Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

I profeti biblici di fronte a Babilonia
di Jesus Asurmendi*


 




* Professore all’Institut Catholique di Parigi

È impossibile parlare di Babilonia in una prospettiva culturale ampia senza rifarsi ai testi biblici. Oltre che in Genesi 11 e nell’Apocalisse di Giovanni, testi a valenza mitica e simbolica, Babilonia appare nella Bibbia in un periodo ben determinato, quello dei profeti Geremia, Ezechiele e del Secondo Isaia, il periodo del Nuovo Impero Babilonese (605-539). Il regno di Giuda, che era in una posizione-cerniera tra la potenza babilonese e l’Egitto, si trovò preso in un’autentica tempesta. Con la caduta di Ninive nel 612, Babilonesi e medi avevano dato il colpo di grazia all’impero assiro. Nel 605, Nabucodonosor inflisse una cocente sconfitta al faraone. Per un certo tempo, Giuda oscilla tra questi due protagonisti, prima di cadere nell’orbita babilonese. La prima deportazione nel 597, poi la caduta di Gerusalemme nel 587 significano l’influenza totale di Babilonia. È in questo contesto che bisogna situare gli interventi profetici.


 



GEREMIA: LA SOTTOMISSIONE

A partire dal momento in cui gli  Egiziani sono sconfitti da Nabucodonosor a Karkemiš, nel 605, il nemico del Nord, di cui Geremia aveva  predetto la venuta quale castigo per Giuda, si precisa: sono i Babilonesi. Ma  curiosamente, il profeta va a chiedere la  sottomissione al re di Babilonia. Come  spiegare questa posizione che lo fece considerare un collaborazionista dai suoi  compatrioti?  
Questa pressi di posizione antinazionalista si manifesterà in circostanze diverse.  Prima di tutto la si scopre nel testo di Geremia 27,1-11. Siamo nel 594-593, sotto il  regno di Sedecia.  

«PROCURATI UN GIOGO E METTILO SUL TUO COLLO»  
Il cambiamento del sovrano in Egitto suscita in alcuni vassalli di Nabucodonosor  delle speranze di indipendenza. Una riunione di «ribelli» ha luogo a Gerusalemme: Edom, Moab, Ammon, Tiro e Sidone rispondono all’appello. È allora che Geremia riceve dal Signore uno strano ordine: procurarsi un giogo, metterselo sul capo e presentarsi così davanti agli inviati dei regni vicini.
Il messaggio è chiaro: il Dio del cielo e della terra ha sottomesso tutti i popoli a Nabucodonosor. Chi si sottomette vivrà. Altrimenti sarà la disfatta e la morte certa. Nel suo oracolo, il profeta attribuisce a Nabucodonosor uno dei titoli più prestigiosi della monarchia in Giuda: egli è il «servo del Signore». Per Geremia, il Dio dell'universo si preoccupa di tutti i popoli e, nel suo disegno, Nabucodonosor ha un posto essenziale. Adesso, gli ha dato ogni potere. Ribellarsi contro di lui equivale a ribellarsi contro il Dio di Israele.
Da quel momento, la posizione del profeta diventerà sempre più delicata. Egli infatti non si accontenta di trasmettere questo messaggio di sottomissione, ma moltiplica i suoi interventi per far «passare» il suo punto di vista. Così, in questo stesso capitolo 27, altri due oracoli riaffermano che bisogna sottomettersi e annunciano la totale rovina se la ribellione si concretizza.

UN MESSAGGIO OSTINATO IN FAVORE DELLA SOTTOMISSIONE
Molto chiaramente, egli si oppone agli altri profeti e ai responsabili del regno: mette in guardia i suoi ascoltatori contro coloro che predicano la ribellione, affronta il profeta Anania che, da parte sua, annuncia la liberazione dal giogo babilonese «entro due anni» (28,3). Scrivendo ai deportati di Babilonia, consiglia loro di prevedere un esilio lungo, di stabilirsi in terra straniera e di non ascoltare coloro che annunciano un rapido ritorno (c. 29).
Dopo la caduta di Gerusalemme e l'attentato contro Godolia, il governatore posto dai Babilonesi in Giuda, Geremia raccomanda ancora a un gruppo di Giudei atterriti dalle conseguenze di questo assassinio di rimanere nel paese e di «non temere il re di Babilonia» (42,10ss).

TRADITORE DELLA PATRIA O SEMPLICEMENTE PRAGMATICO
Ma è soprattutto al momento della caduta di Gerusalemme, nel 587, che il profeta appare ai suoi concittadini come un traditore. Durante un'interruzione dell'assedio,Geremia esce dalla città per raggiungere il suo villaggio. Anatot, dove deve sistemare una questione di eredità. Nel momento in cui attraversa la porta, una guardia ferma Geremia e gli dice: «Tu passi ai Caldei!» (37,11ss). Poco più tardi, alcuni ministri chiedono al re la testa del profeta: «Si metta a morte questo uomo perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in città»; e, afferratolo, lo gettano in una cisterna (38, 1-6). Dopo averlo liberato, Sedecia lo fa però guardare a vista. In breve, anche se non è stato il solo a prendere questa posizione, Geremia è apparso agli occhi dei Giudei conte il traditore per eccellenza.
La sua posizione era certo ben nota ai Babilonesi, come rivela il loro atteggiamento dopo la caduta di Gerusalemme: lo lasciano libero di circolare e Geremia resta nel paese con coloro che, come Godolia, avevano sostenuto la sottomissione a Nabucodonosor. Sfortunatamente, dopo l'assassinio di Godolia, le cose si metteranno male per lui, e sarà così costretto a fuggire in Egitto, oggetto di ogni critica (43,4-7).
L'atteggiamento di Geremia di fronte a Babilonia può sorprendere. Esso riflette la fedeltà del profeta alla fede d'Israele. Dio, padrone del mondo e della storia, ha un progetto per tutti i popoli: le loro relazioni, spesso tumultuose, devono servire a guidare Israele, il suo popolo eletto, verso il destino che Dio gli prepara. Il suo atteggiamento rivela ancora un’intelligenza politica improntata al pragmatismo, di fronte a un tentativo di ribellione completamente irrealistico.

EVOLUZIONE ULTERIORE DEL LIBRO DI GEREMIA
Gli avvenimenti storici hanno dato ragione a Geremia, squalificando le posizioni dei suoi avversari. Da allora, i suoi oracoli e i suoi interventi politici sono stati accuratamente tenuti in considerazione, come prova della legittimità religiosa della sua parola profetica. Ma nel libro di Geremia non si trovano solo le parole e le prese di posizione del profeta. Il suo libro ha continuato a vivere. I suoi discepoli ed epigoni, sempre messi a confronto con Babilonia, si sono trovati davanti ad altri problemi. Il popolo di Israele - i deportati, come gli altri rimasti nel paese - subì con forza la pressione del dominatore del momento.
L'atteggiamento verso Babilonia cambierà radicalmente. Non è del resto escluso che Geremia stesso abbia previsto un ulteriore castigo di questa grande potenza (cf 27,7: 25,26). Nel grande blocco degli oracoli contro le nazioni (Ger 46-51), gli ultimi due capitoli sono dedicati a questo. Al lamento che Israele rivolge al Signore sul comportamento di Babilonia, il Signore risponde: «Ecco, io difendo la tua causa, compio la tua vendetta» (51,36). L'idea di vendetta implica che Babilonia ha avuto torto in un certo momento: «Ha peccato contro il Signore!». Questo peccato dei popoli contro il Signore è un motivo classico: si tratta dell'orgoglio: «Eccomi a te, o arrogante» (50,31). Babilonia a sua volta dovrà dunque essere punita: «Ripagherò Babilonia di tutto il male che hanno fatto a Sion» (51,24). Così, le sorti di Sion e di Babilonia saranno sempre opposte, ma la loro posizione si ribalta. «Babilonia non è guarita... poiché la sua punizione giunge fino al cielo... il Signore ha fatto trionfare la nostra giusta causa: venite, raccontiamo in Sion l'opera del Signore, nostro Dio» (51,9-10).
IL tema del castigo di Babilonia ritorna più volte nei capitoli 50-51. In un primo momento sorprende il contrasto con le posizioni di Geremia. Questo paradosso riflette il radicamento della parola profetica nella realtà storica: gli avvenimenti hanno spostato i ruoli dei protagonisti, ma le due letture della storia partono dalla stessa fede in un Dio che si prende cura del suo popolo attraverso la mediazione degli attori della storia.

 



EZECHIELE: L’ESILIO E LA SPERANZA

Ezechiele, sacerdote del tempio di Gerusalemme, fa parte degli esiliati della prima deportazione nel 597. Non c'è motivo di mettere in dubbio le notizie del suo libro secondo le quali egli è vissuto in Babilonia, a Tel Abib, presso il fiume Kebar, vicino a Nippur.
Il suo libro contiene un buon numero di date o di allusioni che permettono di situarlo nel tempo. Così, non solamente egli ha atteso e annunciato la caduta di Gerusalemme, ma ha seguito le peripezie della lotta di Nabucodonosor per l'egemonia politica nel Vicino Oriente. Quanto all'ultimo oracolo datato del suo libro, è stato pronunciato il 26 aprile 571 e tratta delle controversie del re babilonese con Tiro e l'Egitto (29, 17-21). Ezechiele ha 52 anni. È sempre a Babilonia. Poi, se ne perdono le tracce.

