Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Domenica, 10 Aprile 2005 15:16

Sensi di colpa (Felice Di Giandomenico)

Tra negazione di responsabilità e fragilità emotiva. Nel senso di colpa troviamo l’eterna battaglia tra il bene e il male, tra ciò che non lo è, tra istinto di conservazione e immolazione di sé per una giusta causa.

Sabato, 09 Aprile 2005 19:12

Speranza di comunione (Giuseppe Goisis)

Il dialogo interreligioso
Speranza di comunione
di Giuseppe Goisis


Pur non essendoci antitesi tra dialogo ed evangelizzazione, possono manifestarsi in questo ambito situazioni assai delicate. Il dialogo interreligioso, per essere fecondo, implica non la svendita della propria identità religiosa, bensì il suo approfondimento critico. L’atteggiamento dialogante non è mai rancoroso, ma al contrario improntato da reciproca, autentica misericordia. Si dialoga infatti tra persone, uomini e donne in ricerca, non tra istituzioni. Uno sforzo che va accompagnato da uno spirito di invocazione e di preghiera.

Già Paolo VI, con l’enciclica Ecclesiam suam(1964), aveva indicato nel dialogo la via maestra della Chiesa; negli anni più recenti, si viene comprendendo – con sempre maggior nitidezza – come il dialogo interreligioso non contraddica la missione evangelizzatrice della Chiesa; tale dialogo può, al contrario, recare ad una conoscenza reciproca più approfondita, può condurre anche ad un arricchimento vicendevole.

Nella Redemptoris missio(1990), si ricorda come "Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo", e tale chiamata riguarda sia le singole persone come i popoli (§ 55).

Al cuore di ogni tradizione religiosa – pur tra le lacune, insufficienze ed errori – si manifesterebbero quei "germi di verità" già individuati da Giustino: come i raggi, come i riflessi di quella Verità che coincide col Verbo stesso di Dio, illuminando tutti gli uomini senza distinzione.

Dialogo ed evangelizzazione

Affrontando la questione con spirito realistico, se non c’è antitesi tra il dialogo e l’evangelizzazione (che ritiene fermo che la salvezza procede da Cristo "tanquam per ianuam", è pur vero che possono manifestarsi tensione, e situazioni difficili e delicate; il legame tra dialogo ed evangelizzazione può essere profondo ed armonico, ma suppone una distinzione, non una confusione o una reciproca strumentalizzazione, quasi che dialogo ed evangelizzazione siano intercambiabili...

Per tale possibile confusione, il dialogo interreligioso può degradare a tecnica di assimilazione, o addirittura di dominio; e l’evangelizzazione perdere di slancio, imponendosi una prospettiva di universale equivalenza fra tutte le religioni (l’antica narrazione dei tre anelli, che esprime in maniera analogica l’unità trascendentale fra le tre grandi religioni monoteistiche, si convertirebbe nel racconto dei tre impostori, ognuno dei quali presenta una parziale verità, ma anche, simultaneamente, una parziale menzogna!).

La convergenza universale delle religioni, non la loro assimilazione

Nonostante un certo diffuso spirito riduttivo, il dialogo interreligioso non significa svendita della propria identità al supermercato delle religioni dominanti, ma, viceversa, approfondimento e problematizzazione della propria identità religiosa, affrontando una sfida positiva che si oppone all’intolleranza, al fondamentalismo e allo spirito di guerra.

C’è una religione "guscio", che rischia di confliggere con la presenza dell’"altra" religione, assimilandola e riducendola in troppo angusti confini: c’è una religione "ispirazione", nella quale l’Assoluto si manifesta, sia pure attraverso gli erramenti e le espressioni condizionate dagli schemi storico-culturali di partenza.

Ecco, il dialogo ha bisogno di studio e di approfondimento: non ci si approssima all’alterità religiosa con improvvisazione o dilettantismo, ma con fatica, rispetto e prove infinite di comprensione.

La presenza dell’alterità religiosa m’interpella, non possiede alcunché di ovvio e scontato, mantenendo qualcosa di inedito e, in questo incontro, dovrei trovarmi nella disposizione d’essere sorpreso; non si tratta, a guardar meglio, di un’alterità totale, ma di un cammino di convergenza, nel quale somiglianze e differenze vengono, progressivamente, in luce. Se si trattasse di un’alterità totale, nonostante ogni sforzo, io non potrei comprendere nulla della differente religione a cui m’approssimo. Quel che è in gioco è la convergenza universale delle religioni, non tanto la loro omologazione o il loro livellamento; e non c’è chi non capisca come tale movimento di convergenza potrebbe avere una formidabile efficacia per l’affermarsi dei diritti dell’uomo e per il diffondersi di un’autentica pace nella giustizia.

