Di fatto, è già incominciato il dopo Bush nel Medio Oriente, martoriato dalla guerra. Dai massacri di Baghdad agli attentati selettivi di Beirut, fino alle inutili rappresaglie israeliane e ai sequestri di persona nella striscia di Gaza. Tutti i potenti della regione, ormai, sanno di non poter contare - nel bene o nel male - su un punto di riferimento saldo a Washington. Il loro riposizionamento è un’incognita pericolosa e la stessa forza d’interposizione Onu in Libano rischia di venir travolta dalle circostanze, se la tregua non verrà al più presto riempita di iniziative politiche, diplomatiche e umanitarie.
E’ in tale contesto turbolento che attendo, come un’iniziativa preziosa, il viaggio di Benedetto XVI in Turchia. Sto scrivendo una settimana prima del suo svolgimento; voi mi leggerete a cose fatte. Ma in anticipo, proprio perché si tratta di un viaggio a rischio, voglio dichiarare il mio apprezzamento per la scelta vaticana di confermarlo, nonostante tutto quello che è successo dalle proteste per il discorso di Ratisbona in poi.
Papa Ratzinger mostra una volontà di dialogo e d’incontro amichevole con il mondo musulmano, che smentisce qualsiasi grossolano tentativo di un suo reclutamento fra i teorici del conflitto di civiltà. In tutta questa vicenda ha mostrato anche un approccio umile, disponibile a chiedere scusa e a spogliarsi di ogni malintesa sovranità regale. Né lo hanno frenato l’indisponibilità a riceverlo del premier turco Erdogan, o le tensioni crescenti intorno alla difficile candidatura di Ankara come membro dell’Unione europea.
Personalmente sono un convinto fautore di un’Europa più mediterranea, della quale possa fare parte a pieno titolo anche la grande repubblica a maggioranza musulmana, che rappresenta storicamente il nostro ponte gettato verso l’Asia. So che Papa Ratzinger, da cardinale, ha espresso opinioni diverse, e del resto ciò è coerente con la sua visione di un’Europa cristiana, anzi, luogo fondativo della cristianità nell’incontro fra messaggio biblico e pensiero greco. Ma quel che conta, al di là delle diverse visioni, è l’intenzione sincera di non interrompere il dialogo. Soprattutto in un momento così pericoloso per la pace nel Mediterraneo.
C’è, poi, un secondo motivo di speranza nel viaggio turco di Benedetto XVI. La sua visita sul Bosforo a quel minuscolo centro universale della Chiesa ortodossa che reca il nome di Fanar, l’antico Patriarcato di Costantinopoli, può alimentare una spinta ecumenica tale da oltrepassare resistenze e rivalità delle singole chiese nazionali ortodosse nei confronti di Roma. Non dimentichiamo che la frattura originata dal primo scisma pesa ancora nella contrapposizione fra un’Europa latina e un’Europa slava. Ne sanno qualcosa i popoli balcanici. Ogni passo verso la pacificazione è il benvenuto.
di Gad Lerner
Nigrizia/Dicembre 2006
LE PRIORITÀ DELLA CARITAS
Nell’aprile 1994 il Ruanda si è trasformato da «Paese delle mille colline» in Paese dei mille problemi e dei mille cimiteri. Il genocidio, durato ufficialmente poco più di tre mesi, ma poi proseguito con assassini, vendette, ritorsioni da una parte e, dall’altra, ha lasciato una nazione in rovina: morti dappertutto e un numero impressionante di orfani, vedove, persone senza casa, disabili. Gran parte della popolazione si è rifugiata nella Repubblica democratica del Congo e nei Paesi vicini. Poi, pian piano, è tornata la normalità, per quanto possa tornare normale un Paese nel quale più di un decimo della popolazione è stata massacrata in cento giorni. E’ cominciata la ricostruzione, tanto più difficile in una provincia, come quella di Cyangugu, che con il Congo confina e che prima ha dovuto registrare l’esodo dei ruandesi in fuga, poi l’arrivo dei profughi congolesi di diverse fazioni.
La Chiesa cattolica ha avuto un ruolo importante nel post-genocidio: nella diocesi di Cyangugu, in cui territorio coincide con quello della provincia omonima, la metà dei 566mila abitanti è cattolica. Nella ricostruzione, in quella umana prima ancora che materiale, il braccio operativo è stata
la Caritas, diretta da don Modeste Kajybwami. «Sono i gesti concreti a parlare più dei discorsi, perché rendono credibile il messaggio evangelico - osserva -. Noi, come strumento della pastorale della Chiesa, dobbiamo svolgere il nostro ruolo soprattutto nell’assistenza di coloro che non hanno niente e sono dimenticati dalla società.
La Caritas di Cyangugu, come del resto tutto il Paese, finito il genocidio non aveva più nulla Abbiamo chiesto aiuto alle Caritas europee e il nostro appello è stato ascoltato: abbiamo ricevuto cibo, vestiti, medicine, lastre di metallo per ricostruire i tetti delle case. Ma
la Caritas deve anche annunciare il Vangelo spingendo alla condivisione, alla pace, al perdono e all’amore: per fare questo lavoriamo con le strutture esistenti della Chiesa, come le comunità ecclesiali di base e le parrocchie».
Per concretizzare il suo ruolo sociale,
la Caritas ha dovuto fissare alcune priorità: il contributo alla ricostruzione delle case, l’aiuto agli orfani, la creazione e l’avvio delle associazioni delle famiglie che hanno accolto i bambini rimasti senza genitori, l’elaborazione di progetti in grado di generare reddito, gestiti da queste stesse associazioni (ad esempio, l’allevamento di mucche e capre), oppure a carattere cooperativo (la gestione dei mulini e la fabbrica dei mattoni), o, ancora, rivolti al piccolo commercio. Tra le altre esperienze e proposte messe in campo, l’aiuto alla scolarizzazione degli orfani, il sostegno per le cure sanitarie, l’alfabetizzazione. Nonostante gli sforzi profusi, però, restano ancora molte emergenze da affrontare: «Il numero degli indigenti aumenta, così come quello dei senza casa e dei malati di Aids che lascia nuovi orfani - prosegue don Modeste -. I poveri non hanno da mangiare a sufficienza, non possono farsi curare né pagare la scuola per i loro figli. Basta un problema climatico e la situazione si aggrava. Ci sono molti bambini malnutriti, il cui peso non corrisponde a quello che dovrebbero avere alla loro età, ragazzi di strada e giovani con meno di 15 anni che diventano capi-famiglia. Le carceri sono piene di detenuti: solo nella prigione di Cyangugu ce ne sono seimila, due volte alla settimana le loro famiglie vengono a portare qualcosa da mangiare per i loro congiunti Per tutto questo
la Caritas fa qualcosa, ma non può trovare vere soluzioni». Lavora sodo con gli orfani che hanno finito la scuola elementare, ma non possono frequentare le secondarie (sono 2.631 nella diocesi, divisi in 815 famiglie). Ha istituito un servizio che si occupa della lotta all’Aids e invita la gente ad associarsi in forme di mutua assistenza, per garantirsi la tutela della salute, ma il problema è sempre il numero degli indigenti. «Facciamo animazione alla carità, alla condivisione, al sostegno ai poveri, all’auto-promozione e al rispetto della vita - aggiunge don Kajyibwami -. Perché siamo convinti che
la Caritas è lo strumento della pastorale sociale della Chiesa, ma anche della pace e della riconciliazione. Riceviamo un aiuto dalla Caritas francese, ma è insufficiente. Vorremmo riuscire a realizzare un progetto generatore di risorse, in modo da auto-finanziare le nostre iniziative, ma l’obiettivo è ancora lontano. Del resto, lo sviluppo e la riconciliazione impongono un lungo cammino. Noi preghiamo sempre il Signore affinché non ci sia mai più un genocidio in Ruanda e in tutto il mondo».
a.m.
