Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
Camaldoli.
XXV colloquio ebraico-cristiano
Germania.
Gli Evangelici verso l'unione
Dobbiamo essere grati ai teologi di Dombes per aver pazientemente e accuratamente lavorato sulla figura di Maria prendendo in esame il contenzioso secolare che esaltava le contrapposizioni confessionali senza intravederne le convergenze.
La prova e l'obbedienza
a cura di Mario Maritano
Ambrogio, discendente di una nobile famiglia romana, nato a Treviri (337/339) diede ottima prova di sé come consularis Liguriae et Aemiliae, cioè come governatore dell'ltalia settentrionale con sede a Milano. Così, pur essendo ancora catecumeno, fu acclamato vescovo di Milano dal popolo, quando egli intervenne per sedare i tumulti alla morte del suo predecessore nel 374. Iniziando il suo ministero episcopale, egli distribuì i suoi beni ai poveri, si dedicò ad una vita ascetica e si applicò agli studi teologici. Svolse un'intensa attività pastorale, sociale, a favore dei più poveri. Si rivelò abile e deciso soprattutto nel difendere la religione cattolica contro i pagani e gli eretici; affermò l'indipendenza della Chiesa di fronte allo Stato. Scrisse molte opere esegetiche, dogmatiche, morali-ascetiche, discorsi, lettere e inni.
Nel suo libro De Abraham, Ambrogio presenta la figura del patriarca come un modello di vita cristiana (ricordo che il vescovo di Milano in quest'opera si rivolge ad adulti che dovranno ricevere il battesimo). Abramo, nel suo peregrinare e nel suo agire in piena fiducia e obbedienza a Dio, diviene il modello del cristiano che progredisce spiritualmente, abbandonando una vita frivola e peccaminosa, e nelle prove e nelle tentazioni si mantiene fedele a Dio.
La prova e l'obbedienza
1,2,4. Abramo è messo alla prova come un uomo forte, è incoraggiato come un uomo fedele, stimolato come un uomo giusto e quindi "partì, secondo la parola del Signore e con lui partì Lot" (Gen 12,4). È ciò che si proclama tra le sentenze dei sette sapienti: "épou Theô", cioè "segui Dio".
Abramo con i fatti anticipò le sentenze dei sapienti, e, seguendo il Signore, uscì dalla sua terra. Ma poiché la sua terra precedentemente era un'altra, cioè la regione dei Caldei, dalla quale uscì Terach, padre di Abramo, che migrò a Carran, e poiché Abramo condusse
via con se suo nipote, mentre gli era stato detto: "Esci dalla tua parentela", (Gen, 12,1) consideriamo se per caso "uscire dalla sua terra" non significhi uscire da questa terra, cioè dalla dimora del nostro corpo, da cui uscì Paolo, che disse: "La nostra patria è nei cieli" (FiI 3,20), e dalle attrattive e dai piaceri del corpo, che - disse - sono come congiunti della nostra anima, la quale necessariamente soffre insieme al corpo, finché rimane ad esso strettamente vincolata. Perciò dobbiamo uscire dal modo di vivere terreno, dai piaceri mondani, dalle abitudini e dalle azioni della vita passata, in modo che cambiamo non solo i luoghi, ma anche noi stessi. Se desideriamo unirci a Cristo, abbandoniamo le cose corruttibili (1,2,4).
1,8,66. Dio mise alla prova Abramo quando gli ordinò di uscire da Carran e lo trovò obbediente. Lo mise alla prova quando Abramo liberò il nipote confidando nella forza della fede, quando non prese nulla del bottino (di guerra), quando Dio promise a lui, ormai vecchio, un figlio - infatti avendo egli cento anni, sebbene considerasse ormai inariditi gli organi di riproduzione di Sara, tuttavia credette e non ebbe esitazioni grazie alla fede, sebbene potesse averne a causa della sterilità e della vecchiaia (della moglie) -, lo mise alla prova sollecitando la sua ospitalità. Dopo averlo così provato, Dio reputò Abramo più forte nel sopportare ordini più impegnativi e più pesanti.
