Missione e Incarnazione
di Francesco Grasselli
Il carpentiere di Nazaret
In questa prospettiva non finiremo mai di riflettere su un dato impressionante della fede cristiana: i circa 30 anni (più probabilmente 34, secondo gli storici) che Gesù trascorse a Nazaret. Mandato per salvare l'umanità, il figlio di Dio fa il carpentiere, umile e sconosciuto, in una piccola città alla periferia dell'impero, fino alla pienezza dell'età adulta. È un fatto che non rientra nelle nostre categorie, ma nel mistero del regno di Dio. La domanda è: perché? Perché, nel piano divino, questa lunga "perdita-di tempo" del figlio di Dio venuto sulla terra a salvare l'umanità?
Perché voleva calarsi nel profondo della vita, fare esperienza di umanità in un punto preciso del tempo e dello spazio, provare la monotonia dei giorni, la fatica del lavoro, la gioia e le difficoltà delle relazioni umane... fino alla sofferenza e alla morte. Gesù., pur essendo per tutto il mondo e per tutta la storia, fu un ebreo del suo tempo, parlò la lingua del suo popolo, ne seguì le tradizioni, condivise un'umile condizione sociale, spartì la pena dell'oppressione romana e gli aneliti dei suo paese alla libertà e alla pace.
La spiritualità dell’incarnazione
Questo ci suggerisce una spiritualità dell’incarnazione, che è componente essenziale della spiritualità missionaria. La delineò, agli inizi del secolo scorso, quel singolare missionario che fu Charles de Foucauld, in linea con il Fondatore dei Padri Bianchi, il cardinale Lavigerie, e con tanti altri missionari di ogni tempo. De Foucauld si ispirava proprio alla vita di Gesù a Nazaret, che secondo lui era già una vita apostolica e aveva -un potere di redenzione e santificazione dell'umanità.
La missione-comincia dall’"esserci", dal condividere la vita del gruppo umano in cui si è inseriti. Il cristiano ama il suo tempo, le persone che gli sono attorno, le ricchezze della cultura e della tradizione; si immerge nei problemi, nei bisogni, nelle gioie e nei dolori di quella porzione dl umanità che gli è data in sorte. Questo non vuol dire che non ami l'intera umanità ma che questo amore non rimane astratto, generico, platonico. C'è un "qui e ora" che deve abbracciare con tutto il cuore e con tutte le forze.
Il missionario, quando parte, va a vivere una nuova appartenenza. La partenza è necessaria per "farsi prossimo" del gruppo umano non ancora evangelizzato.
È come una pianta che Dio sradica dal suo terreno perché metta faticosamente le radici in un'altra terra e là dia avvio a una nuova piantagione.
La spiritualità dell'incarnazione non è però solo di colui o di colei che parte. Deve essere di ogni cristiano, in quanto missionario là dove Dio lo chiama. Amare il proprio tempo e il proprio paese, scorgere i segni e i semi della presenza di Dio anche nelle situazioni che sembrerebbero -più negative e deprecabili... è sempre l'inizio della missione. Non si può mai dimenticare che l'essenza di ogni metodo missionario (vale anche per la pastorale e per la nuova evangelizzazione) sta nel condividere tutto con un gruppo di persone, fino a quando non si può condividere con esse anche il bene più profondo che si possiede, la propria fede. La missione cammina sempre su strade di comunione.
Incarnazione e inculturazione
Nell'enciclica Redemptoris missio il Papa dice: "missionari, provenienti da altre Chiese e paesi, devono inserirsi nel mondo socio-culturale di coloro ai quali sono mandati...assumendo uno stile di vita che sia segno di testimonianza evangelica e di solidarietà con la gente" (n. 53). È il tema dell'inculturazione, strettamente collegato a quello dell'incarnazione: ogni popolo, ogni cultura deve sentirsi nella Chiesa "come a casa propria": nessuno è straniero nella casa di Dio! Ma perché questo avvenga è necessario che la spiritualità dell’incarnazione si diffonda in tutto il corpo della Chiesa. Per troppo tempo abbiamo sentito il cristianesimo come "cosa nostra" e lo abbiamo esportato con i vestiti dell'Occidente "cristiano".
Oggi dobbiamo imparare a gioire di un cristianesimo che si fa africano con gli africani, indiano con gli indiani, arabo con gli arabi...
E dobbiamo anche imparare a cambiare il vestito del cristianesimo nella nostra patria, perché i vestiti di oggi non sono più quelli di cento anni fa. Un cristianesimo che non si incarna nella storia, conservando la sua identità più profonda ma cambiando il linguaggio e le forme, non è un cristianesimo vivo.
L'inculturazione ci riguarda tutti, perché tutti dobbiamo assumere uno stile creativo nel vivere la fede senza fuggire dal mondo nel quale ci troviamo, anche se è un mondo difficile. Gesù ci ripete con forza la parola che disse proprio a Nazaret: "Oggi si adempie la Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi" (Lc 4,21). Ogni tempo è l'oggi di Dio, ogni terra la culla del suo Regno.