EGIZIANI E CALDEI DI FRONTE ALLA PROSTITUTA GERUSALEMME  
Ezechiele ama gli affreschi storici in cui  Giuda e Israele sono gli attori principali.  La storia del suo popolo gli appare come  una sequenza di infedeltà al Signore, che  si manifesta con la ricerca di legami politici e religiosi con le grandi potenze  dell'epoca. L'Egitto non appare come «l'amante» più ricercato? Anche gli Assiri sono ricordati, ma il loro potere è scomparso da tempo. Sono dunque i Caldei di Babilonia che si contendono, insieme all'Egitto, la prostituta Gerusalemme. Con questa chiave giuridico-politica il profeta esprime i rapporti tra Giuda e il potere babilonese (Ez 16,29; 23,14-18).

L'INFEDELTÀ Dl GIUDA AL GIURAMENTO DATO
Aldilà dello sfavillio delle immagini più o meno scabrose, il fondo del problema è politico e religioso. Il capitolo 17 di Ezechiele è un modello di questo genere. All'inizio è il simbolo dell'albero piantato dalla grande aquila per mostrare la situazione di vassallaggio di Giuda nei confronti dei Babilonesi dopo la prima deportazione e i tentativi di rivolta del re di Gerusalemme che volge all'Egitto.
Giuda ha prestato, di buono o cattivo grado, un giuramento di fedeltà al re di Babilonia, facendo Dio testimone e garante della sua fedeltà. I suoi tentativi di ribellione manifestano la sua infedeltà alla parola data al re di Babilonia, ma anche al Signore, suo testimone e garante. Così, è il Signore stesso che è messo allo scoperto. Gli tocca punire l'infedele: «Lo porterò a Babilonia [= il re di Gerusalemme] e là lo giudicherò per l'infedeltà commessa contro di me» (17-20b). Inutile dire clic Nabucodonosor, di fronte all'infedeltà del suo vassallo, ha anche lui voluto dare un castigo!
Questo testo non è datato. Ma si sa che gli inviati dei paesi vicini a Giuda si sono riuniti a Gerusalemme nel 593, per liberarsi dal giogo babilonese. Ora, è proprio nel 593 che Ezechiele pone l'inizio del suo ministero profetico (1,2). È dunque in un momento di grave crisi che il Signore manda il suo profeta per fare un estremo tentativo di evitare la catastrofe.

BABILONIA, STRUMENTO DELLA COLLERA DI YHWH
Ezechiele, biasimando le scelte dei responsabili di Gerusalemme e l'infedeltà di Giuda, giustifica in qualche modo la reazione di Nabucodonosor. Ma la visione del profeta non può ridursi a questo aspetto.
Tutta la prima parte della sua predicazione (fino al momento della caduta di Gerusalemme) è consacrata a denunciare le colpe del suo popolo. I capitoli 8-11 ne sono il quadro più avvincente. L'idolatria è dipinta con una forza e una fantasia sorprendente. Poi, al capitolo 22, è tutta la società gerosolimitana ad essere denunciata per la sua ingiustizia: la città è corrotta, senza prospettive.
Il castigo è inevitabile: «Il Signore disse: Seguitelo attraverso la città e colpite. Il vostro occhio non perdoni, non abbiate misericordia! (...) Neppure il mio occhio avrà compassione e non userò misericordia: farò ricadere sul loro capo le loro opere» (9,5ss). Il legame tra il castigo meritato da Giuda e l'azione di guerra di Nabucodonosor diventa ben presto più esplicita: «Nella sua [del re] destra è uscito il responso: Gerusalemme, per far udire l'ordine del massacro, echeggiare grida di guerra... Perciò dice il Signore: Poiché voi avete fatto ricordare le vostre iniquità, rendendo manifeste le vostre trasgressioni e palesi i vostri peccati in tutto il vostro modo di agire, voi resterete presi al laccio» (21,27-29). E più avanti: «I figli di Babilonia e di tutti i Caldei... verranno contro di te (...). Deporteranno i tuoi figli e te tue figlie e ciò che rimarrà di te sarà preda del fuoco» (23,23.25).

LA RICOMPENSA DEL RE DI BABILONIA
Che il re di Babilonia sia lo strumento della collera del Signore, o che egli abbia il diritto di punire Giuda per la sua infedeltà, questo a rigore lo si può capire. Ma Ezechiele va oltre. Nel suo ultimo intervento datato, il profeta presenta un oracolo sconcertante. Promette l'Egitto al re di Babilonia: «Per l'impresa compiuta io gli consegno l'Egitto, perché l'ha compiuta per me. Oracolo del Signore» (29,20). Inutile dire che i Giudei deportati hanno dovuto far fatica ad accettare una simile visione delle cose!

LA GLORIA DI DIO HA SEGUITO IL SUO POPOLO IN ESILIO
Ma il Signore non abbandona i deportati. Essendosi manifestata a lui la Gloria di Dio, è a Babilonia che Ezechiele ha saputo di essere stato chiamato al ministero profetico (Ez 1,1-3,15). La Gloria di Dio è a Babilonia: Ezechiele l'ha vista, in una visione grandiosa, lasciare la sua casa, il Tempio di Gerusalemme (8.11), e questo è avvenuto ancora prima che Gerusalemme cadesse, tra le due deportazioni. Coloro che sono rimasti in Giuda sono certi che Dio è con loro, nel suo Tempio, mentre gli esiliati soffrono duramente la loro lontananza dal Signore. Ora, Ezechiele, con le sue visioni come con il racconto della sua vocazione, mostra che è una concezione falsa: «Se li ho dispersi in terre straniere, sarò per loro un santuario per poco tempo nelle terre dove sono emigrati» (11,16).
Tuttavia, l'orizzonte non si chiude, per il profeta, nel paese della deportazione. Le prospettive di ritorno sono spesso enunciate. Ma soprattutto, a partire dalla caduta di Gerusalemme, tutto cambia. Ezechiele diventerà il cantore della speranza. Con lo stesso vigore con cui aveva annunciato il castigo, predicherà la salvezza per Israele. La vita del popolo è assicurata nella affascinante visione delle ossa aride che riprendono vita (Ez 37), il ritorno della Gloria di Dio è annunciato.

UN'IMMAGINE POSITIVA CHE NIENTE INTACCHERÀ
Babilonia ha incontestabilmente un ruolo positivo nel pensiero di Ezechiele: come potenza politica, ma soprattutto come il paese da cui uscirà Israele, in un nuovo ed autentico esodo. Questa visione è così forte che, diversamente che in Geremia, non si trova un oracolo contro Babilonia nel blocco «oracoli contro le nazioni» del libro di Ezechiele. E niente nemmeno nel suo libro che, venendo dalla sua scuola, dai suoi successori, abbia attenuato il ritratto positivo di Babilonia che egli aveva tracciato. Sui questo tema, non ci sono state, da parte dei discepoli, aggiunte o sviluppi in funzione delle nuove circostanze. Questo è tanto più notevole in quanto il libro testimonia molte riletture e aggiunte, che talvolta deformano il testo fino a dare del Profeta un'immagine patologica. Ma l'immagine Positiva di Babilonia rimane intatta.

 



IL SECONDO ISAIA: L’ANNUNCIO DELLA LIBERAZIONE

Non c'è più praticamente nessuna discussione circa la paternità dei capitoli 40-55 del libro di Isaia comunemente chiamato Secondo Isaia o Deutero-Isaia. Non è il profeta conosciuto sotto questo nome, autore dei capitoli precedenti, che era vissuto nell'VIII secolo. Il Secondo Isaia, anonimo, ha esercitato il suo ministero profetico tra il 550 e il 520. Come dire che è stato il testimone degli ultimi anni dell'impero babilonese e della speranza suscitata in tutto il Vicino Oriente dall'arrivo al potere del persiano Ciro. In tale contesto si deve situare Babilonia nei suoi oracoli.
Gli oracoli su Babilonia sono poco numerosi. Le menzioni esplicite si trovano nella prima parte (40-48) il cui asse essenziale è costituito dall'annuncio della liberazione degli esiliati e del ritorno nel paese. La seconda parte (49-55) tratta principalmente della restaurazione di Gerusalemme.

«COSÌ DICE IL SIGNORE,  VOSTRO REDENTORE»  
L'annuncio della caduta di Gerusalemme  si trova in un breve oracolo in 43, 14-15:  «Così dice il Signore, vostro redentore, il  Santo di Israele: per amor vostro, l'ho  mandato contro Babilonia e farò scendere tutte le loro spranghe e quanto ai Caldei muterò i loro clamori in lutti». Si può  accostare a questo testo un altro versetto, anche se Babilonia non vi appare direttamente: «A terra è Bēl (uno dei nomi di  Marduk), rovesciato è Nebo... ed essi se ne vanno in schiavitù» (46,1-2). Così il  movimento della storia provocherà la caduta di Babilonia: una lieta notizia per gli  esiliati!  
Questa caduta, i capitoli 40-80 l'annunciavano già: era come instancabile invito alla fede e alla speranza. Non era evidente per i deportati credere che Dio volesse fare ancora qualcosa per loro, che aveva punito così pesantemente. Il Deutero-Isaia si adopererà per convincerli. Da una parte ricorderà le meraviglie che il Signore ha compiuto nel passato a favore di Israele, e in modo particolare l'esodo. Colui che ha fatto, farà. Farà addirittura delle azioni ancora più sorprendenti in favore di Israele, suo servo. Dall'altra, l'argomento cosmologico avrà un ruolo importante: il Creatore dell'universo continua ad agire nella storia. È il Dio di Israele. Egli è il padrone degli avvenimenti, li conduce secondo il suo disegno. E il profeta insiste a più riprese sulla volontà di questo Dio onnipotente.