Popoli/Agosto-Settembre 2006
La globalizzazione è diventata una questione mondiale che vede le «anime», per usare la terminologia di Francesco Saverio o dello stesso Ignazio di Loyola, cadere nell’inferno della perdita di dignità umana. E un problema marginale per la ristretta élite il cui unico pensiero è di «guadagnare il mondo intero» e a cui non potrebbe importare meno della vita dei poveri. Francesco Saverio aveva dedicato la sua vita alla causa di «salvare le anime». Oggi chiede a coloro che vogliono camminare sulle sue orme di portare speranza e salvezza ai poveri che diventano sempre più poveri, alle popolazioni sempre più numerose delle baraccopoli, ai profughi che attraversano i confini dei Paesi stranieri, ai sempre più numerosi malati colpiti dalla piaga dell’Hiv/Aids, alle vittime di discriminazioni di razza e di casta. Sono queste le moderne regioni dell’inferno, che crescono a un ritmo sconvolgente e nelle quali non c’è posto per il «volto» umano. Queste sono le persone che dovrebbero rientrare nelle preoccupazioni dei giovani di oggi, persone che rivelerebbero loro il volto misericordioso del Padre. L’umanità sarà giudicata sulla base di «ciò che avrete fatto al più piccolo di questi fratelli». In un’epoca in cui la proclamazione diretta del Vangelo ad gentes ha sempre meno seguaci, dove ci conduce lo spirito missionario del santo?
La Chiesa ha ricevuto il dono del Vangelo ed è al servizio del Vangelo. Gli apostoli nel Cenacolo furono riempiti di Spirito Santo, che li spinse a uscire e annunciare la verità che Gesù Cristo è risorto e che Lui solo salva gli uomini. L’incremento dei discepoli della Chiesa «visibile» è certamente un dono dello Spirito. Ma non può bastare il battesimo se manca la conversione del cuore, quella scelta di vita che porta a perdonare i nemici, ad amare il prossimo e il diverso da me, a servire l’altro indipendentemente dalla razza e dalla religione. L’armonia comune, il dialogo tra le religioni, la giustizia per i poveri dovrebbero essere gli obiettivi dell’evangelizzazione della Chiesa di oggi. Solidarietà e fratellanza, rispetto per gli altri, attenzione verso il più piccolo dei fratelli, hanno il loro fondamento nella vita e nel messaggio di Gesù, che divenne uno di noi. Nello scegliere le regioni e le comunità che doveva visitare, san Francesco Saverio era guidato dallo spirito del discernimento, che gli faceva cogliere quale era il bisogno più urgente e in che modo poteva raggiungere il bene maggiore. Nel discernere, oggi, quale sia la causa di maggiore preoccupazione, la individuerei nella disparità crescente e sempre più evidente tra i ricchi e i poveri. Per tenere insieme le due metà di questo mondo sempre più polarizzato dobbiamo portare le persone a comprendere l’atteggiamento di Gesù che spogliò se stesso e assunse la natura di servo (Fil 2,7). Questa è una sfida per l’umanità intera. Nel mondo c’è abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, ma non per soddisfare i capricci e l’avidità di tutti. Un’attenzione vera e fraterna per i più piccoli è il primo passo per incontrare i loro bisogni e permettere loro di vivere con dignità, come figli del nostro unico Padre che è nei cieli. In India, in particolare,
la Chiesa deve portare il messaggio salvifico del Vangelo nei conflitti interetnici e religiosi. Francesco Saverio predicava la salvezza che è l’amore di Dio rivelato nel suo Figlio Gesù Cristo.
Il messaggio e il messaggero cristiano di oggi continuino a proclamare la fratellanza, l’amore, la pace attraverso la compassione e il perdono. Questi sono il marchio dell’annuncio cristiano. Lo spirito di amore e di compassione portò Francesco Saverio verso le Indie. Questo stesso spirito permea oggi l’apostolato e i ministeri dei gesuiti e di tutti i missionari nelle terre che il santo raggiunse nella sua vita.
di Stanislaus Fernandes s. I.
Arcivescovo di Gandhinagar (India)
Popoli/Ottobre 2006
LA SCHEDA
Superficie: 26.338 kmq.
Popolazione: 8.163.715 ab. (cens. 2002), 8.648.000 (stima 2006).
Capitale: Kigali, 608.141 ab. (2002).
Pnl/ab: 198 dollari Usa.
Aspettativa di vita: 47,3 anni.
Mortalità infantile: 89,6 morti su 1.000 nati vivi.
Debito estero: 1.316 dollari Usa (2001).
Popolazione povera (meno di un dollaro al giorno): 60%.
Religione: cristiani 74%, animisti/credenze tradizionali 25%, musulmani 1%.
GruppI etnici: hutu 80%, tutsi 19%, twa 1%
Lingua: francese, inglese, kinyaRwanda (ufficiali).
“I cattolici che hanno commesso crimini erano tali solo di nome”
“Come religiosi siamo intervenuti a fianco dei più poveri”
In Ruanda le celebrazioni per il decennale del genocidio sono finite da tempo. Tanti i momenti di ricordo, le «scoperte delle fosse comuni, le cerimonie all’insegna della riconciliazione, anche se forse un po’ di parte, come commentano gli osservatori esterni. Tutto si è svolto senza incidenti, ed è già molto. Specie da aprile a luglio 2004, cioè nel periodo in cui dieci anni prima erano state uccise non meno di 800mila persone, il genocidio è tornato al centro dell’attenzione di un Paese in straordinaria crescita. Dappertutto ci sono cantieri (spesso di aziende cinesi) per realizzare strade e opere pubbliche, il prodotto interno lordo è in forte crescita, il Paese è ai vertici delle classifiche mondiali per quanto concerne il ruolo delle donne nella vita pubblica. Tutto passato quindi? Nemmeno per idea e non solo perché una tragedia simile è impossibile da dimenticare.