Da questo esempio impariamo che una persona è messa alla prova da difficoltà reali, è tentata invece da difficoltà create appositamente e fittizie. Dio infatti non voleva che il padre immolasse il figlio, ne che facesse questa offerta, dato che procurò una pecora da sacrificare invece del figlio, ma tentava Abramo nel suo affetto di padre (cf Gn 22,1-18), per vedere se anteponesse i comandi di Dio al figlio e diminuisse la forza della sua devozione, in considerazione del suo affetto paterno.
Ambrogio, Abramo 1,2,4 e 1,8,66
Immagini di Abramo
nel Nuovo Testamento
Citato 73 volte nel Nuovo Testamento contro le 80 di Mosè e le 59 di Davide, Abramo è una delle più importanti figure cristiane. Lo era già negli scritti ebraici della stessa epoca. Alcune tradizioni neotestamentarie non fanno che riprendere tratti del personaggio già chiari nel giudaismo antico, trasformandoli solo in parte. Tuttavia un autore come Paolo fa del patriarca una figura originale, poco compatibile con le letture ebraiche: Abramo è per lui il giusto per fede, quindi la persona che crede in Gesù Cristo.
Le tradizioni antiche che soggiacciono al Nuovo Testamento sono difficili da individuare, perché esse sono state rimaneggiate dai redattori. Indipendentemente dall’apporto dei redattori finali e delle loro accentuazioni teologiche, tuttavia possiamo ricostruirne alcune, le cui radici affondano nel giudaismo e senza troppi rischi farle risalire a Gesù. Per un ebreo, come per un cristiano del I secolo, Abramo è l’antenato, il padre del popolo di Israele, e la paternità è inoltre una qualità che egli condivide con Dio. Egli è citato per primo nella linea dei patriarchi, perché Dio si dichiara il "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe", formula recepita da Mosè nel roveto ardente e spessissimo ripresa in seguito (Es 3,16, citato in Mt 22,32 e paralleli; At 3,13; 7,32). Se ha lasciato il suo paese di origine, è stato per fondare un popolo e radicarlo in una terra (Gn 12,1 citato in At 7,2; Eb 11,8); i figli di Abramo formano in realtà il popolo destinatario delle promesse divine. I due cantici del vangelo dell’infanzia secondo Luca, quello di Maria e quello di Zaccaria, immersi in un’atmosfera anticotestamentaria, ricordano l’impegno che Dio si assunse di fronte ad Abramo con il popolo che doveva nascere da lui (Lc 1,55.73).
Ne consegue che ogni ebreo è figlio di Abramo, e che ogni ebrea ne è la figlia, come la donna curva che Gesù guarisce in giorno di sabato (Lc 13,16). Nelle due genealogie di Gesù, pur diverse l’una dall’altra, Abramo è citato come antenato del bambino (Mt 1,1-17; Lc 3,34). Se Matteo sfrutta l’informazione per insistere sull’appartenenza di Gesù al mondo ebraico, Luca, che la utilizza poco in questa direzione, tuttavia la fornisce;. essa fa parte del dato tradizionale cristiano. Non bisognerebbe tuttavia pensare che la filiazione da Abramo si riduca ad una situazione di fatto. Un ebreo del I secolo sa che essa è anche un divenire, e che non ci si può dichiarare figli di Abramo se non si vive della Torâ. L’alleanza stipulata con i patriarchi produce i suoi effetti soltanto se l’ebreo accetta questi padri come modelli. In vari momenti della sua crescita, l’albero dell’alleanza che ha le sue radici in Abramo ha avuto rami secchi, tra cui quelli che sono nati da Ismaele e da Esaù (At 3,25; Rm 9,7). Il primo libro dei Maccabei può scrivere: "Ricordate le gesta compiute dai nostri padri ai loro tempi e ne trarrete gloria insigne e nome eterno. Abramo non fu forse trovato fedele nella tentazione e non gli fu ciò accreditato a giustizia?" (1 Mac 2,51-52).
I vangeli testimoniano le polemiche innescate a questo proposito con alcuni ebrei, sia da parte di Giovanni Battista che di Gesù (Mt 3,9 e parallelo; Gv 8,33-40). Non basta rivendicare per padre Abramo, bisogna vivere di conseguenza. Certi paria, come Zaccheo, si rivelano veramente "figli di Abramo", mentre questo titolo era loro negato da altri che, a torto, si consideravano più qualificati di lui a portarlo (Lc 19,9).