BABILONIA PUNITA PER IL SUO ORGOGLIO E LA SUA MAGIA
In questo contesto, ancora una volta in modo indiretto, il posto che Ciro assume nel libretto è molto significativo. Il percorso di questo conquistatore fu tanto straordinario quanto folgorante. Geremia aveva, a nome del Signore. chiamato Nabucodonosor «mio servo». Ezechiele aveva annunciato la ricompensa data a questo stesso re pagano dal Signore per i servizi resi. Il Secondo Isaia si volge verso un altro personaggio. Il servo del Signore è ora Ciro, il Persiano. È lui che realizzerà la liberazione del suo popolo.
Il posto che Ciro occupa nel libretto dei Deutero-Isaia è tanto più interessante in quanto i testi del conquistatore attribuiscono le sue vittorie a Marduk, il dio babilonese. La lettura della storia non è univoca.
Il profeta arriverà fino al punto di pronunciare una sorta di lamento su Babilonia vinta. Ma egli non si dilunga sulla sua caduta. Strumento della collera del Signore contro il suo popolo, Babilonia ha superato i limiti della sua missione: la sua mano fu troppo dura e il suo orgoglio smisurato: «Tu pensavi: Sempre io sarò signora, sempre... Eppure dicevi nel tuo cuore: Io e nessuno fuori di me» (14,7-8,10). Fatale errore: ella, la sovrana, lavorerà come una schiava: ella che aveva lasciato tante donne vedove e senza figli, eccola improvvisamente vedova e senza figli.
A questi motivi classici si aggiunge un capo d'accusa poco frequente negli oracoli contro le nazioni. Babilonia è accusata di avere una forte propensione per i sortilegi e la magia, il che aggrava considerevolmente la sua situazione.

«USCITE DA BABILONIA, FUGGITE DAI CALDEI»
Il ruolo di Babilonia nei confronti del popolo del Signore è esaurito. Dopo aver annunciato il castigo che ha meritato per i suoi eccessi, il profeta può cantare il ritorno, l'uscita, l'esodo: «Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa... per dissetare il mio popolo, il mio eletto» (43,16-21). E dopo questi preparativi: «Uscite da Babilonia, fuggite dai Caldei, annunziatelo con voce di gioia... Il Signore ha riscattato il suo servo Giacobbe» (48,20). Il cammino di Israele è così compiuto.
La politica di Ciro fu generosa e abile. Il suo editto del 538 permette ai Giudei che lo desideravano di ritornare a Gerusalemme. Da quel momento, Babilonia sparisce dall'orizzonte del Secondo Isaia. Gerusalemme ritorna ad essere «la Città della Santità»: «... perché più numerosi sono i figli dell'abbandonata» (54.1)

DALLA REALTÀ STORICA AL SIMBOLO
I profeti sono gli interpreti del presente alla luce della fede di Israele. Le loro posizioni sono ispirate da un principio teologico di base: Dio è presente nella storia, Egli la guida. Ma l'interpretazione di questa storia richiede un grande discernimento: in caso contrario, questo principio applicato in modo troppo meccanico porrebbe togliere all'uomo le sue responsabilità o far identificare troppo rapidamente ogni avvenimento con l'intervento di Dio. Al contrario, interpreti del presente, Geremia, Ezechiele e il Secondo Isaia sono con discernimento e intelligenza politica. Vedendo in Babilonia lo strumento della collera di Dio contro il suo popolo, vanno contro ogni rigido nazionalismo. Tuttavia, quando le circostanze cambiano, anche le loro posizioni si evolvono: il libro di Geremia è il testimone esemplare di questi contrasti.
A partire da questo vissuto storico, Babilonia diventerà a poco a poco il simbolo dell'oppressione che Israele ha subito nella storia. Una serie di oracoli contro Babilonia si troveranno inseriti posteriormente anche nella prima parte del libro di Isaia, integrata in un insieme di «oracoli contro le nazioni» (13-14, 23; 21, 1-10).
Ma è sopratutto nel libro di Daniele che Babilonia diventa, nei racconti come nelle visioni, il simbolo della potenza politica ostile al popolo eletto. Siamo così preparati a comprendere come mai, nell’immaginario cristiano, Babilonia venga ad essere il simbolo del male, come si vede nel libro dell'Apocalisse, fino agli Esercizi di Ignazio di Loyola...


(da Il mondo della Bibbia n. 20)

L'uomo prova disperazione perché qualunque scelta faccia, non riesce mai a realizzarsi in quanto essere finito e non autosufficiente. La fede supera la disperazione poiché l'uomo non si illude di essere autosufficiente, ma riconosce la sua dipendenza da Dio. Da qui la "speranza": la speranza in Dio al quale tutto è possibile.

Del buon uso di un ortodosso
di Vladimir Zelinskij




“Spiegateci, quando il Papa andrà finalmente a Mosca?”; “Perché la Chiesa Russa parla sempre di proselitismo? Davvero il problema è così grave?” “Qual’è la politica religiosa di Putin?” E così via. Mi sono abituato a queste o simile domande. Le conosco a memoria. Conosco anche le risposte a questi “perché?” e “quale?”, che possono essere semplici, un po’ taglienti e... poco interessanti. Non sapremo proprio un bel niente dell’ortodossia con queste visite-lampo in un’altra realtà, un'altra mentalità, un'altra visione del mondo.

Un'escursione nel campo della politica ecclesiale, per dire la verità, è proprio l’ultima che mi piacerebbe fare. Non è qui il nostro punto di gloria. Ma il destino dell’ortodosso in Occidente è prima di tutto di essere chiamato come il rappresentante di turno di un certo enigma psicologico d’Oriente; poi, di servire da guardiano di un museo un po’ esotico che tutti ammirano dall’esterno (i canti, le icone, i Padri...), ma che pochi aspirano a penetrare sul serio. Al di fuori di questi due incarichi (aggiungiamo anche lo scarso lavoro nelle comissioni miste, che è roba da teologi), il “polmone orientale” non è particolarmente invitato a respirare accanto a quello occidentale; tutti i grandi problemi del cristianesimo di fronte al mondo contemporaneo di solito sono discussi in altre compagnie.

Ammetiamo di praticare anche noi analoghi atteggiamenti: il guardare con un po' di superiorità, dall’altezza della nostro torre d’avorio, sulle piccole faccende della storia e di proclamare con l’aria un po’ offesa che siamo quasi vittime di una nuova crociata. (Non facciamo il paragone, però, fra i russi convertiti al cattolicesimo e gli occidentali che sono attirati dall’ortodossia). Forse, tutto questo proviene dal fatto che culturalmente gli “orientali” rimangono fuori uso; in questi ultimi anni, centinaia di migliaia di loro sono venuti in Italia (clandestini ieri, regolari oggi, cittadini dopo), ma dove si può sentire la loro voce? Certo, il loro imperativo vitale è la sopravvivenza fisica e l’aiuto alle famiglie; ma il bisogno della soppravvivenza dell’anima segue sempre ad esso e quasi gli è inseparabile. Non si tratta solo del luogo del culto o di un club della canzone popolare; anche il pensiero venuto dall’Est potrà chiedere un giorno lo spazio per sè.

La saggezza antica e sempre rinascente della Chiesa d’Oriente è ancora in attesa di essere reclamata. E allora un amico cattolico prima di chiedermi sul viaggio sempre rimandato del Papa (io, da parte mia, credo che l’abbraccio fraterno fra la Prima Roma e la cosiddetta Terza sia più che indispensabile), mi interpellerà: quale è “il vostro” mistero del Cristo? Come è vissuto e celebrato proprio da voi, ortodossi? E che dice questo mistero oggi, alla famiglia umana?

Il monaco frena la lingua dal parlare e mantenendosi fedele al silenzio non parla finché non sia interrogato (RB 7,56).

Mercoledì, 11 Maggio 2005 23:10

Il settimo discepolo (Faustino Ferrari)

Sulle rive di questo lago che il mondo rinnovi l’invito alla sequela. Oggi, come allora. A questo settimo discepolo che è ognuno di noi.

Vincere il male con il bene
(Il Papa per la giornata mondiale della pace)





Il tradizionale messaggio del papa per la giornata mondiale della pace ci offre una lucida analisi della situazione della pace nel mondo e qualche cammino realistico per raggiungerla.
Giovanni Paolo II illustra il compito che incombe a tutti di lavorare per la pace non preoccupandosi delle critiche che vengono rivolte a coloro che sono sprezzantemente chiamati “pacifisti”. Mentre alcuni se la prendono con i “pacifisti” il messaggio del papa ci propone con pacatezza, ma con fermezza, il tema della pace offrendoci una nuova “grammatica di morale universale”, un insieme di valori e principi che si impongono ai costruttori di pace.