«Il genocidio resta un male innominabile che ha colpito tutto il Ruanda e la Chiesa cattolica ruandese» afferma Jean Damascène Bimenyimana, vescovo di Cyangugu, diocesi nel Sud del Paese, ai confini con la Repubblica democratica del Congo. Dalla sua sede sulle rive del lago Kivu, l’alto prelato non nasconde le responsabilità della tragedia, ma invita a non generalizzare. «Il massacro è stato organizzato dal potere politico che era alla guida del Paese. Alcuni di quelli che gestivano questo potere erano cristiani cattolici, e c’erano cattolici anche tra le persone che sono state spinte a commettere i crimini del genocidio. Tutta questa gente non ha messo in pratica il comandamento dell’amore che ci ha lasciato Gesù Cristo: erano cristiani cattolici solo di nome. Questo, però, non vuol dire che il genocidio prova il fallimento dell’evangelizzazione del Ruanda, come certi osano affermare: non tutti i cattolici ruandesi hanno partecipato al genocidio. Se si sostiene questa tesi, la si dovrebbe trasporre a quei Paesi tradizionalmente e storicamente cristiani nei quali si sono verificati altri massacri, ma non mi pare il caso».
La Chiesa, anzi, è intervenuta subito a fianco dei parenti delle vittime per aiutarli a ricostruire le case e a tornare ad abitarle. L’operazione continua, perché sono tante le persone rimaste sole e senza famiglia. In particolare, le strutture diocesane e parrocchiali hanno aiutato le donne scampate ai massacri e quelle i cui mariti sono in prigione a mettersi insieme e a formare associazioni. Si è così testimoniato che la riconciliazione non è un sogno, ma un passo che ciascuno deve fare.
L’episcopato locale ha anche avviato una profonda riflessione sui fatti del 1994. «Tre anni dopo - rileva mons. Bimenyimana -, con i preparativi per il giubileo del 2000 e per la celebrazione dei cent’anni di evangelizzazione del Ruanda, si è messo mano seriamente al problema della riconciliazione dei ruandesi, organizzando, in quasi tutte le diocesi, un sinodo straordinario per affrontare la questione etnica. Scambi e confronti hanno avuto luogo nelle comunità ecclesiali di base e hanno favorito un clima di dialogo tra tutti i componenti della società ruandese. Le conclusioni sinodali di ogni diocesi hanno mostrato che la riconciliazione è un processo iniziato che bisogna proseguire. Attualmente se ne stanno occupando la commissione episcopale e le commissioni diocesane “Giustizia e Pace”. Si organizza la formazione per i “mediatori della pace” o gli “apostoli della pace” sui differenti generi di conflitti e sulla metodologia per gestirli. Molti di loro sono giudici nei processi popolari gacaca allestiti dal Governo ruandese per i reati connessi al genocidio. Il 13 giugno 2002 i vescovi hanno scritto la lettera La giustizia che riconcilia, nella quale invitano, specialmente i cristiani, a dire la verità e nient’altro che la verità nei processi gacaca per riferire quanto hanno visto e vissuto. Bisogna ricordare che, soprattutto prima del 1997, ma anche dopo, la Conferenza episcopale del Ruanda non ha mai cessato di indirizzare, ai ruandesi in generale e ai cattolici in particolare, lettere pastorali nelle quali si chiedeva di vivere insieme nella concordia e nella pace».
I problemi da affrontare, all’alba del terzo millennio, restano però numerosi e complessi. L’elenco è davvero lungo: sovrappopolazione, terre coltivabili sempre più rare (anche per via delle suddivisioni imposte da doti e frazionamenti ereditari), povertà galoppante, i bambini di strada presenti ormai in tutte le città, poche strade in buone condizioni, acqua potabile non disponibile a tutti. A queste difficoltà di fondo, si aggiungono la pandemia di Aids e il fiorire delle sette religiose. Sul fronte dell’istruzione, nonostante i grandi sforzi delle famiglie, la carenza di mezzi per acquistare il materiale didattico, ma anche vestiti appena decenti, è la causa principale dell’abbandono delle scuole fin nei primi anni di frequenza. Mancano i fondi per pagare le spese scolastiche agli allievi delle scuole secondarie, per cui è molto basso il numero di alunni che passano dal ciclo di studi primario a quello secondario e, da qui, all’università. Sono pochi gli istituti nei quali si impara un mestiere e i giovani che terminano la scuola secondaria non trovano lavoro. Gli analfabeti restano numerosi.
«La comunità cristiana non è un’isola al riparo da questi problemi - commenta il vescovo - e, oltretutto, deve fare i conti con la carenza di catechisti formati e di scuole per prepararli. Coloro che abbracciano questa missione sono costretti ad accettare un livello di vita molto basso: mancano i fondi per far stampare i manuali di catechesi, per il materiale didattico e per far funzionare i servizi connessi quali l’animazione catechetica. La catechesi ha a disposizione, nel calendario scolastico, soltanto un’ora di corso alla settimana sia nella scuola primaria sia in quella secondaria, e aumentano gli insegnanti che trascurano questa lezione».
Una secolarizzazione crescente, quella della scuola pubblica, alla quale non sarà facile trovare rimedio, ma che non preoccupa il vescovo: «La Chiesa cattolica collabora con lo Stato soprattutto nel settore della sanità e dell’insegnamento, ma salvaguarda la sua neutralità, non si immischia negli affari politici».
Alberto Marini
Popoli/Agosto-settembre 2006
FRASCATI. Un appuntamento - il 30° Incontro Nazionale delle Comunità Cristiane di Base, svoltosi a Frascati (Roma) dall'8 al 10 dicembre sul tema: "Orizzonti di laicità. Pratiche nelle CdB e nella società" - che segna indubbiamente una tappa significativa nel percorso che le Cdb hanno costruito insieme in questi anni sul tema della laicità, in un momento - per di più - particolarmente delicato della vita del Paese, in cui grande è la confusione sulla cultura e le pratiche politiche e sociali della laicità. Vivacissima ed appassionata la presenza dei circa 350 partecipanti, tra cui una cinquantina di giovani (un dato rilevante per un movimento che, dopo 35 anni di vita, non solo non mostra la corda, ma manifesta nuovi segni di vitalità), che per tre giorni hanno riflettuto e discusso sugli orizzonti ecclesiali e politici del Paese. Certo, i recenti interventi delle gerarchie ecclesiastiche contro il progetto di regolamentazione per legge delle unioni di fatto e il drammatico caso di Piergiorgio Welby hanno reso di ancora più urgente attualità le analisi e le riflessioni svolte durante i lavori, ma in realtà il tema della laicità (e la denuncia del regime concordatario) - è stato sottolineato da Marcello Vigli nell'introduzione - è stato costantemente presente nella storia e nella riflessione delle CdB.