Un dialogo tra persone non tra istituzioni

C’è un dialogo vitale, che non si nutre solo delle riflessioni degli esperti e degli incontri dei rappresentanti delle varie religioni, al vertice; c’è un movimento impetuoso "dalla base", che spesso pare spiazzare i vertici medesimi; tale dialogo di vita si nutre di comunione e condivisione, di convergenza verso obiettivi concreti, come le opere di pace e giustizia, con un’attenzione straordinaria a quei cammini formativi che si protendono ad una ricerca – personale e sociale – dell’armonia, aprendo alla pluralità di verità. Studiosi cristiani come J. Dupuis e R. Panikkar, pur evidenziando certe contraddizioni e mettendo in guardia contro le resistenze del fondamentalismo, reclamano la maturazione di una coscienza aperta; non si tratta di abbandonarsi all’illusorio richiamo del sincretismo, cercando – spesso con frettolose giustapposizioni – di poter fare sintesi dove una lunga storia ha diviso e contrapposto; si tratta, invece, del difficile compito di risalire all’originario, nel punto in cui le varie tradizioni religiose si sono compartite e distinte; abbandonare le proprie sicurezze, scoprendo l’alterità nel proprio cuore, per potersi aprire più liberamente, nutrendosi di quell’Amore che vive nel segreto, nascosto nella profondità delle origini.

Ostacola il dialogo interreligioso un passato a volte punteggiato da torti e rancori reciproci; è un atteggiamento nuovo, di conversione, quello che dovrebbe imporsi, delineandosi il cammino della difficile misericordia, una misericordia capace di purificare la memoria e di immetterci in una prospettiva nuova. È una scommessa sulla speranza, e su un tempo recuperato e riscattato: senza tale speranza, ogni dialogo interreligioso non pare avere autentiche opportunità!

Come ogni dialogo, il dialogo interreligioso può comportare incomprensioni e difficoltà, anche grandi; si tratta di una ricerca che può essere facilmente fraintesa, o gravata da insincerità e chiusure, più o meno improvvise; come accennavo, tale dialogo deve essere accompagnato da studio, approfondimento, senza nessuna superficiale abdicazione, ma anche senza arroganti pregiudizi, più o meno consapevoli. Un Dio più grande, un Cristo più grande possono polarizzare davvero il movimento di convergenza fra le religioni, a vantaggio dello spirito di fraternità, che potrebbe far lievitare tutta la terra (andrebbero, su questa linea, recuperate alcune intuizioni di due grandi cristiani: Teilhard de Chardin e Mc Luhan).

Un dialogo che si nutre di preghiera

Gli incontri interreligiosi di Assisi, promossi da Giovanni Paolo II, possono farci riflettere sull’importanza della preghiera in comune, una preghiera umile, insistita e piena di fervore, preparata dal previo riconoscimento dei malintesi e dei torti reciproci; un tale spirito sembra permeare gli incontri più recenti anche dei gruppi ecumenici, persuasi ormai della necessità di un ampliamento della prospettiva, che comprenda anche, con le debite mediazioni, il dialogo interreligioso.

Ciò che è chiaro è che occorrono cammini formativi ben scanditi e persuasivi ed anche, in ambito cristiano, una spiritualità coerente ed aperta.

Tali cammini formativi dovrebbero condurre al superamento di stereotipi, pregiudizi e chiusure aprioristiche, favorendo una purificazione ed apertura del cuore. Se entriamo nella prospettiva di questo dialogo di vita la questione riguarda pienamente anche le famiglie, trasformandosi nella semplice e profonda testimonianza dei valori, umani e spirituali, per cui si vive; solo la semplice e diretta testimonianza dei valori per cui si vive può aiutare gli altri, e soprattutto i più giovani, a vivere...

La spiritualità che si può intravedere sullo sfondo è una spiritualità laicale, di laici che "con l’esempio della loro vita e con la propria azione possono favorire il miglioramento dei rapporti tra seguaci delle diverse religioni" (richiamato in Redemptoris missio, §57).

In sintesi, l’autentico e genuino dialogo esige non meno che una sincera purificazione del cuore, una vera e propria conversione interiore; sotto il profilo educativo, occorre una preghierad’unità, capace di volgerci al Cuore dell’umanità e del mondo, liberandoci dai nostri schemi più angusti e dall’orologio dell’"io" e del "mio", orgoglio "umano, troppo umano".

Occorre, inoltre, una formazione all’assimilazione ed alla pratica delle virtù; la virtù della sincerità, che non è solo la "virtù crudele" che si pretende, l’educazione all’ umiltà e alla lealtà, che incrementa la consistenza della propria ricerca ed illumina le difficoltà e le incomprensioni che scandiscono il dialogo intrapreso; capire, e far capire, che pace non è irenismo, che dialogo non è strategia dissimulatoria, ed infine che la propria fede si configura, necessariamente, come una Sorgente da custodire con tenerissimo amore.