Antenato, origine, il padre Abramo è anche naturalmente colui che accoglie i suoi figli al termine del loro cammino. Con Isacco e Giacobbe egli presiederà al banchetto escatologico cui non dà diritto la nascita (Mt 8,11; Lc 13,28). E il seno di Abramo è il luogo in cui si ritrova il povero Lazzaro della parabola (Lc 16,22-30) mentre il ricco indifferente alla sua povertà ne è escluso. Questi luoghi escatologici del vangelo legati ad Abramo sono attestati nel giudaismo rabbinico (Esodo Rabba 25; Pesiqta Gabbati 43, 108b; b. Qiddušîn 72ab). Essi corrispondono ad immagini forse comuni nel giudaismo del I secolo, benché nessun altro testo ebraico, al di fuori dei vangeli, le riecheggi direttamente.
La rivoluzione paolina:
Abramo senza Mosè
Se la figura paterna di Abramo presentata dagli evangelisti e dagli Atti degli Apostoli si inserisce, nel suo complesso, in continuità con le tradizioni ebraiche dell’epoca, non si può dire lo stesso del modo in cui Paolo tratta il patriarca. Il testo del primo libro dei Maccabei, citato prima, presenta in realtà Abramo come un modello di giustizia, ma questa giustizia gli è valsa perché è stato fedele nella prova. La prova di cui si parla è quella del sacrificio, detto anche l’Aqeda (la legatura) di Isacco riferita al capitolo 22 della Genesi. È accettando di offrire in sacrificio l’unico figlio che Abramo, nelle tradizioni ebraiche più attestate, si è rivelato giusto e fedele. Anche il Nuovo Testamento è un’eco di questo nella lettera di Giacomo e nella lettera agli Ebrei (Eb 11,17): se Abramo fu considerato giusto, non fu per la sua sola fede, ma anche per le sue opere. La lettera di Giacomo scrive: "Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare?" (Gc 2,21). Per questo meritò il bel titolo di "amico di Dio" (Gc 2,23; Co-rano 4,125).
Quando scrive questo, Giacomo testimonia una consolidata tradizione ebraica. Il suo testo è tuttavia segnato dalla polemica che conduce contro Paolo, che aveva della giustizia di Abramo una visione del tutto diversa. Per l’apostolo delle genti, il versetto biblico su cui si fonda principalmente la giustizia di Abramo è al capitolo 15 della Genesi: "Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia" (Gn 15,6), ben prima nel racconto della scena dell’Aqeda.
L’apostolo dedica ad Abramo due lunghi sviluppi, uno nell’epistola ai Galati (3,6-29), dove, rivolgendosi ad un pubblico tentato di sommare i comandamenti della Tora alle esigenze della vita in Cristo, Paolo insiste sul fatto che Abramo è colui che riceve le promesse divine, che queste promesse riguardano "la sua discendenza", e che il termine "discendenza" designa direttamente Cristo. Il termine "discendenza" è in realtà al singolare nel testo ebraico di Gn 12,7, come nella Settanta (Ga13,16). Cristo è dunque l’erede delle promesse fatte ad Abramo. La legge di Mosè, venuta "quattrocentotrenta anni" dopo il patriarca (Gal 3,18), non può annullare queste promesse. Di conseguenza, i comandamenti della legge ebraica non hanno peso nel processo di giustificazione del credente.
Nell’epistola ai Romani (4,1-16), gli accenti sono leggermente diversi, benché il messaggio sia complessivamente lo stesso. Paolo ricorda che Abramo fu dichiarato giusto dalla Scrittura subito dopo che Dio gli ebbe annunciato una discendenza numerosa come le stelle del cielo, nel capitolo 15 della Genesi (Gn 15,5-6). La circoncisione, figura della legge che sarebbe venuta attraverso Mosè, fu imposta da Dio soltanto più tardi, nel capitolo 17 dello stesso libro (Gn 17,10-14); ed egli superò la prova di essere stato pronto a sacrificare il figlio ancora più tardi, in Genesi 22. In altre parole: Dio dichiarò che Abramo era giusto indipendentemente dalla legge e indipendentemente dalla sua obbedienza. Non circonciso, Abramo era ancora in un certo senso pagano quando Dio lo dichiarò giusto. Questi eventi sono il fondamento della convinzione paolina che la giustizia di Dio è destinata a tutti – ebrei e pagani – grazie alla loro fede, indipendentemente dalla legge ebraica.
