Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
Anche questo contributo,come il precedente, vuole avere un taglio spirituale e pastorale nell’affrontare quel passaggio delicato e doloroso che è la separazione. Come accostarsi alle persone che stanno soffrendo per questa ferita della loro vita matrimoniale? È possibile offrire un servizio di accompagnamento cristiano? Situazioni e stati d’animo. I passaggi interiori da affrontare. La necessità del perdono.
Dopo aver posto l'attenzione alla prevenzione e alle situazioni di crisi nel matrimonio (cf. Sett. n. 20/04 pp. 8-9), l’attenzione si porta ora a quel passaggio doloroso e delicato che è la separazione. Non si può non fare ascolto e discernimento delle domande più popolari che trovano ingiusta la severità della chiesa oppure che vorrebbero un trattamento diverso per il coniuge innocente rispetto al coniuge colpevole, oppure un Tribunale ecclesiastico più accessibile e rapido ecc. Ma ci sembrano domande che esulano dallo scopo di questo intervento. Altri forse potranno affrontare il tema da un punto di vista teologico, storico e giuridico.
Noi vogliamo cogliere invece un’altra domanda: «Stante questa situazione, con queste esplicite indicazioni della chiesa, come ci si può accostare alle persone che sono ferite nella loro vita matrimoniale e offrire un servizio di accompagnamento cristiano? Abbiamo la possibilità di offrire un aiuto valido oppure dovremo aspettare soltanto che cambino le istituzioni?». Il nostro vuol essere un taglio spirituale e pastorale.
Accostandoci con sensibilità e amore, ci accorgiamo che anche questa situazione presenta momenti e stati d’animo differenti.
Che tipo di proposte può allora fare la comunità cristiana ai coniugi «stabilmente separati», che si trovano ora in quella che la chiesa definisce «situazione matrimoniale difficile»... (difficile, non irregolare!)?
La prima cosa da fare è avere un atteggiamento di accoglienza e buon ascolto per comprendere la persona e ciò che sta vivendo. Per riuscirci è essenziale saperla accostare con delicatezza, senza farla sentire giudicata, esclusa o etichettata.
È anche utile avere la consapevolezza di quali siano i principali sentimenti e passaggi interiori spirituali che la maggior parte delle persone separate vive e la gradualità del pas-saggio dall’una all'altra fase di questo cammino. Si tratta di un’evoluzione che può anche bloccarsi in uno degli stadi iniziali o intermedi e che, per il raggiungimento delle sue fasi più avanzate, comporta spesso un cammino di accettazione della croce che richiede una particolare vicinanza a Dio e un valido aiuto e accompagnamento da parte della comunità di cui la persona fa parte.
I passaggi interiori affrontati dalle persone separate sono spesso i seguenti.
Di fronte alla rottura di un rapporto sul quale si era investito abbastanza e di un sogno che svanisce per sempre, sulla persona si abbatte il senso di fallimento, di sconfitta, più spesso forti sentimenti di rabbia e rancore profondo: è un’esperienza alla quale è molto difficile sfuggire.
È quindi importante accostarsi a chi vive questa realtà abbandonando il pregiudizio che potrebbe farcelo vedere come un «gaudente irresponsabile» a cui si dovrebbe fare la predica dicendogli: «Ci dovevi pensare prima...».
Molte persone si separano per scelta imposta dolorosamente dall’altro coniuge (che decide di andarsene o chiede di chiudere la convivenza coniugale), oppure per scoraggiamento e disperazione (cioè perché hanno perso la speranza che i loro sforzi e il loro impegno possano servire a migliorare una situazione che causa delle grandi sofferenze).
Perfino chi ha scelto la separazione con leggerezza e per motivi “frivoli” si trova poi comunque ad affrontare la divisione, le sofferenze dei figli, l’avvocato e le lotte nel tribunale: sono esperienze che segnano dentro per sempre.
Di fronte a questa situazione occorre aiutare a fare dei passaggi di liberazione, prima ancora di affrontare proposte pratiche per il futuro.