Il dialogo interreligioso non è brumosa ricerca dell’armonia, come in un certo stile New Age/Next Age, ma sofferto sforzo di comunione e condivisione, via controversa e tortuosa, che può comportare il dolore di venir deformati ed incompresi; ma il dialogo, come ricorda Giovanni Paolo II, è una via verso il Regno, una via che darà i suoi frutti, anche se le occasioni opportune di tali frutti le sa solo il Padre comune, che tutto dispone ed ama.

La fede nell'incarnazione del Verbo non si ferma all'avvenimento storico puntuale della nascita di Gesù a Betlemme, ma è fede nella sua presenza in noi tuttora attraverso il dono dello Spirito ed i suoi frutti.

Lo straniero nell’Antico Testamento

di Paolo De Benedetti




Fra tutti gli insegnamenti biblici, quello sullo straniero è forse il più disatteso. Oggi si «crea» lo straniero quando l’altro non è assimilabile a noi. E lo si crea non per amarlo, ma per odiarlo, non per accoglierlo, come ci insegnano le Scritture, ma per scacciarlo, per spingerlo oltre le frontiere.


«Non opprimerai lo straniero: anche voi conoscete la vita dello straniero, perché siete stati stranieri nel paese d’Egitto» (Es 23,9). Il pensiero e la normativa biblica riguardo al forestiero e allo straniero (chiariremo più avanti la differenza semantica) si compendiano in questo versetto, uno degli innumerevoli che toccano il tema. Ma, prima di illustrarne alcuni, poniamoci una domanda: perché lo straniero? Come nasce lo straniero?



L’incomunicabilità linguistica

La risposta ci porta molto indietro, a un gesto di Dio. Creando un solo uomo, Dio aveva posto una barriera alla possibilità dello straniero e alla delegittimazione del diverso: «Fu creato un solo uomo... perché nessuno dica al suo compagno: Mio padre era più grande di tuo padre» (Mishnà, Sanhedrin 4.5). Ma poi, fu Dio stesso che da questa ideale identità fece emergere il diverso, lo straniero. «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole» (Gen 11,1). Sono gli uomini della torre di Babele che così motivano il loro progetto: «Facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (ivi, 4). Ma Dio non volle che rimanessero un solo popolo con una lingua sola, confuse la loro lingua, e «li disperse di là su tutta la terra» (ivi, 8). Proprio l’incomunicabilità linguistica è il più importante elemento dell’essere straniero (si pensi all’origine del vocabolo greco bàrbaros, cioè balbuziente, in quanto incomprensibile). Ma il mito biblico contiene un insegnamento fondamentale: non pone un centro rispetto a cui essere straniero, tutti sono reciprocamente stranieri, al centro non rimane nessuno: «Essi cessarono di costruire la città» (ivi, 8). Così come l’altro da me è un io di cui io sono l’altro, allo stesso modo lo straniero è uno (individuo, gruppo, popolo) di cui io sono straniero. Si tratta di una reciprocità che, a ben pensarci, fonda l’identità e la responsabilità dell’uomo.

Tutto questo è messo alla prova non solo a livello individuale, ma ancor più a livello sociale, quando una comunità vive sulla propria terra, e quando perciò lo straniero è – proprio etimologicamente – un extracomunitario. La preoccupazione di tutelare lo status dello straniero ha spinto i legislatori biblici a moltiplicare le norme in proposito, tanto che si potrebbe indicare in questo tema una delle linee tecnologiche fondamentali della Bibbia ebraica.



Lo straniero nella tradizione ebraica

Innanzitutto, occorre un’attenzione alla terminologia: in ebraico la nozione di straniero si «incarna» in vari vocaboli, che contengono sfumature diverse o addirittura opposte. Abbiamo così i vocaboli zar, gher, nokrì o nekhar: approssimativamente, potremmo tradurre il primo con «estraneo», il secondo con «straniero residente», il terzo con «forestiero». Zar designa la cosa o la persona con cui non esiste reciprocità di diritti e doveri, per esempio un culto «estraneo», cioè idolatrico, o una persona estranea, come il laico rispetto al sacerdote. Nokhrì o nekhar è sì lo straniero, ma non residente, di passaggio, come il mercante: non è inserito nella società, e quindi non ha i diritti e i doveri relativi; per esempio non vale verso di lui il divieto del prestito ad interesse (cf Dt 23,21), ma anch’egli può prestare ad interesse. Il vocabolo fondamentale è dunque gher, lo straniero residente (solo in tempi più vicini a noi ha assunto il significato di convertito nell’ebraismo). Secondo 2 Cron 2,16, i gherim – plurale di gher – contati nel censimento di Salomone sarebbero stati 153.600 (si veda il fondamentale articolo di Amos Luzzatto, Lo straniero nella tradizione ebraica, «Studi, Fatti, Ricerche», n. 46, 1989).

