A 40 ANNI DALLA DICHIARAZIONE CONCILIARE “NOSTRA AETATE”: I PASSI AVANTI FATTI E I PROBLEMI ANCORA APERTI
SCRUTANDO IL MISTERO QUARANT'ANNI DOPO
Il documento del Vaticano II è una “Magna Charta” che ridefinisce i rapporti tra cristianesimo e altre religioni, in particolare l’ebraismo. Il dialogo ebraico-cristiano, i suoi primi passi e progressi, gli aspetti problematici legati all’asimmetria del rapporto, le sfide dal versante cattolico e da quello ebraico.
Quarant'anni sono un'età importante. In chiave biblica, è l'età della pienezza e della maturità: il che vale anche per i quarant'anni della Nostra aetate, la dichiarazione conciliare firmata il 28 ottobre 1965 su cui Settimana si è già soffermata, presentandone la collocazione storica e i contenuti.[1] Qui, perciò, rifletteremo piuttosto sugli effetti di quel testo «a un tempo modesto e profondamente innovatore»,[2] e sugli aspetti che – rispetto agli auspici dei padri conciliari – appaiono ancora aperti, sfuocati o disattesi, e sui tratti che dimostrano la necessità di esperire passaggi ulteriori, nello spirito del documento, ma per certi versi andando oltre lo stesso.
Ammettendo da subito che, per un reale bilancio, nel nostro caso un quarantennio è uno spazio ampio ma persino limitato, se ripensiamo a quale fosse lo standard dei rapporti fra ebrei e cristiani prima del Vaticano II: ma sarebbe ingeneroso negare che – finalmente – un iniziale tratto di cammino è stato realmente effettuato. Secondo molti studiosi, si tratterebbe senz'altro del tratto più arduo, perché compiuto dopo due millenni di assolute incomprensioni, condanne senza appello, persecuzioni vere e proprie. Una considerazione tanto più rilevante se conveniamo col card. Martini, secondo cui nel dialogo ebraico-cristiano la posta in gioco «non è semplicemente la maggiore o minore continuazione vitale di un dialogo, bensì l’acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge d'Abramo e delle conseguenze che ne deriveranno sul piano dottrinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della chiesa e addirittura per la sua stessa missione nel mondo d'oggi».[3]
Certo, Nostra aetate non affronta solo il panorama delle relazioni fra ebrei e cristiani, e non andrà dimenticato che il documento si presenta più propriamente come la Magna Charta – ancor meglio, la Legge-quadro – dei rapporti con tutte le religioni mondiali, che dichiara definitivamente conclusa la lunghissima stagione dell'extra ecclesiam nulla salus (cf. n. 2: «La chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni», riferendosi all'islam, al buddismo, all'induismo e alle altre fedi presenti su scala planetaria).
Peraltro, anche un semplice sguardo sincronico e quantitativo alle cinque parti che compongono il testo ci rivela quanto pesi il quarto paragrafo, dedicato ad Israele, che da solo ne occupa quasi la metà. Persino il suo contenuto e l'incipit solenne («Scrutando accuratamente il mistero della chiesa, il sacro concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato alla stirpe d'Abramo…») ne fanno una sorta di trattato a parte, che ne giustificano la centralità strategica da ogni punto di vista.
I passi avanti
«Abbiamo fatto esperienza di come sia possibile che persone di differenti religioni e culture vivano armoniosamente l'una accanto all'altra per anni, per secoli anche, ma poi accade qualcosa che rompe l'equilibrio e rende difficile recuperare fiducia e tornare a coabitare in pace. La conoscenza reciproca profonda è necessaria in società pluralistiche come le nostre per assicurare una pace duratura». Così mons. Michael Fitzgerald, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, aprendo il 25 settembre scorso alla pontificia università Gregoriana i lavori del convegno internazionale “Nostra aetate oggi”, organizzato dall'Istituto di studi su religioni e culture e dal Centro cardinal Bea per gli studi giudaici.
Per tentare di fare il punto sul dialogo ebraico-cristiano (meglio: cristiano-ebraico), innanzitutto, bisogna fare un passo indietro e sapere che il suo avvio reale risale ad appena una sessantina d'anni fa: in genere si adotta quale riferimento la conferenza internazionale del 1947 di Seelisberg, in Svizzera, dove i settanta convenuti (cattolici, protestanti ed ebrei) si riunirono per verificare la possibilità di una cooperazione nella lotta contro l'antisemitismo. Il documento conclusivo, ispirato da una proposta del funzionario dell'amministrazione francese Jules Isaac (che aveva perso l'intera famiglia nel lager di Auschwitz), detto I dieci punti di Seelisberg, eserciterà una vasta influenza sulla riapertura del cammino.
In precedenza non erano mancati esperimenti e pionieri, cristiani ed ebrei, sin dalla metà del XIX secolo, fra i quali nomi noti alla storia della cultura: sul versante cristiano, dal Léon Bloy autore del libro La salvezza dagli ebrei a Jacques Maritain, che pone al centro della sua visione del mondo Israele, l'ebraismo, il popolo ebraico; da Franz Rosenzweig con la sua Stella della redenzione allo stesso Martin Buber, sul versante ebraico.
È proprio a Seelisberg, peraltro, che esplode l'esigenza nuova di agire risolutamente affinché l'antisemitismo che aveva provocato la Shoà non sia più alimentato da influenze religiose cristiane. Accanto all'impegno di correggere definitivamente “l'insegnamento del disprezzo” (espressione, poi invalsa nell'uso, di Isaac), culminato nell'accusa di deicidio, affiorerà poi ben presto la coscienza dell'esistenza di un legame speciale delle chiese con l'ebraismo.
Da allora, il percorso fatto non è stato irrilevante. Da parte delle gerarchie, con la cancellazione della preghiera del venerdì santo pro perfidis iudaeis, operata da Giovanni XXIII nel 1959, e lo storico abbraccio tra Karol Wojtyla e rav Elio Toaff nel 1986 nel tempio maggiore a Roma, la promozione di ben 18 incontri del Comitato di collegamento cattolico-ebraico (1970-2004) e l'attesa apertura di relazioni diplomatiche tra lo stato d'Israele e la Santa Sede (1993), ma anche con una lunga serie di documenti di episcopati nazionali, chiese evangeliche, comunità locali. Da parte di ambienti specifici particolarmente sensibili, come (per limitarci al versante italiano) le varie Amicizie ebraico-cristiane e i Colloqui di Camaldoli, il SIDIC e il Centro card. Bea, riviste come SeFeR e QOL, gli appuntamenti del SAE e del Gruppo milanese Teshuvà…
Un evento rilevante riguarda poi l'intuizione dei vescovi italiani che dal 1990, in perfetta sintonia col dettato di Nostra aetate, proposero alle chiese locali di vivere una “Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano”, il 17 gennaio di ogni anno. La scelta della data non fu casuale: la ricorrenza, infatti, si situa immediatamente prima della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio), con la doppia, evidente intenzione di sottolineare la priorità dell’incontro con Israele, radice santa della nostra fede, rispetto a qualsiasi pur apprezzabile sforzo ecumenico e, nel contempo, l’impossibilità che quest’ultimo possa produrre risultati concreti di un certo livello senza un rinnovato invito a porsi appunto alla scuola di Israele. Su tutti i piani, come si augurava qualche anno fa la Commissione diocesana per l’ecumenismo e il dialogo di Milano: «Il rapporto cristiano-ebraico, impostato su basi nuove dal concilio Vaticano II, non deve più essere un impegno solo di vertice nella chiesa, di alcuni gruppi o movimenti, ma deve diventare coscienza ecclesiale di base».
I problemi del dialogo
Credo sia necessario confessare che siamo tuttavia ancora dell'abc del dialogo. E quindi annotare con onestà, come – oltre ai problemi cronici irrisolti – da qualche tempo il dialogo cristiano-ebraico si stia facendo particolarmente faticoso, e la stessa Giornata del dialogo meno sentita dalle comunità locali. Stanchezza, ripetitività, illusione di avere già rapidamente raggiunto la meta prefissa, ma anche – mi parrebbe – un investimento troppo timido nella pastorale ordinaria delle parrocchie, nella prassi dei movimenti e nei curricoli degli studi teologici.
Per di più, dobbiamo sempre ricordare che sono anni, questi, assai delicati per il numericamente esiguo mondo ebraico (italiano, ma non solo): il quale, anche per quanto sta accadendo su scala internazionale, dai fragili equilibri del Medio Oriente agli insensati appelli ad uno scontro di civiltà, dagli esiti sciagurati della guerra in Iraq alle recenti dichiarazioni del nuovo leader iraniano Ahmadinejad – con conseguente invito a cancellare dalla carta geografica lo stato israeliano (!) –, da un lato, sta conoscendo una certa chiusura identitaria mentre, dall'altro, intravede lo spettro del riemergere di un antisemitismo mai del tutto sopito in Europa. Cito ad esempio il sondaggio dell’Unione Europea del 2003 su quale sarebbe il paese che mette più a rischio la pace nel mondo (in cui stravinse Israele), o l’inchiesta statistica presentata da Renato Mannheimer sul Corriere della Sera un paio d'anni fa, secondo cui l’antisemitismo sfiorerebbe un italiano su cinque, mentre chi apprezza lo stato ebraico raggiungerebbe appena il 42% dei nostri connazionali. Risultati che, una volta di più, rimandano alla necessità di un investimento serio in chiave di formazione e di educazione, a scuola ma non solo: per uscire da stereotipi stantii, da pregiudizi tanto inveterati quanto ancora dominanti in troppa pubblicistica e in troppo sentire comune. Non sarà facile e, al proposito, il ruolo della chiesa cattolica, per il peso di un antigiudaismo storico, non può essere davvero sottovalutato.[4]
È sempre un’arte complicata, quella del dialogo, un chiarirsi reciproco che si paga a caro prezzo, perché comporta la capacità di ascoltare e la convinzione autentica che anche nell’altro da sé alberghi almeno una porzione, una scintilla di verità: ma oggi lo è più del solito, ad ogni livello; oggi che le carte d’identità si vanno frantumando, per un verso, e le frontiere fra il dentro e il fuori si fanno impalpabili, mentre si impongono certezze identitarie chiuse, integraliste, quasi tribali. Ma con l'ebraismo la questione è ancor più complessa, e si pone – come coglieva lo stesso Giovanni Paolo II nel 1979, in uno storico discorso a Mainz – al livello dell'identità della chiesa, della sua autocoscienza profonda. Non è agevole neppure sul piano psicologico, da parte del popolo cristiano, accettare di essere figlio di uno scisma, di una frattura originaria – quella, appunto, con Israele – che non è stata ancora ricucita.
Un testimone attento delle relazioni cristiano-ebraiche come Paolo De Benedetti, docente di giudaismo alla Facoltà teologica dell'Italia settentrionale a Milano, mette in guardia (non senza ottime ragioni) contro un uso poco accorto della parola “dialogo”: «Dei valori umani, della giustizia? Spesso si dice che ebrei e cristiani devono parlare di questo; ma di questo si parla con tutti gli uomini. Il dialogo non sarà una di quelle parole da mettere nel dizionario delle parole morte o che meritano di morire, che noi usiamo come segnaposti e che ci vanno bene purché non ci guardiamo dentro? Un dialogo cristiano-ebraico è necessario: ma è il dialogo della chiesa con se stessa al cospetto di Israele…».[5]
Per cogliere le contraddizioni in atto basterebbe accennare ad un paio di temi essenziali tuttora scarsamente considerati dalla coscienza cristiana, le ripercussioni – anche sul piano teologico – della Shoà e il significato unico e cruciale che per il mondo ebraico ha la terra d'Israele. Oppure tornare al 2000, quando – nel contesto del Grande Giubileo – accanto alla richiesta da parte di papa Wojtyla di perdono per i peccati commessi da non pochi cristiani contro il popolo dell'alleanza e al suo riuscito viaggio a Gerusalemme, furono registrate altresì alcune significative pietre d'inciampo: con le proteste ebraiche per la beatificazione di Pio IX (il caso del battesimo forzato del bambino ebreo Mortara!), le mai sopite discussioni sui silenzi di Pio XII sulla Shoà, la problematica assenza di riferimenti ad Israele della Dominus Iesus e la relativa, amara cancellazione della già prevista liturgia dedicata alle relazioni cristiano-ebraiche nel quadro dell'Anno Santo. Episodi che, abbinati ad altri trascinati a lungo (per fare un esempio, il caso del convento delle carmelitane ad Auschwitz), se non potrebbero in alcun modo cambiare di segno la direttrice maestra del dialogo, invitano a non abbassare la guardia, a non dare alcun esito come definitivamente scontato.
Un rapporto asimmetrico
Un contesto che va tenuto presente, nel rileggere le preziose e franche considerazioni su “Percorsi fatti e questioni aperte nei rapporti ebraico-cristiani oggi” del rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, tracciate il 19 ottobre 2004 alla pontificia università Gregoriana.
Secondo Di Segni, se qualcuno ritiene ingiustificata o ingenerosa la riluttanza di molti ambienti rabbinici ad alcune forme di apertura dei cristiani e si meraviglia della lentezza delle loro reazioni, non si rende conto della caratteristica fondamentale che distingue il rapporto ebraico-cristiano. Non è un rapporto tra uguali, né un rapporto simmetrico; come non è simmetrico il rapporto tra figlio e padre, tra chi è grande numericamente e chi è piccolo, tra chi per secoli ha dominato e chi è stato, nella migliore delle ipotesi, appena tollerato; e soprattutto per l’essenza stessa delle due fedi. Per il cristiano, infatti, è impossibile una fede che non sia radicata in quella originaria di Israele, ma nella quale si manifesta l’incarnazione; per l’ebraismo quell’incarnazione è negazione della fede originaria. Per il cristiano l’incontro con l’ebraismo è la riscoperta delle radici della sua fede; per l’ebreo l’incontro con il cristianesimo è quello della diversità inserita nelle sue radici. Teologicamente il cristiano non può fare a meno di Israele; l’ebreo, nella sua fede, deve fare a meno di Cristo se non vuole negarla.
È proprio a causa di questa fondamentale asimmetria teologica, e di tutte le conseguenze che ha determinato nel corso della storia – proseguiva il rabbino – che il rapporto ebraico-cristiano, come si è sviluppato a partire dal Vaticano II, è stato, salvo poche eccezioni, un grande processo promosso in prima persona dalle chiese cristiane, che ha visto le varie componenti dell’ebraismo ora scettiche, ora riluttanti, ora collaboranti con entusiasmo; ma quasi sempre nel ruolo dell’invitato.