La persona si sente sola perché non è più parte di una coppia; poi perché spesso non si sente più capita e accettata dalla comunità in cui vive; a volte perfino dagli amici e dai familiari più stretti, magari anche dalla comunità cristiana di cui ha fatto parte fino a quel momento; questo è fonte di altro dolore e può portare le persone a rinchiudersi in se stesse o a cercare sostegno in esperienze e scelte “meno valide” nel tentativo di uscire il prima possibile da questo tunnel. Per gli uomini la situazione interiore può essere più grave perché nella maggioranza dei casi sono privati dei figli, i quali sono affidati generalmente dal tribunale alla madre: la solitudine pesa ancora di più.
Il vero perdono è un altro passaggio vitale che la chiesa può offrire e favorire. Perdonare non significa solo rinunciare all’odio e alla vendetta verso l’altro ma soprattutto raggiungere una “guarigione di sé” che permette di aprirsi nuovamente alta vita. Non perdonare significa restare "intrappolati” nel rancore, rischiando di portare con sé la rabbia e la sfiducia verso tutto e tutti: gli altri, se stessi, Dio, la vita. È necessario il distacco dalle forti emozioni precedenti per poter percorrere una nuova via. Restare arrabbiati e come schiacciati l’uno dall'altro non fa bene, perché ci sarà sempre un fantasma che non lascia in pace.
Allora il "lasciarsi con dignità e serenità” diventa un passaggio importante, ma che difficilmente potrà realizzarsi prima di un tempo adeguato, almeno un anno o due. Non è tanto il lasciarsi in senso fisico quello che conta: infatti, molti, anche dopo la separazione o il divorzio, restano arrabbiati e condizionati l'uno dall’altro al punto che si potrebbe dire che non si sono lasciati, ma sono ancora come perversamente uniti dall'odio e incapaci di districarsi.
Quando realisticamente non si può che prendere atto della «definitiva partenza» del coniuge, può essere utile questo passaggio che consente la sedimentazione di tutto quel polverone che si era sollevato e favorisce la capacità di ritrovare in sé e nel Signore le energie per capire e cercare la volontà di Dio nel nuovo corso di vita.
Questo non vuol dire sciogliere il matrimonio precedente per essere liberi di farne un secondo, ma scoprire dentro di sé possibilità nuove di vita. Nuove non nel senso di «seconda volta» o ripetizione della stessa esperienza. Nuove nel senso biblico, cioè con un animo nuovo, con una forza e grazia nuova: «Non ricordate più le cose passate. Ecco, faccio una cosa nuova; proprio ora, non ve ne accorgete?» (Is 43,18).
Forse proprio la sconfitta di certe capacità e sicurezze accettata ormai serenamente apre a una fiducia nuova che viene da Dio: «Deponete l’uomo vecchio con la condotta di prima. Rinnovatevi nello spirito della mente e rivestite l'uomo nuovo, creato secondo Dio...» (Ef 4,22). La storia di molti santi, di tante umili, nascoste o famose personalità, spesso (o quasi sempre) inizia da un fallimento. Il fallimento, preso per il verso giusto, può segnare l'inizio di qualcosa perfino migliore.
Se, invece, la scelta finale fosse quella di passare ad una nuova unione, la chiesa non potrà convalidarla e approvarla, ma non per questo chiuderà in faccia i tesori che le sono offerti dal suo Salvatore; cercherà in ogni caso di offrire un accompagnamento spirituale a quelli che resteranno comunque e sempre suoi membri e suoi “figli”.
Dal “Direttorio di pastorale familiare” possiamo trarre qualche cenno del pensiero ufficiale della chiesa:
comporta;
Il cammino di accompagnamento necessariamente si estende (lo vedremo in un prossimo articolo) a quanti si trovano nella situazione che la chiesa qualifica come "irregolare”. Dovremo anche qui domandarci: fermi restando i capisaldi della morale cattolica, quali cammini e proposte sono possibili?
Settimana 26, 2005
Comunità di Caresto
di John Nellykullen
Le origini della Cristianità in Serbia sono oscure. Si sa che i missionari Latini furono attivi nel secolo VII lungo la costa dalmata e che durante il secolo IX vi erano missionari greci attivi in Serbia, mandati dall’imperatore Basilio I il macedone. Fu così che il popolo serbo divenne interamente cristiano.
Fu in parte per la sua posizione geografica che la Chiesa serba oscillò per un po’ di tempo tra Roma e Costantinopoli, ma finì per gravitare verso i bizantini Nel 1219 San Sava fu consacrato prima Arcivescovo dell’Autonoma Chiesa Ortodossa Serba dal patriarca di Costantinopoli, allora residente a Nicea durante l’occupazione latina della sua città.