I rapporti con lo straniero residente non sono regolati da esortazioni morali, non sono affidati al buon cuore, ma fanno parte della halakhà, ossia della «via» prescritta da Dio sul Sinai a Israele come base dell’alleanza. Si tratta di diritti e doveri che costituiscono una sorta di «contratto sociale», di cui potrebbe essere considerato proemio questo testo del Levitico: «Quando un gher dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il gher dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati gherim nel paese d’Egitto. Io non il Signore, vostro Dio» (Lev 19,33-34). È importante sottolineare la conclusione «Io sono il Signore, vostro Dio», perché è il suggello di tutti i grandi precetti sinaitici, vincolanti perché ispirati non da una coscienza etica umana, ma dalla immediata volontà divina.



Diversità e uguaglianza, lontananza e prossimità

Il primo e più importante diritto del gher è l’uguaglianza giuridica: «Ci sarà per voi una sola legge per il gher e per il cittadino del paese» (Lev 24,22). Perciò il gher condivide con l’orfano e la vedova da un lato, con il sacerdote dall’altra – ossia con coloro che non hanno proprietà terriere – alcuni diritti: come la straniera Rut può spigolare e cogliere ciò che cresce all’ «angolo» del campo, e ha parte alle primizie, alle decime e ai frutti dell’anno sabbatico. Può offrire un olocausto allo stesso titolo di un figlio d’Israele (cf Lev 17,8), e ha il diritto-dovere di osservare il sabato e le feste. E qui si apre la tavola dei suoi doveri: come l’ebreo, non deve cibarsi di cibi lievitati a Pasqua, di sangue, forse (ma la cosa è incerta) di animali non uccisi ritualmente. In sostanza, i divieti imposti al gher mirano a includerlo senza discriminazione alcuna nella società: lasciando però a lui la scelta di farsi pienamente ebreo mediante la circoncisione, e potendo così partecipare alla pienezza del culto, compresa la cena pasquale con l’agnello, oppure rimanere un «timorato di Dio», come si dirà molto più tardi, o, in greco, sebòmenos ton theòn. Tra i proseliti più famosi sono da ricordare la dinastia idumea di Erode e quella, sotto Claudio, del re di Adiabene.

Tutto questo mostra come il popolo ebraico abbia sempre rifiutato una concezione etnico-razziale della propria comunità: è simbolico il caso di Davide, genealogicamente discendente dalla moabita Rut (secondo il diritto rabbinico l’ebraicità si trasmette per via matrilineare, e Rut «entra» nell’ebraismo, non «nasce» nell’ebraismo).ma è altrettanto simbolico che i diritti dello straniero siano indipendenti dalla conversione. In fondo, quando il Levitico comanda: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lev 19,18), non pone condizioni di scelta religiosa; e il gher è prossimo, reá, cioè vicino. Si potrebbe dire perciò dello straniero quello che i maestri dicono di Dio: egli è lontano e vicino, viene da lontano ed è vicino. Questo rapporto con la lontananza che diventa vicina, con lo straniero che diventa prossimo, in realtà è un elemento essenziale della mia identità. Il versetto sopra citato «Ama il prossimo tuo come te stesso», nella esegesi rabbinica offre anche un’altra lettura, alternativa: «Ama il prossimo tuo perché è te stesso».

Del resto, l’identità di straniero è iscritta fin da principio, ben prima della permanenza in Egitto, nell’ebreo. Il primo a essere chiamato «ebreo», Abramo, incontrò Dio diventando straniero: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”» (Gen 12,1).

Abramo, o Abram come allora si chiamava, era così straniero da non sapere neppure dove Dio lo avrebbe condotto. E di suo nipote Giacobbe, così si recita nella formula di offerta delle primizie, il cosiddetto «piccolo credo storico»: «Mio padre era un arameo errante, scese in Egitto, vi sette come un gher con poca gente...» (Dt 26,5). E alcuni popoli stranieri escono proprio dalla famiglia patriarcale: gli ismaeliti da Ismaele, gli edomiti da Esaù, gli ammoniti e i moabiti da Lot. Sono genealogie leggendarie, ma che suggeriscono come la diversità, l’alterità non è mai assoluta. E tuttavia – ricordiamo ancora una volta la torre di Babele – è un aspetto del genere umano disegnato da Dio. Scrive il rabbino Riccardo Di Segni: «La strada ebraica della convivenza dei popoli passa attraverso questa coscienza della diversità, dell’impossibilità dell’imposizione e della coercizione, nella presunzione comunque che vi sia uno spirito che parli e chiami tutti, ciascuno nella sua strada...La particolarità non è ostacolo all’universalità» (L’ebreo: straniero e residente, «Rocca», 15 ottobre – 1° novembre 1986).



Un insegnamento alto e disatteso

Forse, tra tutti gli insegnamenti della Bibbia, questo sullo straniero è oggi il più disatteso: non solo, ma oggi si crea lo straniero appena l’altro non è assimilabile a me, a noi, e lo si crea non per amarlo, ma per odiarlo e se è possibile per scacciarlo. Come accade a Dio, a cui un grande maestro chassidico, rabbi Parukh, riferiva le parole del salmo 119,19: «io sono straniero sulla terra».