Particolarmente significativo – e a mio parere ancora poco noto – è del resto il fatto che siano già parecchi gli studiosi ebrei ad essersi interessati all'ebraismo di Gesù, concentrandovisi come argomento ineliminabile del dialogo: a partire dal già citato Jules Isaac, che con il suo pionieristico Gesù e Israele proprio negli anni di Auschwitz assolse il compito catartico di denunciare i pregiudizi cristiani antiebraici su Gesù, per proseguire coi vari Aron, Ben Chorin, Lapide, Flusser e Vermès. Mentre Martin Buber è giunto ad aprire nuovi orizzonti di riflessione, arrivando ad ammettere: «Sin dalla mia giovinezza ho avvertito la figura di Gesù come quella di un mio grande fratello… Il mio rapporto fraternamente aperto con lui si è fatto sempre più forte e puro, e oggi io vedo la sua figura con uno sguardo più forte e più puro che mai. È per me più certo che mai che a lui spetta un posto importante nella storia della fede di Israele e che questo posto non può essere circoscritto con nessuna delle usuali categorie di pensiero».[6]
Sull'argomento, non mancano oggi le sorprese, e le posizioni, scarsamente valorizzate, che sarebbero in grado di aprire orizzonti inattesi. È il caso, ad esempio, di un intellettuale ebreo di primo piano, l'esegeta francese Armand Abécassis, docente di filosofia comparata presso l'università Michel-de-Montaigne di Bordeaux,[7] secondo il quale, il ritorno alla figura di Gesù sarebbe in grado di promuovere reali progressi nel cammino del dialogo.
«Io credo che ci siano condizioni favorevoli – ha ammesso in occasione di una recente intervista, durante una tournée canadese – per avviare un vero dialogo ebraico-cristiano, improntato alla franchezza. Non un equivoco sincretismo, non un'esposizione di lagnanze e di colpe, non un richiamo a valori che potrebbero essere arcaici e superati, ma un sincero sforzo per comprendere ciò che separa ebrei e cristiani e ciò che realmente li unisce. La riscoperta comune della vita di Gesù potrebbe favorire l'avvicinamento tra gli appartenenti alle due religioni».[8]
I limiti della dignità altrui
Stando ad Abécassis, nonostante esse siano sempre necessarie, sarebbe ormai tempo di andare oltre le Amicizie ebraico-cristiane: «In Europa, i gruppi di Amicizie ebraico-cristiane sono in crisi. Al di là del dialogo convenzionale, bisogna che gli ebrei e i cristiani si siedano intorno allo stesso tavolo per studiare insieme i testi della Torà e dei vangeli. Tale arduo lavoro è già iniziato in molti paesi europei, specialmente in Francia, in Svizzera e in Belgio. Io stesso partecipo a seminari di studio sia dei rabbini che studiano i vangeli che di sacerdoti cattolici e protestanti i quali, padroneggiando perfettamente l'ebraico e l'aramaico, studiano gli scritti della Torà. Senza rimettere in discussione il cristianesimo, questi esegeti non ebrei purificano così la loro fede dalle inesattezze antisemite divulgate dalla chiesa durante i secoli. Al giorno d'oggi, solo lo studio comune delle scritture sante care alle due tradizioni potrà permettere al cristianesimo e all'ebraismo di unire i loro sforzi per risolvere le divergenze teologiche che li contrappongono da gran tempo».
E ancora, per lo studioso bisognerebbe che i cristiani comprendessero che esistono due Gesù, Gesù l'ebreo e Gesù il Cristo: una distinzione fondamentale per cogliere la natura del contenzioso che oppone, sul piano teologico, il cristianesimo all'ebraismo («Il Gesù ebreo turba il cristiano perché è un concetto che sconvolge completamente la sua convinzione»).
Secondo Abécassis, per avvicinarsi ai cristiani, è inoltre imperativo che gli ebrei ricostruiscano un pensiero ebraico sul cristianesimo: sarebbe assolutamente necessario che gli ebrei si impegnassero meglio a conoscere la spiritualità cristiana, «una spiritualità nobilissima che predica l'amore e la fraternità». Lo studio della spiritualità cristiana permetterà agli ebrei di distinguere gli aspetti della tradizione cattolica che possono, o non possono, essere accettati dalla tradizione ebraica. Ad esempio, quando un ebreo legge i vangeli, scopre che questi testi celano una morale straordinaria… e tutto ciò che Gesù dice è perfettamente valido da un punto di vista talmudico. Egli affronta temi che rivestono un ruolo centrale nella tradizione religiosa ebraica: l'amore, la giustizia, il prendersi cura dell'altro...
In conclusione, credo vada ripetuto senza stancarci e con estrema nettezza: mancando un riferimento alla radice d’Israele, i cristiani rischiano di trovarsi come il sale che ha perso il proprio sapore (Mt 5,13). Una radice che, però, non è solo residuo del passato, ma protagonista del presente proiettata sul futuro. Ancora Giovanni Paolo II, il 6 marzo del 1982: «Cristiani ed ebrei, pur non identificandosi, non si escludono né si oppongono, ma sono legati al livello stesso della loro identità».
Forse, la via migliore per tornare a quella radice e per riacquistare il sapore smarrito è quella di percorrere, col dovuto rispetto, il cammino dell’incontro, ancora più che del dialogo (esigenza certo più cristiana che ebraica per la citata asimmetria del dialogo), prendendo le mosse proprio da rabbi Yehoshua da Nazaret, ebreo in tutto e per tutto e, in quanto tale, avvicinabile sia dagli ebrei sia dai cristiani, ciascuno secondo la propria strada, e ciascuno conservando la propria specificità. La via di un simile incontro potrebbe passare, paradossalmente ma non troppo, attraverso Gesù, poiché egli «rimanda l’ebreo al suo ebraismo e la reazione ebraica verso Gesù può, è sperabile, aiutare il cristiano nella sua cristiana intelligenza di se stesso» (D. Flusser). Del resto, «un dialogo è maturo – come ha scritto Massimo Giuliani, in un articolo prezioso – quando tiene conto degli squilibri storici, delle asimmetrie psicologiche e delle conflittualità teologiche senza farsene travolgere; ma è maturo anche quando vigila costantemente sul proprio linguaggio e sta attento a non trasgredire i limiti della dignità altrui».[9] Da questo punto di vista, è innegabile che la delicata pianticella del dialogo abbia ancora bisogno di molta acqua e di molta cura, per offrire frutti finalmente saporiti.
Brunetto Salvarani
Settimana dicembre 2005 n. 44
NOTE
[1] Cf. in particolare Valentini D., «La svolta della “Nostra aetate”», in Sett. n. 39/05, p. 13.
[2] De Goedt M., articolo su La Croix (12/8/1989), p. 2.
[3] Martini C.M., “Ebrei e cristiani di fronte alla sfida del nostro tempo”, in Nuova Umanità n. 37 (1985), p. 51.
[4] Per un quadro storico del problema, cf. L. Buccheri, “Le radici antiche di un male moderno”, in Sett. n. 45/03, p. 3.
[5] De Benedetti P., “Un balbettio necessario”, in QOL nn. 40-41 (1991), p. 26.
[6] Cit. in S. Ben-Chorin, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Morcelliana, Brescia 1985, p. 27.
[7] Autore di molti saggi su ebraismo e cristianesimo – tra cui La Pensée juive, un imponente studio in quattro volumi (Hachette-Biblio-essais, 1996), e En vérité je vous le dis - Une lecture juive des Évangiles (Hachette, 1999) –, questo commentatore di provata esperienza sui testi del Primo e del Nuovo Testamento ha pubblicato da poco un saggio provocatorio che ha suscitato varie reazioni, Judas et Jésus, une liaison dangereuse, opera di grande erudizione che riabilita l'apostolo Giuda, maledetto dalla chiesa per due millenni.
[8] Levy E., “Intervista ad A. Abècasissis”, in La Presse (30/12/2001).
[9] Giuliani M., “Ebrei e cristiani, un dialogo che rispetti le differenze”, in Vita e Pensiero n. 2 (2005), p. 101.
RICORDARE CON CUORE NUOVO
Non assomigliamo mai tanto a Dio come quando perdoniamo
Se accettiamo che perdono e riconciliazione sono l’asse centrale del Vangelo di Gesù, risulta vergognoso che fedeli e leader cristiani conoscano così scandalosamente poco circa i suoi contenuti e metodi. In un’attenta rassegna bibliografica che ha coperto il periodo dal V al XX secolo, elaborata dall’Università del Wisconsin negli Usa, si è scoperto che in questi quindici secoli sono stati scritti appena un centinaio di titoli sul perdono interpersonale. Peggio ancora, i contenuti erano estremamente poveri e ripetitivi!
Il primo passo nell’esercizio di rafforzare cultura e spiritualità del perdono è capire che cosa è e che cosa non è perdono. Robert Enright, uno degli autori classici sul tema, definisce il perdono «la disposizione ad abbandonare il diritto al risentimento, al giudizio negativo e alla condotta indifferente verso chi ci ha offesi ingiustamente e, piuttosto, coltivare atteggiamenti di compassione e bontà verso quella persona». Perdono è molto più che accettare o tollerare l’ingiustizia. È molto più che frenare la rabbia e il dolore dell’offesa.
Con frequenza si sente dire: «Perdono, ma non dimentico». Perdonare non è dimenticare, ma ricordare con altri occhi! Così il perdono si converte nella forma più intelligente e più saggia di amministrare la «memoria ingrata», che proviene dalle offese recateci dal prossimo. Il perdono ricostruisce la memoria ed evita l’amnesia. L’Eucaristia è un esercizio formidabile in questo senso: «Fate questo in memoria di me». È la memoria che redime!
Il perdono non è nemmeno condonare le ingiustizie. Ai giudici spetta applicare la giustizia secondo la legge. In molti casi, i governi possono concedere amnistie e indulti, ma il perdono è e sarà sempre privilegio esclusivo delle vittime. Come l’amore, il perdono riguarda l’intimo e non può essere regolato sul piano giuridico.
Perdono e non-perdono possono comprendersi meglio per mezzo degli archetipi di Caino e Abele. Lungo la storia dell’umanità è prevalso l’archetipo di Caino (Freud lo chiama thanatos). L’archetipo di Abele conduce invece all’amore e al perdono. È una forma di affermazione della volontà umana, di spiritualità profonda, di esistenza creatrice.
Il perdono si converte così in un atto politico di sopravvivenza umana, un esercizio squisito di umanità e di alta spiritualità e, soprattutto, un’espressione di livelli elevati di cultura e di evoluzione degli individui e della collettività. L’impiccagione di Saddam Hussein ci ha fatto sentire che il mondo è dominato ancora da un cervello arcaico, da una cultura di Caino.
La nostra esperienza nel promuovere la cultura del perdono e della riconciliazione in Colombia e in altre parti del mondo ci ha consegnato una certezza. Le persone che ricevono un’offesa si sentono colpite in almeno tre punti fondamentali: la sicurezza in se stessi, il significato della propria vita e la capacità di socializzare.
Le relazioni sociali sono come uno specchio per le persone. L’offesa rompe lo specchio dell’esistenza nella quale esse si riconoscono. Non avendo più identità, si mettono in disparte, perdendo la capacità di socializzare; per questo il capitale sociale si vede gravemente deteriorato. È il trauma quotidiano degli individui e dei gruppi umani. Il perdono è quindi ricostruzione e recupero di quel capitale e di quella forza sociale. L’homo sapiens si converte in homo reparans. Allo stesso modo in cui le ferite fisiche e le malattie possono infettare tutto il corpo e contagiare anche gli altri, così le offese producono forme di infezione che isolano le persone e i gruppi umani. Il perdono si converte allora in una igiene dell’anima.
Essere un regalo per me stesso e per chi mi ha offeso: questa è forse la definizione più semplice del perdono. La stessa etimologia della parola porta al concetto profondo del dono (per-donare). Per questo l’irruzione di Gesù nella storia col suo messaggio di perdono e riconciliazione, asse del suo Vangelo, si converte nel punto-chiave della salvezza del mondo. Attraverso il perdono, noi uomini ci rendiamo partecipi del potere di creare e ricreare le persone.
Non assomigliamo mai tanto a Dio come quando perdoniamo. È la spiritualità nella sua massima profondità e ricchezza, il cielo e la terra nuovi annunciati dall’Apocalisse!
di Leonel Nervàez Gòmez
Missionario della Consolata, sociologo (Colombia)
Mondo e Missione/Febbraio 2007
TENTAZIONI DELLA CHIESA E DELLA SOCIETÀ CIVILE
Stando il dato rivelato, e di fatto, che l’uomo, sia laico sia – tanto più – cristiano, è profondamente toccato dal male, limitato pure nella sua intelligenza, non ci si può meravigliare delle reciproche incomprensioni tra la Chiesa e la società civile (oggi esaltate dai mass media) e addirittura di vere e proprie "tentazioni" di invasioni di campo. Vediamole
Il titolo proposto per questa riflessione introduttiva al dossier sulla "cittadinanza", ricco di contributi sicuramente di alto profilo da parte di esperti nei vari ambiti, si presenta come allettante e rischioso nello stesso tempo.
Allettante perché già in partenza vuole enunciare un dato importante: tutti siamo esposti a tentazioni, sia a livello personale che di appartenenza plurima, culturale, sociale, religiosa o altra. Viene perciò posto come premessa che nessuno può presentarsi indenne appunto da prevaricazioni almeno nei modi.
Rischioso, dal nostro punto di vista, quello ecclesiale (che ci interessa maggiormente), poiché si può avere l’impressione che le due comunità in questione con relative tentazioni si possano porre sullo stesso piano, in assoluta parità; ciò che in realtà non è o, meglio, non dovrebbe essere. Proviamo a spiegarci se possibile.
Se è vero che sociologicamente parlando la Chiesa e la società civile hanno in comune molti dati, primo tra tutti quello determinante di essere ambedue composte di uomini e donne e di occuparsi delle persone, spesse volte le stesse, con finalità però assai diverse, è altrettanto vero che proprio noi Chiesa affermiamo con forza che la dimensione sociologica non può rendere del tutto la realtà tipica nostra, che va ben oltre, poiché tocca ciò che noi giustamente chiamiamo "mistero" ed è la sua vera specificità (LG 1 e 8).