Il regno serbo raggiunse il suo apogeo durante il regno di Stefan Dushan, il quale estese il potere serbo all’Albania, Tessaglia, Epiro e Macedonia. Dushan fu incoronato imperatore dei Serbi e stabilì un Patriarcato serbo in Peč nel 1346. Questo assetto fu riconosciuto da Costantinopoli nel 1375.
I Serbi furono battuti dei Turchi nel 1389 e, in seguito, gradualmente integrati nell’Impero Ottomano. I turchi soppressero il Patriarcato serbo nel 1459 ma venne ripristinato nel 1557, venne nuovamente soppresso nel 1766 quando tutti i vescovi in Serbia furono rimpiazzati da vescovi Greci, soggetti al Patriarcato di Costantinopoli.
L’emergere di uno stato autonomo nel 1830 fu accompagnato dalla creazione di un episcopato metropolitano con base a Belgrado e dalla sostituzione dei vescovi greci con quelli serbi. Nel 1878 la Serbia guadagnò il riconoscimento internazionale di nazione indipendente e nel 1879 il Patriarcato di Costantinopoli riconobbe la chiesa serba come autocefala. Nel 1918 lo stato multinazionale di Jugoslavia era formato, e ciò favorì l’amalgama di varie giurisdizioni ortodosse con la Jugoslavia (i precedentemente autonomi, metropoliti serbi di Belgrado, Karlovci, Bosnia, Montenegro, e la diocesi di Dalmazia), in una singola chiesa ortodossa serba. Nel 1920 Costantinopoli riconobbe quest’unione e innalzò la chiesa serba a rango di patriarcato. La Chiesa Serba ebbe molto a soffrire durante la Seconda Guerra Mondiale, specialmente nelle regioni sotto il controllo dello stato fascista croato. Nel complesso, ha perso il 25% delle sue chiese e monasteri e circa 1/5 del suo clero. Nel 1945, con l’avvento del governo comunista jugoslavo la chiesa serba dovette approntare un nuovo tipo di relazioni con lo stato ufficialmente ateo. Furono confiscate molte proprietà ecclesiastiche, dalle scuole fu bandita l’educazione religiosa e vi fu un forte disaccordo sul ruolo della Serbia nella Jugoslavia multietnica. La rottura di Tito con l’unione sovietica del 1948 e il miglioramento delle relazioni con l’occidente portò a maggior tolleranza nei confronti della religione e al miglioramento della situazione per la Chiesa. Tuttavia continuarono forme sottili di persecuzione, con il governo che incoraggiava lo scisma all’interno della chiesa serba ortodossa.
Con il crollo della Jugoslavia, la Chiesa Serba si trovò maggiormente coinvolta in questioni politiche. Denunciò fortemente la politica antireligiosa dei passati regimi comunisti e nel maggio 1992 cominciò a distanziarsi dal governo di Milosevic. Ma, benché con frequenza invocasse la pace, durante la guerra in Bosnia-Erzegovina, la gerarchia ecclesiastica sostenne con vigore gli sforzi della minoranza serba in quel paese e in Croazia, per l’unione politica con la stessa Serbia. Nel 1994 i vescovi ortodossi Serbi si sono incontrati in Banja Luka, nella sezione della Bosnia in mano ai serbi. Nell’incontro essi asserirono che, poiché molti serbi si erano trovati in nuove repubbliche fuori della Serbia per i confini artificialmente imposti dai regimi totalitari per scopi amministrativi, quei confini non potevano essere accettati come definitivi. Essi rigettarono sia le sanzioni internazionali poste sulla Jugoslavia, sia le sanzioni poste dal governo jugoslavo sui serbi in Bosnia. Essi si impegnavano a rimanere con il popolo serbo sulla croce sulla quale essi sono crocifissi.
Nel 1996 i Vescovi serbi invitavano il popolo serbo ad un rinnovamento morale, ma dicevano che tale processo era impedito dal sistema educativo, ancora marxista nello spirito. Denunciavano anche il riapparire dei vecchi metodi totalitari nella società e lamentavano che l’azione della comunità internazionale in Bosnia e il Tribunale Hague penalizzavano la Serbia. Nel gennaio 1997 il Santo Sinodo Serbo condannava con parole forti gli sforzi del governo di Milosevic di annullare i risultati delle elezioni locali del novembre 1996 e ammoniva le autorità di rispettare i principi democratici. Alla fine di gennaio il Patriarca Pavle capeggiava più di 300 mila dimostranti per le strade di Belgrado a sostegno del movimento “per la democrazia”.