Il lettore moderno può essere fuorviato da questo modo di ragionare che gioca su dei particolari del testo biblico; esso è tuttavia perfettamente in linea con i criteri esegetici ebraici applicati nel I secolo. Un rabbi contemporaneo di Paolo avrebbe potuto discutere con lui di questi risultati, ma non contestare questo metodo di lettura. In un certo senso, il modo di ragionare paolino è anche straordinariamente moderno perché, nella lettera ai Romani come in quella ai Galati, Paolo tiene conto della relazione cronologica tra gli eventi: la legge è venuta dopo la promessa (mentre varie correnti del giudaismo del I secolo ritenevano che già Abramo e perfino Adamo praticassero la Tora); la giustizia del patriarca fu dichiarata dal testo sacro prima che fosse prescritta la circoncisione e prima che si fosse verificata l’Aqeda di Isacco. Prime da un punto di vista cronologico, la promessa e la giustizia nate dalla fede hanno la precedenza sugli altri eventi della storia della salvezza.
Si comprenderà così come molti ebrei non possano seguire Paolo sul suo stesso terreno, perché questo li condurrebbe a svalutare l’osservanza della Torâ, tesoro donato da Dio al popolo d’Israele. In questo, Paolo è uno dei maggiori artefici della futura frattura fra giudaismo e cristianesimo.
Una figura complementare:
Abramo, l'ebreo, sottomesso a Gesù
Non si potrebbe chiudere questa carrellata senza presentare due altri lunghi passaggi del Nuovo Testamento che mettono in scena Abramo, entrambi successivi alle lettere di Paolo: uno si trova nella lettera agli Ebrei, l’altro nel vangelo di Giovanni. Oltre alla sezione sulla fede di Abramo in cui l’autore considera due momenti importanti della vita del patriarca, e cioè la sua partenza dalla terra d’origine e il suo sacrificio (Eb 11,8-19), la lettera agli Ebrei ne ricorda un altro: l’incontro con il re sacerdote Melchisedek (Eb 7,1-9). L’autore utilizza qui la tipologia. Melchisedek è typos di Cristo; il suo sacerdozio prefigura il sacerdozio della nuova alleanza. Quanto ad Abramo, egli è l’antenato di Levi, portatore lui stesso del sacerdozio ebraico. Ora il testo afferma che Abramo attribuì a Melchisedek "la decima di tutto", lo considerò cioè suo superiore e si sottomise a lui (Gn 14, 17-20). Trasferendo questo al rapporto tra Gesù e i sacerdoti ebrei, l’autore della lettera ne deduce la superiorità del sacerdozio di Cristo sul sacerdozio levitico, benché Gesù non fosse appartenuto, secondo la legge ebraica, ad una famiglia sacerdotale. Gesù corrisponde a Melchisedek, Abramo a Levi.
Di redazione ancora più tardiva, il vangelo di Giovanni dedica un lungo passaggio ad una polemica tra Gesù e coloro che l’evangelista chiama "i Giudei", nella quale interviene la figura di Abramo (Gv 8,33-58). Questi ultimi affermano all’inizio della discussione: "Il nostro padre è Abramo" (v. 39). Sino a questo punto, non è che una discussione diffusa, già richiamata, sul diritto di qualcuno di rivendicare Abramo per padre. La sfumatura propriamente giovannea si precisa tuttavia lungo lo svolgimento del racconto. Alcuni versetti più avanti, Gesù dichiara: "Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò" (v. 56); poi: "In verità in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono" (v. 58). Dichiarazione che i suoi interlocutori considerano blasfema e a conclusione della quale raccolgono pietre per scagliarle contro l’empio. Come appare da questo complesso sviluppo, il personaggio di Abramo cambia statuto: dalla figura paterna che è all’inizio della discussione, diventa una figura profetica la cui funzione è testimoniare la preesistenza del Figlio e di rallegrarsi della sua venuta.