Dunque, a meno di ritornare a ecclesiologie di alcuni secoli fa, quando si sosteneva apertamente che la Chiesa era una società perfetta distinta e alla pari, tale e quale, di Francia e Germania, è necessario avere ben chiaro e sicuro che le tentazioni che vi sono certamente da parte della società laica (meglio, laicista) e della Chiesa sono su piani diversi, perché diverse sono nella loro stessa realtà profonda le comunità che non possono fare a meno di incrociarsi continuamente.
Sulla base di questo chiarimento forse non inutile, ci si può provare a delineare prudentemente alcune tentazioni rispettive come da titolo ufficiale, con molta cautela e senza nessuna pretesa di esaustività, soprattutto di assolutezza (sarebbe pure questa, e grave, una tentazione!). Probabilmente prima e più ancora che elencare le singole "tentazioni" da una parte e dall’altra, può essere utile e interessante cercare di mettere in luce "la tentazione" di fondo, vale a dire l’atteggiamento pregiudiziale che spesso sembra travagliare la società laica e anche quella ecclesiale nel rapportarsi a vicenda: quello che potremmo definire del sospetto e quindi dell’incomprensione reciproca.
Tentazioni della società civile
La società civile o, meglio, umana in genere, effettivamente è portata spesso, in buona o anche cattiva fede, a guardare alla Chiesa unicamente come istituzione, potere mondano come gli altri. Soprattutto è portata a vederla come concorrente nei vari ambiti ove per forza di cose, essendo i membri della Chiesa necessariamente cittadini e quindi persone che fan parte delle due comunità nel tempo stesso, essa esercita legittimamente la sua guida e insegnamento autorevole circa i diritti umani, la vita, la famiglia, la giustizia, la pace, reclamando la libertà religiosa.
Di qui la tendenza molto frequente a porsi in stato di conflitto con la Chiesa accusata di "invadenza" non tanto per l’aspetto strettamente religioso, generalmente ammesso, fatta eccezione degli Stati totalitari di ogni colore, quanto piuttosto proprio in sistemi democratici (ironia del termine!) quando si tratta di affermare e difendere valori per sé semplicemente umani (esempio classico: la vita).
Ora è evidente che oggettivamente parlando questa è una vera tentazione, vale a dire una pretesa non fondata, poiché basterebbe anche solo citare ciò che il concilio Vaticano II afferma con chiarezza cristallina nella Gaudium et spes proprio riguardo all’autonomia delle realtà terrestri, ove distingue bene tra autonomia legittima (indipendenza dalla Chiesa, potremmo dire) da quella illegittima (indipendenza da Dio). A questo proposito basti richiamare l’ultima severa battuta di GS 36: «L’oblio di Dio rende opaca la creatura stessa».
Per quanto poi riguarda più specificatamente la società civile, certamente principale tra le realtà terrestri, il Concilio precisa con grande accuratezza e chiarezza inequivocabile i rapporti positivi se ben posti con la Chiesa, nel noto passo di GS 76, riassumibili nella distinzione e collaborazione, perché ambedue «a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini».
Se le cose a livello di principio, almeno per noi ma in una certa misura anche per la società civile italiana stando alla nostra Costituzione (art. 7) e intese concordatarie, sono abbastanza chiare, come mai le "tentazioni" o, sempre meglio, "la tentazione" di cui sopra? La risposta è fin troppo facile proprio per noi credenti chiamati a capire anche per gli altri, eventualmente non credenti! Prescindendo volutamente da giudizi sulle persone (solo Dio vede nei cuori loro e nostri) si può sommessamente ricordare una verità abitualmente trascurata eppure squisitamente facente parte della nostra fede.
L’uomo in generale nella sua condizione storica, lo sappia o non lo sappia, lo creda o non lo creda, poco importa, non è integro, ma profondamente toccato dal male, con la volontà indebolita ma pure con l’intelligenza offuscata per cui, ciò che in sé (per esempio i valori di cui sopra) dovrebbe essere evidente e imporsi da solo, di fatto non avviene senza la grazia, con tutte le ovvie conseguenze di non riconoscere quale sia il suo vero bene e di rifiutare come invadente chi tenta di ricordarglielo. Il mistero del male non è una favola, mai. Non si tratta di trovare scuse di comodo per giustificare chicchessia, ma nel tempo stesso occorre evitare ingenue meraviglie o anche inutili e controproducenti arrabbiate polemiche.
Tentazioni della Chiesa
La Chiesa a sua volta (cioè, per essere concreti, noi tutti pastori e fedeli) è soggetta anch’essa a "tentazioni", e come! Paradossalmente non sono poi così diverse da quelle sopra accennate da parte della società civile. Intanto perché la Chiesa (noi) non vive in un altro mondo ma in questo comune a tutti, soprattutto perché è fatta di uomini e donne, con il peccato originale come gli altri, per cui non può essere esente da tentazioni, anzi da peccati veri e propri, come ci ricorda il Concilio a chiare lettere: «La Chiesa che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento» (LG 8).
Messo questo punto fermo, che spesso si dimentica pur senza negarlo, ci si può chiedere quale sia concretamente l’effettiva tentazione da parte della Chiesa proprio in rapporto alla società laica o laicista, spesso come detto sopra in atteggiamento di sospetto verso la Chiesa stessa. Anche se di primo acchito può sembrare strano, si può dire che la tentazione maggiore fonte di tutte le altre sia proprio quella che meno ci si aspetterebbe (infatti molti non vi pensano e a volte non vogliono crederlo e ammetterlo): quella della mondanizzazione, cioè di assimilazione alla società civile, cadendo di conseguenza nella stessa logica del sospetto, della paura e della concorrenza dei poteri.
La Chiesa cioè (sempre tutti noi, pastori e fedeli!), presa e preoccupata giustamente della sua missione evangelizzatrice specialmente in un contesto secolarizzato come il nostro, nell’ansia, meglio, nel timore di non riuscire a realizzare il suo compito di annunzio di Cristo e del suo Vangelo, quindi a fin di bene (quanti equivoci al riguardo!), rischia di lasciarsi attirare da vie e stili, da uso di strumenti che non sono evangelici ma appunto mondani, cercando alleanze non consone anche se apparentemente appaganti (per esempio con gli esponenti della religione civile). Questo pare il punctum dolens specie per le nostre Chiese italiane in questi anni.
La differenza cristiana
È triste e soprattutto non positivo ai fini della missione che tanti nostri fratelli anche laici, attenti ai messaggi e ancor più ai comportamenti ecclesiali, abbiano l’impressione che la Chiesa che è in Italia abbia paura non si sa bene di chi o di che cosa, non si senta tranquilla, sembri nutrire nostalgie di altri tempi e situazioni decisamente passate più favorevoli alle istituzioni. Insomma, pare temere la precarietà tipica evangelica, l’unica garanzia (non è ironia, ma semplice constatazione) offerta dal Signore ai suoi discepoli con la precisa predizione della continua persecuzione per i veri suoi testimoni e la sua Chiesa fedele.
Si tratta, direbbe Enzo Bianchi, della " differenza cristiana" che deve pure non solo esistere ma rendersi visibile, se si vuole che diventi messaggio credibile dei contenuti salvifici che la Chiesa è chiamata a offrire al mondo, da sempre (non da oggi) sospettoso, incredulo, scettico di fronte a doni veri e grandi, ma per natura loro non percettibili e apprezzabili se non testimoniati concretamente. Si parla giustamente di una visibilità della Chiesa nella società, ma non dimentichiamo che non può essere altra che quella di Cristo innalzato sulla croce.
Ogni volta che la Chiesa ha creduto, sia pure in buona fede, di poter evangelizzare più speditamente e ampiamente cedendo alla facile tentazione di servirsi di mezzi e modi non propri, magari più efficienti, ci ha sempre rimesso in efficacia vera, in autenticità di testimonianza. Presto o tardi, invece di essere aiutata è stata regolarmente strumentalizzata. La storia impietosa di ieri e di oggi ce lo conferma a iosa; ma si sa, anche se è maestra, non conta molti discepoli. Eppure la Chiesa ridisegnata dal concilio Vaticano II aveva offerto delle chiare e salutari impostazioni al riguardo, basti pensare, per limitarci ai rapporti Chiesa/mondo, alla Gaudium et spes, vero faro illuminante e sicuro punto di riferimento.
Una Chiesa così, ricca solo della Parola, della grazia del suo Signore, che non conta per nulla sui mezzi e poteri di questo mondo, che cosa ha da perdere, di chi o di che cosa può avere paura? Solo di sé stessa, o meglio delle debolezze e fragilità, dei peccati dei suoi membri, pastori e fedeli tutti. Una Chiesa così non cerca alibi altrove, non batte mai il mea culpa sul petto altrui, ma sempre e solo sul suo, come sapientemente e umilmente ha fatto Giovanni Paolo II durante il Giubileo 2000 e altre volte.
A Verona è stato autorevolmente richiamato il Concilio, in modo particolare proprio a proposito del rapportarsi della Chiesa agli uomini d’oggi come sono, con l’invito a incarnare nel nostro tempo la parola sempre valida della Prima lettera di Pietro: «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi [...], con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza» (3,15-16). Sinceramente pensiamo che questa sia la via migliore, forse l’unica, per farci superare le varie tentazioni sempre ricorrenti.
di monsignor Sebastiano Dho
vescovo di Alba (Cn)
Vita Pastorale/marzo 2007
IL PRIMATE ANGLICANO E LO SCONTRO DI CIVILTÀ
Il 23 dicembre il Times di Londra ha pubblicato un intervento dell’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, primate della Comunione anglicana, molto critico verso l’intervento armato in Iraq e, più in generale, verso la politica bellicista perseguita in questi anni dall’amministrazione americana e dal governo inglese. Williams era appena tornato da un pellegrinaggio in Terra Santa, svoltosi dal 20 al 23 dicembre appunto, insieme all’arcivescovo di Westminster, il cardinale Cormac Murphy-O’Connor, al primate della Comunione armena in Gran Bretagna, Nathan Hovhannisian e al reverendo David Coffey, moderatore delle Free Churches. I pellegrini si sono recati a Gerusalemme, dove hanno incontrato i rappresentanti delle 13 Chiese e comunità cristiane della città, ospiti del patriarca greco ortodosso Teofilo. Infine, si sono recati a Betlemme, presso la grotta della Natività, dove hanno preso parte a una celebrazione ecumenica. Di seguito pubblichiamo ampi brani dell’articolo apparso sul Times.
Queste comunità potranno sopravvivere solo se i loro fratelli cristiani in Occidente si decideranno a prestare loro un po’ di attenzione.
E questo non significa che il ricorso a rozze pressioni politiche e militari per “proteggerle”, con modalità che servirebbero solo a rafforzare l’idea che siano alleate dell’Occidente e, pertanto, necessariamente inaffidabili.
Nei frenetici giorni immediatamente precedenti la guerra in Iraq, qualcuno aveva spesso profeticamente avvertito, per essere sistematicamente ignorato, che l’intervento militare occidentale – se condotto in quel momento e con quelle modalità – avrebbe messo a rischio le popolazioni cristiane dell’intero Medio Oriente, perché sarebbero state considerate simpatizzanti di un Occidente impegnato in una crociata. E ci si era chiesti se non fosse per lo meno il caso di avere una strategia per poter gestire tale eventualità.
Ebbene, non c’è mai stata alcuna strategia. E le conseguenze vanno ora dolorosamente ad aggiungersi alla già difficile situazione delle comunità cristiane di tutta la regione. La popolazione cristiana dell’Iraq continua a ridursi di migliaia di unità ogni due mesi e alcuni tra i suoi capi più validi sono stati costretti a lasciare il Paese. A Istanbul la popolazione ortodossa è un minuscolo resto e una parte della stampa turca ha fatto sapere al loro Patriarca che è ormai giunto per lui il momento di andarsene. In Egitto, dove le relazioni tra cristiani e musulmani sono da sempre – e continuano a essere – intense e buone, gli attacchi condotti da integralisti contro i cristiani si sono fatti considerevolmente più frequenti.
Oltre a dover cercare asilo, cosa già di per sé ardua, non è raro per le famiglie arabe cristiane, che cercano rifugio nel Regno Unito, vedere i propri figli considerati a scuola “senza dubbio musulmani” e, quindi, messi insieme ai bambini musulmani a svolgere attività speciali. Questo a semplice riprova della totale disinformazione esistente nel Regno Unito, a partire dalle autorità governative, sui cristiani mediorientali.
Eppure per secoli quei cristiani hanno avuto una parte fondamentale praticamente in tutte quelle nazioni oggi considerate uniformemente musulmane – persino in Iran. Sono da sempre serviti a ricordare, tanto al mondo arabo quanto a quello occidentale, che “arabo” e “musulmano” non sono la stessa cosa e che le nazioni musulmane vantano una tradizione di rapporti amichevoli con i cristiani, loro vicini di casa. La migrazione delle popolazioni cristiane, invece, non fa altro che alimentare il mito, in Oriente come in Occidente, che l’islam non possa convivere con altre fedi e che lo scontro tra Oriente e Occidente rappresenti uno scontro insanabile tra fedi e culture.
Eppure le popolazioni cristiane potrebbero davvero rappresentare una parte della soluzione. In Libano, nel corso del conflitto della scorsa estate, sono state le comunità cristiane ad avanzare le proposte che potevano meglio assicurare una pace duratura, e sono stati i piani di pace elaborati dalla Chiesa maronita a essere ampiamente riconosciuti come la proposta più realistica nella ricerca di una pace tra le fazioni libanesi in guerra.
Certo, le comunità cristiane non possono vantare una storia priva di colpe nella regione, ma nell’attuale clima hanno qualcosa di significativo da dire: agli occidentali dicono di ricordare che il cristianesimo non ha avuto inizio in Inghilterra e nemmeno a Roma, ma che è una fede mediorientale; al mondo musulmano di ricordare che l’islam non avrebbe conosciuto la diffusione che ha avuto, se il terreno non fosse stato preparato – così come il Corano stesso dice – da altre religioni locali, dai cristiani e dagli ebrei della regione, e che esistono modi di essere autenticamente arabi, non occidentali, senza dover per forza essere musulmani.