A metà del 1997 una assemblea di tutti i Vescovi Serbi incoraggiava i serbi esiliati dalla Croazia e dalla Bosnia a ritornare a casa e chiedevano che i governi di quei paesi garantissero la loro incolumità. Invitavano inoltre il governo jugoslavo a discutere la restituzione delle proprietà ecclesiastiche prese dopo il 1945 e a reintrodurre l’insegnamento del catechismo nelle scuole pubbliche. Sulla questione dell’ecumenismo i Vescovi affermavano che le loro Chiese erano come sempre aperta al dialogo e facevano quanto possibile per promuovere la riconciliazione e l’unità tra cristiani. Richiedevano una consultazione pan-ortodossa sul movimento ecumenico e una partecipazione ortodossa al Consiglio Mondiale delle Chiese. L’assemblea si riuniva nel novembre 1997 per parlare della riorganizzazione del sistema educativo della Chiesa. I vescovi ripetevano la richiesta dell’introduzione dell’educazione religiosa nelle scuole pubbliche e della promozione dei valori etici cristiani tra il popolo.
La più alta autorità il nella Chiesa Serba è la Santa Assemblea dei Vescovi composta da tutti i Vescovi diocesani. S’incontrano una volta all’anno, a maggio. Il Santo Sinodo dei Vescovi, formato dal Patriarca e da quattro Vescovi, governa la Chiesa nella quotidianità. C’è un Istituto Teologico in Belgrado (fondato nel 1921), quattro seminari ed una scuola di preparazione per monaci. Quindici pubblicazioni religiose sono sponsorizzate dal Patriarcato e da altre diocesi.
Diocesi per Ortodossi Serbi sono stati creati nel Nord-America, nell’Europa Occidentale e in Australia. La comunità in diaspora ha sperimentato una spaccatura nel 1963 nelle relazioni tra il Patriarcato Serbo e il governo comunista jugoslavo. Coloro che pensavano che la relazione implicava interferenze inaccettabili negli affari della chiesa hanno formato la Chiesa Serba Ortodossa libera, più tardi conosciuta come Nuova Metropolia Gracamica, che ha rotto ogni legame canonico con Belgrado. È solo nel 1991 che è avvenuta una riconciliazione tra i due gruppi sotto il Patriarca Pavle, sebbene per un po’ di tempo ambedue le strutture ecclesiastiche hanno continuato ad esistere parallelamente. I due gruppi hanno adottato una costituzione comune nel 1998, preparando la strada alla futura unità amministrativa.
La nuova giurisdizione gracramica era guidata dal Metropolita Ireney sino a che il Santo Sinodo Serbo ha nominato, essendo Ireney malato, il Vescovo Longin di Dalmazia come amministratore nel maggio 1998. Negli USA guida la gerarchia delle tre diocesi che sono rimaste legate al patriarcato serbo il metropolita Christofer. La diocesi del Canada è sotto le cure pastorali delle vescovo Georgije. Nel complesso ci sono 73 parrocchie o missioni negli USA e 20 in Canada. Ancora, il Vescovo Luka presiede 17 parrocchie in Australia e nuova Zelanda. In Gran Bretagna vi sono 22 comunità ortodosse serbe sotto la giurisdizione delle Vescovo Dositej di Bretagna e Scandinavia, il quale risiede in Svezia.
Territorio: Serbia-Montenegro, Europa occidentale, Nord-America, Australia.
Guida: Patriarca Pavle I (nato 1914, eletto 1990).
Titolo: Arcivescovo di Peč, Metropolita di Belgrado e Karlovči, Patriarca di Serbi.
Residenza: Belgrado, Serbia
Membri: 8.000.000
Sito web: http://www.spc.org.yu
Il testo attuale presenta l'origine della monarchia in Israele come direttamente derivata dall'iniziativa di Dio che ha visto l'afflizione di Israele e ha udito il loro grido.