SOLO IL BENE VINCE IL MALE

Il titolo del messaggio: Non lasciatevi vincere dal male, ma vinciamo  con il bene il male, è una citazione da Rom. 12,21. La pace è il bene sommo e deve essere promossa con il bene perché è il miglior frutto dell’amore. Infatti la pace è «il risultato di una lunga e impegnativa battaglia, vinta quando il male è sconfitto con il bene» (n. 1). La pace non è il risultato di una vittoria ottenuta con le armi, non lo è mai stato. Il vero male è la guerra, l’ingiustizia, la situazione di violenza che caratterizza il nostro tempo. La pace esclude ogni guerra, preventiva o oltro che sia.

Il papa insiste su una verità che spesso dimentichiamo: «il male non è una forza anonima che opera nel mondo in virtù di meccanismi deterministici e impersonali…». È il prodotto dell’uomo che «passa attraverso la libertà umana…». Alla sua origine ci sono uomini e donne che liberamente scelgono il male. Siamo noi uomini i responsabili della pace e della guerra.  Il male è voluto da chi non segue la logica della fraternità e della comunione e si sottrae alle esigenze dell’amore. Anzi noi cristiani siano spinti sino all’amore dei nemici (n. 2).

Davanti alle molteplici manifestazioni del male il papa richiama l’urgenza di fare riferimento al «comune patrimonio di valori morali» (n. 3) che sono stati dati da Dio a tutti. Giovanni Paolo II chiama questo «la grammatica della legge morale universale» di cui tutti sentiamo il bisogno. Ecco i cinque grandi principi di questa grammatica:
a) il rispetto e la promozione della vita delle persone e dei popoli;
b) il rifiuto della violenza come mezzo per risolvere il contenzioso tra i popoli;
c) la promozione del bene comune ricercato con urgenza e determinazione;
d) un’equa distribuzione dei beni pubblici;
e) l’impegno per assicurare a tutti i popoli, soprattutto ai più deboli, le possibilità finanziarie per promuovere il proprio sviluppo.

L’«AMATO POPOLO AFRICANO»

Il papa non si sottrae alla denuncia di situazioni che mostrano l’urgenza di prendere finalmente di petto certi problemi del mondo. Tra questi il rispetto delle persone e della vita di tutti. E qui cita l’«amato popolo africano», che è alla deriva, ove perdurano conflitti che mietono numerose vite umane. Parla della «pericolosa situazione della Palestina», ove manca la comprensione. Ancora il «tragico fenomeno della violenza terroristica», e infine il «dramma iracheno».
Nella situazione dell’Africa denuncia qualcosa di intollerabile sul quale ritornernerà alla fine del messaggio (n. 10) per sollecitare «un cammino radicalmente nuovo» Per il papa la rinascita dell’Africa «rappresenta una condizione indispensabile per il raggiungimento del bene comune universale». È significativo che il papa colleghi il bene comune universale alla risoluzione di questi problemi particolari.

CITTADINANZA MONDIALE PRESUPPOSTO DI PACE

Il pontefice sottolinea un punto fondamentale della dottrina sociale della chiesa, quella della «destinazione universale dei beni della terra» (n. 7) che viene integrato dalla cosiddetta «ipoteca sociale» che grava su ogni proprietà privata per elaborare il principio di una cittadinanza mondiale, fondato sulla comune origine e destinazione dell’umanità. Ogni uomo al momento della sua nascita diventa «titolare di diritti e doveri» (n. 6) insieme a tutti gli uomini e donne del mondo. La fraternità universale precede ogni altra distinzione storica, o geografica, o razziale.
La pace non spunterà all’orizzonte del mondo finché questo principio non sarà messo in pratica, e le necessità di ogni uomo non saranno soddisfatte. Questo è ciò che si legge tra le righe del messaggio. Per il papa e per la dottrina sociale della chiesa la proprietà privata esiste per garantire «che la necessità di base di ogni uomo e di ogni donna vengano soddisfatti e sostenuti».
Insieme ai beni della terra devono essere offerti a tutti anche quei «nuovi beni» (n. 7) che provengono dal progresso scientifico e tecnologico e che sono oggi necessari per partecipare allo sviluppo. Il papa sottolinea la necessità di abbattere le barriere doganali e i monopòli che, nel caso dei medicinali, stanno condannando a morte molti poveri del mondo in via di sviluppo.
Ai beni della terra e della tecnologia egli associa anche tutti i beni pubblici, come il sistema giudiziario, di difesa, le infrastrutture stradali e di comunicazione, la sicurezza, la salvaguardia dell’ambiente e la prevenzione delle malattie (n. 7).

VINCERE LA SFIDA DELLA POVERTÀ

Per il conseguimento ed il rafforzamento della pace il papa ribadisce l’urgenza di affrontare la sfida della povertà che affligge ancora un miliardo di persone mentre all’orizzonte sta pendendo sulla sorte dell’umanità una nuova guerra: quella dell’acqua. Occupazione, cibo e acqua potrebbero essere il detonatore di una nuova guerra. Il messaggio del papa richiama il dovere di negoziare il debito estero dei paesi poveri in modo da permettere l’inizio dello sviluppo. Inoltre è «auspicabile e necessario inprimere un nuovo slancio all’aiuto pubblico allo sviluppo» (n. 9).
Il papa conclude il messaggio riaffermando la certezza «che è possibile a tutti vincere il male con il bene» (n. 11). Questa certezza si basa sulla potenza della risurrezione che ci assicura che il male non prevarrà. L’eucaristia ci offre il modello di una società di fratelli.


FERRARI G., Vincere il male con il bene. Il papa per la giornata mondiale della pace, in Testimoni 1 (2005), pp. 1-4. Riduzione di CESARE FILIPPINI.
Domenica, 08 Maggio 2005 19:46

4. Il canone della Bibbia (Rinaldo Fabris)

La parola "canone", deriva dalle lingue semitiche, dove qanáh, significa "misura", "regola", "norma".

Domenica, 08 Maggio 2005 19:37

Una Chiesa per il Regno (Jacques Dupuis)

Una Chiesa per il Regno
di Jacques Dupuis



Il testo che viene pubblicato riprende alcuni passi di due lezioni tenute da padre Jacques Dupuis al seminario del Pime di Monza nel 1999. Ci si è basati sulla trascrizione del lungo intervento realizzata da Massimo Cattaneo, missionario del Pime in Bangladesh. Quel testo, destinato ad uso interno e non rivisto dall’autore, aveva uno stile "parlato" che è rimasto, nonostante lievi aggiustamenti, anche nella presente versione. Viene offerto quale contributo per capire in profondità il pensiero del teologo scomparso.

Il pluralismo religioso non è una situazione di oggi. Però il problema ha ormai dimensioni molto più vaste che in passato e pone domande molto più scottanti. Qual è il piano divino per l’umanità? Abbiamo sempre creduto e pensato che il mondo era destinato da Dio a diventare esplicitamente cristiano. È vero questo? Lo possiamo ancora credere, quando si vede come si sta sviluppando? Se a tale domanda la risposta dovesse essere di no, qual è il significato della missione, allora? Perché dobbiamo ancora annunziare Gesù Cristo? Quale è il ruolo del cristianesimo e della Chiesa in questo contesto di pluralismo religioso?

La grazia di Dio, che è sicuramente una, è visibilmente mediata in diversi modi. Dunque il mistero di salvezza rimane uno, è il mistero di Cristo. Ma questo mistero è presente agli uomini e alle donne al di là dei confini del cristianesimo. Nella Chiesa la comunità escatologica è presente apertamente ed esplicitamente, nella piena visibilità della sua completa mediazione, concretamente attraverso la proclamazione della Parola, del Vangelo e attraverso l'economia dei sacramenti al cui centro è l'Eucaristia. In altre tradizioni religiose è presente il medesimo mistero di salvezza in Gesù Cristo, ma lo è in maniera implicita, nascosta, in virtù di un modo incompleto di mediazione costituito da queste tradizioni. È molto importante comprendere chiaramente la differenza essenziale che interviene tra questi due modi di mediazione del mistero di salvezza. Detto che il mistero della salvezza in Gesù Cristo non soltanto opera attraverso una mediazione della Chiesa, ma anche attraverso una mediazione delle altre tradizioni religiose, viene spontanea la domanda: ma allora perché dobbiamo stabilire la Chiesa?

È importantissimo vedere chiaramente la distinzione tra la mediazione di salvezza nella Chiesa e quella nelle altre tradizioni. Infatti, un conto è ricevere la parola di Dio, la parola che Dio dice agli uomini attraverso la mediazione dei saggi che l'hanno ascoltata nel fondo del loro cuore e hanno trasmesso ad altri la loro esperienza di Dio, un altro conto è ascoltare la Parola decisiva che Dio dice agli uomini nel suo Figlio incarnato che rappresenta la pienezza della rivelazione, cioè la Parola contenuta, la Parola della Parola (il Verbo è la Parola), contenuta nel Nuovo Testamento. Ugualmente, un conto è entrare in contatto con il mistero di Cristo attraverso i simboli e le pratiche rituali che nei secoli hanno dato sostegno e forma visibile alla risposta di fede degli uomini e al loro impegno verso Dio, un altro è incontrare lo stesso mistero ripresentato ("ri-presentare" è far presente di nuovo, proprio quello il significato dell'Eucaristia), nella piena sacramentalità degli atti simbolici istituiti da Gesù Cristo e affidati da lui alla Chiesa.

Per esempio, tra i sanscara (i sacramenti dell'induismo) e i sacramenti cristiani vi è una grande differenza. I primi non sono quelli istituiti da Cristo, questi ultimi invece sì; con questi abbiamo noi la certezza, attraverso la fede, di incontrare il mistero di salvezza che vi è "ri-presentato" per noi.