Diceva rabbi Parukh: «Chi è sbattuto lontano in terre straniere e finisce in un paese sconosciuto, costui non ha commercio con alcun uomo e non può intrattenersi con alcuno. Ma se allora appare un altro forestiero, anche se la sua patria è un’altra, i due possono diventare amici... E se non fossero stati ambedue stranieri non sarebbero diventati così intimi. Questo intende il salmista: “Tu sei come straniero sulla terra e non hai dove posarti: dunque non sottrarti a me, ma svelami i tuoi comandamenti, perché io possa diventare il tuo amico”» (M. Buber, I racconti dei Hassidim, Guanda, Parma 1992, p.57).

E, aggiungiamo noi, perché io possa riconoscere lo straniero che è in me.

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti





Trentesima parte

Un ulteriore passo in avanti possiamo farlo vedendo ancora altri brani di “Parole di un fondatore” che sono in relazione a Maria e che cito brevemente:

I maristi appartengono a Maria…74/3;  143/3;  156/7

…sono chiamati e scelti da Maria…78/7;  107;  172/26;  176/3

…debbono imitare Maria in generale…79/7;  1/2

…nella piccolezza e nella vita nascosta… 116/8;  119/8;  120/2

…avendo il suo spirito ed i suoi sentimenti… 112/6;  188/13

…avendo anche le virtù di mari: modestia, povertà, piccolezza… 146/4;  119/8;  120/2

In sintesi dunque sono chiamati ad essere “Icone viventi di Maria”.

(Il visitatore o la visitatrice stupiti e forse seccati dalle citazioni troppo sintetiche possono richiedere all’autore, P. Franco, coordinatore del sito i testi completi. Grazie).


Altri Paesi "entrano" in Europa, l'Europa si "allarga", come sentiamo ripetere in questi giorni. Oppure, realtà ancor più affascinante, ritrova una parte di se stessa per troppo tempo alienata? Dove si collocano oggi i confini dell'Europa?

Se la domenica è la Pasqua settimanale, la Pasqua è la grande domenica annuale. E se tutta la settimana converge verso la domenica e da essa riparte per vivificare, alla luce del Mistero celebrato, la nuova settimana, così la Pasqua è la meta del cammino quaresimale e sorgente della vita nuova donataci dal Cristo.

Venerdì, 01 Aprile 2005 22:38

Il male (Xavier Lèon-Dufour)

Il male
di Xavier Lèon-Dufour




Il male è un'esperienza che ogni uomo conosce. È la privazione di un bene dovuto. È una mancanza, l'assenza di un bene che dovrebbe esistere; se io non ho ali per volare, non è un male perché fa parte della mia natura di non averne. Per contro, se sono cieco dalla nascita o per un incidente, subisco un male che mi priva di innumerevoli contatti; se sono ammalato, io non dispongo più delle facoltà normali della salute che mi permettono di vivere fra i miei fratelli. L'uomo lotta con forza e saggezza per diminuire gli attacchi del male. Benissimo, ma ci sono altri mali che ci perseguitano, tra i quali possiamo citare i mali di tipo cosmico e quelli di tipo morale.

I mali di tipo cosmico ci affliggono. Si scatenano infatti molteplici catastrofi: eruzioni vulcaniche, tempeste, temporali, inondazioni, tifoni, valanghe, di fronte alle quali l'uomo è impotente, semplice vittima.

Tutti questi mali rendono coscienti del carattere imperfetto della creazione, ma noi non ci sentiamo per niente responsabili.

Per contro, siamo colpiti dai mali di ordine morale. Più noi avanziamo in età, e più pesa sulla nostra coscienza l'evidenza dell'impurità nel nostro agire. D'altra parte un'altra evidenza si impone che non c'è bisogno di esplorare, perché ne percepiamo sperimentalmente la presenza. L'uomo è il peggiore nemico dell'uomo: sfruttamento dei poveri, guerre, stupri, delitti, torture, ecc. Ci sentiamo complici di tutti questi mali, almeno collettivamente.

Di fronte a tutti questi mali scandalosi, qual è la nostra reazione? Essa varia secondo le età. Prima, è un grido di indignazione, segno di esuberanza di vita che non può tollerare queste ingiustizie. Poi, poco a poco, essa si esprime con una rassegnazione di tipo stoico: si pensa che sia meglio limitare gli eccessi, e non perdere la propria serenità. Si pensa di crearsi una buona coscienza facendo l'elemosina. Si pensa così di coprire lo scandalo, pur sapendo che la cisti continua a resistere e ci si consola pensando che ce ne sono molte altre, con le quali si può peraltro convivere senza soffrire troppo.