La prima giornata dei lavori si è aperta con il confronto tra intellettuali e politici di orientamento diverso: i rilievi e le critiche all'accentramento wojtyliano e alla gestione ruiniana degli ultimi 15 anni fatti dai relatori – credenti e non credenti - ospiti dell'incontro, mostra come ciò che fino a pochi mesi fa era lasciato ad esclusivo appannaggio di una minoranza bollata come "cattolici del dissenso" o "cattocomunisti" sembra oggi condiviso da settori sempre più larghi del mondo ecclesiale e laico. Così, durante il dibattito che ha aperto i lavori dell'incontro ("Dove va la Chiesa cattolica italiana in una società multiculturale e multireligiosa, in presenza di una crisi del sistema democratico"), forti e radicali critiche all'attuale establishment ecclesiastico ed alla sua linea politico-pastorale sono arrivati sia dalla parte laica del parterre - il filosofo Giulio Giorello, la femminista (direttora del trimestrale Marea) Monica Lanfranco - che da quella cattolica, rappresentata da Giorgio Tonini (senatore Ds-Cristiano Sociali e già presidente nazionale della Fuci) e Marinella Perroni (teologa e presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane).
Analfabetismo episcopale di ritorno
La teologa Marinella Perroni ha voluto esprimere un giudizio nettamente positivo dell'assise di Verona, cui lei stessa ha partecipato. Al Convegno ecclesiale - ha detto - "ho incontrato persone diverse dallo stereotipo che ne danno solitamente i media". Un laicato vivace che, specie nel lavoro per ambiti, ha discusso "con serietà e notevole capacità di giudizio critico". Se poi quello che emerge da questo tipo di assise è "il solito teatrino ecclesiastico", la colpa – dice la Perroni – è solo di certa "vergognosa stampa laica". Nel corso del suo intervento non ha però potuto evitare di rilevare anche un certo "disincantato cinismo" che caratterizza da qualche tempo l'azione dei laici cattolici, e il fatto che i documenti che avrebbero dovuto guidare i lavori degli ambiti siano tutti rigorosamente passati "attraverso la varechina della Cei" (e infatti – sottolinea – in molti casi sono stati criticati dai gruppi, "tanto da costringere i relatori a rettificare le linee delle relazioni iniziali"). Anche la presenza del papa è stata vissuta dall'assemblea "con grande entusiasmo, ma anche con fatica", perché ha finito per monopolizzare un'intera giornata delle tre concesse all'assemblea per portare a termine i lavori. La Perroni non ha mancato poi di sottolineare come il discorso di Benedetto XVI fosse "speculare a quello di Ruini". Sembrava quasi che "mezzo discorso dell'uno fosse stato scritto dall'altro, e viceversa". Una linea di reciproca legittimazione che - dice la presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane - l'assemblea in gran parte non ha condiviso. Ciononostante - ed è una contraddizione rilevata dalla stessa Perroni durante il suo intervento - ben 52 applausi hanno scandito il discorso del presidente della Cei. Insomma, anche il quadro ecclesiale tratteggiato dalla Perroni ha assunto via via tinte piuttosto fosche: la teologa ha infatti parlato di una Chiesa dove è altissimo, "forse più che in ogni altro Paese europeo", "il tasso di analfabetismo episcopale". Dove ormai tra teologi e vescovi non c'è più alcuno scontro "semplicemente perché non esiste alcuna occasione di incontro", dove è sotto gli occhi di tutti "il processo di ‘ciellenizzazione'", perché, se "sulla cattedra di Mosè sono ormai da tempo seduti i movimenti, è altrettanto vero che alcuni sono seduti più in alto di altri". Per la Perroni, tuttavia, questo stato di cose è destinato a cambiare in tempi brevi perché - afferma - è sempre più diffusa tra i credenti "la fame di una Chiesa che torni a fare la Chiesa". E poi, conclude la Perroni, i tanto sbandierati "valori non negoziabili" che oggi la gerarchia ecclesiastica difende a spada tratta in realtà non hanno senso: "non esiste nulla nell'umana realtà di non negoziabile, tanto più per la Chiesa cattolica che ha sempre negoziato tutto, anche la morte, tanto che i cattolici parlano dell'aldilà…".
Azzerato il laicato cattolico
Dal canto suo il senatore Tonini si è chiesto come mai (a parte l'inevitabile presenza istituzionale di Prodi e – per par condicio – anche di Berlusconi) a Verona i politici non fossero stati invitati. Al di là dell'opportunità di non trasformare il Convegno ecclesiale "in una specie di ‘Porta a Porta'", per Tonini questa scelta denuncia ancora una volta, da parte della Chiesa italiana, la difficoltà di rapportarsi con la politica dopo la scomparsa della Dc. Un imbarazzo che – spiega Tonini – nasce dal fatto che il "bipolarismo, sia nel suo aspetto politico che in quello culturale", si è ormai "incuneato in modo profondo anche nella Chiesa", che soffre oggi al suo interno di una forte stratificazione. Il primo strato - spiega Tonini - è quello rappresentato dal vertice ecclesiastico che, per più di 20 anni, è stato schiacciato dalla titanica leadership di Giovanni Paolo II che, attraverso il cardinal Ruini, ha di fatto "commissariato la Conferenza episcopale italiana". È noto infatti, chiosa il senatore Ds, che "le conclusioni delle assemblee dei vescovi fossero stampate ancor prima che iniziassero i lavori" e che il ruolo del presidente dei vescovi somigliava più a quella di un "commissario prefettizio" che a quella del presidente di una Assemblea. Così, a lungo andare, "il dibattito teologico si è spento", tanto da apparire oggi più simile ad un "dibattito filologico", ed ogni elemento di polemica o semplicemente di critica intraecclesiale è stato percepito "come elemento distruttivo". A legittimare di fatto la "stagnazione" di questo primo strato – quello gerarchico – in cui si struttura oggi la Chiesa italiana è una larga fascia di credenti, costituita da quella "opinione perbenista che vede nella Chiesa un elemento di stabilità e non ama i fermenti e le sorprese. Sono gli stessi che, significativamente, hanno applaudito Berlusconi al suo arrivo al Convegno di Verona". È vero, ammette Tonini, che nelle diocesi e nelle comunità ecclesiali è sopravvissuta una fascia di credenti "liberi" ("penso alle Caritas, all'associazionismo, alle scuole di teologia per laici, al volontariato"), che costituisce uno strato intermedio tra il vertice della Chiesa e la sua base di consenso, ma questi settori sono divenuti troppo minoritari per poter incidere realmente su assetti ormai consolidati. L'analisi di Tonini si spinge così ad affermare che, in senso proprio, non esiste più neanche un vero e proprio laicato cattolico, nel senso di personalità di spicco del modo cattolico che vivano "di luce propria", che riescano cioè ad esprimere autonomamente una propria visione della Chiesa e della società. Questo laicato, "come dimostra la vicenda delle Acli", in un passato non lontano costituiva la parte più vivace della Chiesa: oggi, "molto semplicemente è stato azzerato". Negli ultimi tempi si è aperta però - secondo Tonini - una fase di transizione per cui gli equilibri consolidatisi negli ultimi 15-20 anni sono destinati a "rompersi in tempi assai brevi". Perché, spiega il senatore Ds, è "l'impalcatura stessa della Chiesa a non reggere più", a partire dalla crisi stessa delle vocazioni presbiterali.