Infine, un conto è fare l'esperienza e vivere il mistero di Cristo inconsapevolmente e in modo nascosto, senza la chiara coscienza dell'infinita condiscendenza che Dio ci ha dimostrato nel Figlio e senza la piena conoscenza della serietà con cui in Lui si è abbassato verso di noi; un altro è riconoscere il mistero nell'umile condizione umana dell'uomo Gesù, nella sua vita, nella sua morte e nella sua resurrezione, nella piena consapevolezza che in questo uomo Dio è venuto personalmente incontro a noi al nostro livello. Cosa ne deriva riguardo al molo della Chiesa e riguardo alla sua missione? Come essere Chiesa nel contesto attuale di pluralismo religioso?

Una prima considerazione. È il Regno di Dio ad essere al centro dell'annunzio del Gesù storico. Sembra un po' strano, ma il Regno di Dio fra i teologi è stato negli ultimi decenni una grande riscoperta. Ciò che è al centro dell'annunzio dei Gesù storico è proprio il Regno di Dio. Nei Sinottici la parola Chiesa si trova due sole volte. il Regno di Dio invece è dappertutto. Non vuol dire che Gesù non abbia voluto la Chiesa: infatti ha dato autorità ai dodici in quel movimento che stava instaurando e che sarebbe diventato la Chiesa attraverso il mistero della Pentecoste. E i dodici diventeranno gli apostoli. Ma rimane comunque il fatto che al centro dell'annuncio di Gesù vi è il Regno di Dio. Gesù lo annuncia non soltanto come vicino, ma lo annuncia come presente, instaurato da Dio proprio in Lui, nella sua vita, nelle sue parole, nei suoi gesti. Questo è importantissimo, perché altrimenti diremmo anche noi ciò che affermano i cosiddetti "pluralisti" e cioè che, mentre Gesù era regnocentrico, la Chiesa apostolica è diventata cristocentrica: Gesù annunciava il Regno di Dio, la Chiesa ha annunciato Cristo, cambiando il messaggio di Gesù.

Dunque, il Regno di Dio è veramente al centro dell'annuncio di Gesù. La Chiesa viene istituita da lui al servizio del Regno; la Chiesa troverà la sua ragion d'essere nel Regno di Dio.

Secondo il Nuovo Testamento la Chiesa non è da identificare con il Regno di Dio. Ma nella teologia recente rimane questa distinzione? Oppure vi è identificazione? La teologia prima del Vaticano II molto chiaramente ha identificato la Chiesa con il Regno di dio già presente nel mondo.

Tale identificazione li si trova nella Mistici corporis di Pio XII, ma non è stata ripresa dal Vaticano II. E la famosa parola "subsistit" della Lumen gentium (il mistero della Chiesa istituita da Cristo "subsistit", "sussiste" nella Chiesa romana cattolica) è stata scelta proprio per non ribadire l'identificazione, per ammettere cioè che, pur essendo in modo più perfetto presente nella Chiesa romana cattolica, la Chiesa istituita da Gesù Cristo è presente, sebbene in modo imperfetto, anche nelle altre comunità cristiane e Chiese, non soltanto ortodossa. Dunque: nel Vangelo sembrava chiara la distinzione fra il Regno di Dio e la Chiesa. Per la teologia, attraverso i secoli fino al Vaticano II, la Chiesa viene identificata con il Regno presente: non c'è da meravigliarsi se questa teologia così comune sia entrata anche nel Concilio.

Un recente documento ufficiale del Magistero opera una distinzione fra Chiesa e Regno presente nella storia: è l'enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II. Al n. 20 dice: la realtà incipiente, cioè storica, del Regno (dunque il Regno per quanto già presente nella storia) può trovarsi anche al di là dei confini della Chiesa, nell'umanità intera, nella misura in cui questa viva i valori evangelici e si apra all'azione dello Spirito che spira dove e come vuole. Ma bisogna subito aggiungere che tale dimensione temporale (storica) del Regno è incompleta se non è coordinata con il Regno di Cristo presente nella Chiesa e proteso alla pienezza escatologica. Vale a dire, se capisco bene, che il Regno di Dio è presente al di là della Chiesa, dunque non si può identificare il Regno di Dio con la Chiesa: il Regno di Dio è presente dove sono presenti e operano i valori evangelici. dei quali la Chiesa non ha il monopolio. Però rimane che il Regno di Dio è presente in modo qualificato, privilegiato, più completo nella Chiesa e occorre sempre ricordare che il Regno di Dio è orientato nella storia verso la sua pienezza escatologica.

Questo a me sembra fondamentale per una teologia delle religioni e per una prospettiva nuova riguardo alla teologia della missione evangelizzatrice della Chiesa. La Chiesa è dunque al servizio di questa realtà universale che è il Regno (li Dio presente dappertutto nel mondo dove sono all'opera negli uomini i valori del Regno, ossia i valori evangelici. La Buona Novella è la presenza del Regno di Dio. Il Regno di Dio, dunque, è la realtà universale della salvezza in Gesù Cristo presente dappertutto nel mondo ben al di là dei confini del cristianesimo e della Chiesa. Il che è detto molto bene in un testo elaborato durante una consultazione teologica organizzata dall'Ufficio per l'evangelizzazione della Federazione delle conferenze episcopali asiatiche (Fabc), che ha avuto luogo in Thailandia nel 1991 e alla quale ho partecipato personalmente.

Dove Dio è accolto, dove i valori dei Vangelo sono vissuti, dove l'essere umano è rispettato, lì il Regno di Dio è presente. In tutti questi casi gli uomini rispondono all'offerta che Dio fa della sua grazia in Gesù Cristo nello Spirito ed entrano nel Regno di Dio per un atto di fede. Ciò dimostra che il Regno di Dio è una realtà universale, estesa oltre i confini della Chiesa. È la realtà della salvezza in Gesù Cristo a cui partecipano insieme i cristiani e gli altri. Tutti quanti siamo co-membri del Regno di Dio, condividiamo lo stesso mistero della salvezza in Gesù Cristo.

Vedete che possono esserci delle conseguenze abbastanza importanti riguardo al modo in cui viene intesa la missione evangelizzatrice della Chiesa.

Ma per essere totalmente onesto con voi, non si può dimenticare che Giovanni Paolo II ha nella medesima Redemptoris missio parole abbastanza dure nei riguardi di una prospettiva regnocentrica della missione evangelizzatrice della Chiesa. Al n. 17 si legge: "Ci Sono concezioni che di proposito pongono l'accento sul Regno e si qualificano come regnocentriche, le quali danno risalto all'immagine di una Chiesa che non pensa a se stessa. ma è tutta occupata a testimoniare e a servire il Regno". E continua: "Ora non è questo il Regno di Dio quale conosciamo dalla rivelazione, esso non può essere disgiunto né da Cristo né dalla Chiesa".

Lo sbaglio che è stato fatto da alcune prospettive regnocentriche consiste nel fatto che si parla di una Chiesa serva, di una Chiesa dei valori evangelici e così via: si dimentica però che questo Regno, messo al centro di una prospettiva teologica, è stato istituito da Dio in Gesù Cristo. Perciò, come dicevo, Gesù non soltanto annuncia il Regno, ma spiega anche che è proprio nella sua vita, nei suoi gesti, nelle sue parole che Dio lo sta instaurando. Alcune prospettive regnocentriche dimenticano che è in Gesù Cristo che Dio ha instaurato il suo Regno e dunque che non si può mai staccare il Regno di Dio dall'evento Gesù Cristo.

Secondariamente. queste prospettive dimenticano anche il ruolo singolare e unico che la Chiesa ha nei confronti del Regno: farlo crescere nel mondo. A patto di non dimenticare queste due cose, cioè il Regno instaurato in Gesù Cristo e il Regno rispetto al quale la Chiesa ha un ruolo specifico e necessario, a me sembra non si debba negare la possibilità di proporre una prospettiva regnocentrica per una teologia sia delle religioni. sia della missione evangelizzatrice della Chiesa, che possa aprire degli orizzonti abbastanza nuovi.

Vorrei aggiungere che i cristiani e gli altri sono dunque co-membri del Regno di Dio. Anche i non cristiani ne sono a pieno titolo membri, pur non essendo per niente membri della Chiesa. Pur essendo salvati in Gesù Cristo attraverso una mediazione della loro tradizione religiosa (incompleta), rimangono orientati verso quella mediazione completa presente nella Chiesa, perché è alla Chiesa (riprendendo il nuovo Giovanni Paolo II) che Gesù Cristo ha affidato la pienezza dei beni e dei mezzi di salvezza. Sono dunque co-membri con i cristiani del Regno di Dio, non sono membri della Chiesa, ma rimangono orientati verso il mistero della Chiesa.

Non soltanto sono co-membri, ma assieme ai cristiani sono chiamati a far crescere nel mondo e nella storia il Regno di Dio attraverso i valori evangelici, i valori dei Regno di Dio.

Come dunque i non cristiani, pur non essendo membri della Chiesa, ma in quanto membri del Regno di Dio, sono orientati verso il mistero della Chiesa, così anche le attività evangelizzatrici della Chiesa, l'impegno per la liberazione e il dialogo interreligioso sono anch'essi orientati verso l'annunzio in cui culmina la missione evangelizzatrice della Chiesa. Vorrei rapidamente dire qualche cosa sui diversi modelli di Chiesa che aprono o no prospettive più ampie riguardo alla missione evangelizzatrice.