L'ambito della sessualità rinvia a quanto di più profondo, misterioso e vulnerabile vi è nell'essere umano. Coinvolge anche quanto vi sia di più vitale: l'amore. E' arte difficile, quella dell'amore, e da apprendere con sapienza. Ordinare il desiderio, assumere il proprio corpo sessuato, sono compiti essenziali per entrare nella gioia della relazione e uscire dalla tristezza della cosificazione.
Composti di fango e spirito, siamo un fascio di stupefacenti sentimenti. Che però teniamo in ghiacciaia, per paura di essere noi stessi. Se solo li sapessimo liberare…
di Marilia Albanese
DOMANDA:
Come gli indù vedono gli altri e le loro religioni?
Nell’antichità come barbari. Ma è la storia del mondo: facevano tutti così. Oggi vedono lo stato di ciascuno, religione compresa, come frutto del suo cammino spirituale. L’acqua è sempre acqua, anche se ha nomi diversi, e tutte le religioni sono mezzi per elevarsi. Sul tetto si sale con la pertica, la scala o arrampicandosi... è il fine che conta. Concettualmente, l’indù ha grande rispetto e accettazione di quel che gli altri sono. Sottolineo concettualmente, perché in pratica, soprattutto negli ultimi tempi questo atteggiamento è stato dimenticato anche in India dove, proprio per il sistema indu che abbiamo detto inclusivo, la guerra di religione non ha alcun senso. Ahimé, non aveva senso: le cose purtroppo sono cambiate.
L’UOMO: ARBITRO DEL PROPRIO PENSIERO
L’induismo è un mondo complesso e affascinante che risale al III millennio a.C. e al cui centro è l’uomo: che siano volte al bene o al male, le sue azioni influiscono sulla sua esistenza presente o nelle sue vite successive. Una catena di reincarnazioni di cui l’uomo percepisce la costrizione e che cerca di interrompere purificando i suoi atti.
Può riuscirci percorrendo le vie spirituali del rito, della devozione e della conoscenza. Così ogni azione della giornata diventa una liturgia, un’offerta: ad agire non è più l’uomo ma la volontà divina che attraverso la purificazione ne abita l’anima.
È un cammino di progressiva spoliazione, che porta a scoprire che niente ci appartiene, quindi alla disperazione... Ma proprio a questo punto avviene il miracolo dell’illuminazione, per cui l’anima si apre al mistero dell’infinito e della felicità eterna.
Mentre anela a questa liberazione, l’uomo vive un’esistenza scandita da regole ben precise, come l’appartenenza a una determinata casta: di essa è responsabile, avendola acquisita per nascita come diretta conseguenza delle vite passate. Regole che la società indiana si è data e che l’hanno strutturata e consolidata: solo seguendole, interiorizzandole e rispettando il proprio ruolo l’uomo può venirne trasformato e salvarsi. Questo spiega perché in India le disuguaglianze sociali non abbiano portato rivoluzioni cruente.
Ma l’India è anche un universo composito, con almeno 16 lingue nazionali, centinaia di lingue locali, migliaia di dialetti, razze diverse; ha visto nascere e diffondersi le più grandi religioni della terra; è un’enorme democrazia che non ha conosciuto golpe o dittature militari. La sua storia è quella del difficile obiettivo di unire nella diversità. Il primo incontro con l’islam (XII-XIII sec.) fu tragico: le incomprensioni portarono a grandi massacri. Poi i musulmani concessero agli indù (come a ebrei e cristiani) di esercitare la propria fede pagando una tassa di capitazione.
Nei secoli successivi, sotto imperatori musulmani illuminati, ormai indiani di sangue, l’incontro tra le due culture, pur senza esiti di sincretismo religioso, diede vita a uno dei periodi più splendidi della storia dell’India dal punto di vista artistico-letterario e di fioritura della civiltà.
Pur in declino dalla metà del XVII secolo, la presenza musulmana ha però imposto all’India la grande e terribile scissione dalla quale sono nati Pakistan e Bangladesh. Ancora una volta un confronto forte tra le due religioni che ha lasciato solchi di incomprensione e dolori, ma che ben poco ha di religioso ed è stato fomentato e scatenato per ragioni politiche e interessi commerciali. Perché in effetti indù e musulmani vivono fianco a fianco e partecipano addirittura a cerimonie composite.