La nevrosi dell'identità
Giulio Giorello ha esordito confessando alla platea di interessarsi alle sorti della Chiesa, "più o meno quanto ad un palestinese interessa dove va Israele, o a un nord irlandese il destino del Regno Unito". Un'esperienza, quella rivendicata dal filosofo, sempre "fuori dal recinto del sacro", dentro un mondo laico che, per definizione, "non ha gerarchia, né ortodossia, né partito", e che, per questa sua caratteristica, "è costituzionalmente più debole" di fronte alle Chiese e alle fedi. Inoltre, negli ultimi anni, campi come quello della bioetica, "nati con una connotazione fortemente laica e positivista", sono diventati "terreno di egemonia religiosa, tanto che ormai nei comitati etici gli esperti e gli scienziati latitano". Da parte dei laici, urge allora comprendere che "le vere contrapposizioni non sono quelle tra credenti e non credenti, cattolici e laici, etica religiosa ed etica laica, ma tra persone che seguono una logica assolutista e altre che seguono una logica della fallibilità". Oggi infatti, rileva Giorello, c'è nel nostro Paese una "nevrosi dell'identità, che arriva ad abbracciare anche gli aspetti più minuti della quotidianità". A questa logica non è sfuggita nemmeno la Chiesa, che "da Giovanni XXIII in poi è progressivamente divenuta una burocrazia dello spirito e ha smesso di prendere in considerazione serie posizioni laiche". Peccato: perché di fronte alla Chiesa di oggi non c'è più - dice Giorello - la vecchia sfida al liberalismo o al marxismo; piuttosto, quella "dell'impresa tecnico scientifica, che ha rimodellato categorie come la morte, la vita, la famiglia, il rapporto tra il diritto e la genetica. Questioni che toccano le scelte personali quanto quelle del legislatore", e che, se non vengono affrontate con urgenza, portano a compiere scelte come quelle fatte sulla pelle di Piergiorgio Welby, "espropriato del diritto che dovrebbe essere garantito a ciascuno di poter decidere di se stesso". La sinistra, poi, "di fronte al disagio ed alla discriminazione quotidiana che in tanti oggi sono costretti a vivere", deve capire "che il conflitto è comunque preferibile al conformismo". E che scienza e tecnica rischiano di trovarsi sotto il controllo di un'etica impazzita, "che non distingue tra l'accettazione della fine della vita con il dare la morte". Così l'identità, che pure può essere un valore importante, "non deve assumere il carattere di feticcio". Se, infatti, "la cultura viene definita una volta per tutte, si finisce per creare dei ghetti – seppure di lusso – in cui le comunità vivono separate le une dalle altre". Per questo, dice Giorello, "multiculturalismo è una parola che non mi piace, perché in fondo è nell'essenza stessa del termine ‘cultura' la dinamicità. Le culture in senso statico non esistono perché vivono solo nel continuo scambio, nella contaminazione reciproca".
Un concetto fortemente sottolineato anche nell'intervento di Monica Lanfranco, che ha parlato di come la laicità, intesa come "ricerca qui ed ora di un orizzonte politico-sociale comune sul tema dei diritti", possa costituire una chiave per sconfiggere la cultura delle enclaves. Ma "la Chiesa e le fedi cercano di impedire l'esplicitazione di queste forme di libertà, che si oppongono alla logica di chi pretende di identificare reato e peccato". (valerio gigante)
da Adista n° 89 del 23 dicembre 2007
FIRENZE."Stupore e profondo dolore": così Mons. Enrico Chiavacci, parroco a Firenze e docente di teologia morale presso la facoltà teologica dell'Italia centrale, ha accolto la notizia della decisione vaticana di introdurre una nuova traduzione della formula della consacrazione del calice durante la liturgia eucaristica. Non pià "per tutti" ma "per molti", capovolgendo una scelta fatta all'indomani del Concilio per rendere più chiaro ai fedeli la piena portata del sacrificio di Cristo. L'espressione "pro multis" (per molti) è infatti resa nella maggior parte delle lingue occidentali con formule come "per tutti" o equivalenti, una "spiegazione" - ha scritto il card. Francis Arinze, prefetto della Congregazione per il culto divino, informando della decisione vaticana i presidenti delle Conferenze episcopali nazionali in una lettera dello scorso 17 ottobre che Adista ha pubblicato integralmente sul n. 87/06 del 9 dicembre scorso - del vero senso del testo liturgico piuttosto che una "fedele traduzione", come richiesto dall'istruzione Liturgiam authenticam.
Scrive Chiavacci, contestando le motivazioni teologiche e scritturali portate da Arinze (che agiva comunque sotto l'espresso "indirizzo" di papa Benedetto XVI), che il termine greco oi polloi, a cui si rifà il testo latino a sua volta alla base delle traduzioni in vernacolo, "ha anche un significato inclusivo", oltre a quello "esclusivo", tanto che una corretta traduzione sarebbe ad esempio "la gente in genere". Inoltre, la nuova traduzione avrebbe conseguenze pastorali che "è facile immaginare" per un "povero parroco": sarebbe difficile scacciare tra i fedeli l'impressione di una "marcia indietro" della Chiesa dalle sue aperture conciliari.
Per il teologo fiorentino si tratterebbe, insomma, di un provvedimento "abnorme" e "dannoso per l'annuncio del Vangelo". Ecco di seguito la reazione di mons. Chiavacci alla lettera del card. Arinze. (a. s.)
da Adista n° 89 del 23 dicembre 2007
La Stampa - 27 dicembre 2006
Con la scomparsa di Piergiorgio Welby, l'ammalato di distrofia muscolare che da mesi rivendicava il diritto di morire, non si sono attenuate le polemiche sui temi di fine vita, anzi di nuove ne sono emerse, per la decisione del Vicariato di Roma di negare i funerali religiosi. Molta gente non ha compreso il divieto, gridando al tradimento della carità cristiana, ricordando che Welby il suo paradiso l'ha conquistato con una vita di grandi sofferenze e rinunce, affermando che «solo Dio può giudicare la scelta di un uomo che ha avuto il suo Golgota». Nello spazio di fronte alla parrocchia don Bosco, ove si sono celebrati i funerali laici, la folla ha avuto un gesto di stizza al suono delle campane, che vibravano più per il loro normale ritmo liturgico che per sintonizzarsi con la pietà umana di cui si nutriva la piazza. Mai come in questa occasione la distanza tra la piazza e la Chiesa è sembrata incolmabile, con le porte del tempio sbarrate di fronte sia all'ultima domanda di una tragedia umana sia alla voglia di misericordia della gente comune.