Queste due ultime figure, presentate rispettivamente dalla lettera agli Ebrei e dal vangelo di Giovanni, hanno in comune che Abramo è sottoposto a Cristo: sottoposto attraverso la sua riverenza verso Melchisedek (Eb), sottoposto grazie alla gioia che egli prova nel "vedere" colui il cui nome è "Io sono" (Gv).
Modello per il credente di ogni origine (ebreo o pagano) secondo Paolo, Abramo avrebbe potuto diventare nel pensiero cristiano una pura figura di universalismo. Testi posteriori alle lettere paoline, e in particolare i vangeli di Matteo e di Giovanni come pure la lettera agli Ebrei, lo reinseriscono tuttavia nel giudaismo, col rischio di ridurne in parte la statura. Questa diversità ristabilisce un felice equilibrio. Paolo sceglie Abramo piuttosto che Mosè, Matteo al contrario valorizza Mosè e la sua legge. Giovanni tratta il patriarca come un profeta.
Gli autori del Nuovo Testamento si impadroniscono delle figure dell’Antico con grande libertà, contribuendo tutte a delineare i tratti di colui in cui essi trovano la loro pienezza, cioè Gesù Cristo.
Il dialogo risorsa dei forti
di Mario Marazziti
Si legge nei Racconti dei Chassidim che il rabbino Pinhas così spiegava la confusione di lingue dei popoli: "Prima della costruzione della torre tutti i popoli avevano una lingua sacra in comune, in più ciascuno aveva il proprio linguaggio... Ciò che Dio fece quando li punì, fu di toglier loro la lingua santa". Era la lingua della comunicazione tra i popoli. Il dialogo tra i credenti delle diverse comunità religiose è il lavoro per riscoprire questa lingua sacra, ed è un grande bisogno dei nostri tempi.
Era questa l'intuizione di Giovanni Paolo II quando ad Assisi, nel 1986, invitò i leader delle grandi religioni mondiali a pregare gli uni accanto agli altri per invocare dall'alto il "grande dono della pace". Era una intuizione che si era forgiata nel dolore della Seconda guerra mondiale, nell'orrore della Shoah, nella lotta non violenta, spirituale e morale al totalitarismo sovietico, nel Concilio Vaticano II. Una intuizione radicata nel profondo del XX secolo, che si è appena chiuso. Il tempo più secolarizzato della storia umana. Molti avevano anticipato la "fine del cristianesimo" e delle religioni. La fine del XX secolo, invece, si è chiusa sotto il segno della globalizzazione e delle religioni. E quello che Gilles Kepel ha chiamato "la rivincita di Dio".
Le grandi religioni mondiali sono tornate a essere un fattore rilevante sulla scena internazionale oltre che nella vita quotidiana. A volte sono state usate, come in passato, per sostenere conflitti. Ma sono anche diventate in maniera inedita un fattore di ricomposizione e di dialogo.
Con il Concilio Vaticano II si è infatti innescato un cambiamento radicale nel rapporto tra le grandi religioni monoteistiche, islam, ebraismo, cristianesimo, per iniziativa della Chiesa cattolica. Ne è seguita la stagione del disgelo e degli entusiasmi del dialogo, sia ecumenico che interreligioso, fino alla stagione del "disincanto".
La spinta dei meeting internazionali "Uomini e religioni" viene da lontano: l’ispirazione prossima è nella Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986; ma ben prima si era mostrato un movimento all'interno dei differenti mondi delle religioni per una più intensa comprensione reciproca. Quasi cento anni prima, nel 1893, si era tenuto a Chicago - su iniziativa stavolta di un pastore presbiteriano e con l'appoggio della Chiesa cattolica nordamericana - il Word Parliament of Religions, con la partecipazione di sedici tradizioni religiose. L'iniziativa avrebbe dovuto continuare a Parigi nel 1900, ma si trasformò in un congresso di studiosi di storia delle religioni.