Tuttavia, sono molti coloro che vorrebbero conoscere l'origine di questi mali, pur essendo in disaccordo con noi, che sappiamo che all'origine di tutto c'è un'altra forza. Quale?
Spontaneamente noi pensiamo a Dio, ad un essere che ci ha creati e che è quindi responsabile dell'ordine della creazione. E questo si esprime con la protesta: «Che cosa ho fatto a Dio perché mi tratti così?». Come può un Dio onnipotente lasciare che avvengano simili ingiustizie?

Noi affermiamo effettivamente che Dio è capace di trasformare in grazia il peccato dell'uomo, quando gridiamo la nostra gioia: «Felix culpa!». Ma la domanda si ripropone: Come mai Dio può «permettere» il male, anche se poi deve risultarne un bene?

Noi condividiamo maggiormente la reazione del giusto Giobbe, che non accetta la sorte di sofferenza per un innocente come lui: ma non accettiamo, di fare come lui, di chiudere la bocca e di inchinarci davanti ad un mistero del quale noi constatiamo solo il carattere arbitrario. Non avendo più il senso del Dio trascendente nel quale credeva Giobbe, ho il diritto di subire l'ingiustizia? Sì, la storia di Giobbe non fornisce una valida risposta agli occhi della ragione.
Siamo così portati a rivedere la comprensione del rapporto con Dio stesso. È forse Dio un artigiano che lancia nell'esistenza il mondo come si trattasse di una cosa della quale in seguito si disinteressa?
Questo modo di presentare la creazione come la produzione di essere viventi lasciati alla mercé di un mondo ostile è frequente, come quando di fronte ad un incidente mortale si dichiara: «Era la volontà di Dio». Non è forse logico ribellarsi davanti a un Dio omicida?

Eppure Dio è un Dio d'amore. Non ha creato l'uomo come un prodotto grezzo, inerte.
Ha aperto con lui un dialogo d'amore. Con la creazione, l'uomo è chiamato ad una alleanza. È invitato a cooperare con lui per l'avvento del suo regno. Questo ci propone la Genesi.
Adamo non è semplicemente un qualcosa di compiuto. È chiamato a costruire il mondo, non solo attraverso la «pro-creazione», né semplicemente amando Eva, la sua compagna, ma cooperando all'intera creazione nella quale è collocato. È chiamato ad una sinergia di amore creatore con Dio, a condizione che egli rimanga in rapporto di amicizia con colui che gli ha dato l'esistenza.

Questa condizione si rivela nel racconto della Genesi dal momento che Adamo può mangiare i frutti di tutti gli alberi del giardino ad eccezione di uno solo: quelli dell'albero della conoscenza del bene e del male. Qualunque sia l'interpretazione di questo divieto, è evidente che Adamo deve riconoscere che egli esiste in dipendenza da Dio.
Ora, egli cede alla tentazione insinuata dal serpente, creatura del nostro mondo.
Secondo questo racconto, la responsabilità del peccato non ricade su Dio, ma solamente sulla creatura, cioè sul serpente e su Adamo.

I teologi hanno discusso a lungo sul ruolo specifico di Adamo: spesso Adamo è considerato come l'origine del peccato. Tuttavia il testo non dice così; Adamo non sta all'origine del peccato, ma ha lasciato entrare il peccato nel mondo; egli non ne è la causa, ma il tramite attraverso il quale il Peccato è venuto. Inutile speculare su Adamo responsabile del peccato, perché il peccato esisteva prima che Adamo lo commettesse.
Un Peccato (con la maiuscola) esisteva quindi prima di Adamo.
Alcuni lo identificano con il serpente, ma niente giustifica questo tipo di sintesi. Nel simbolismo mitico, il peccato è una entità che preesiste ad Adamo.

Sorge allora un nuovo problema: questa creatura coesisterebbe forse con Dio?
Qui si pone il dilemma: insieme con Dio coesisterebbe il Peccato, oppure il Peccato sarebbe una produzione di Dio? Noi pensiamo che, con l'atto di creare Dio ha suscitato il Peccato; Dio non ne è la causa formale, ma l'occasione. In che modo? Emergono due interpretazioni.

Una prima interpretazione si fonda sul racconto della Genesi. L'uomo è vivo non per se stesso, ma in virtù del soffio divino che gli è concesso oggi. Se egli rimane in vita, è grazie alla relazione che non finisce in un atto passato, ma che continua e che costituisce il presente del suo essere. Il progetto di Dio consiste nel fare sì che il non-Dio diventi Dio. Per realizzare questo progetto, l'uomo deve riconoscere che, in questa ricerca di Dio, deve «rinnegare se stesso». Questa condizione contraddice di fatto il suo desiderio fondamentale: quello di porsi nell'essere. Ecco quello che Gesù ripete senza stancarsi: «Bisogna rinnegare se stessi». E' questo l'invito formale di Dio.