Per secoli abbiamo avuto il modello della Chiesa come la "barca di salvezza". La Chiesa veniva paragonata all'arca di Noè in cui lui e i suoi si sono salvati. Evidentemente fuori dalla barca non c'è più salvezza. Così si è andato sviluppando il famoso assioma Extra Ecclesiam nulla salus (al di fuori della Chiesa non c'è salvezza). La missione evangelizzatrice della Chiesa, in tale paradigma, consiste nel battezzare,. nel "fare entrare". Un modello così non apre agli orizzonti più ampi di cui stiamo parlando oggi.

Un altro modello molto più recente è quello della missione come implantatio Ecclesiae. Secondo questo modello, la Chiesa ha i mezzi di salvezza e deve dunque essere a disposizione di tutti gli uomini di buona volontà, dappertutto ne mondo. Rimane ancora una prospettiva abbastanza ristretta, infatti la Chiesa viene identificata con il Regno di Dio: per essere salvati, cioè per essere membri del Regno di Dio, occorre diventare membri della Chiesa. La Chiesa, dunque, annuncia Gesù Cristo annuncia se stessa e la preoccupazione principale è la crescita delle comunità cristiane. Quando i vescovi venivano a Roma a rendere conto a Propaganda fide la domanda che veniva fatta loro era: "Quanti battesimi dall'altra volta?". Di nuovo la prospettiva riguardo alla missione evangelizzatrice non andava veramente al di là dell'annuncio. Opere caritative e così via non venivano considerate come evangelizzazione. Si parlava invece di pre-evangelizzazione, distinta dall'evangelizzazione propria, ossia l'annuncio. Se Regno di Dio e Chiesa sono distinti, diventa chiaro come il Regno di Dio è una realtà universale, è la presenza nel mondo, a disposizione di tutti gli uomini di buona volontà, della salvezza in Gesù Cristo, al cui servizio Gesù Cristo ha messo la sua Chiesa: la prospettiva diventa allora più ampia. L'evangelizzazione include non soltanto l'annuncio esplicito di Gesù Cristo, ma fa riferimento anche ad altre attività ecclesiali come l'impegno per la liberazione umana e il dialogo interreligioso.

Una volta che si guarda in questa direzione, ci sono conseguenze riguardo alla missione evangelizzatrice della Chiesa ancora da approfondire. Ci vuole, in altre parole, una Chiesa decentrata da se stessa per essere centrata sul suo Signore, sul regno di Dio instaurato in Gesù Cristo.


(da Mondo e Missione, febbraio 2005)

Sant’Andrea
e la Chiesa del Terzo millennio
di Vladimir Zelinskij

 


Cosa resta della suddivisione del mondo in campi d’azione che fu fatta alle origini della missione cristiana, quando gli apostoli vennero mandati
ad gentes? Invece di conservarli e di tradurli in gelose contrapposizioni, il cristianesimo del Terzo millennio deve spalancarsi al nuovo mondo, in un rinnovato slancio missionario che della Tradizione conservi solo l’essenziale, e l’unità.

Immaginiamo per un minuto un mosaico, uno di quegli antichi mosaici conservatisi solo a frammenti che rivestivano le cupole o le pareti delle antiche chiese bizantine. Supponiamo che un ignoto maestro, in una certa cattedrale, abbia deciso di dispiegare davanti a noi l’intera storia dell’Incarnazione del Verbo di Dio, trasmettendo attraverso le pietruzze il racconto degli evangelisti. Entrati nella cattedrale ci troviamo di fronte a una raffigurazione in cui ogni tessera musiva rappresenta un rigo di Vangelo. Alzando gli occhi vediamo prima di tutto l’immagine di Cristo al centro, dominante sugli altri, circondato dai dodici apostoli. Vi sono degli apostoli la cui figura è tracciata, o meglio scolpita dai versetti evangelici in modo più ricco e pieno, come Pietro e Giovanni. E tuttavia, di molte raffigurazioni è rimasto soltanto il nome, l’orma di una persona vivente che ha attraversato a suo tempo la storia, tutto il resto - agiografia, martirio, glorificazione – si è composto in un’immagine organica solo più tardi, nella Tradizione.

Fra questi apostoli - che diremmo "di prima grandezza" - e tutti gli altri, Andrea si pone per così dire a mezza via, la sua immagine è costituita soltanto di poche "tessere" evangeliche. Noi possiamo tentare di ricostruire la figura intera dell’apostolo, non come fu in vita (operazione quasi impossibile), ma quale ci è stato tramandato in qualità di "messaggero", come la bocca che ha pronunciato quel particolare annuncio che ci è stato inviato proprio attraverso di lui. Infatti tutto ciò che sapremo in seguito di Andrea dai racconti agiografici, - i suoi pellegrinaggi apostolici verso le coste del Mar Nero, "nella terra di Frigia" e "nella Propontide" come dice san Dimitrij di Rostov, la benedizione del luogo dove sarebbe sorta Kiev, quindi il martirio a Patrasso – non è che la continuazione e lo sviluppo di quell’annuncio. Leggendo attentamente questi passi, cerchiamo di comporli come pietruzze per ricostruire le parti mancanti del nostro mosaico. Cominciamo dal primo capitolo del Vangelo di Giovanni.

"Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)" e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" (Gv 1, 40-42).

Abbiamo trovato il Messia

In un primo momento Andrea, che faceva ancora il pescatore in Galilea, era stato discepolo di Giovanni il Battista. Da lui il futuro apostolo avrebbe sentito per la prima volta le parole che in bocca a Cristo sarebbero diventate la Buona Novella: "Il regno dei cieli è vicino". Ma cosa significava questo regno nelle parole di Giovanni? Quando Giovanni predicava, sembrava che il regno, pur restando invisibile, si ergesse minaccioso e fiammeggiante davanti agli uditori, pronto a concedere grazia e ad accogliere nella "sua ammirabile luce", ma anche a giudicare con ira, ira che sembrava levarsi come un’onda oscura alle spalle del profeta, pronta ad abbattersi. "Razza di vipere!" esclama Giovanni rivolgendosi a farisei e sadducei che sono venuti da lui per farsi battezzare, "Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? Fate dunque frutti di conversione" (Mt 3, 7).

La predicazione del più grande dei profeti "nati da donna", Giovanni il Battista, annuncia l’imminente regno messianico e il giudizio, il quale, secondo le parole di san Pietro, deve iniziare "dalla casa di Dio" (1 Pt 4, 17). "Il regno è vicino…" e Andrea ha saputo ascoltare. È lui cronologicamente il primo testimone del passaggio più importante o, per usare una terminologia eucaristica, della "frazione" della fede esigente dei profeti nella fede degli apostoli, una fede che parla del realizzarsi di ogni promessa nella venuta di Gesù di Nazaret. In quel "mormorio di un vento leggero" (1 Re 19, 12) con cui Gesù si è manifestato al mondo, egli riconoscerà il regno messianico e l’Unto stesso, atteso da tanti secoli. Prima ancora di Pietro, Andrea dà una definizione della fede apostolica. "Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo". Questa formula assumerà la sua compiutezza teologica in Pietro: "Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivente". La confessione di Pietro è più ardita, più ampia, la confessione di Andrea vale per sé e per il fratello, infatti dice "abbiamo". In questa comune confessione di Andrea e Pietro risuona la voce del regno "che viene", della legge e dei profeti che si compiono nel Messia.

Tuttavia Gesù, nell’atto di assumere il nome di Cristo, sa che questo nome diventerà una confessione piena soltanto dopo la Croce. "Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo" (Mt 16, 20). È necessario che egli compia l’altra parte della profezia: diventare il servo sofferente, l’Agnello offerto in olocausto, "soffrire molto". Tutto questo Andrea, Pietro e gli altri discepoli ancora non lo potevano accettare. Pur confessando la fede apostolica nel Messia che viene, essi rimangono per ora solo suoi discepoli. Sarà Gesù stesso che farà di loro degli apostoli nel vero senso della parola.

"Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini"" (Mt 4, 18-19).

Pescatori di uomini

Le parole di Gesù si realizzano immediatamente: Andrea si affretta a fare ciò cui è chiamato. Essendo "pescatore", egli "pesca" Pietro, poi Filippo; Filippo, a sua volta, diventa "pescatore" di Natanaele. Le "reti degli apostoli" ancor oggi sono il simbolo della missione, il dono dell’annuncio. Ma qual è il segreto di questa "pesca di uomini"? Da dove viene agli apostoli il potere sulle anime umane?

Torniamo ancora a considerare la chiamata di Andrea. Essa inizia con la frequentazione del Signore. Giovanni il Battista, "fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: "Ecco l’agnello di Dio!". E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: "Che cercate?". Gli risposero: "Rabbì, dove abiti?". Disse loro: "Venite e vedrete". Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui" (Gv 1, 35-39). Riflettendo su questo incontro, sant’Agostino dice: "Uno dei due era Andrea. Andrea era fratello di Pietro, e dal Vangelo sappiamo che Cristo invitò Pietro e Andrea a lasciare la loro barca dicendo: "Vi farò pescatori di uomini". Cristo mostrò loro dove viveva, ed essi andarono e restarono con Lui. Che giornata meravigliosa devono aver trascorso! Chi potrà dirci cosa avranno sentito dal Signore? Edifichiamo anche noi nel nostro cuore una casa in cui il Signore possa venire e ammaestrarci, e possa rimanere per conversare con noi" (Omelia 9).