Queste comunità potranno sopravvivere solo se i loro fratelli cristiani in Occidente si decideranno a prestare loro un po’ di attenzione. Questo non significa il ricorso a rozze pressioni politiche e militari per “proteggerle”, con modalità che andrebbero solo a rafforzare l’idea che siano alleate dell’Occidente e, pertanto, necessariamente inaffidabili. È accaduto troppo spesso nel passato. Significa, invece, essere pronti e disposti a protestare quando sono soggette a soprusi; mettersi direttamente in contatto con loro, creare connessioni tra le Chiese locali qui e in Medio Oriente; ricordare, quando si va a visitare quella regione, che esistono e che hanno bisogno di amici. [...]
Far sentire la nostra voce a nome delle antiche comunità cristiane del Medio Oriente ed essere loro amici è un bene sia per loro che per i musulmani, poiché serve a ricordare che in molte parti del Medio Oriente, e per lunghi tratti della sua complessa storia, tra le fedi esistevano rapporti più sani e responsabili.
Come si avverte in modo più intenso in Terra Santa. Ho trascorso gli ultimi due giorni con i capi cristiani di Betlemme, che hanno visto la popolazione cristiana ridursi a nemmeno un quarto. In parte della popolazione musulmana si notano segnali allarmanti di un sentimento anticristiano, nonostante le salde tradizioni di convivenza. E la situazione è resa ancor più intollerabile dalle tragiche condizioni create dal “muro di sicurezza” – che quasi soffoca la città ormai sempre più piccola –, dalla tragedia della povertà, dal vertiginoso livello di disoccupazione e dalle semplici difficoltà di ordine pratico per riuscire ad andare a scuola, al lavoro o in ospedale. Questo senso di disperato isolamento viene avvertito più acutamente dai cristiani rispetto alla maggior parte della popolazione.
Una volta i cristiani erano ampiamente rappresentati nelle classi di professionisti e meglio istruite, oggi molti sentono di non aver altra scelta che andar via. Un amico palestinese di fede cristiana mi ha detto che non avrebbe mai immaginato che persone come loro si sarebbero trovate ridotte a patire la fame, a non avere un lavoro, a dover affrontare violenze quotidiane. Alcuni tra quelli che potrebbero offrire un notevolissimo contributo per rendere la società palestinese più solida e più democratica sentono di non avere futuro in Terra Santa: per gli zeloti di una parte i cristiani rappresentano dei potenziali terroristi; per gli zeloti dell’altra possono essere considerati degli infedeli. E purtroppo sono gli zeloti a dirigere i giochi.
I primi fedeli cristiani furono mediorientali. Fa veramente riflettere l’idea che noi potremmo essere gli ultimi a vedere gli ultimi fedeli cristiani originari di quella regione. [...]
Questo Natale pregate per la piccola città di Betlemme, e riservate un pensiero a quanti sono stati messi in una così grave situazione di pericolo a causa della nostra miopia e ignoranza; e chiedetevi cosa sia possibile fare a livello locale per risollevare queste coraggiose e antiche Chiese
di Rowan Williams
30 Giorni n. 12 dicembre 2006
IL CORAGGIO DELLA PENTECOSTE
Una teologia che parte dall’ascolto in una Chiesa sempre più partecipativa e laicale. Una religione che rifiuta ogni forma di fondamentalismo per rispondere alle esigenze dell’oggi. Piste per una “Spiritualità di un altro mondo possibile”.
Il Forum sociale mondiale, che si è tenuto a Nairobi lo scorso gennaio, è stato come la punta degli iceberg; si vede solo la cima e non i corposi tre quarti del ghiaccio sott’acqua. Lo stesso vale per il Forum sociale. I cinque giorni in cui si è svolto l’evento non rendono giustizia al lunghissimo processo di preparazione, sia nella nazione ospitante sia negli altri continenti da dove i partecipanti provengono. Per poter presentare l’esperienza del servizio sociale che un gruppo intende condividere al Forum in forma narrativa, per scritto, fotografie, striscioni, proclami, cd, dvd è necessario un estenuante lavoro di concettualizzazione, di visualizzazione e di rifinitura del linguaggio. Tutto ciò arricchisce i partecipanti al Forum, ma prima di tutto chi prepara il materiale.
Quelli che criticano il Social forum perché le conseguenze sono irrilevanti, oppure sostenendo che i soldi dovrebbero essere spesi in modo diverso, non sono ovviamente in sintonia con quello che Paolo Freire chiama il circolo della prassi: cioè l’azione deve essere seguita dalla riflessione, per poter essere arricchita e purificata e crescere in incidenza e perfezionata a livello metodologico. I partecipanti al Forum sono in grandissima parte coinvolti in migliaia di iniziative. La loro principale difficoltà è proprio trovare il tempo di riflessione e condivisione con altri che affrontano le stesse sfide in diverse nazioni e continenti. Il Forum offre l’occasione sia per la riflessione sia per la condivisione e lo scambio.
Sono stato testimone del processo di preparazione di uno dei frutti del Social forum: il Forum teologico organizzato per la prima volta a Porto Alegre nel 2005 e nel 2007 a Nairobi, dal 16 al 19 gennaio. Durante i 12 mesi di preparazione ho visto una vera evoluzione fra i teologi cattolici e protestanti, uomini e donne coinvolti nel processo, che muovono verso una teologia molto più vicina alla gente, sia per gli argomenti sia per il linguaggio. Ritengo che questa sia una delle conseguenze maggiormente positive del Forum sociale, a cui forse nessuno ha mai prestato attenzione: una decisa influenza sulla teologia, rimasta per secoli anchilosata, elitaria e prigioniera delle biblioteche
Verso una teologia popolare e dinamica
Il tema del Forum teologico era: Spiritualità per un altro mondo possibile. A Porto Alegre la gente aveva protestato perché questo Forum era stato un fenomeno di élite, per addetti ai lavori, dove il gergo era da iniziati e quindi lontano dalla spontaneità e condivisione accessibile a tutti, che costituisce la caratteristica basilare del Forum sociale. I teologi si erano riuniti due giorni prima a porte chiuse, nella loro qualità di “esperti”. Lo stile era più simile al Forum economico mondiale dei magnati della finanza a Davos, in Svizzera, che al Forum mondiale sociale.
Tale metodologia è chiamata da Freire “metodo del distributore di benzina”. Il teologo è il benzinaio con tutto lo scibile e il popolo è il serbatoio vuoto. Il teologo fa da benzinaio versando nella gente la sua benzina. L’insegnamento, in tale visione, è solo l’atto di versare in persone passive, quindi è un insegnamento manipolativo e generatore di dipendenza intellettuale e operativa. La gente è passiva e quindi manipolabile; è vista come ignorante, come un perfetto “nessuno”, solo oggetto di attenzione e non soggetto di pensiero e decisione. Il popolo è considerato incapace di andare al di là del lavoro manuale, mentre chi conosce è il maestro! Il mondo della teologia, soprattutto quella insegnata nei seminari per futuri preti, è molto infetta da tale approccio, che contraddice la logica del Forum sociale, partendo dal presupposto che la gente ha conoscenza ed energie enormi, mentre ciò che spesso manca è l’occasione di manifestarle ed esprimerle.
Alla luce di questa visione, veramente rivoluzionaria in una Chiesa ancora molto verticista e sproporzionatamente gerarchica, il popolo di Porto Alegre (Social forum, 2005) criticò i teologi, suggerendo che il loro incontro avrebbe dovuto precedere il Forum sociale a Nairobi e avrebbe dovuto operare con la logica del Social forum, mettendo quindi al centro la gente, con il riconoscimento della sua esperienza di vita, di sofferenza, di fede, che devono essere verbalizzate ed espresse alla stregua di una grande ricchezza teologica. Fu implicito l’invito ai teologi a ripensare e ridefinire la loro identità in un mondo che diventa
Da “maestro” a “facilitatore”
Qual è l’emergente identità del teologo in questa nuova prospettiva? Viene in mente un detto di Mao Tse Tung sul maestro: «Il maestro è colui che restituisce al popolo in modo sistematico e operativo ciò che il popolo stesso gli ha comunicato in modo sperimentale e confuso». Quindi, l’enfasi è prima di tutto sull’ascolto, sul lasciar parlare la gente, sull’aiutare il popolo a testimoniare l’esperienza, i sogni, le attese, le paure, le frustrazioni, le speranze, le sofferenze. Il maestro deve scendere dalla cattedra e farsi alunno.
Si tratta di una vera conversione, molto difficile da “digerire” ai molti che considerano il titolo “professore”, “maestro”, “dottore”, come status e prestigio costruito con sudore durante gli anni dell’università e la gavetta dell’inizio. Una concezione complessa e plurima di cui, tuttavia, non tutti sono convinti. Durante il processo di preparazione del Forum teologico, tale atteggiamento è stato oggetto di non pochi dibattiti e tensioni. All’inizio si pensò a un classico congresso a numero chiuso, destinato ai soli teologi. Poi, il messaggio di Porto Alegre è rimbalzato come una sfida, che non poteva essere ignorata. Poi, la crescente esposizione agli obiettivi e soprattutto alla logica e metodologia del Social forum cominciava a fare presa sul comitato organizzativo.
Solo gradualmente, interagendo, informandosi di più su che cosa fosse il Social forum, includendo gente che vi aveva partecipato fin dall’inizio, interagendo pure con l’ideatore del Social forum mondiale, Chico Whitaker, ci si è resi conto che anche il convegno teologico avrebbe dovuto entrare nella logica del Social forum, staccandosi, quindi, dal modello delle solite conferenze dove la gente, al massimo, può fare qualche obiezione; quindi si è riformulata una metodologia, in cui la maggior parte del tempo sarebbe stata destinata ai gruppi “sotto le tende”; dove i partecipanti, divisi in gruppi di esperienze e di interesse, condividono la loro vita e i teologi sono presenti in mezzo alla gente, per dare un contributo di organizzazione scientifica e anche di aiuto a illuminare le esperienze stesse, con agganci biblici e con la storia e la dottrina sociale della chiesa.
A dire il vero alcuni teologi – anche famosi – sono rimasti molto sorpresi e si sono sentiti quasi sminuiti nel loro ruolo; infatti, non erano abituati a sedersi in mezzo alla gente, ma di fronte a essa. Da certe affermazioni provenienti dai teologi stessi, non è facile entrare in questa identità nuova, che sfida la visione verticistica di un modo di essere chiesa, di vedere la società in un’ottica dove sia sempre presente il capo, il maestro, mentre la gente sta sempre in basso; in fondo il popolo viene costantemente sollecitato da qualcuno, sia che porti la croce oppure nel nome di un partito. Cambiano solo il simbolo e magari la professione... ma lo stile è lo stesso
Una Chiesa dal basso
È il passaggio dal popolo visto come oggetto dell’attenzione del pastore, del vescovo, del maestro, del politico, al popolo soggetto capace di dare un contributo essenziale alla sua storia, alle decisioni da prendere, all’interpretazione del messaggio di fede. Per usare il linguaggio di Freire, il popolo non più come serbatoio vuoto, ma come produttore di benzina
Lo stile partecipativo sta sfidando sia le gerarchie religiose sia quelle politiche, soprattutto in Africa dove l’approccio dall’alto ci è stato lasciato in eredità sia dal colonialismo sia dagli anni delle dittature, dei partiti unici e dei regimi autocratici. Se la chiesa con la sua gerarchia, rappresentata in modo particolare dal ministero ordinato, viene considerata depositaria sia dell’autorità decisionale sia della verità ultima, essa dovrà confrontarsi seriamente se non vorrà essere causa di una crisi profondissima tra i membri che la compongono, parliamo di uno scarso 1%, e il resto del popolo di Dio, cioè il rimanente 99%. Il simbolo biblico del pastore deve essere liberato dai condizionamenti culturali di mondi obsoleti e va interpretato e calato nel mondo di oggi. Il patriarcato e il clericalismo sono stati stigmatizzati sia nel Forum teologico sia in quello Sociale. Un grande protagonismo femminile e laicale ha dominato i due forum.
Che tipo di religione?
Un altro mondo è possibile è stato l’atto di fede ripetuto migliaia di volte sia nel Forum teologico sia in quello Sociale. Ma nel primo, una domanda è emersa il secondo giorno: le religioni, che all’inizio di questo terzo millennio sembrano godere di una nuova primavera soprattutto in Africa, rappresentano un punto di forza o un tallone di Achille, in vista della costruzione di questo mondo diverso a cui tutti aspiriamo? Le religioni sono un fatto liberatorio in vista di un altro mondo possibile, oppure no? Domande inquietanti.
Per quanto riguarda l’Africa, la risposta è stata affidata al teologo ugandese John Marie Waliggo, impossibilitato a partecipare, ma che ha fatto pervenire il suo contributo. La ricerca si è basata soprattutto su quello che è avvenuto in Uganda negli ultimi 20 anni, segnati da fatti di una violenza mai conosciuta prima e giustificati sempre da motivazioni religiose; nel nord dell’Uganda prima, negli anni ’90, con la profetessa Lakwena e poi, negli ultimi dieci anni, con Kony. Ambedue si sono rifatti all’importanza dei dieci comandamenti e alla presenza e azione dello Spirito Santo (Lord’s resistance Army).
Due movimenti che in nome della religione hanno destabilizzato metà Uganda, causando migliaia di morti, milioni di rifugiati, due generazioni di bambini traumatizzati da violenze subite e viste; migliaia di bambini soldato abituati a uccidere prima di arrivare ai dieci anni. Nel sud dell’Uganda il movimento Restoration of the Ten Commandaments ha visto i capi accaparrarsi prima le proprietà terriere degli adepti, per poi sterminarli tutti in un grande rogo, durante un’importante assemblea religiosa.
Walliggo ne trae tre conclusioni. Primo: la religione è stata usata per spogliare il popolo delle proprietà materiali e impoverirlo; secondo: la religione ha giustificato violenza, eccidi, terrorismo; terzo: il popolo si è rivelato molto fragile e vulnerabile di fronte ai mistificatori che agivano in nome della religione.
In Uganda, ma sembra così in tutta l’Africa, il popolo si mostra indifeso di fronte a chi si presenta in nome di Dio. L’Africa sta diventando il paradiso delle crociate, dove molti, soprattutto predicatori americani, vengono per manipolare la gente, creare false speranze e spillare denaro.