Ma l'uomo rifiuta di andare contro il suo essere. L'invito divino gli sembra un paradosso.
L’invito divino non è la causa del peccato dell'uomo, ma ne è l'occasione immediata. In tal modo il peccato sarebbe entrato nella creazione.
I
Possiamo accettare questa soluzione? Sembrerebbe che un Dio di questo genere permetta il peccato in vista di un bene reale: non sarebbe allora fare del peccato un mezzo in vista del bene? Evidentemente è un'ipotesi insostenibile. Il progetto di Dio, peraltro, non finisce con la creazione, ma ha il suo compimento nell'incarnazione: Dio non si accontenta di dire quello che bisogna fare, ma lo fa lui stesso. Dio si fa uomo. Anzi, secondo Paolo, si fa Peccato. «Colui che non aveva conosciuto il peccato, Dio lo ha fatto Peccato, affinché in Lui noi divenissimo giustizia di Dio» (2 Cor 5,21).

Morendo sulla Croce Gesù ha rinnegato se stesso, compiendo pienamente il progetto divino: «Per questo Dio lo ha esaltato perché ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre» (FiI 2,6.11). Diventa il nuovo Adamo, principe e capo di una umanità nuova; ormai ogni uomo rivela Dio solo in Gesù.

Il mistero della Croce non dà una spiegazione razionale al mistero dell'iniquità: al contrario, invita a far morire ogni razionalizzazione del mistero.
Ormai solo in Gesù si manifesta il volto di Dio, un Dio umiliato. Il male non è per questo «spiegato», resta un mistero: quello della croce, dove il Peccato è morto. Il mistero del dolore degli innocenti trova il suo senso nel mistero del Golgota.

Un'altra considerazione permette di approfondire il mistero. La prendo da Maurice Zundeì. Siccome Dio è amore, la creazione instaura un dialogo di amore con l'uomo. Dio deve dunque aspettarsi dall'uomo, suo partner, una risposta. Se c'è rifiuto di questo amore, l'insuccesso è certo. Dio certamente non è la causa dell'insuccesso, ne è la vittima, perché, proprio in nome di questo suo amore, non può imporlo senza togliere all'uomo la libertà che Egli ha creato. Dio, in un certo senso, è sottomesso alla sua creatura. Gesù ha mirabilmente espresso questo, lavando i piedi ai suoi discepoli. Zundel lo dichiara: «Non si è mai raggiunto il senso della creazione con eguale profondità: ogni creatura è per Dio il suo Dio» (L’humble prèsence, Tricorne, Genève 1935, p. 19). Lungi dall'essere impassibile di fronte al rifiuto che gli viene opposto, Dio soffre. Lui stesso è «l'azione silenziosa di quest'amore gratuito e disappropriato che ci attira senza costringerci» (Hymne a la joie, Sigier, Québec 1982, p. 47).

Invece di parlare di un Dio incapace di impedire al male di diffondersi, è meglio ascoltare il paradosso chiaro e luminoso di un commentatore di M. Zundel: «Amore onnipotente, Dio è insieme anche totalmente e dolorosamente impotente» (François  Rouiller, Le scandale du Mal et de la souffrance chez Maurice Zundel, 1999, p. 150).

Ancora una volta, nel mistero della Croce, il peccato dell'uomo, e quindi il Male, trova il suo senso.

Venerdì, 01 Aprile 2005 22:15

Il battesimo del fuoco (Giovanni Vannucci)

Il battesimo del fuoco
di Giovanni Vannucci






Le autorità religiose di Gerusalemme gli mandarono degli inviati a chiedergli chi egli fosse, e in nome di chi battezzava. Giovanni risponde di non essere il Messia atteso, né un profeta, ma uno che grida: "Raddrizzate le vie del Signore". Il suo battesimo è la preparazione al battesimo dello Spirito Santo che verrà amministrato da uno che è già in mezzo al popolo. Il giorno dopo Gesù andò da Giovanni, che ancora non lo conosceva, e gli si rivelò come "l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo", il peccato che insidia radicalmente l'uomo: la ricaduta nel nulla. Lo riconobbe come l'Atteso perché Colui che l'aveva inviato a battezzare gli aveva detto: "Tu va' a battezzare con l'acqua, quegli su cui vedrai discendere lo Spirito e rimanere su di lui è Colui che libera dal peccato non più simbolicamente con l'acqua, ma realmente con lo Spirito Santo". Giovanni vide plasticamente, come colomba, discendere e posarsi su Gesù lo Spirito Santo, e lo riconobbe e lo annunciò come "il Figlio di Dio".