"Essendo restato con Gesù, e avendo imparato tutto ciò che Gesù gli insegnava", dice san Giovanni Crisostomo, "Andrea non nascose in sé questo tesoro, ma si affrettò dal fratello per comunicargli il tesoro che aveva ricevuto". Ascolta bene ciò che disse: "Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo" (Gv 1, 41)… Le parole di Andrea erano le parole di un uomo che attendeva con impazienza la venuta del Messia, la sua discesa dai cieli; di un uomo che fu tutto pervaso dalla gioia quando vide la Sua venuta, così che si affrettò a comunicarla agli altri" (Omelia 19 sul Vangelo di Giovanni) (1).

Anche dalle poche menzioni ad Andrea che si trovano nella patristica possiamo tracciare la struttura interiore del suo apostolato: l’attesa del Signore e del Suo regno assieme al profeta, l’incontro col Signore faccia a faccia, la gioia della rivelazione, la fermezza della confessione, quindi la predicazione dell’annuncio che aveva ascoltato e accolto col cuore, a coloro che ne avevano bisogno, a chi cercava di ascoltarlo. "La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo", dice san Paolo (Rm 10, 17). Al seguito di Cristo l’apostolo "aprì la mente all’intelligenza delle Scritture" (cfr. Lc 24, 45), e tuttavia queste Scritture non sono semplicemente annotate "con l’inchiostro e lo stilo" sulla pergamena o la carta, ma sono incise con la voce di Cristo "sulle tavole di carne dei vostri cuori" (2 Cor 3, 3). Il dono di diventare apostolo consiste nell’"ascoltare le Scritture" e predicarle al cuore dell’uomo dall’interno, nel far sì che questi abbia intelligenza di sé fino in fondo, fino all’ultima profondità accessibile nella Parola di Dio, poiché solo in Cristo possiamo conoscere e vedere noi stessi fino in fondo. L’apostolo non avrebbe potuto catturare nessuno nelle reti di Cristo, se Cristo stesso, non riconosciuto come il seme nella parabola del seminatore, non fosse stato "gettato" in ogni uomo.

Come avvenga questa "pesca" apostolica lo vediamo dalla storia di Natanaele. Filippo, che "era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro" (Gv 1, 44), porta da Cristo Natanaele, il quale è convinto a priori che da Nazaret non possa venire niente di buono. Ma Cristo gli dice delle parole che lo trapassano per la sorprendente conoscenza che dimostrano. "Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico" (Gv 1, 48). E Natanaele non si limita a ricordare qualcosa, ma soprattutto riconosce se stesso sotto lo sguardo del Dio vivo, in quell’episodio del passato "sotto il fico" che era noto solo a lui e a Dio. Così avviene il miracolo dell’incontro; riconoscendo il Signore, l’uomo riconosce di nuovo anche se stesso. "Sarebbero manifestati i segreti del suo cuore", dice san Paolo, "e così, prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio è fra voi" (1 Cor 14, 25).

Il "pescatore di uomini" conduce l’uomo ai segreti del suo cuore, al sacramento della conoscenza del Dio vivo, ma lui stesso non accede a questi segreti, e non partecipa all’incontro. È come se Andrea si tirasse da parte, come se si allontanasse; si limita a "condurre" qualcuno, a "dire" a qualcuno, a presentare, a far conoscere, a mostrare la via, lui che durante la vita terrena di Cristo si è semplicemente trovato al Suo fianco. Così, avendo visto un giorno una grande folla raccolta per ascoltarlo, e vedendo che la gente aveva fame, Gesù dice all’apostolo Filippo: ""Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?" Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare… Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: "C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?"" (Gv 6, 5,8).

La moltiplicazione dei pani, l’incontro con gli elleni

Altri due importanti passi evangelici sono legati alla partecipazione e alla mediazione di Andrea, e tutti e due toccano l’essenza stessa del suo servizio apostolico. Sto parlando della moltiplicazione dei pani e della prima comparsa dei gentili nel contesto evangelico, di quei greci che erano venuti per la festa a Gerusalemme e avevano voluto vedere Gesù. In entrambi gli episodi il ruolo di Andrea è oltremodo modesto, quasi impercettibile; in uno di essi egli parla all’apostolo più anziano del cibo di cui è in possesso un ragazzo; nell’altro, assieme a Filippo annuncia a Gesù l’arrivo degli elleni. Tuttavia, se leggiamo la Bibbia come la leggevano un tempo i Padri, anche in questi due passi possiamo cogliere l’allegoria di cui è carica ogni frase della Scrittura. La moltiplicazione dei pani contiene in sé la visione profetica del pane "sceso dal cielo", come si definisce Cristo stesso, è la chiara prefigurazione dell’Eucaristia. Gesù sazia con cinque pani e due pesci un’enorme folla di popolo; dopo la Sua resurrezione sazierà col proprio corpo generazioni e generazioni di cristiani. "Tu infatti o Cristo Dio nostro sei colui che offre e colui che viene offerto; colui che riceve e colui che viene distribuito", si dice in una preghiera sacerdotale della liturgia ortodossa. Una delle vocazioni apostoliche consiste appunto nell’adempiere questa profezia: compiere il sacramento della moltiplicazione dei pani, quando ormai Cristo non è più tra noi nella carne, "creare nella memoria di Cristo", nel pane eucaristico che diventa il Suo corpo e la Sua Chiesa, mettendosi però in disparte nel far questo. Essere la parola di Gesù, il gesto di Gesù, l’annuncio di Gesù, il miracolo compiuto dalle Sue mani, infine la Sua stessa presenza sacramentale, senza mai coprire neppure un lembo di questa presenza con se stessi.

La moltiplicazione eucaristica dei pani, accanto all’annuncio del Verbo, è lo scopo e il significato interiore dell’apostolato, che è volto innanzitutto a "moltiplicare" Cristo stesso, il Suo nome, la Sua vita, la Sua opera di salvezza. Questa moltiplicazione è già iniziata durante la vita del Salvatore, quando ha preso a diffondersi rapidamente sulla terra l’annuncio che le profezie si sono avverate, che il Messia è venuto sulla terra, che il Verbo di Dio parla agli uomini per bocca di Gesù. I greci giunti per la festa a Gerusalemme alla vigilia della Pasqua "si avvicinarono a Filippo… e gli chiesero: "Signore, vogliamo vedere Gesù". Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose: "È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo"" (Gv 12, 22-23).

Gesù sa che il suo cammino terreno ormai volge al termine. Inviato dal Padre celeste solo alle "pecore perdute della casa d’Israele" (Mt 15, 24), il Messia di cui parlavano la Legge e i profeti, va verso la crocifissione, per poi "essere glorificato" come Signore di tutti i popoli. L’incontro con gli stranieri anticipa la Sua glorificazione, che sarà opera dello Spirito Santo e degli apostoli. Questi dovranno diventare testimoni della nuova era, lavoratori e portatori dell’annuncio pasquale. Questo annuncio è destinato a tutti i popoli. La confessione di Andrea e Pietro parlerà per bocca dei loro lontani e ignoti discendenti. Il nome di Cristo sarà udito fino agli estremi confini della terra.

"Per tutta la terra è corsa la loro voce, e fino ai confini del mondo le loro parole" (Rm 10, 18), ricorderà san Paolo il Salmo 18.

Il territorio di Andrea

Di qui inizia la divisione del mondo in confini, che poi diventeranno i territori apostolici.

"I confini della terra", leggiamo nella Storia della Chiesa russa di Anton Kartas'ov, "sono soltanto il compito massimo, lo scopo, la direzione. Da Gerusalemme sono tracciati idealmente dei raggi, e i settori compresi fra di essi rappresentavano i territori della missione apostolica, che per le loro dimensioni universali superavano le possibilità fisiche e la durata stessa della vita di un uomo. Gli apostoli, recandosi a predicare nella direzione assegnata a ciascuno… venivano mandati dallo Spirito Santo… esattamente in quei determinati paesi, quindi essi in linea di principio, sul piano spirituale (e su quello concreto, nella persona dei loro continuatori e successori) diventavano gli apostoli di quei determinati paesi e dei popoli che li abitavano; erano i loro protettori celesti nella storia, per sempre". (2)

Sicuramente dopo la Storia della Chiesa russa scritta da E. Golubinskij, la versione per cui l’apostolo Andrea sarebbe approdato nella regione del fiume Dniepr e avrebbe benedetto il luogo dove, a distanza di cinque secoli, doveva sorgere la città di Kiev, non è più considerata come un fatto reale, scientificamente dimostrabile, e tuttavia la realtà spirituale di questa tradizione rimane valida e viva ancor oggi. Per altro, il senso di una tradizione può cambiare col tempo, obbedendo a quello che "lo Spirito suggerisce alle Chiese", come dice l’Apocalisse. Per noi oggi non è tanto importante il fatto della diretta discendenza apostolica del cristianesimo nella Rus’, di cui tanto andavano fieri i nostri antenati, ma piuttosto il fatto di concepire la Chiesa russa come parte del territorio della Gerusalemme storica e celeste. In sostanza, i confini a cui gli apostoli sono stati inviati dallo Spirito Santo, e dove magari essi non sono mai giunti fisicamente, sono diventati nuove province del regno di Dio, che "viene" nella penitenza predicata dal Battista, nella fede messianica abbracciata da Andrea, nella confessione di Pietro divenuto roccia della Chiesa, nelle visioni di Giovanni che ha dischiuso i misteri del regno di Cristo. Difficilmente qualcuno di noi potrebbe affermare che un territorio apostolico, il nostro o uno altrui, si è mantenuto perfettamente fedele a questo regno, tuttavia la nostra infedeltà non rende la vicinanza del regno più lontana, la rende solo umanamente più difficile. Poiché, come dice Gesù, "Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono" (Mt 11, 12).