Condizionante la risonanza pubblica del caso
Tuttavia, pure la Chiesa ha vissuto il suo dramma interno. Da tempo essa si scopre madre anche verso chi si toglie la vita, concedendo il funerale religioso ai suoi figli che compiono questo gesto estremo. L'attenuante è che si tratti di persone incapaci di intendere e di volere, spinte al suicidio da condizioni più grandi di loro. Perché, dunque, la Chiesa - questa la reazione di molta gente - non ha applicato per Welby la stessa compassione umana e cristiana? Certo, non si può dire che in Welby ci fosse un deficit di coscienza e di volontà. Ma la lucidità non manca nemmeno in molti suicidi, che la Chiesa comunque perdona guardando alle aggravanti che spingono a questo gesto.
Proprio la risonanza pubblica del caso e i motivi addotti dai protagonisti sembrano aver orientato la gerarchia cattolica al rifiuto del commiato religioso. Può un'istituzione religiosa, che ha nel suo Dna la difesa e la promozione a tutti i livelli della vita umana, celebrare un funerale religioso per una persona che - dal suo letto di cronico dolore - è diventata un'icona pubblica della battaglia per l'eutanasia? Una Chiesa che teme che tali questioni e casi siano strumentalizzati o trattati in modo emotivo o semplificato è necessariamente una Chiesa disumana? Non c'era il rischio che la concessione dei funerali religiosi a Welby fosse interpretata come un cedimento della Chiesa alle posizioni dei radicali sui temi di fine vita e una sconfessione dei suoi principi di sempre?
Mentre si ridefiniscono le regole della convivenza
Certo, diranno in molti, la vita e la sofferenza umana hanno maggior valore di una battaglia sui principi. Non si può sempre sacrificare i casi concreti per affermare dei principi astratti. Ma anche tener fermi alcuni punti cardine può essere un servizio che si rende a una comunità che - a seguito dello sviluppo tecnologico - è chiamata in molti ambiti di vita a ridefinire le regole della convivenza. Su tali questioni, il dilemma attraversa non soltanto il mondo laico, ma anche quello ecclesiale. La Chiesa che come istituzione dice no ai funerali di Welby è anche quella rappresentata da alcuni sacerdoti che non hanno mancato in privato di benedire la bara del defunto, e da tanti credenti che avvertono che - in molte situazioni umane - il senso del mistero supera di gran lunga la capacità di orientamento e di decisione.
Si può chiedere alla Chiesa di trovare il modo per meglio comporre l'at-tenzione ai casi singoli e la fermezza sui principi irrinunciabili; ma si deve anche chiedere a tutte le forze sociali e politiche di non operare semplificazioni in un campo - come quello di fine vita - in cui non tutte le scelte sono riconducibili al desiderio o al sentire dei singoli.
Adista n°4 del 13 gennaio 2007
Testimonianza / Una voce dalla Costa d’Avorio
LA PREGHIERA DELL’AFRICA
A partire dal settembre 2002,
la Costa d’ Avorio, terra di speranza - stando a quanto dice anche il nostro inno nazionale - è entrata in una guerra che non è ancora terminata. In questo sfacelo, molti ivoriani continuano a credere che le elezioni si terranno, che l’economia rifiorirà e che
la Costa d’Avorio risusciterà, come ha preconizzato il nostro arcivescovo emerito, mons. Bernard Agré. Anche noi facciamo parte di questo gruppo di persone, anche se riteniamo che queste speranze, gioie, tristezze e angosce debbano essere superate da una speranza più grande, suscitata dal messaggio di salvezza di Gesù Cristo.
Il cuore della nostra speranza è
la Chiesa, popolo di Dio in marcia che, vivendo di questa speranza, lancia questa sfida al nostro Paese, al nostro continente africano e al mondo intero. E’ dunque
la Chiesa che fonda questa speranza che prende in contropiede tutte le visioni afro-pessimiste.
Per questo, partendo dalla crisi ivoriana e cercando di comprenderne le ragioni, cercheremo di vedere che cosa significa speranza - e cosa significa essere testimoni di speranza - in un contesto di crisi, come quello ivoriano e non solo, e per cercare di dire anche cosa i cristiani d’Africa possono affermare in termini di speranza al mondo occidentale.
Al di là di tutto quello che può essere stato detto o scritto sulla crisi ivoriana e sulle cause economiche o politiche, pensiamo che la vera ragione non è stata ancora evocata. La crisi che conosce il nostro Paese ha origine nel fossato che non ha mai cessato di approfondirsi tra ricchi e poveri, a tal punto che la capitale Abidjan, situata a sud, non ha mai smesso di svilupparsi in maniera abnorme, mentre il resto del Paese è rimasto indietro.
Ma più ancora, i privilegiati, che hanno saccheggiato il Paese per lustri, si sono costruiti propri quartieri, ospedali, università, luoghi di divertimento; intanto gli ospedali, le scuole e le università pubblici accolgono i figli dei poveri. E mentre ai rampolli dei ricchi, dopo aver studiato all’estero o in prestigiose scuole locali, viene garantito un posto di lavoro, gli altri perdono il loro tempo a riempire domande di impiego senza alcun risultato.
Quelli che hanno preso le armi in questi anni si dicono «giustizieri» di tutta questa massa di «senza voce» e delle regioni trascurate dallo sviluppo, cercando di prendere con la forza quello che la politica ha rifiutato loro. Ancor più, questi giovani, messi ai margini dal sistema, sono diventati oggi i padroni del gioco politico, senza capirlo fino in fondo, come pure gran parte della popolazione.
Sono disperati e dunque non hanno paura delle armi, ma a ogni tumulto sociopolitico ne approfittano per riversarsi nei supermercati o nei distributori di benzina per saccheggiarli. Oppure distruggono strutture pubbliche come scuole, ospedali, biblioteche o edifici amministrativi, pensando che appartengono ai potenti, e così si illudono di ridurre il fossato che li separa dai ricchi.
Queste situazioni non sono appannaggio dei popoli africani. Gli Stati Uniti d’America, così come le banlieu della grandi città europee, hanno conosciuto recentemente delle sommosse. La ragione è sempre la stessa anche a livello planetario, ovvero il fatto che esistono gravi sperequazioni tra un’élite di ricchi e potenti e una grande massa di poveri. Di qui una guerra che si nutre di terrorismo internazionale e fanatismo, mentre l’Onu appare blindato dai diktat dei cinque membri del Consiglio di sicurezza, che si sono spartiti il mondo.
Eppure, anche se tutto sembra perduto, una speranza c’è. In Costa d’Avorio, sin dall’inizio di questa crisi, le nostre Chiese non hanno smesso di riempirsi e nelle nostre famiglie la preghiera è sempre presente. Numerosi gruppi di preghiera sono nati, anche se in un contesto apparentemente apocalittico. Questo perché gli ivoriani si rendono conto che tutte le nostre speranze non possono essere soddisfatte se non da una speranza più grande, che è radicata nel messaggio di salvezza di Gesù. Avere speranza, dunque, è andare oltre le legittime attese della popolazione - beni materiali, amore umano, situazione sociopolitica stabile, rilancio economico - per perseguire il bene di tutti.