Diverso da quello musulmano, ma altrettanto determinante sulla realtà indiana, fu l’avvento degli inglesi nel XVII secolo. Il loro intento di costituire quadri locali utili nell’apparato governativo, produsse una categoria di indiani anglicizzati che, avendo studiato in Inghilterra, avevano conosciuto il pensiero occidentale e, tornati in India, l’avevano rielaborato in una versione assolutamente personale, dedicandosi al recupero della dignità indiana, dell’autonomia e dell’indipendenza.
Gandhi è l’esponente più famoso fra questi personaggi di grande rilievo; pensatori e mistici che, oltre le vicende politiche, hanno avuto la capacità di rileggersi, rivisitare e riproporre la propria cultura in termini estremamente interessanti. Questo probabilmente è il segreto della vitalità di una visione religiosa che ha ormai più di 4 mila anni di storia.
* Docente di lingua e cultura indiana, grande esperta dell’India e sue religioni, attualmente dirige l’Is.I.A.O. (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) presso l’Università degli studi di Milano. Presidente della Yani (Yoga associazione nazionale insegnanti) è autrice di articoli, saggi e libri.
di Sushama Swarup Sahai *
In passato l’India era il paese misterioso dei fachiri, giungla, fiumi sacri... Oggi è uno dei mercati più dinamici del mondo, in progressiva espansione, dove la globalizzazione convive con le antiche tradizioni. In questo contesto come possiamo ragionare sull’induismo in relazione alla pace?
Intanto, cosa intendiamo con religione? Penso che abitudini, idee e valori tramandati da una generazione all’altra, o meglio il «patrimonio sociale» di una cultura, possono essere definiti come «sua religione». Gli uomini inventano e trasmettono la propria religione, con folclore, miti, leggende...
Una volta, mi fu chiesto, essendo io indù, come vedevo il cristianesimo. Fino a quel momento sapevo d’essere indù, ma non sapevo cosa questo significasse. Pensandoci credo che l’essenza dell’induismo sia proprio il suo inglobare una somma di valori comuni e tradizioni, che costituiscono la cultura indù, che include anche l’aspetto religioso.
L’induismo costituisce una complessa e continua totalità che si esprime negli aspetti sociali, economici, letterari e artistici. Perciò la religione è solo una parte dell’essere indù.
La mia relazione con l’induismo è cominciata il giorno in cui sono nata; in una famiglia dove si praticavano i riti e si celebravano le feste indù: cerimonie che consacrano la mente e il corpo della persona e la preparano per la comunità.
Non sono stata costretta a niente in nome della religione. Ho potuto crescere libera e tollerante nei confronti di tutti. Ogni giorno incontro, frequento e mangio con persone di caste e religioni diverse. Soprattutto mi è stata data l’opportunità di cogliere gli insegnamenti migliori di tutte le religioni.
Tolleranza e non-violenza sono i principi che guidano le mie azioni.
Mi è stato insegnato ad agire senza pensare ai risultati. Ciò enfatizza l’introspezione personale per esaminare la propria condotta. Devo sempre fare del mio meglio. La competizione è una buona cosa, ma deve essere con me stessa, non con gli altri. Sto bene con me stessa se riesco a migliorarmi.
Nell’induismo quel che è importante è la persona, non la razza o la religione. Non posso provare l’esistenza e attribuire qualità al mio Dio come non posso screditare o criticare il Dio degli altri. La religione mi deve dare la capacità di pensare liberamente secondo la mia natura.
A mio parere, la colpa delle guerre e ingiustizie nel mondo non è della troppa, poca o mal compresa religione, ma della globalizzazione, che sta cambiando la società troppo in fretta. Nelle scuole ci sono bambini di diverse culture che cominciano a vivere insieme: fanno amicizie, conoscono altre tradizioni, mangiano cibi diversi e così si arricchiscono culturalmente. In futuro diventeranno tolleranti alle altre religioni senza accorgersene. Ma ci vuole un tempo di assestamento.
Credo che comprensione e cooperazione siano molto importanti per essere felici in qualsiasi società. Facciamo un modesto sforzo per migliorarla recitando una preghiera per l’umanità tratta dalle Upanishad (vi secolo a.C.): «Noi siamo uccelli dello stesso nido, possiamo avere una pelle diversa, possiamo parlare lingue diverse, possiamo credere in una religione diversa, possiamo appartenere a culture diverse, ma dividiamo la stessa casa, la nostra terra. Nati sullo stesso pianeta, sovrastati dallo stesso cielo, guardando le stesse stelle, respirando la stessa aria, dobbiamo imparare a progredire insieme con gioia, o periremo insieme con dolore, perché l’uomo può vivere da solo, ma sopravviverà come umanità, soltanto se unito agli altri».