Così non si costruisce un nuovo mondo! Già Marx due secoli fa affermava che la religione è l’oppio dei popoli. E oggi sperimentiamo che può essere così. Cosa fare per aiutare la gente a discernere? Lo stato? Le chiese? È urgente la creazione di un Centro di riflessione che informi il popolo al di sopra di tutte le religioni e movimenti religiosi. Non solo Waliggo ma anche Michel Dandala, segretario generale del Consiglio delle Chiese di tutta l’Africa, ha insistito per la creazione di un centro di ricerca sui fenomeni religiosi, che offra alla gente i criteri per discernere fra un movimento religioso e un altro.
Altra strada consigliabile è quella di affrontare la lettura della Bibbia e altri libri sacri in modo non fondamentalista, ma con l’aiuto della critica storica, che eviti il fondamentalismo generatore di violenza e seme prolifico, dove c’è ignoranza e pregiudizio religioso. È emerso chiaramente che il rifiorire delle religioni presenta lati positivi ma anche molte ambiguità. La religione non è automaticamente foriera di quel nuovo mondo possibile che si vorrebbe costruire all’inizio del nuovo millennio. Ci si è anche chiesti se sia utile l’intervento dello stato, ma la risposta è negativa. E le chiese, non potrebbero pensarci loro? L’atteggiamento seguito generalmente è quello apologetico: difendere se stessi davanti agli altri e provando loro che sono nel torto!
Tratti per una spiritualità e prassi
Viene da chiedersi, quindi, quale strada sia giusto seguire per poter aiutare la gente nel processo di realizzazione di un altro possibile modo di vivere. Innanzitutto, le religioni devono essere profondamente trasformate. Prassi e spiritualità dovranno agire sinergicamente; una spiritualità non incarnata in un’azione storica è alienazione e una prassi senza spiritualità, non solo non produce un altro mondo possibile, ma distrugge anche quello che già esiste e calpesta la dignità della maggioranza delle persone, come sta facendo il neoliberismo. Durante l’incontro sono emerse alcune proposte.
Sarebbe importante dare impulso ai Centri di ricerca affinché aiutino la gente a leggere i nuovi fenomeni religiosi. In particolare, a distinguere quelli che creano comunione rispetto a quelli che, invece, producono alienazione e violenza.
Nell’interreligiosità – ovvero esporsi al prossimo attraverso un atteggiamento di dialogo – le altre religioni devono essere colte non come concorrenti, bensì come opportunità. Questo è un tema che sfida il concetto tradizionale di missione, come iniziativa volta a eliminare tutte le religioni imponendo quella cristiana, intendendo, cioè, che tutto quanto è diverso da ciò in cui crediamo debba essere scartato.
La teologa keniana Philomena Mwaura ha ricordato che il cristianesimo è arrivato in Africa profondamente frammentato. Per arrivare a essere elementi liberatori in vista di un altro possibile mondo, le varie espressioni cristiane devono sdoganarsi dalle ripercussioni derivanti da tale frammentazione e, quindi, dall’antagonismo di fondo presente negli elementi di differenza che lo caratterizzano, interrompendo così l’abitudine di affermare “noi non siamo come loro”.
La religione tradizionale africana come quelle tradizionali in America Latina e in Asia, ha una carica di spiritualità che deve essere recuperata, particolarmente negli elementi che riguardano il contatto con il mistero di Dio nella natura, la riconciliazione e la solidarietà, e la liberazione da ogni tipo di male attraverso l’esorcismo. I martiri sono coloro che hanno difeso il diritto alla libertà di espressione contro ogni forma di totalitarismo e devono essere visti come grandi campioni in difesa del diritto della libertà.
Infine, si deve camminare verso un pluralismo di spiritualità: la diversità è parte integrante della creazione, anche a livello religioso
I TESTIMONI
Desmond Tutu: protagonista dei lunghi anni di lotta non violenta contro l’apartheid e della profonda esperienza di solidarietà che il Sudafrica sperimenta con il resto del mondo.
Jon Sobrino a El Salvador: nel 1989 quattro gesuiti e due donne vennero uccisi dai militari. Egli testimonia l’invincibilità della croce e delle vittime per un mondo nuovo
Sergio Torres: il coraggio della fede ai tempi di Pinochet in Cile e di altre dittature in America Latina
François Houtart e la sua quarantennale lotta contro il liberalismo e il neo liberismo.
Vuiyani Velle e il martirio in Sri Lanka
Marcelo Barros: l’esperienza mistica della presenza dello Spirito nelle espressioni religiose
Eunice Santana: il Costa Rica vede il martirio nell’affermazione del ruolo femminile che ha portato e porta con sé ancora tanta sofferenza ed emarginazione
Desmond Tutu: “Dio vuole un mondo più giusto”
Nella cattedrale cattolica di Nairobi, poco prima dell’apertura ufficiale del Sociale forum, si è tenuta una celebrazione ecumenica presieduta da Desmond Tutu (nella foto), premio Nobel per la pace ed ex arcivescovo di Città del Capo. Tutu ha detto: «Dio piange e ci dice: “Chi mi aiuterà perché possiamo avere un mondo diverso, un mondo in cui i ricchi sappiano che molto è stato dato loro affinché possano condividere e aiutare gli altri? Una creazione che era molto buona e oggi ‘è diventata un incubo”».
Tutu ricorda che «legge fondamentale del nostro essere» è che «siamo tutti legati gli uni agli altri», per cui «la sola via che possiamo percorrere è insieme, noi tutti». Soltanto insieme possiamo essere liberi, salvi e sicuri. Il premio Nobel ricorda che questa regola si applica anche alla politica. È chiaro il riferimento alla guerra al terrorismo: «Non è possibile vincere la guerra contro il terrore finché persistono le condizioni che spingono la gente alla disperazione. Nessuno potrà vincere la guerra contro il terrore finché, ai quattro angoli del mondo, ci sarà gente che vive in condizioni che la incitano a commettere atti disperati, a causa della povertà, della malattia e dell’ignoranza.»
Il leader sudafricano insiste: «Nessun paese, per potente che sia, può vivere nell’isolamento. Nessun paese, per progredito che sia, può sopravvivere da solo». Ha aggiunto che le chiese intendono difendere il ricorso a mezzi migliori per lottare contro la povertà, l’Hiv/Aids, la distruzione dell’ambiente e l’ingiustizia economica. E, infine, Tutu ha esortato gli africani a essere fieri della propria eredità. «Non siamo figliastri di Dio» ha detto, ricordando che fu un africano ad aiutare Gesù a portare la sua croce, e africani furono anche i primi dottori della
di Francesco Pirli
Nigrizia marzo 2007
PIÙ COLLEGIALITÀ, MENO POLITICA. LE CRITICHE DI MONS. PLOTTI ALLA LINEA DI RUINI SUI DICO
CITTÀ DEL VATICANO. L'annuncio di una nota "impegnativa" per i cattolici in vista del dibattito parlamentare sui Dico da parte del card. Camillo Ruini non è piaciuto a molti, persino all'interno della Cei. Non è un problema di contenuti: tutti si dicono d'accordo nel respingere con forza il progetto di legge del governo sulle coppie di fatto; ma qualche critica alla gestione verticistica del presidente della Cei arriva da mons. Alessandro Plotti, arcivescovo di Pisa che è stato anche uno dei vicepresidenti della Cei. Parlando della ‘nota', Plotti, in un'intervista a Repubblica del 16/2, ha commentato: "Se è un tema davvero così importante allora è giusto che sia redatta da tutti i vescovi. Mi auguro che non la faccia solo la presidenza. Una Nota dell'episcopato", aggiunge, "e sottolineo, una Nota pastorale, dev'essere discussa per prassi in assemblea. Il testo va mandato a tutti, bisogna poter fare emendamenti". I tempi, in questo modo, si allungherebbero, ma "il problema è pastorale più che politico. La Chiesa deve dire la sua parola, poi la politica fa le sue scelte". Quanto ai contenuti del ddl, "ci troviamo appena di fronte ad uno schema", è logico prevedere molti emendamenti ed è, quindi, "inutile stracciarsi le vesti prima del tempo".
Intanto, l'Osservatore Romano prende posizione con durezza nel dibattito a colpi di documenti scoppiato tra i cattolici: "Sembrano quanto meno inopportune", si legge nell'editoriale del 16/2 firmato in prima pagina da Gaetano Vallini,, "quelle voci che in questi giorni, anche con appelli pubblici, vorrebbero far tacere questa ‘voce' tanto autorevole quanto scomoda. Tanto scomoda da essere definita da alcuni impropriamente come un'‘ingerenza'". La "voce" è, naturalmente, quella della Chiesa e gli "appelli pubblici" cui si fa riferimento è, in realtà, soprattutto quello promosso da Giuseppe Alberigo (v. numero verde allegato) per chiedere ai vescovi italiani di non rilasciare la famigerata ‘nota'. L'altolà dell'Osservatore Romano, arriva proprio mentre il documento promosso da Alberigo continua a raccogliere adesioni. Oltre a quelle iniziali di, tra gli altri, Vittorio Bellavite, Raniero La Valle, Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri, si sono aggiunte nel giro di pochi giorni quelle di Pietro Scoppola (che sul Corriere della Sera del 16/2 smentisce le voci di un suo disaccordo con i contenuti dell'appello), Paola Gaiotti De Biase, don Albino Bizzotto, Aldo Maria Valli, Guido Formigoni.
Quello dell'Osservatore è un attacco mirato: "Non si comprende", scrive Vallini, "perché la Chiesa, il Papa e i Vescovi non possano intervenire su un tema tanto delicato quanto cruciale come quello della famiglia. Intervenendo, la Chiesa non difende una posizione ‘politica', ma semplicemente adempie al suo mandato, che è anche un suo diritto". "La Chiesa sulla famiglia ha il dovere di parlare", prosegue l'editoriale: "Chi vuole, ascolta. Ma non le si chieda di tacere".
Sì ai Dico anche dai Cristiano sociali: il coordinatore Mimmo Lucà ha risposto sul Tempo del 16/2 a una lettera di Francesco Cossiga che chiedeva al gruppo di chiarire la sua posizione: citando Moro e De Gasperi, Lucà scrive: "Voteremo per il Ddl del Governo sulle convivenze e non come male minore, ma perché vi riconosciamo la nostra ispirazione di Cristiano sociali". Quanto all'atteggiamento della Cei, "restiamo convinti che la Chiesa, tutte le Chiese, sono tenute a riconoscere e a rispettare la laicità e l'autonomia della politica, la sua preminente responsabilità nel decidere e determinare gli indirizzi ed il contenuto della legislazione". (alessandro speciale)
Un altolà senza sfumature al cardinale Ruini, se davvero vuole imbrigliare nei precetti della Chiesa la libertà di decisione politica sui Dico, un tempo noti come Pacs. Oscar Luigi Scalfaro, presidente emerito della Repubblica e padre nobile del centrosinistra, non è contratrario alla mediazione Bindi-Pollastrini, e teme la «distruzione» del cattolicesimo parlamentare se la Cei dovesse lanciare diktat a chi riconosce il suo magistero. In sessant´anni - dice - questo non è mai accaduto. Prima di correre certe avventure Ruini dovrebbe avviare «un ampio esame» dentro l´assemblea dei vescovi.
D: Presidente Scalfaro, il Parlamento aspetta di sapere quale forma assumerà il "non possumus" di Ruini sulle unioni di fatto. Che cosa succederebbe se la Cei o il Papa avanzassero richieste "vincolanti" per i politici cattolici?
R: «La Chiesa, pure nella fermezza dei suoi principi, non ha mai compiuto in sessant´anni interventi che ponessero a un bivio obbligato i parlamentari cattolici. Io confido che interventi del genere non ci saranno. Se dovessero invece avvenire, distruggerebbero la possibilità stessa di una presenza dei cattolici in Parlamento in condizioni di dignità e libertà, quella libertà che consente l´assunzione individuale delle responsabilità. Ma a chi serve, oggi e domani, un gruppo di parlamentari che si limitano a eseguire gli ordini? Certo non alla Chiesa. Sarebbero una inutile pattuglia, e l´effetto sarebbe una crescita di laicismo esasperato».
D: Il centrosinistra non drammatizza troppo l´iperattivismo vaticano? È vero che è stato l´Avvenire a citare Pio IX, ma dall´altra parte si invoca il Risorgimento, si tracciano scenari foschi, si ipotizza, come anche lei fa, il naufragio del cattolicesimo politico. Eppure gli scontri tra l´etica cattolica e quella laica, condivisi e alimentati dalla Chiesa, in Parla mento e fuori non sono mancati. Gli anni Settanta, il divorzio, l´aborto, i referendum. Grandi asprezze, ma alla fine siamo tutti qui, comprese le leggi soggette ad anatema.
R: «Vede, io sono nella vita politica da 61 anni, dalla Costituente. È vero, abbiamo attraversato come parlamentari cattolici momenti faticosi, difficili, prese di posizione delicate. Ma già dall´Assemblea costituente fu preminente in tutti la ricerca di un denominatore comune sui temi dei diritti e della dignità delle persone. Ne nacque un documento d´eccezione, la Carta, del quale dobbiamo ringraziare i grandi nomi che resero un tale servizio al popolo italiano: penso, nel mondo cattolico, a De Gasperi, a La Pira, a Dossetti, più tardi a Aldo Moro e a tan tissimi altri rappresentanti del popolo. Il grande tema per noi cattolici era fare sintesi fra diritti e doveri del cittadino e diritti e doveri del cristiano, portare nella politica il pensiero filosofico che anima i principi cristiani sempre con grande rispetto per le impostazioni altrui. L´articolo 67 della Costituzione stabilisce che ogni membro del parlamento rappresenta la nazione e esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. Al tempo del divorzio e dell´aborto, che lei cita, in entrambi i casi il partito mi diede incarico di parlare ufficialmente a nome del gruppo democristiano. Non dimentico, e ne ringrazio la Provvidenza, che nell´uno e nell´altro caso ebbi ascolto ampio, proprio dagli avversari politici: non condivido le tue tesi - mi fu detto - ma apprezzo lo sforzo di dialogare. Dopo la sconfitta sul divorzio qualcuno in assoluta buona fede sostenne che non potevamo collaborare a formulare gli articoli della legge perché così facendo avremmo aiutato un istituto che contestavamo. Ma giustamente vinse la tesi che quando cade l´affermazione di un principio rimane sempre il dovere di lottare per il male minore».
D: Insomma, lei sostiene che la capacità di ascolto reciproca non è venuta mai meno, nemmeno quando lo scontro era al massimo della tensione.