Nelle narrazioni dell'incontro riportate dagli altri evangelisti ci sono dei particolari che mostrano gli avvenimenti sotto una luce differente, quasi delle contraddizioni; mi soffermo su di essi perché dal contrasto appare, così mi sembra, che Giovanni ha colto il significato soprastorico dell'incontro del Battista con Gesù, significato che diventa emblematico di quella interiorizzazione del mistero di Gesù Cristo che caratterizza il quarto Vangelo, sì da renderlo il Vangelo che indica le tappe da percorrere per il nostro personale incontro e la nostra personale unione con la Parola che vuole incarnarsi in noi, per renderci figli di Dio. Nelle narrazioni dell'incontro riportate dagli altri evangelisti ci sono dei particolari che mostrano gli avvenimenti sotto una luce differente, quasi delle contraddizioni; mi soffermo su di essi perché dal contrasto appare, così mi sembra, che Giovanni ha colto il significato soprastorico dell'incontro del Battista con Gesù, significato che diventa emblematico di quella interiorizzazione del mistero di Gesù Cristo che caratterizza il quarto Vangelo, sì da renderlo il Vangelo che indica le tappe da percorrere per il nostro personale incontro e la nostra personale unione con la Parola che vuole incarnarsi in noi, per renderci figli di Dio.

Negli altri evangelisti, lo Spirito Santo scende su Gesù dopo che è stato battezzato. Matteo e Marco dicono che fu a Gesù che i cieli si aprirono e che fu Lui a vedere lo Spirito Santo che scendeva. Nel Vangelo di Giovanni, non è negato, ma neppure affermato che la discesa dello Spirito Santo abbia fatto seguito al battesimo di Gesù, di cui l'evangelista non fa parola. Il punto in cui concordano è il fatto che il Battista inizia la sua predicazione di penitenza che precede la manifestazione di Gesù come portatore dell'immersione nello Spirito Santo; nella prospettiva dell'evangelista l'episodio costituisce la rivelazione dell'uomo che dopo il suo ritorno alle sue origini divine, il battesimo nell'acqua, scopre che il suo compito, unico e inalienabile, è quello di divenire come Gesù, uomo dello Spirito Santo.

Soffermiamoci sulla predicazione del Battista, quale è riportata dagli altri evangelisti; ai Farisei e Sadducei, chiusi e sicuri nei loro sistemi dottrinali e rituali, vengono rivolte delle dure parole: "Razza di vipere, cambiate la direzione dei vostri pensieri. Cessate di dire: abbiamo Abramo per padre. Dio può suscitare da queste pietre i figli di Abramo" (Mt 3, 7-9); alla folla, agli esattori del fisco, ai soldati vengono date queste indicazioni: "Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha, non esigete niente di più del dovuto, non fate violenza a nessuno" (Lc 3, 10-14). Il battesimo del Battista è un vigoroso richiamo a Dio, sorgente dei valori che informano l'attività umana. Ai dotti viene detto di rivedere nella verità divina le loro teorie, agli altri di regolare i loro rapporti con il prossimo non seguendo le proprie aspirazioni egoistiche, ma l'apertura di coscienza che solo Dio può dare.

Il battesimo nell'acqua è nella chiara presa di coscienza delle origini divine dell'uomo, è il fermo distacco da tutte le forze istintive e passionali. È la nascita all'io cosciente e responsabile. Quando questo battesimo è portato a compimento, l'uomo può accedere al secondo battesimo, quello dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo scende come forza distruttrice e rinnovatrice di tutto l'uomo che, in questo bagno purificatore e trasfigurante, comprende con stupore gioioso di essere il figlio prediletto di Dio. È la nascita dell'io spirituale, dell'io consapevole del proprio destino sovrumano, la più alta coscienza personale.

Il passaggio dall'io cosciente, quello che nasce nel battesimo dell'acqua, all'io spirituale, quello che nasce dalla discesa dello Spirito Santo, è compiuto dal battesimo del fuoco. Quello in cui l'uomo deve sperimentare la passione, la morte, la totale purificazione della carne e del sangue, la rinunzia a tutto ciò che viene dal basso per ritrovare l'unità nell'Origine divina. Questo battesimo è indicato da Cristo: "Il Figlio dell'Uomo dovrà soffrire, essere rinnegato e disprezzato dagli uomini prima di morire e risorgere". La nostra risurrezione nella vita divina deve essere preceduta, come quella di Cristo, dalla passione e dalla morte.

Questo è il battesimo nel fuoco che media il superamento dell'io cosciente allo stato dell'io spirituale. L'io spirituale, ultima tappa della realizzazione cristiana, richiede il superamento dell'umano con l'eliminazione di ogni particolarismo, di ogni separazione attraverso l'identificazione con il mistero divino, la "volontà del Padre". Allora il cristiano, come Gesù Cristo, potrà salire "alla destra del Padre". Questo ritorno alla destra del Padre, nell'esperienza religiosa cristiana, a differenza di altre esperienze religiose, non è un annientamento nell'Assoluto, ma uno stato attivo di coscienza universale, la coscienza dei figli di Dio, arricchito dalla coscienza acquisita dall'io cosciente unita e fusa nell'io spirituale.
Venerdì, 01 Aprile 2005 21:59

Se.....

Se si potesse ridurre la popolazione mondiale ad un villaggio di 100 persone, mantenendo le proporzioni di tutti i popoli esistenti al mondo, tale villaggio sarebbe così composto...

Search