Questo "impadronirsi" del regno di Dio, che come compito interiore è affidato al singolo cristiano e a tutta la Chiesa, porta in sé una memoria storica e al tempo stesso escatologica. Il regno di Dio è venuto nel Cristo storico, crocifisso sotto Ponzio Pilato, che ha inviato i "pescatori di uomini" perché lo portassero in tutta la terra, ma questo regno deve ancora venire nel "regno del secolo futuro", nel "Figlio dell’uomo che viene sopra le nubi del cielo" (Mt 24, 30). E tuttavia i due regni non sono divisi come sono divise le nostre Chiese; il territorio terreno del Salvatore non è diviso da quello celeste e non si contrappone ad esso, sono le due realtà dell’unico regno, del quale "ci si impadronisce" per gli sforzi apostolici, cui spetta il compito di aprire la strada a questo regno nella storia, di legare le due realtà, quella passata e quella futura in una sola, che diventerà un presente indescrivibile, la vita in Dio. Agli apostoli (e quindi ai loro successori) è dato lo spazio, "i confini della terra" cui sono stati mandati, ma è dato anche l’intero tempo storico, l’intero cammino da un regno all’altro da percorrere. E non soltanto percorrere, ma portarvi tutta il proprio territorio terreno, per inserirlo nel futuro regno di Cristo, che non avrà mai fine.

Perciò, se la Chiesa russa rimane "territorio mistico" dell’apostolo Andrea, anche l’intero cammino storico di questa Chiesa, dalla leggendaria benedizione del I secolo fino all’ingresso nel regno del secolo futuro, si può considerare tempo del suo apostolato, iniziato già in Galilea, poi dopo la Pentecoste nella Gerusalemme storica, e ritornato infine alla Gerusalemme celeste. E in questa nuova Gerusalemme si incontreranno alla fine, e si uniranno tutti i territori apostolici con tutte le loro Chiese. Così, dopo l’Ascensione, si incontrarono a Gerusalemme i discepoli di Cristo; "salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota e Giuda di Giacomo" (At 1, 13).

Questo piano superiore si è spalancato "fino agli estremi confini della terra" (At 1, 8).

Il Terzo millennio

Dov’è oggi questo piano superiore abitato dagli apostoli? Dove sarà domani? Certe volte guardiamo con tanto amore, quasi con passione, il nostro passato, la nostra tradizione e la preziosa eredità dei secoli trascorsi, che stacchiamo gli occhi dal futuro. Ma il futuro non lascia che ci dimentichiamo di lui. Viene, com’è venuto un tempo Giovanni il Battista, e parla di giudizio, di penitenza, dell’ira divina, del regno che si avvicina. Il giudizio si può manifestare nelle persecuzioni, com’è accaduto nel XX secolo alla Chiesa russa, o nell’asfissia spirituale, morale, culturale del cristianesimo che incombe inesorabilmente su di noi. Ciò che chiamiamo oggi "globalizzazione", se ne consideriamo l’aspetto più profondo, quasi intimo, è opera di una nuova razza umana, una razza che "non ha orecchi per sentire", come dice il Vangelo, che ha perso l’udito per la Parola di Dio, che perde la vista interiore e non ne vede il Volto.

Grazie ai mezzi per scambiarsi le informazioni, la terra fino ai suoi confini più estremi ci sta in pugno, come dice un proverbio inglese, il mondo è diventato la nostra ostrica (the world is our oyster), che possiamo mangiare come vogliamo. E tuttavia l’informazione stessa può mangiare, inghiottire o tagliare a fette noi, fare di noi il proprio schermo, un oggetto, un accumulatore. Penso che stiamo assistendo solo alle prime doglie del parto, che preannuncia la nascita di un mondo apparentemente nelle mani dell’uomo. E in questo mondo, sotto i nostri occhi si disperde, si volatilizza l’aria stessa di cui il cristianesimo respira. Le parole che erano dense di significato per noi 2000 anni fa, e in base alle quali continuiamo a comprenderci e a riconoscerci l’un l’altro - giudizio, penitenza, speranza, salvezza, preghiera, timor di Dio, rapporto col Signore - si disseccano, perdono il proprio contenuto mentale, e lentamente passano nella categoria degli oggetti da museo, venerandi, divertenti, dimenticati, praticamente inutili. Cosa sarà di tutti i territori apostolici e delle nostre Chiese storiche nell’aria rarefatta del nuovo millennio? A differenza di molti ortodossi, io non penso che non abbiamo niente da offrire alla storia futura, oltre a una rapida fine, cruenta e fiammeggiante. E se oggi viviamo in un’epoca di crisi del cristianesimo, in tempi di crescente apostasia, il cui acme non è ancora stato toccato, mi pare di cogliere al di là di questa un nuovo ritorno della Buona Novella, che non parlerà nella lingua di un mondo morto e sepolto, ma in quella del mondo che nasce sotto i nostri occhi, e gli sarà comprensibile, verrà recepita così come fu recepita due millenni fa: come il lieto annuncio della salvezza. La Buona Novella ritroverà se stessa immancabilmente anche in questa nuova esistenza che sembrerebbe così lontana dal cristianesimo, saprà ritrovare un terreno sotto i piedi, attraversare la terra "fino agli estremi confini", non in senso spaziale, infatti per la parola non c’è più spazio, ma in senso antropologico, saprà arrivare a nuovi "estremi confini" dell’uomo.

Come dev’essere la Chiesa di Cristo per percorrere il cammino che le sta davanti? Cosa deve rimanere e cosa deve rinnovarsi? Cosa, della sua eredità, è segnato col marchio incancellabile degli apostoli? Nel pormi queste domande torno col pensiero ad Andrea, il primo chiamato.

Il Vangelo di Andrea

L’immagine di Andrea nel Vangelo è resa con pochi tratti, apparentemente casuali. Ma nelle Sacre Scritture non c’è mai niente di casuale. Sono tratti precisi e lievi, tanto lievi che sembrano quasi confusi, se però li consideriamo con più attenzione creano una sorta di icona dell’apostolo, come l’immagine di una vetrata.

E quel poco che si dice di Andrea ci aiuta non solo a ricostruire la sua figura, ma anche a rileggere la Buona Novella a partire dai pochi segni che ne denunciano la presenza. Ovunque Andrea si presenta come un intermediario, come un messaggero. Porta suo fratello Simone, il quale diventerà principe degli apostoli, parla a Gesù degli elleni che Lo vogliono vedere, Gli riferisce le parole sui pesci e il pane che nutriranno una folla di uomini, e questo avviene alla vigilia della crocifissione e glorificazione di Gesù. Dietro a tutti questi segni si indovina un’allegoria: il "pescatore di uomini" li rende discepoli del Salvatore, il pane terreno diventa pane celeste, la mediazione fra Gesù e gli stranieri diventa missione, e la missione porta con sé l’annuncio pasquale. E in tutto questo vediamo l’apostolo quasi simile al suo primo maestro Giovanni, che poteva dire di sé: "Egli deve crescere e io invece diminuire" (Gv 3, 30).

Giovanni annunciava il giudizio e il regno, ma sia il giudizio che il regno vengono sempre, sono nascosti nella nostra storia terrena. Il giudizio, o crisi, può toccare tutto, anche ciò che consideriamo sacro per noi, inseparabile dalla nostra fede. Eppure, riflettendo sul destino del cristianesimo nel terzo millennio, mi piace ricordare le parole di Teilhard de Chardin: dietro a ogni crisi Cristo ritorna rinnovato. E dopo ogni crisi, in ogni epoca fino alla fine dei secoli, verrà gente nelle cui parole la presenza dell’apostolo Andrea non farà che rinnovarsi, come si rinnova un’icona:

"Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo".

Note

1) Patrologia Greca 59, 120-121.
2) A. Kartas'ov, Oc'erki po istorii Russkoj Cerkvi, Mosca 1993, v. 1, pp. 50-51.

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti



Trentunesima parte

Per comprendere meglio esaminiamo ora i seguenti brani del libro degli Atti degli Apostoli.

Atti 1, 13-14
Entrati in città salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota e Giuda di Giacomo. Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui.
Atti 2, 42-47
La prima comunità
Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli.
Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.


Atti 4, 32-35
La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande stima. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.

Atti 5,12-16
Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; degli altri, nessuno poteva associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. Intanto andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel Signore fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze , ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti.

Questo libro è notoriamente il frutto della Comunità che ha riflettuto sulla sua esperienza post-pasquale ed i brani citati ci danno l’identità della Chiesa delle origini dove appare Maria “la prima discepola”.

Questa presenza di Maria, nel libro degli Atti e nei Vangeli deve naturalmente essere meditata ed approfondita alla luce di una sana mariologia evitando luoghi comuni, stereotipi, devozionalismi.

Tutto questo per conservare una sincera fedeltà all’intuizione carismatica del P. Colin.


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