R: «Non solo. C´è anche un altro insegnamento. La chiarezza delle posizioni della Chiesa, e il risultato del referendum che diede ragione alle tesi contrarie a quelle sostenute da noi cattolici, non impedirono che tanti cattolici si servissero poi dell´istituto del divorzio. Ne è prova che da anni all´interno della gerarchia ecclesiastica si discute sull´ammissi-ilità dei divorziati ai sacramenti».
D: L´invito al pragmatismo, per tornare a Ruini, onestamente oggi non sembra avere grandi chance. La grandinata vaticana - da Avvenire a Sir, dall´Osservatore allo stesso Ratzinger - non lascia grandi margini alla mediazione.
R: «La profonda devozione e ubbidienza alla Chiesa madre e maestra - e mi piace ricordare che fu la saggezza di Giovanni XXIII a dare questa preminenza alla maternità della Chiesa - mi fa confidare che il richiamo che è stato annunziato, e che manifesta un diritto e anche un dovere della Chiesa di dire il suo pensiero, non abbia la forma di un'imposizione».
D: Il fronte dei 60 parlamentari della Margherita che difendono i Dico non ha un gran futuro, se l´intervento di Ruini dovesse trasformarsi in un vero e proprio precetto. Non crede?
R: «Un atteggiamento rigido della Chiesa sfascerebbe tutto. Ne sono convinto».
D: Lei, pur da senatore a vita, è un uomo del centrosinistra: quale potrebbe essere una contromisura per far prevalere la moderazione?
R: «Posizioni da parte della Chiesa che portassero a conseguenze tanto pesanti, così come non si sono verificate neanche quando furono compromessi l´indissolubilità del matrimonio e il diritto alla vita, richiederebbero a mio avviso un ampio esame nell´Assemblea dei vescovi italiani, la Cei».
D: Nel merito della legge, come giudica la soluzione Dico "inventata" da Bindi e Pollastrini?
R: «Mi piace ricordare che quando il presidente del consiglio Romano Prodi annunziò nella formulazione del programma il desiderio di riconoscere dei diritti e dei doveri a ciascun cittadino, affermò espressamente che con quel programma prendeva l´impegno di non toccare o turbare l´istituto del matrimonio così come previsto dalla Costituzione. Mi pare giusto non fare processi alle intenzioni. Le proposte di legge che sono state presentate da posizioni a mio avviso non accettabili sono giunte con non poca fatica (quanto intensa quella del ministro Bindi!), in questo necessario dialogo tra impostazioni diverse, a un testo che come tutti i testi è indubbiamente migliorabile ma che certamente non prevede - per essere chiari - il matrimonio fra gli omosessuali o una formula mascherata ma simile. Si tratta di dare eventuali, maggiori garanzie? Se ne può discutere, rimanendo chiaro un punto: se al dunque si fosse richiesti di un voto esplicito che preveda di fatto il matrimonio per gli omosessuali, allora, senza bisogno di disturbare la dottrina della Chiesa cattolica, è chiaro che un voto a favore non si può dare perché in contrasto con una realtà di storia dell´umanità, che prevede per il matrimonio un maschio e una femmina».
D: Il matrimonio gay, per la verità, sembra essere un simbolo e uno spauracchio, anche se di prima fila. Quel che la Chiesa sembra temere nella sostanza è che il riconoscimento delle unioni civili, innanzitutto eterosessuali, sgretoli la famiglia "naturale" su cui si fonda la sua dottrina.
R: «È vero, c´è chi obietta che aprendo una seconda strada si dà ai cittadini con troppa facilità la possibilità di un´altra scelta. La preoccupazione della Chiesa è più che condivisibile. Ma il problema vero è rafforzare nei cattolici la fede, in modo che sappiano scegliere secondo i principi nei quali credono. Più che allo Stato, al quale si chiede di impedire una duplice strada che consentirebbe gli abusi, il tema è affidato alla evangelizzazione e alla formazione dei fedeli. Lo Stato deve pensare a tutti e, pur non tramutando speranze, desideri e sogni in diritti deve, se esistano basi certe per individuare quei diritti, riconoscerli dove e quando ci sono».
Gli articoli sono tratti da Adista n°15 e 16 del 24 Febbraio 2007
Colombia / L’impegno di padre Leonel Narváez Gómez
«LA RICONCILIAZIONE? UN’ARTE NEL CUORE»
«Per anni ho lavorato in prima persona ai negoziati di pace tra il governo e le Farc nella regione del Caguán. È in quel periodo che ho sperimentato come, a impedire la fine dell’annoso conflitto colombiano, oltre a una serie di problemi economici, politici e militari, esistano altre questioni da risolvere, non meno importanti, di tipo soggettivo: rabbie accumulate, senso di esclusione, desiderio di vendetta. È anche a causa di questi problemi soggettivi se nel Caguán, dopo tre anni di intenso lavoro sulle cause oggettive del conflitto, non si è riusciti a costruire la pace».
A parlare in questi termini è padre Leonel Narváez Gómez, 55 anni, colombiano, missionario della Consolata (M.M., novembre 2004, pp. 46-48). Per dieci anni, prima di finire nella zona più calda della Colombia, padre Leonel ha fatto il missionario in Africa, tra gli oromo, in una zona desertica, a cavallo tra Sudan e Kenya. Poi studi di sociologia, quindi l’esperienza del Caguán. Una tappa fondamentale dove ha maturato la convinzione che i conflitti - tanto in Colombia che altrove - non potranno mai essere superati del tutto se non si spengono prima i focolai di rancore e odio che ciascuno porta nel cuore. Da allora padre Leonel si è dedicato anima e corpo a studiare le cause soggettive del conflitto con l’idea di trovare un metodo per neutralizzarle. È partito per l’Università di Harvard e lì ha trovato un gruppo di professori e professionisti, che hanno collaborato attivamente alla sua ricerca (fra questi anche il teologo Harvey Cox). Per quasi due anni questo think tank si è radunato ogni giovedì a lavorare sui meccanismi sociologici e psicologici che conducono al perdono e alla riconciliazione. E da questi incontri ha preso forma gradualmente, plasmato anche dalla realtà colombiana, un metodo che fonde l’essenziale del messaggio cristiano con i contributi più avanzati delle scienze sociali. Il metodo prevede una serie di tappe e di strumenti per favorire la graduale accettazione dell’altro, fino ad arrivare al perdono. L’itinerario ha un effetto catartico e aiuta le persone a liberarsi di rabbia e rancore che, accumulandosi, si trasformano in veleno.
Dalle aule di Harvard, padre Leonel è tornato in Colombia per applicare la sua «scienza» del perdono e della riconciliazione agli ex combattenti delle Farc e dei paramilitari, abituati a vivere nell’odio e nella violenza, ma anche a tutte le persone che per qualsiasi motivo sono imprigionate dall’odio e dal rancore, tanto in famiglia quanto nell’ambito del lavoro. Il suo progetto si chiama Escuela de perdón y reconciliación, per tutti Espere - acronimo spagnolo che sta per Scuola di perdono e riconciliazione - ed è gestito da una Fondazione (una ong regolarmente registrata) che ha sede nella casa provinciale dei missionari della Consolata di Bogotá. Attualmente sono 1.200 ex combattenti che vengono seguiti direttamente da Espere, su un totale di 32 mila che, deposti i kalasnikov, si stanno reinserendo nella società. Ma il numero è destinato certamente a crescere in futuro, visti gli eccellenti risultati dell’iniziativa. A oggi, l’esperienza di Espere ha toccato 20 città in Colombia, coinvolgendo circa 50 mila persone. Attualmente l’Escuela de perdón y reconciliación è presente in sette Paesi latinoamericani e in due africani. Padre Leonel ha ricevuto inviti a presentare la sua esperienza in Irlanda e in Sudafrica; lo scorso settembre è stato insignito a Parigi della Menzione d’onore del premio Unesco di Educazione alla pace 2006.
I corsi dell’Espere coinvolgono ognuno una ventina di persone di ogni strato sociale. I partecipanti, in seguito, vengono invitati a ripetere l’itinerario formativo nei loro rispettivi contesti, a piccolissimi gruppetti di 4-5 persone. Attualmente ci sono anche alcuni ex combattenti che aiutano nell’accompagnamento: il loro contributo è molto prezioso perché conoscono bene i meccanismi psicologici dei loro ex colleghi.
Il metodo Espere si basa sull’utilizzo di simboli e gesti di forte potere evocativo. Commenta padre Leonel: «Puntiamo a toccare le persone nel profondo, laddove nascono le emozioni. Un ambito spesso trascurato dalla Chiesa; catechesi e omelie spesso parlano al cervello, non al cuore».
A quanto pare il metodo funziona. A sentire padre Leonel, «il tema del perdono ha ormai superato gli steccati e sta gradualmente entrando nel dibattito politico. Si è scrollato di dosso un alone di ecclesialese che rischiava di confinare la questione in ambito esclusivamente religioso».
Interessante notare che anche in ambito universitario cresce l’attenzione per questo tipo di problematiche. Tanto che a Bogotá l’Espere collabora con il Centro per la soluzione dei conflitti, che fa riferimento alla «Uni¬versità della pace» del Costa Rica, un’istituzione legata all’Onu: nella capitale colombiana è attivo un corso che ha per titolo «Pedagogia del perdono e della riconciliazione» ed è curato dalla Fondazione.
Si diffonde sempre di più la convinzione che, nel cammino verso la pace, il perdono sia più importante persino della ricostruzione della verità, pur importantissima, e della giustizia. «Quando sono in gioco crimini atroci - spiega padre Leonel -, c’è un punto oltre il quale la ricostruzione della verità, in funzione dell’applicazione della giustizia, può voler dire accrescere la sofferenza, col rischio concretissimo di esacerbare ulteriormente gli animi e di istigare il desiderio di vendetta. In certe situazioni può essere meglio non sapere tutto e non far sapere tutto».
Per spiegare quanto a volte la verità ostacoli il perdono, padre Leonel racconta un aneddoto agghiacciante: «Una volta, mentre mi trovavo nel Caguán, venni incaricato di contattare i capi delle Farc per aver notizie di una persona rapita. Andai da loro ed essi mi dissero che l’avevano uccisa perché rea di essere un informatore della polizia. Poi mi consegnarono un pacchetto sigillato chiedendomi di farlo avere alla moglie. Il posto dell’incontro era impervio, c’erano volute sei ore di barca per raggiungerlo. La notte dissigillai il pacchetto e sentii che puzzava. Lo aprii e mi si presentò una scena raccapricciante: la scatoletta conteneva gli organi genitali della vittima. Decisi di non consegnare quel macabro ricordo. Forse che aggiungere altro dolore al dolore sarebbe servito a qualcosa?».
Un discorso insolito come questo ha ripercussioni profonde. Potrebbe, ad esempio, insinuare qualche dubbio sull’effettiva utilità delle varie «Commissioni per la verità» istituite nei Paesi latinoamericani per sanare le ferite del passato: gli anni terribili delle dittature in Cile e Argentina, la guerra in Guatemala. «Non che queste commissioni non abbiano il loro valore, anzi! - precisa padre Leonel -. Il punto è che l’operazione di ricostruzione della verità, da sola, non è sufficiente. A un certo punto occorre mettere una pietra sopra e fare un passo avanti. Se non scatta la molla del perdono si rischia di rimanere prigionieri del passato, ostaggio dei propri ricordi, della voglia di far giustizia. Occorre che scatti una solidarietà per tutti e che venga data una possibilità di futuro anche agli autori dei crimini. Il traguardo non può che essere la riconciliazione».
Il rischio che la mera ricostruzione della verità finisca per esacerbare l’odio e il rancore interpella direttamente anche i giornalisti. La domanda è: meglio dar conto di tutto, cercando magari lo scoop, oppure provare a stendere un velo di oblio motivato, per evitare il perpetuarsi della collera?
Il cammino della pace in Colombia è lungo e richiede pazienza. Ma non ci sono alternative percorribili. L’attuale presidente colombiano, Álvaro Uribe, ha garantito una certa sicurezza e un certo ritorno della legalità. A quale prezzo, però? Gli effettivi dell’esercito sono passati da 120 mila a 392 mila unità (in larga parte pagati con i fondi del Plan Colombia). Ma, soprattutto, non si è costruito un contesto in grado di far voltare definitivamente pagina al Paese.
Cosa occorrerebbe? «A differenza di quanto accaduto in altri Paesi che hanno percorso con successo la strada della riconciliazione e della pace (penso al Sudafrica di Mandela e di Tutu) - dice padre Leonel - da noi mancano i mediatori. Persone credibili, in grado di essere davvero super partes e far dialogare le parti in conflitto». Un dialogo che a tanti pare una chimera. Se i paramilitari stanno in parte smobilitando, approfittando dei vantaggi che assicurano loro le recenti normative volute da Uribe, i guerriglieri delle Farc sembrano prigionieri della loro storia. Di recente, però, si è scoperto che un buon numero di membri del Parlamento colombiano appoggiano le azioni violente dei paramilitari. Padre Leonel non vorrebbe avventurarsi in giudizi politici, ma una sua idea per quello che negli ambienti accademici chiamano già il «post-conflitto» ce l’ha. «Conosco personalmente alcuni leader della guerriglia (tra i quali il temuto Tirofijo, uno dei grandi vecchi delle Farc - ndr). Hanno dedicato tutta la vita a combattere nella selva. Non possono adesso, dopo quarant’anni di latitanza, uscire come se niente fosse e reintegrarsi nella società. La verità è che il Paese dovrebbe avere il coraggio di preparare un’assemblea costituente alla quale potrebbero partecipare anche gli ex attori armati. Si potrebbe, inoltre, prevedere una Costituzione in senso federalista e immaginare che alcune porzioni del territorio godano di una relativa autonomia. Questa forse sarebbe una via d’uscita onorevole per tutti».
di Alessandro Armato
e Gerolamo Fazzini
Mondo e Missione/Gennaio 2007
VATICANO
NEWS ANCHEIN ARABO
Alla vigilia della visita di Benedetto XVI in Turchia, tenutasi alla fine del mese di novembre scarso, l’agenzia di informazioni Zenit ha lanciato l’edizione in arabo delle notizie trasmesse. L’iniziativa ha luogo in collaborazione con il programma arabo della «Radio Vaticana», la principale fonte di informazione cattolica in questa lingua, e con «Oasis», rivista del patriarcato di Venezia.
