduzione sembra implicare l'idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che ­essa abbia bisogno delle sofferenze­di Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivi. ­In realtà, se ci si attiene scrupolosamente al testo greco, rispettando l'ordine sintattico della frase, la­ traduzione del versetto deve suonare così: «completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, per il suo corpo, che è la chiesa».

Non a passione di Cristo è insufficiente per la salvezza; non è ad es­sa che manca qualcosa; non è nep­pure che questo qualcosa possa es­servi portato da Paolo o dai credenti, ma è alla partecipazione dell'Apostolo e dei credenti alle soffe­renze di Cristo che manca ancora qualcosa. Non la passione di Cristo è deficitaria, ma è «nella mia carne», cioè alla «mia povera persona umana», come traduce Rinaldo Fabris, che manca qualcosa alla pienezza di partecipazione alle tribo­lazioni di Cristo. «Ciò che ancora manca, ciò che Paolo deve condur­re a termine, è il proprio itinera­rio, che egli chiama "tribolazioni di Cristo nella mia carne", e che ri­produce quello di Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire per l'annuncio del Vangelo e a causa sua e per la Chiesa» (J.N. Aletti). Erveo di Bourg-Dieu (1075/1080 ­1149/1150), commentando la lette­ra ai Colossesi, si chiede "dove" manchi ciò che manca alle soffe­renze di Cristo e risponde: «Nella mia carne. Infatti nella carne di Cristo, generata dalla Vergine, non manca alcuna sofferenza, ma tutte le sofferenze trovano la loro pie­nezza in essa (cioè, nella carne di Cristo). Tuttavia rimane ancora una parte delle sue sofferenze nel­la mia carne, che io ogni giorno sopporto a favore del suo corpo universale che è la chiesa» (PL 181,1325).

La tradizione cristiana, fin dal­l'antichità, ha spiegato che il valo­re salvifico della passione di Cristo è pieno e ad esso non vi è nulla da aggiungere. Tommaso d'Aquino, nel suo commento alla lettera ai Colossesi, metteva in guardia dal rischio di interpretare in modo inadeguato le parole dell'Apostolo: «Queste parole, intese in modo su­perficiale, possono essere compre­se male, cioè nel senso che la pas­sione (passio) di Cristo non sia sufficiente per la redenzione e che perciò le sofferenze (passiones) dei santi siano state aggiunte per completarla. Ma questa afferma­zione è eretica, perché il sangue di Cristo è sufficiente per la reden­zione, anche di molti mondi: "Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; e non solo per i nostri ma anche per quelli di tutto il mondo" (1 Gv 2,2)”.

Del resto, proprio la lettera ai Colossesi sottolinea la pienezza e completezza della persona e del­l'agire di Cristo in ordine alla redenzione, sicché nulla può esse­re aggiunto: «Piacque a Dio di fare abitare in lui (il Figlio) tutta la pienezza e per mezzo di lui riconciliare tutte le cose, avendo rappacificato con il sangue della sua croce, per mezzo di lui, le cose della terra e quelle del cielo» (Col 1,19-20). Insomma: «Colossesi insiste troppo sulla pienezza, sulla supremazia totale e attuale del Cristo glorificato, a cui non man­ca nulla, perché lo si possa dimen­ticare; Colossesi non dice nem­meno che Cristo non ha compiuto tutto ciò che doveva compiere o che non ha sofferto abbastanza perché l'Apostolo debba portare a compimento le sofferenze redentrici per la Chiesa: allora, infatti, la mediazione di Cristo non sareb­be perfetta e la lettera non cessa di dire il contrario» (J.N. Aletti).

Per ben comprendere il passo bisogna inoltre notare che l'e­spressione tradotta dalla Bibbia CEI con «patimenti di Cristo», an­drebbe più correttamente resa con «tribolazioni di Cristo». Il termine greco thlipsis non indica mai le sofferenze redentrici di Cristo, ma sempre le tribolazioni, le fatiche, le angustie escatologiche dell' Apo­stolo o della chiesa: persecuzioni, opposizioni, violenze, privazioni, ecc. La passione e la morte reden­trice di Cristo è sempre espressa da termini come "sangue", "mor­te", "croce", "morte in croce", ma mai tribolazione.

Queste tribolazioni caratteriz­zano i tempi escatologici, quelli cioè inaugurati dall' evento pas­quale di Cristo e segnano in parti­colare l'attività apostolica ed evangelizzatrice, che viene svolta nella fede in Cristo e sotto la gui­da del suo Spirito. Questa attività è il compito che Paolo ha ricevuto da Dio, compito che lo rende dia­konos, servo della chiesa, e che consiste nel portare a compimen­to l'annuncio e la predicazione della parola di Dio (Col 1,25). Compiendo questo servizio, Paolo conosce sofferenze (pathémata: «Trovo la mia gioia nelle mie sof­ferenze per voi») e incontra tribo­lazioni (thlipseis: «completo ciò che manca alle tribolazioni di Cri­sto nella mia carne») che egli vive nella dedizione ai cristiani delle sue comunità, spendendo la vita per loro e per l'edificazione della chiesa.

E in quel vivere le sofferenze in Cristo e per i cristiani delle sue co­munità, egli trova anche la sua paradossale gioia nelle tribolazio­ni. Capiamo allora che l'espressio­ne «tribolazioni di Cristo» designa le tribolazioni che l'Apostolo pati­sce a motivo di Cristo e vive in lui, nella fede cioè nel Figlio di Dio «che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (GaI 2,20) e, al tempo stesso, indica le tribolazioni di cui, nella persona dell' Apostolo, è soggetto ancora Cristo: infatti il disegno salvifico che ancora deve compiersi nella storia - disegno con destinatarie tutte le genti -, ha in Cristo morto e risorto il pro­tagonista centrale.

«Ciò che manca», dunque, «alle tribolazioni di Cristo», ha a che fa­re con l'attività missionaria, evan­gelizzatrice, con il compito di ser­vo del Vangelo e della Chiesa che Paolo ha ricevuto da Dio. «Tale missione egli deve esercitare negli ultimi tempi, contrassegnati ap­punto dai travagli escatologici che preparano il compimento finale, e che, accolti, indubbiamente riem­piono, secondo il piano di Dio, il tempo della Chiesa, e completano, nel senso che consentono a Cristo di estendere la sua salvezza ad ogni carne e fino ai confini del mondo» (F. Jovino).

In questo modo il testo viene ri­consegnato al suo contesto biblico e può essere compreso all'interno di corrette coordinate di teologia biblica.

Letto 4677 volte Ultima modifica il Giovedì, 23 Settembre 2010 22:41
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search