Sperare solo per se stessi sarebbe segno di un egoismo e di un orgoglio insopportabili. Come testimoni di speranza, laici e persone consacrate, al seguito di Mechtilde de Hackeborn e di Magdebourg, di Teresa di Lisieux e Teresa d’Avila o di Giuliana di Norwich, hanno desiderato donare la loro vita affinché i loro concittadini potessero essere salvati. Queste persone pregano per i peccati dei loro fratelli e sorelle, li guardano con amore senza condannarli. Essere testimoni di speranza è avere un amore ardente della croce, il desiderio di soffrire con Gesù per salvare l’umanità. In questo contesto di crisi, essere testimoni di speranza significa scendere agli inferi con i nostri fratelli e sorelle, per incontrare tutti coloro che hanno le mani sporche di sangue, responsabili di uccisioni e barbarie di ogni genere, e di orrende violenze sulle donne stuprate, sventrate, infettate di malattie terribili. Dobbiamo portare le sofferenze di questi traumi e implorare Cristo di non abbandonarci nella morte. Non possiamo che pregarlo perché dopo questa terribile traversata ci attenda sull’altra riva. In questo contesto, la voce che noi come Chiesa ivoriana possiamo inviare alla Chiesa universale non può che essere un messaggio di speranza. L’inno del nostro Paese saluta
la Costa d’Avorio come una terra di speranza. Questo saluto è stato tradotto nel linguaggio del popolo nella formula: «Lo scoraggiamento non appartiene agli ivoriani». E poi, oltre alla speranza, c’è l’ospitalità: «Paese dell’ospitalità», dice il nostro inno. Di fronte all’egoismo generalizzato nel nostro mondo, ci auguriamo che tutti i Paesi, anche l’Italia, possano essere terra d’accoglienza per tutti coloro che vogliono venirci in cerca di un po’ di felicità, e che gli italiani comprendano che
la Terra e tutte le sue ricchezze appartengono a Dio e che noi dobbiamo condividerne i beni, affinché il fossato tra ricchi e poveri si assottigli. Se ci rendiamo conto di questo, non erigeremo muri di filo spinato tra le nazioni, non vivremo più con la paura di prendere l’aereo, ma ogni uomo si sentirà a casa sua su questa Terra, dove vivremo tutti come fratelli e sorelle.
di Patrice Jean Ake
Docente di Filosofia
Università cattolica di Abidjan
Mondo e Missione / Ottobre 2006
CULTURA I LE RELIGIONI AFRO-AMERICANE IN ITALIA
QUANDO IL SACRO DANZA
E’ da un po’ di tempo che a Milano si possono osservare, agli incroci delle strade o vicino alle porte delle banche, grandi vassoi di terracotta, al cui interno sono sistemate, con garbo e arte, cibi, foglie e, a volte, addirittura parti di pollo. Il passante, stupito o incuriosito, forse non sa che si tratta di offerte alle divinità afro-americane (orixàs) . I fedeli del candomblé (la più conosciuta fra le religioni afro-brasiliane) o della santeria (religione afro-cubana) offrono cibo e fiori alle loro divinità e li depongono, a seconda del dio a cui chiedono aiuto, agli incroci delle strade, ai piedi di un albero o sulle rive dei fiumi o del mare.
La santeria e il candomblé sono giunti in Italia ormai da anni (il secondo da almeno 15-20) e vengono seguiti non solo dai loro devoti immigrati, ma anche da tanti italiani affascinati dalla bellezza dei riti e dal messaggio festoso di vita che trasmettono. Esistono comunità religiose di candomblé pure in Portogallo e in Francia.
Inizialmente, solo chi frequentava i corsi di danza afro-brasiliana sapeva della loro esistenza, attraverso qualche raro racconto degli insegnanti, che mostravano i passi delle coreografie rituali. Anche i libri di Jorge Amado hanno contribuito alla conoscenza di queste religioni. I suoi racconti sulla vita di Bahia e sulle sue divinità sono conosciuti in tutto il mondo.
RELIGIONI INIZIATICHE
Il messaggio più importante del candomblé è che il dolore può essere trasformato in forza vitale e che la vita va vissuta nel miglior modo possibile, poiché si vive qui e ora. Altro elemento fondamentale è l’accoglienza incondizionata: qualsiasi persona è bene accetta, indipendentemente dal suo stato sociale.
Il candomblé e la santeria sono religioni iniziatiche e sono definite terapeutiche poiché, spesso, i fedeli vi arrivano in seguito a una malattia fisica o mentale, curata nel lungo percorso rituale che porta l’individuo a diventare “sacerdote”. La liturgia è affidata alla musica e all’arte: nel rito, danza, canto, musica e scenografia trasmettono messaggi all’animo umano in modo più profondo che non un discorso razionale. Quindi, nelle comunità di candomblé non si ricrea solo la fede negli antenati africani (che trasmettono l’energia vitale), ma si “riorganizza l’ori” (la testa). Si cerca, cioè, di appianare le ansie e di rasserenare le parti negative, dando forza a quelle attive e positive. Si assiste, così, a un doppio movimento: da un lato, il fedele acquista più forza e volontà, dall’altro, viene inserito nella comunità religiosa che lo sosterrà nei momenti di bisogno.
Sono varie le modalità di provenienza delle religioni afro-brasiliane in Italia. All’inizio, arrivarono con i transessuali, giunti soprattutto dal sud del Brasile e, quindi, seguaci dell’umbanda (o macumba, com’è conosciuta a Rio). In questa religione vi sono, accanto ai numerosi orixàs, anche le pombagiras, spiriti di donne defunte che in vita avevano praticato la prostituzione o erano state zingare. C’è, poi, soprattutto Exu. Nel candomblé, questa divinità adempie a più funzioni: è il dio delle possibilità, dell’equilibrio e, quindi, della comunicazione, cioè dell’armoniosa relazione che deve esistere tra le varie parti che compongono l’essere umano e tra la persona e gli dei. Nell’umbanda, invece, Exu non è una sola divinità: diventa più spiriti o personaggi, che agiscono di notte in cerca di avventure, sono dediti ai sotterfugi, ma sono anche grandi conoscitori della vita. In Brasile, le pombagiras e gli exu dell’umbanda spesso sono classificati come entità di second’ordine e sono venerate per ottenere, più che altro, favori in amore e protezione. L’umbanda è seguita soprattutto dai transessuali e dalle prostitute, forse per ottenere protezione, per richiamare clienti e per le cerimonie di limpeza, cioè di purificazione dalle energie negative.