L’edizione in arabo di Zenit in parte finanziata da «Aiuto alla Chiesa che soffre» (Acs). Zenit lancia questo servizio in risposta alle richieste delle comunità cristiane dei paesi arabi che chiedono di leggere la parola del papa e di conoscere i grandi avvenimenti della vita della chiesa direttamente nella propria lingua. Attraverso un’informazione rigorosa, il progetto cerca di essere un ponte di dialogo tra culture e religioni. Si può ricevere il nuovo servizio, di carattere quotidiano o settimanale, con un’iscrizione gratuita inviando un messaggio a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..
(Zenit)
INDONESIA
INCULTURAZIONE E VANGELO
Si è svolto a Bali, in Indonesia, dal 26 al 30 novembre2006, un incontro dei membri e consultori del «Pontificio consiglio per la cultura» e dei presidenti delle commissioni episcopali nazionali per la cultura. Il meeting è stato un vero mini-sinodo monografico sul tema dell’inculturazione del vangelo, che ha riunito i responsabili della cultura delle chiese dell’Asia. Ad essi, papa Benedetto XVI ha inviato un messaggio in cui afferma: «Sono convinto che ci sia un gran bisogno per tutta la chiesa di riscoprire la gioia dell’evangelizzazione, diventare una comunità ispirata con zelo missionario per far conoscere ed amare sempre più Gesù. Ovviamente - ha continuato - questa evangelizzazione deve essere accompagnata da un impegno verso un dialogo sincero ed autentico tra le culture e le religioni, contrassegnato dal rispetto, dalla reciprocità, dall’apertura e dalla carità». L’esortazione finale che Benedetto XVI ha rivolta ai partecipanti al summit sottolinea il fatto che l’evangelizzazione e l’inculturazione costituiscono due realtà inseparabili; entrambi gli elementi devono essere presenti se il vangelo di Cristo deve davvero essere incarnato nelle vite delle persone di ogni razza, nazione, tribù e lingua.
(Misna)
BRASILE
IN DIFESA: DEGLI INDIGENI
Il Consiglio indigenista missionario (Cimi) ha eletto presidente monsignor Erwin Krautler, vescovo della prelazia dello Xingu, con sede ad Altamira, dopo la scomparsa del suo predecessore, il compianto monsignor Gianfranco Masserdotti, vescovo di Balsas, deceduto il 17 settembre scorso in un incidente stradale. Monsignor Krautler, austriaco naturalizzato brasiliano, è un profondo conoscitore della realtà dell’Amazzonia e in particolare dello stato di Parà, che detiene la «maglia nera» per violazioni dei diritti umani, violenze legate al conflitto per il possesso della terra, minacce di cui sono bersaglio i difensori dell’ambiente e dei diritti fondamentali dei popoli nativi. Un contesto in cui, il 12 febbraio 2005, è stata ucciso a colpi di arma da fuoco lo missionaria statunitense Dorothy Stang, una vita speso al fianco dei poveri.
(Misna)
REGNO UNITO
APPELLO CONTRO BOMBE A GRAPPOLO
I vescovi della Gran Bretagna - insieme a esponenti di altre religioni, tra cui musulmani ed ebrei - hanno chiesto al governo di Londra di sostenere la creazione di un trattato internazionale per la messa al bando delle «bombe a grappolo» (cluster bombs), che provocano vittime soprattutto tra i civili. L’appello è stato rivolto dal vescovo di Birmingham, monsignor Wiliam Kennedy, in una lettera firmata da vescovi cattolici, esponenti delle Chiese metodista e battista e da rappresentanti delle comunità ebraica e musulmana. I rappresentanti religiosi hanno chiesto al governo britannico di mostrare «un chiaro impegno per la protezione dei civili durante i conflitti. Ogni azione sarà benvenuta come atto di pace dalle persone di ogni fede».
(Misna)
SPAGNA – ISOLE CANARIE
La «New Age» rappresenta un pericolo spesso sottovalutato per la vita dei cristiani. E’ quanto è emerso dalla «XXI Settimana di teologia» svoltasi dal 20 al 24 novembre presso la sede dell’«Istituto superiore di teologia» delle Isole Canarie, nella città di La Laguna. Secondo quanto ha spiegato Miguel Àngel Medina Escudero, coordinatore della settimana di studio, la «Nuova Era» pone un’autentica sfida alla chiesa, «perché ingloba già vari milioni di seguaci. La cosa particolarmente importante di questo movimento non è ciò che dice, ma ciò che non dice. E come una nebulosa che penetra tutto, alla quale è molto difficile opporre resistenza, visto che non si sa esattamente cosa sia».
«In essa confluiscono correnti e materiali presi dalle mitologie più diverse; dottrine di scienze occulte e delle scienze più moderne; credenze e tecniche ereditate dalla magia più primitiva e atteggiamenti religiosi raccolti dalle religioni più universali, dottrine gnostiche, principi di astrologia, pratiche spiritiste, conoscenze esoteriche, tecniche di meditazione...», ha continuato Escudero. Secondo il professore, la «Nuova Era» rappresenta molti pericoli per la fede cristiana: «Spersonalizza il Dio della rivelazione cristiana; sfigura la persona di Gesù Cristo, svalutando la sua missione, e ridicolizza il suo sacrificio redentore; nega l’evento irripetibile della sua Resurrezione con la dottrina della reincarnazione; svuota di contenuto i concetti cristiani della creazione e della salvezza; rifiuta l’autorità magisteriale della chiesa e la sua forma istituzionale; e relativizza il contenuto originale, unico e storicamente fondato del vangelo». Escudero ha quindi concluso rilevando, fra le altre cose, come «Tutti abbiamo il dovere di informarci ed educarci per comprendere questo fenomeno (che ha punti molto accettabili) ed essere preparati a rifiutare ciò che è incompatibile con la nostra fede».
(Zenit)
ARGENTINA
SOFTWARE LIBERO: VESCOVI A SCUOLA
Il complicato tema della «democratizzazione della tecnologia», in agenda della V Conferenza Generale dell’Episcopato latinoamericano (Celam), che si terrà ad Aparecida (Brasile) nel mese di maggio di quest’anno 2007, ha messo in crisi buona parte dei vescovi del continente sudamericano. Per illuminare i prelati sull’argomento, il Celam stesso ha organizzato, alla fine del mese di novembre, un laboratorio interdisciplinare che portasse alla pubblicazione di un breve documento che presentasse le esperienze in atto e i cammini di ricerca in cui si sta generando un processo di riflessione sul tema della democratizzazione delle tecnologie e, più in particolare, su un argomento specifico come quello del software libero. Il seminario dovrebbe anche presentare l’insieme di strategie oggi esistenti per permettere una maggior diffusione di questo tema nel continente latinoamericano. L’incontro si è tenuto a Buenos Aires, presso la sede argentina delle Pontificie opere missionarie.
(Aci Prensa)
DIOCESI DI MARSABIT (KENYA): CONTINUA LA TRADIZIONE
Il Santo Padre Benedetto XVI, in data 25 novembre 2006, ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Marsabit (Kenya), presentata da Mons. Ambrogio Ravasi, imc, per raggiunti limiti di età. Il Santo Padre ha nominato al suo posto Mons. Peter Kihara Kariuki, imc, finora vescovo di Muranga. A un vescovo missionario della Consolata succede dunque un confratello, continuando la tradizione iniziata in questa diocesi del Nord del Kenya da Mons. Cavallera. Il nuovo ordinario di Marsabit è il secondo vescovo missionario della Consolata ad essere spostato, quest’anno, da una diocesi all’altra del Kenya. Prima di lui era toccato a Mons. Anthony Mukobo, precedentemente vescovo ausiliare di Nairobi e successivamente nominato vicario apostolico di Isiolo, dopo l’uccisione di Mons. Luigi Locati, avvenuta il 1 4 luglio del 2005.
Nato 52 anni fa a Thunguri (Nyeri), Mons. Kihara ha fatto la sua professione religiosa nei missionari della Consolata nel 1979. Studente di teologia presso il St. Thomas Aquinas Seminary di Nairobi, è stato ordinato sacerdote nel 1983. Dal 1984 al 1988 ha prestato il suo servizio missionario in Colombia. Dopo un periodo di studio a Roma ha fatto ritorno in Kenya per lavorare nella formazione. Per vari anni è stato maestro dei novizi nel noviziato di Sagana. Il 3 giugno 1999 è stato nominato vescovo di Muranga da papa Giovanni Paolo Il. Il resto è storia di oggi. A Monsignor Ravasi, che lascia la guida della diocesi di Marsabit dopo ben 25 anni di servizio episcopale, va un grazie sincero per il lavoro svolto e la testimonianza offerta. A Monsignor Kihara che ne prende il posto, vanno i nostri migliori auguri.
(ismico.org)
RACCONTATELO A TUTTI
Come i primi discepoli di Gesù, «abbiamo visto il Signore» afferma il messaggio finale, riassumendo l’esperienza fatta dai delegati al Congresso missionario asiatico. l partecipanti dal «Libano al Giappone, dal Kazakistan alla Mongolia e all’Indonesia» hanno vissuto un «nuovo cenacolo», ascoltando e condividendo «il racconto di numerose storie ispiratrici: storie di vita, fede, eroismo, servizio, preghiera, dialogo e proclamazione. Siamo stati pervasi da una gioia contagiosa. La storia di Gesù è stato il filo conduttore che ha legato tutte queste esperienze di vita in una grande narrativa. Tutti i colori, popoli, lingue, culture, valori religiosi e gesta del popolo dell’Asia hanno formato un unico grande arazzo».
È soprattutto lo Spirito Santo «il grande narratore; egli guida la chiesa in ogni situazione a dire, specialmente attraverso la testimonianza di una vita trasformata, che la missione significa mantenere viva la storia di Gesù, formare comunità, essere compassionevoli, aiutare “l’altro”, portare la croce, testimoniare che Gesù è una persona viva».
Il Congresso, continua il messaggio, «ha fornito nuove prospettive per il nostro compito di dialogare con i popoli, religioni e culture in Asia» e ha affidato a tutti i partecipanti l’impegno «di portare a casa nuove intuizioni sulla storia di Gesù, particolarmente le sue dimensioni asiatiche». Da qui derivano alcune raccomandazioni concrete: approfondire l’esperienza di Gesù nella vita personale e comunitaria, specialmente mediante l’eucaristia; favorire la partecipazione dei laici e dei giovani alla vita della chiesa; crescere in una spiritualità del dialogo.
Quella del dialogo è posta come priorità da sviluppare prima di tutto a livello formativo. Le istituzioni educative cristiane, specie i seminari, sono chiamate a «riconoscere malintesi e pregiudizi e a scoprire la storia di Gesù nelle altre religioni». I valori culturali asiatici devono essere integrati nel vivere cristiano,«tanto più quando tali valori vengono erosi da consumismo, materialismo e altre forze».
Infine si chiede alla Conferenza episcopale asiatica di organizzare congressi missionari a livello nazionale o regionale, continuando così a raccontare la storia di Gesù in Asia.
MC Gennaio 2007
Svelare le mistificazioni e le menzogne
A mio modo di vedere, è bene affrontare il referendum traendone tutti i vantaggi possibili, una volta che una certa parte ne ha messo in moto la macchina e nonostante che esso, con tutta evidenza, voglia coprire una manovra con obiettivi reazionari.
Credo che il primo vantaggio sia proprio quello di convocare le masse ed in specie le comunità cristiane, come qui, stasera, ad affrontare in modo critico questo come altri problemi in cui rimane inceppata, per mancanza di consapevolezza, la nostra crescita sociale. Affrontare questi problemi, per svelare tutte le mistificazioni, le menzogne, concretizzate e dissimulate all'interno di certi principi suggestivi.
Parlando da cristiano a gente che in gran parte si ritiene tale, ci tengo a dire che il momento che stiamo vivendo è proprio il momento in cui dobbiamo abbattere (noi ne siamo i primi responsabili) quella che chiamerei l'ideologia cattolica, come ideologia di copertura del mondo borghese, il quale mondo borghese trova vantaggio nel coprire i suoi obiettivi di conservazione sociale con dei valori cosiddetti cristiani che hanno ancora una grandissima forza di suggestione nelle coscienze.
La difesa della famiglia cristiana è un aspetto dell'ideo-logia cattolica che, molto di più di quanto potremmo pensare, nasconde la volontà di conservare un certo tipo di società e un certo tipo di sistema di rapporti di proprietà. Alzare quindi questo velo è in un sol momento recuperare la possibilità di un rapporto più vivace, più liberatorio col Vangelo e smascherare le reali intenzioni della classe dominante.
Così, quando i nostri vescovi hanno creduto di dover convocare i cattolici a una battaglia, la battaglia della indissolubilità giuridica del matrimonio in Italia, hanno fatto riferimento a un modello cristiano della famiglia, e certo un tale riferimento non può non avere risonanza nella coscienza di una larga parte del popolo italiano, anche di quella che politicamente ha fatto delle scelte dissenzienti nei confronti della Chiesa.
Non esiste un modello cristiano di famigliaChe cosa si nasconde, però, dietro questo cosiddetto modello cristiano della famiglia? È lecito attribuire al messaggio cristiano un modello di famiglia quale quello che abbiamo ereditato dal passato e che ancora sopravvive? Ecco, la risposta è subito np. Si tratta appunto di una menzogna, non di quelle architettate da chi sa quale mal intenzionato, ma di quelle menzogne che nascono per una specie di escrescenza storica progressiva, sulla spinta di altre ragioni che non sono di tipo ideale, ma pratico.
Non esiste la "famiglia cristiana", essa è appunto un falso valore. Io vorrei mostrarvi come liberandoci da questa falsificazione, ricercando anche le ragioni per cui essa è nata e si è fatta valere e riferendoci con coscienza liberata alle esigenze evangeliche, noi ci mettiamo in movimento tra le forze che mirano a far crescere la nostra società e liberarla anche da altre schiavitù.
Che cosa intendiamo quando si parla di modello cristiano della famiglia? Noi possiamo riferirci o al particolare ordinamento giuridico della famiglia, quello che è stato elaborato lungo i secoli dalla Chiesa cattolica, oppure ad un particolare concetto etico, morale della famiglia, che, anche indipendentemente dall'ordinamento giuri-dico-canonico, si è fatto valere da parte della società italiana. Per cui si dice che la famiglia tipica italiana è una famiglia di formazione cristiana.