La seconda fase è segnata dall'incontro mondiale di dialogo di Assisi: che non è rimasto un unicum. Per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio e la risposta di leader religiosi (e laici) in molte parti del mondo, ne è nato un movimento mondiale che ha attraversato molte capitali europee e ha creato e crea una consuetudine all'incontro proprio mentre sono scoppiati nuovi conflitti, dai Balcani al Medio Oriente, ai Grandi Laghi in Africa. E mentre si è diffusa un’ondata fondamentalista nelle principali espressioni religiose del pianeta, dall'islam all'induismo, a settori protestanti americani. Il dialogo tra le grandi religioni della terra è stato messo al centro, con la preghiera, da Giovanni Paolo II, in tempi di grave turbamento mondiale per il ritorno della guerra: i due incontri di Assisi successivi al 1986 e la Preghiera interreligiosa in piazza San Pietro alla vigilia del Grande Giubileo.
La convinzione della Comunità di Sant'Egidio, quando avvia gli incontri internazionali "Uomini e religioni" è che le religioni possono e debbono dare un contributo importante alla pace. La pace, nel XX secolo, è entrata nel bene e nel male nelle agende delle diverse tradizioni religiose, tutte attraversate dal problema della legittimazione dei grandi conflitti mondiali. Ma desolidarizzare solennemente le religioni dalla guerra appare un compito possibile, anzi necessario. È così che da Roma il dialogo riparte ma riparte soprattutto dal basso, coinvolgendo leader religiosi e mondi di base di riferimento. Oggi questa onda di dialogo tra uomini di religione e esponenti della cultura laica per affrontare con onestà, assieme, le grandi domande del nostro tempo, torna a Milano.
L'appuntamento è stato per il 5-7 settembre 2004. E il titolo è già una sfida: "Religioni e culture si incontrano: il coraggio di un nuovo umanesimo". Più di trecento leader delle grandi tradizioni religiose mondiali, cardinali, mufti, teologi, rabbini, grandi anime della tradizione buddhista e induista, credenti e testimoni laici si sono dati appuntamento su invito della Comunità di Sant'Egidio e dell'arcivescovo di Milano per resistere alla tentazione della contrapposizione, dello "scontro tra le civiltà" e per costruire i passi necessari per entrare nella globalizzazione con un po’ più di anima, meno in ordine sparso, convinti della grande necessità di reinventare la pace e la coabitazione in un mondo che è più complicato di ieri.
È un'onda lunga, quella che torna a Milano, l'unica città che ha ospitato più di un incontro interreligioso mondiale, oltre ad Assisi e a Roma, dove hanno preso inizio i meeting internazionali "Uomini e religioni". In mezzo è accaduto di tutto.
Era difficile immaginare il mondo in cui ci troviamo oggi quando questo pellegrinaggio di uomini e donne comuni e di grandi leader spirituali ha mosso i primi passi. Chi scrive ricorda la difficoltà, alla fine degli anni Ottanta, di avere nella stessa sala ebrei e musulmani, con i loro segni distintivi, all'inizio. La diffidenza poi superata - tra ebrei e cattolici nel 1989, cinquantesimo anniversario della Seconda guerra mondiale, quando il meeting si spostò a Varsavia, Cracovia e Auschwitz-Birkenau: per il contenzioso sull'apertura del Carmelo di Auschwitz nel recinto del luogo della memoria "sacro" agli ebrei.
Ricordo il cammino fatto: il primo pellegrinaggio, in quella occasione, di leader musulmani nel luogo dello sterminio di massa degli ebrei, un vero disgelo; l'invocazione perché i muri cadessero, prima della fine del Muro di Berlino, quando nessuno immaginava l'implosione dell'impero sovietico; i passi di dialogo per ricucire le ferite della Guerra dei Balcani tra la Chiesa ortodossa di Serbia e la Chiesa di Roma, allora sentita come avanguardia delle potenze occidentali in guerra per Bosnia e Sarajevo.