LE ORIGINI
Il candomblé, invece, è stato portato in Italia dai brasiliani che sono venuti per lavorare e trovare una qualità migliore di vita o per fuggire dalla violenza delle grandi città, e anche da alcuni italiani che, dopo aver assistito in Brasile ai suoi bellissimi riti, ne erano rimasti affascinati. Tra i suoi fedeli non mancano connazionali che già praticavano vari tipi di magia e hanno cercato di apprendere e conoscere queste religioni, il più delle volte snaturalizzandole e proponendole solo per il loro aspetto magico, con una serie di rituali di dubbia provenienza e utilità.
Racconta Simona, un’italiana vissuta vari anni in Brasile e divenuta una fedele del candomblé: «Ho intravisto in esso qualcosa di vero, che cercavo da sempre. Mi ha colpito la dolcezza delle sacerdotesse, la loro immediata empatia e la loro umanità. Purtroppo, in Italia avevo più volte sperimentato la freddezza e la rigidità della gente, anche da parte di chi, per lavoro e scelta vocazionale, non dovrebbe esserlo. In Brasile, invece le mães-do-santo m’hanno dato fiducia, dicendomi di seguire la mia intuizione, di fidarmi di me. Cosa che raramente facevo».
Che vuoi dire “fidarmi di me”? «Nei candomblé - ma, in generale, nella cultura popolare brasiliana - c’è una profonda spinta a credere nella propria intuizione, a fidarsi del proprio “sentire”. Quindi, una persona sensibile intuitiva è valorizzata e non è percepita come irrazionale. Per “sentire” correttamente, però, uno deve essere equilibrato e sgombro da tutti i pensieri tipici della mente occidentale. Questo mi ha affascinata. Come nella meditazione orientale e nello yoga, anche nel candomblé c’è la proposta dell’essere umano come un tutto, dotato di corpo e spirito uniti e in collaborazione. Per questo, la persona sente, percepisce, vede non solo con gli occhi, ma con tutto il corpo».
Ludovico, che ha conosciuto in Italia il candomblé (esiste una comunità in Piemonte e un’altra, più piccola, a Roma), racconta: «Ciò che mi ha attirato di questa religione, oltre alla conferma di possedere una certa sensibilità e di poterla valorizzare, è il fatto di essere entrato in una comunità che si costituiva come una famiglia. Per la prima volta mi sono sentito accettato». E spiega la differenza fra gli italiani devoti e i brasiliani: «Noi, in genere, cerchiamo un’affettività che non abbiamo ricevuto in famiglia. Vogliamo ristabilire, probabilmente a livello inconscio, un equilibrio con le parti affettive più squilibrate. A mio avviso, in noi non esiste una vera ricerca dell’esperienza religiosa. Ho sempre vissuto il discorso religioso - e, di conseguenza, anche l’argomento Dio - come qualcosa di lontano, che non comunicava con il mio quotidiano. Per i brasiliani è diverso. Sono abituati alla comunicazione del sacro nel quotidiano. Per loro, anche il vento può essere messaggero del divino. Poi, secondo me, i brasiliani ricercano soprattutto un avvicinamento alle proprie radici, qualcosa che ricordi loro la loro terra e la loro fede».
L’ASPETTO MAGICO
E la magia? «Sicuramente c’è nel candomblé. Ma dipende da chi e da come la si cerca. Ci sono state persone nel terreiro (luogo sacro) che la “compravano”, come si fa al supermercato. Credo che la magia esista e che si manifesti nella pratica quotidiana, nella ricerca del proprio equilibrio e attraverso lo sforzo individuale. I riti servono a purificare il devoto dalle negatività della vita e a dare forza. Senza lo sforzo del singolo, non succede niente».
Elvira è la sacerdotessa di un terreiro. Mi dice: «Ho conosciuto il candomblé in Brasile e ne sono rimasta subito affascinata. Ho sempre creduto che esista un mondo parallelo a quello usuale, nel quale vivono gli spiriti dei morti, che noi viventi possiamo incontrare per farci da loro aiutare e consigliare. E’ per questo che mi sono avvicinata al candomblé. Per me gli orixàs sono gli spiriti dei morti. E’ stato in un festival latino-americano che ho conosciuto un pãe-de-santo. Organizzava alcune feste di candomblé a Milano. In una di queste, ho incontrato un altro fedele italiano. Così, a poco a poco, sono entrata anch’io nel gruppo».
Dirceu è brasiliano e vive da 20 anni in Italia. Mi confida che, durante i primi tempi, non riusciva a capire «perché gli italiani stessero male». Spiega: «Avevano cibo, lavoro, assistenza sanitaria... Con il tempo, però, ho compreso e visto molte persone depresse e senza modelli di riferimento. Ho capito che in Italia c’è un grande malessere psicologico a cui le persone rispondono come possono. C’è molta gente repressa, che non riesce a uscire dal suo tran tran, che non riesce a lasciarsi andare. La cultura europea ha ucciso la sensibilità e, quindi, il corpo. Io sento con il corpo: sento e capisco cosa mi circonda. Come i bambini, dobbiamo imparare “muovendoci”. La danza sacra è la manifestazione dell’esperienza mistica. È la divinità in movimento. È la vita. E il suo muoversi e aprirsi al mondo. Dove trovi questo in Italia?».
LA FINE DEL SACRO?
Riemerge anche da queste parole il tema della secolarizzazione, che fa riferimento, soprattutto, alla crisi della religione.
Molti sostengono la presunta fine del sacro o una sua eclissi. In realtà, si sta sempre più assistendo a un abuso del termine “spiritualità” e al diffondersi di proposte di corsi e stage che divulgano incontri di meditazione, danze curative attraverso la trance, ritiri spirituali che si basano sulle tradizioni più varie, dalle religioni sciamaniche a quelle africane. E un susseguirsi di offerte per allontanare lo stress, per ritrovare sé stessi e per ricuperare un contatto con il sacro - spesso percepito come qualcosa di magico - che all’improvviso si manifesta e ci salva. Al contrario di quanto si pensi, l’uomo contemporaneo ha bisogno di magia, di credere in qualcosa e di riappropriarsi del “sacro , del “meraviglioso”.
L’estrema razionalizzazione della nostra cultura - e, quindi, anche della religione - ha fatto sì che si perdessero, forse, anche quelle forme “magiche di consolazione” o quella ritualità più appariscente, colorata, musicale, che aiuta i fedeli a concentrarsi su sé stessi per vivere al meglio il loro quotidiano.
La figura del prete di campagna, consigliere e un po’ psicologo, che dialogava con le famiglie, ormai non esiste più. Al suo posto si ritrovano numerose figure professionali, che cercano nella freddezza dei loro studi di dare un senso alla frammentazione dell’essere umano nelle nostre caotiche città.
E così, molti oggi ricercano un incontro più profondo con sé stessi, con il sacro, con la meditazione e con la magia in senso lato, per ridare un senso alle proprie esistenze e per colmare un vuoto che ci appartiene culturalmente.
di Susanna Barbara
Nigrizia/Novembre 2006