Ora, spieghiamoci su questo punto. Intanto sta di fatto che quando noi parliamo della famiglia secondo l'ordi-namento canonico, quello che per adesso rimane in prima gestione della Sacra Rota e dei Tribunali diocesani, noi non dobbiamo affatto ritenere che si tratti della traduzione giuridica di un ideale evangelico. Si tratta invece di una creazione storica, precisamente databile, di cui è responsabile la Chiesa cattolica.
I primi cattolici non avevano un ordinamento giuridico proprio della famiglia. Essi vivevano la vita di famiglia, ed anche diremmo istitutivi, secondo il costume del tempo. Non c'era, per dir così, il matrimonio in chiesa; non c'era una anagrafe o un tribunale ecclesiastico per i matrimoni, non c'era il prete, al matrimonio. I cattolici si sposavano come tutti gli altri. Non sentivano alcun bisogno di dare al loro matrimonio un ordinamento giuridico particolare all'interno del generale ordinamento giuridico della società in cui vivevano, specialmente in quella romana.
Ad esempio, là dove erano le famiglie a stabilire il matrimonio dei figli, i primi cristiani facevano come gli altri: il padre di famiglia destinava alla figlia un dato marito, d'accordo con la famiglia del promesso sposo, senza che i due interessati potessero aggiungere nulla, perché questo era il costume.
Inutile quindi andare a cercare nei primi cristiani un modello di "famiglia cristiana". Così, per quanto riguarda il modello etico della famiglia, non esiste un concetto etico specificamente cristiano, nei primi secoli. C'è una visione, se vogliamo, di fede, teologale, cioè legata al riferimento a Cristo. Non esiste però un ideale di famiglia con particolari contenuti morali. La prassi familiare si modellava sul costume morale del tempo. Anche se è chiaro che il cristianesimo impose un rigore morale, un rifiuto di certe forme di depravazione, una condanna di certe degenerazioni; però non disse cose diverse da quelle che poteva dire l'etica degli stoici o dei pitagorici. Quindi il cristianesimo non si presenta con una sua etica familiare formulata nei primi tempi.
Come nasce il modello cristiano della famiglia
Solo quando la Chiesa, dopo Costantino, e precisamente con Giustiniano, acquista una responsabilità di tipo sociale, per cui tutti i momenti della vita sociale vengono gestiti dal clero, incomincia a formarsi un ordinamento matrimoniale cristiano che, come vedremo, si è poi accresciuto, si è arricchito, si è accreditato in ogni modo fino a trovare il suo sigillo nel Concilio di Trento e a diventare anche un modello di ispirazione per molti ordinamenti giuridici civili. Il codice napoleonico fu in gran parte tributario di questa tradizione giuridica della Chiesa medioevale.
Tuttavia ci domandiamo se il matrimonio cosiddetto cristiano ha veramente obbedito alle esigenze evangeliche o non piuttosto alle esigenze della società del tempo. La risposta è chiara: la cosiddetta famiglia cristiana, con tutti i connotati giuridici ritrovabili nel codice canonico, con tutti i connotati etici ritrovabili nel costume esemplare, è un prodotto storico e, come tale, relativo.
Per cui io non riesco a capire, proprio dal punto di vista diremo dell'individuazione culturale, che significhi difendere in una società pluralistica un modello cristiano di famiglia, perché non so quale dia questo modello, perché non si dà un modello proprio del cristiano.
La famiglia cristiana, se noi la conserviamo come prodotto storico ereditario, nasconde invece in sé particolari pregiudizi, particolari difformazioni, particolari rapporti sociali legati allo sfruttamento che sono tutti da rifiutare.
Caratteristiche superate della famiglia cristiana
Quali sono queste caratteristiche storiche da considerare superate? Innanzitutto è chiaro che l'unità della famiglia cristiana usufruiva di un dato economico, era l'unità patrimoniale. Il padre di famiglia era l'unico responsabile del patrimonio familiare, era lui l'unica figura economica della famiglia. E quindi l'unità della famiglia, anziché essere il prodotto della scelta cosciente dei coniugi, era un portato fatale dell'indivisibile unità patrimoniale. Che cosa avrebbe potuto fare una buona donna cristiana, si fa per dire, di ceto povero, se avesse se avesse avuto mille motivi per lasciare il marito: andare a morire di fame o essere rifiutata dalla società abbiente come donna deplorevole, di cattivi costumi, ecc. La donna era legata a questo giogo dell'indissolubile monarchia economica del padre di famiglia.
A reggere l'indissolubilità della famiglia, oltre a questa ragione economica, esisteva un ambiente cosiddetto monoculturale, cioè a cultura unica, per cui tutti gli elementi culturali dell'ambiente spingevano a ricercare la propria identità nella famiglia di appartenenza.
Una donna non aveva un suo mondo culturale. I figli non avevano un mondo culturale autonomo. Non c'era-no spazi diversi per l'esperienza di vita. La famiglia rappresentava il luogo normale e continuativo dell'esperien-za culturale. L'unità quindi si manteneva perché mancavano forze centrifughe, aperture di orizzonti diversi per i componenti della famiglia. Pensate, ad esempio, al legame quasi fatale fra il lavoro del padre e del figlio.
In terzo luogo c'era la subordinazione della donna all'autorità maritale, che era una norma assoluta. L'attività pastorale della Chiesa ha in questo una specifica responsabilità, perché il modello che si forniva alla donna era un modello di subordinazione al marito. La "donna cristiana" è quella che dice sempre di sì al marito, che non ha in nessun campo iniziativa propria, le cui virtù sono tutte una garanzia alla tirannide maschile e i cui compensi mistificanti sono l'essere l'angelo del focolare.
Perfino san Paolo porta riflessi della condizione sociale della donna dei suoi tempi, quando dice che la donna deve essere sottoposta al marito, o deve coprirsi il capo quando entra in assemblea perché il capo della donna è l'uomo. San Paolo non rivela niente che abbia rapporto con la liberazione portata da Gesù Cristo Assume norme di comportamento proprie della società ebraica. Ma noi dobbiamo sapere che la fedeltà alla parola di Dio non è fedeltà ai modelli sociologici del comportamento, legati ad una certa fase dello sviluppo storico. La parola di Dio non assolutizza, non rende normativi quei modi di comportamento, ci esorta anzi a liberarcene.
E alla fine c'era il pessimismo sessuale, che svuotava la famiglia di ogni significato positivo di comunione spontanea a tutti i livelli e relegava la vita sessuale a una funzione di servizio in rapporto all'azione.
Il matrimonio è per i figli. In realtà, pensate che nel passato, anche in quel passato che certi nostalgici rimpiangono, il consenso libero della donna al matrimonio era una circostanza neanche presa in considerazione. La donna aveva così radicalmente accettato il modello impostole dalla società e dalla Chiesa che aveva perfino vergogna a dire che desiderava prender marito; magari lo desiderava con tutta se stessa, ma tale desiderio rimaneva inibito. Doveva esser lei, la donna cercata. Doveva essere senza iniziative e con un'etica del comportamento femminile che voi conoscete bene.
La stessa definizione della donna era di tipo biologico. La donna si definiva in rapporto alla sua biologia: era vergine o madre. Non persona, come l'uomo, capace di decidere della propria vita indipendentemente dalla condizione biologica; ma legata strettamente a questa, con delle sfere di mortificazione terribili, come la donna che non ha sposato, la zitella, considerata una donna fallita.
Oggi ci troviamo nella situazione in cui lo sviluppo della società ha messo in crisi le componenti di struttura che sorreggevano un certo tipo di famiglia cosiddetta cristiana. Abbiamo una crisi della famiglia che per molti è la crisi della famiglia cristiana, ma che invece è la crisi della famiglia tradizionale e niente altro.
Allora, un credente, quali doveri ha in questo momento? Non di stringersi di far quadrato attorno a un modello di famiglia che non ha più nessuna ragione storica di continuare, ma rifarsi all'esigenza evangelica, interrogarsi di fronte al Vangelo.
Ora, secondo me, il Vangelo, non ci dà nessun esempio di famiglia precisa. Anche la sacra famiglia è un'in-venzione posteriore, borghese, perché la famiglia di Nazareth, non è un modello di famiglia, per il semplice fatto che, almeno nelle convinzioni di fede, Maria e Giuseppe non erano autenticamente marito e moglie. Quindi, presentare come modello di famiglia un modello in cui proprio l'aspetto principale non era integro, significa fare una mistificazione.
Indicazioni evangeliche
Occorre domandarsi piuttosto in che senso il Vangelo si apre a questa esperienza particolare della vita che è l'amore nella famiglia, nella linea della liberazione, cioè nella crescita secondo il disegno di Dio.
A me pare che ci siano dei punti fermi, questa volta autenticamente fermi, a cui fare riferimento in questo tentativo di recupero del significato evangelico che può avere la vita nell'amore, la vita familiare. Innanzi tutto , è sicuramente un'affermazione di fondo del Vangelo che dinanzi a Cristo non c'è nessuna differenza fra l'uomo e la donna, dinanzi a Cristo non c'è né maschio né femmina.
Quelle discriminazione desunte dalla realtà sociologica, che hanno un riflesso nella sacra scrittura, devono essere subordinate a questa che è l'autentica rivelazione in rapporto alla resurrezione: in Gesù Cristo la disparità tra l'uomo e la donna è abolita. Certo noi sappiamo che la parola del Vangelo non si presta a diventare – guai del se lo facessimo – un fondamento per nuovi ordinamenti giuridici; perché la parola del Vangelo, come si suol dire, è parola profetica, cioè una parola che indica certe linee di crescita, le quali sboccano in una totale liberazione cristiana.
In secondo luogo, secondo il Vangelo, la fedeltà non è il risultato di una legge esterna che costringe, ma è un'espressione dell'amore.
Un'altra esigenza interna allo spirito evangelico è il rifiuto della strumentalizzazione, del rendere l'altro uno strumento di sé.
Espressioni bibliche quali "la persona umana è fatta a immagine di Dio", "amate i vostri mariti come la Chiesa ama Cristo", "amate le vostre mogli come Cristo ama la Chiesa", per un credente sono un invito decisivo a rifiutare di fare dell'altra persona uno strumento di sé, si tratti dei rapporti fra coniugi, si tratti di rapporti familiari.
Questo rispetto della persona significa garanzia del rapporto veramente comunitario, perché tra rapporto comunitario e rapporto di società stabilito dalla legge c'è una differenza di qualità: il rapporto comunitario in tanto è, in tanto vive, in quanto trova la sua sorgente nel libero consenso e nel rispetto spontaneo della coscienza verso l'altro; i rapporti societari invece sono quelli che si stabiliscono per forza di legge.
La famiglia, istituzione legata alle condizioni storiche
Siamo all'ultimo punto: non dobbiamo cadere in un così ingenuo evangelismo da credere che la famiglia non interessi la società, che debba essere riferita soltanto all'e-sperienza spirituale.
Ogni espressione dell'uomo, ma la famiglia in particolar modo, in quanto si innesta nei rapporti sociali generali, ha bisogno di istituzionalizzarsi. La istituzionalizzazione è un momento di serietà umana, il momento in cui si traduce in norma esterna la responsabilità di fronte alla società intera.
Però, non è con questo momento istituzionale che si definisce la famiglia. Il momento istituzionale è quello in cui l'esperienza della famiglia assume rapporti e responsabilità con l'insieme della realtà sociale. E la società, come tale, ha bisogno di tutelare la famiglia, di farsene garante in qualche modo, di proteggerne e favorirne lo sviluppo. Ma questo momento, lo ripeto, è del tutto legato alle condizioni storiche e varia a seconda del mutare delle condizioni storiche; perciò oggi c'è bisogno di una nuova istituzionalizzazione della famiglia.
La famiglia è una creazione continua. Nella Bibbia c'è la poligamia, poi si è acquisito il concetto della famiglia monogamica, che forse è un concetto irrinunciabile. Però non si deve dire che è la natura che l'ha voluto, perché questo significa attribuire alla natura astratta delle conquiste storiche che non invece relative anch'esse.
Forse la famiglia dovrà cambiare ancora forma, dovrà cambiare struttura. Il concetto del diritto naturale è un concetto dell'immobilismo borghese, con cui si sono voluti rendere eterni e immutabili alcuni rapporti che erano funzionali alla società borghese. E qual è il criterio con cui la famiglia deve cambiare struttura? È quel di più di libertà che l'uomo deve avere. Quando diciamo libertà non parliamo della libertà soggettivistica identica al libero arbitrio, ma di una libertà in cui veramente l'esistenza dell'uno sia garanzia e condizione della libertà di tutti gli altri.
Questa crescita della famiglia presuppone un nuovo diritto familiare in cui dovrà essere anche previsto il caso nel quale la fedeltà reciproca di indissolubilità non è più possibile. Cioè la clausola del divorzio come verifica di un fallimento dell'esperienza e come legittima dei due, che hanno portato a termine un'esperienza fallita, di crearsi una esistenza coniugale. Questo la legge lo può fare; a rigore, lo deve fare. Però il diritto di famiglia non è questo. Ecco perché dovremo, una volta superata la battaglia sul referendum, considerarci continuamente mobilitati per favorire in Italia una modificazione profonda del diritto di famiglia, perché esistono già ormai le condizioni di coscienza generali e perché certe norme giuridiche della tradizione siano abolite e superate.
E naturalmente, quando si fa questa battaglia per un nuovo tipo di famiglia, si deve fare anche una battaglia per un nuovo tipo di società, perché se i rapporti economici rimangono quelli che sono poco vale il modificare i rapporti giuridici. Al più avremmo un aggiornamento neo-capitalistico della famiglia.
In ogni caso, una battaglia per la famiglia che si apre con il referendum, non si chiude con il referendum. Però dobbiamo dirci che noi, in quanto cristiani, non abbiamo niente, nessun modello nostro da difendere. Noi dobbiamo ricercare con gli altri un modello giuridico ed etico di famiglia, perché non abbiamo privilegi di nessuna sorta come credenti.
Come credenti ci compete l'onere e il privilegio, se volete, di essere fedeli alle ispirazioni evangeliche fondamentali; ma queste ispirazioni non sono da tradurre come modello etico-giuridico, poiché sono una spinta continuamente trasformante della realtà storica, disponibili a sempre nuove forme di ordinamento familiare.
di Ernesto Balducci
da Adista documenti n°10 del 10 Febbraio 2007