Molto è cambiato, in questi anni, da Milano (1993) a Milano (2004). Si è riaperto un dialogo profondo tra il patriarcato ortodosso di Romania e Giovanni Paolo II, dopo la grande Preghiera per la pace di Bucarest, che San'Egidio ha organizzato per la prima volta assieme a una Chiesa ortodossa. E oggi sono in via di soluzione i contenziosi legati alle grandi ferite lasciate dallo scontro tra ortodossi e uniati cattolici, acuiti da stalinismo e regime di Ceaucescu. Il canale di stima e di comunicazione con il grande mondo ortodosso russo, che non si è mai chiuso e che ha ripreso vigore nei meeting internazionali "Uomini e religioni" è un altro motivo di speranza, come pure gli esili, mai interrotti contatti con l'universo dei credenti cinesi. È stato commovente vedere davanti alla chiesa di San Domenico a Lisbona la richiesta di perdono del patriarca, il cardinale José da Cruz Policarpo, agli ebrei portoghesi proprio nel luogo che è stato il simbolo dell'inquisizione: curando una ferita durata quattro secoli. E è stato ed è decisivo vedere lo sforzo di incontro che dopo l'11 settembre 2001 è diventato ancora più necessario, per togliere aria, acqua e spazio agli estremisti che vorrebbero un mondo permanentemente in guerra e schiavo della paura e dell'odio, sotto la minaccia del terrorismo.
In questi anni molti i cambiamenti: all'interno del cammino di dialogo e nello scenario esterno. E le due cose si intrecciano. Non era facile, agli inizi, che ebrei e musulmani accettassero con facilità di essere nello stesso luogo, nello stesso paneli. All'inizio, discorsi paralleli. Poi, negli anni, un intero popolo di cercatori di pace dalle diverse tradizioni religiose è diventato protagonista del dialogo, di una ricerca comune, della necessità di tornare nel profondo delle proprie rispettive tradizioni religiose per trovare le ragioni del dialogo e della pace.
Difficile un bilancio. Paradossalmente, il successo maggiore è il fatto che il dialogo interreligioso è uscito dallo statuto dell'eccezionalità e, in certa misura, è diventato "ordinario". Che si è contagiato nelle chiese locali, tra le diverse comunità, anche quando ci sono, riemergenti, incomprensioni e paure. Difficile anche un bilancio dei momenti più importanti.
Le religioni - ha scritto Andrea Riccardi - possono essere benzina sui conflitti, ma possono essere anche acqua sui conflitti. Negli incontri "Uomini e religioni" le religioni hanno scelto in maniera impegnativa - in un tempo di rinascenti fondamentalismi - di non farsi utilizzare per fare meglio la guerra, e per costruire un'alternativa a un clash of civilization che sembra auspicato da più parti: dai maestri del terrore e da chi teme il dialogo.
È la sfida che viene raccolta a Milano in questo 2004. È un dialogo a più dimensioni. Dialogo tra cristiani: viste da lontano, nella prospettiva della globalizzazione, dei bisogni del pianeta, delle domande mute delle popolazioni civili che soffrono e di quanti chiedono un senso per la propria vita, le divisioni tra cristiani appaiono poco comprensibili, nella loro catena di piccole o grandi diffidenze e incomprensioni. È da salutare come una buona notizia e da circondare con affetto, per esempio, la presenza di tante Chiese ortodosse al meeting per la pace di Milano. Dialogo tra credenti delle grandi religioni mondiali: le tre religioni del Libro, ebrei, cristiani e musulmani e le grandi religioni asiatiche. L'antidoto alla tentazione dello scontro tra le civiltà sta qui, in questa scelta del dialogo come forza e della preghiera come arma. La preghiera come "forza debole" che cambia il mondo, mentre ci si conosce di più, ci si capisce di più, si camminerà processionalmente assieme fino alla Piazza del Duomo, il 7 settembre, in un'immagine - vera e non pubblicitaria - che è il contrario dell'11 settembre o delle immagini che vogliono stravolti i volti dell'Altro in quello del nemico.
Dialogo tra le culture, per evitare che il pianeta imbarbarisca come la nostra vita quotidiana, che le nostre case e i nostri quartieri o il nostro mondo diventino zone franche" recintate da alti fili spinati per difendersi dal "nemico": poveri, immigrati, sconosciuti, Sud del mondo, credenti di altre religioni.
"A che serve il dialogo?". C'è chi sostiene che è impossibile il dialogo senza svendere i pezzi pregiati della propria identità. Al contrario, il dialogo nasce dalla scelta di andare più in profondità nella propria identità, anche di cristiani, senza lasciarsi sopraffare dalla paura dell'altro perché incerti di sé stessi. Non è l'incontro degli ingenui. Il dialogo, infatti, non è mai la scelta dei deboli o degli spaventati. È una grande occasione per andare in profondità nella propria comprensione religiosa e, da lì, trovare nuove ragioni per comprendere l'altro, riempire fossati, svuotare le ragioni della diffidenza e della guerra in un tempo in cui terrore e conflitto sono diventati di casa. È un modo per fare entrare frammenti di futuro mentre il cielo sembra plumbeo e senza spiragli.
È il tempo in cui non smettere di guardare al futuro e alla convivenza da ricostruire. Al fondo, c'è una consapevolezza antica. Era ed è una sensibilità in profonda sintonia con una domanda che Igino Giordani si faceva già nel 1953, all'indomani del secondo conflitto mondiale: "A che serve la guerra?". Si rispondeva: "La guerra è un omicidio in grande, rivestito di una specie di culto sacro, come lo era il sacrificio dei primogeniti al dio Baal: e ciò a motivo del terrore che incute, della retorica onde si veste e degli interessi che implica. Essa sta all'umanità come la malattia alla salute, come il peccato all'anima".
A Milano sono risuonate le parole di un grande arcivescovo e Papa, Paolo VI, e la sua sapienza entrerà nelle corde profonde dell'Incontro internazionale. Esprimeva già, celebrando le Giornate mondiali della Pace, ogni 1° gennaio, il "Vangelo della Pace", come nel 1970: "Quando parliamo di pace, non vi proponiamo, o amici, un immobilismo mortificante ed egoista. La pace non si gode; si crea. La pace non è un livello ormai raggiunto, è un livello superiore, a cui sempre tutti e ciascuno dobbiamo aspirare. Non è un'ideologia soporifera... Non è nostro ufficio giudicare le vertenze tuttora in atto fra le nazioni, le razze, le tribù, le classi sociali. Ma è nostra missione lanciare la parola Pace in mezzo agli uomini in lotta fra loro. È nostra missione ricordare agli uomini che sono fratelli. È nostra missione insegnare agli uomini ad amarsi, a riconciliarsi, a educarsi alla pace".
Pochi anni dopo, nel 1979, il messaggio del 1° gennaio individuava ancora più precisamente la strada, la stessa di oggi: "Predicare il vangelo del perdono sembra assurdo alla politica umana, perché nell'economia naturale spesso la giustizia non lo consente... La pace che conclude un conflitto è di solito un'imposizione, una sopraffazione, un giogo... Manca a questa pace, troppo spesso finta e instabile, la completa soluzione del conflitto, cioè il perdono, il sacrificio del vincitore a quei vantaggi raggiunti, che umiliano e rendono il vinto inesorabilmente infelice; e manca al vinto la forza d'animo della riconciliazione... Da una parte e dall'altra occorre l'appello a quella superiore giustizia, che è il perdono, il quale cancella le insolubili questioni di prestigio, e rende ancora possibile l'amicizia. Lezione difficile: ma non è forse magnifica? Non è forse di attualità? Non è forse cristiana?".
(da Jesus, n. 9, settembre 2004)
C'è da chiedersi: quali persone possono significativamente abitare questa stagione del "ritorno del sacro"? La risposta pare scontata: i "pellegrini dell'Assoluto".
Raccontare e ascoltare racconti non è allora un simpatico diversivo, ma è nutrirsi di ciò che ci fa vivere in verità: il conformarsi al disegno di Dio sull'uomo...
Una della caratteristiche principali della vita monastica consiste nello scorrere semplice, umile e sempre uguale del vivere quotidiano.
"Cercava un posto la tristezza, veramente desolato e solitario. Vide deserto il mio cuore e si annidò in quel vuoto". Questo aforisma del poeta, drammaturgo e scienziato tedesco Johann Wolfgang Goethe descrive in maniera efficace il mal di vivere, il male oscuro, l’avvilimento, la malinconia, la perdita del senso di vivere. Termini diversi per indicare un fenomeno che, attualmente, sembra essersi diffuso in modo piuttosto preoccupante netta collettività: la depressione.