* Psicologa indiana, in Italia dal 1970, ha collaborato con diverse istituzioni accademiche milanesi (Bocconi, Università degli studi). Indian cultural ambassador, collaboratrice di Microcosmo, insegna lingua hindi e collabora con l’Is.I.A.O ed è presidente dell’associazione Magnifica India.
(da Missioni Consolata, Gennaio 2007)
di Gerardo Cioffari, op *
Con il Concilio è terminata la contrapposizione con le “Chiese sorelle d’Oriente” e si è instaurato un dialogo che ha rivelato poche dissonanze teologiche.
Da superare, invece, è l’uniatismo visto come espressione di proselitismo. Soprattutto resta la necessità dì mettere in campo. comportamenti pratici e iniziative concrete di effettiva collaborazione.
Il concilio Vaticano II segnò un grande passo avanti nei rapporti fra la Chiesa cattolica (romana) e le Chiese d’Oriente rispetto alle posizioni precedenti ispirate a integralismo nell’approccio alla verità e a una certa aria di sufficienza da entrambe le parti. In particolare, i cattolici avevano sempre inteso l”’unità” come “ritorno” dei fratelli separati all’ovile del vicario di Cristo, magari tollerando una certa autonomia disciplinare. Ora, invece, si valorizzava anche il loro patrimonio patristico, liturgico e spirituale (legittimando quindi il diverso approccio teologico alle verità di fede) e, più correttamente, si evidenziava Gesù Cristo come fondamento dell’unità ecclesiale.
Dalla polemica al dialogo
La svolta nell’atteggiamento della Chiesa cattolica, iniziata con i gesti di Giovanni XXIII, trovò la sua espressione compiuta nel decreto Unitatis redintegratio, che ha chiuso l’epoca della polemica (tendente a dimostrare la propria ragione contro l’errore dell’interlocutore) per aprire quella del dialogo sincero con tutte le Chiese orientali.
Il dialogo ha coinvolto tutte queste Chiese, sia le non-calcedonesi che le ortodosse. Sono stati istituiti contatti stabili con le Chiese “monofisite” (armena, copta o egiziana, e giacobita o siro-antiochena) e la Chiesa “nestoriana” (caldea o Chiesa apostolica d’Oriente), tutte sorte nel V secolo. I contatti con i capi di queste Chiese hanno dimostrato che la qualifica di monofisiti e nestoriani corrisponde ben poco alla realtà e che quindi i motivi reali della separazione sono molto meno solidi di quanto si pensi.
Ovviamente un posto privilegiato nel dialogo con i cattolici hanno avuto le Chiese d’Oriente di tradizione bizantino-slava, che nel loro insieme formano la Chiesa ortodossa, la quale ha camminato fianco a fianco con la Chiesa romana fino al 1054, quando è iniziata l’estraniazione. L’ortodossia comprende 15 Chiese autocefale, vale a dire Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Mosca, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia, Cipro, Grecia, Polonia, Albania, Cecoslovacchia, America (delle quali le prime 9 sono sedi patriarcali; mentre l’ultima non è riconosciuta da Costantinopoli), e 5 Chiese autonome, cioè Sinai, Estonia, Finlandia Giappone e Cina.
Il 7 dicembre 1965 Paolo VI e il patriarca Atenagora I annullavano le reciproche scomuniche del 1054. Dopo di che i gesti fraterni sono aumentati con i saluti e i reciproci inviti a venire a Roma in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo (29 giugno) e ad andare a Costantinopoli per la festa di sant’Andrea (30 novembre).
Su questa scia si è innestato il grande impegno ecumenico di Giovanni Paolo II, che a più riprese ha voluto testimoniare ai fratelli ortodossi che la teologia cattolica intende affondare le sue radici nella stessa tradizione ecclesiale primitiva e soprattutto nella stessa professione di fede niceno-costantinopolitana.
Nel 1979 il Papa e il patriarca Dimitrios creavano la Commissione mista per il dialogo teologico cattolico ortodosso. Questa si riunì a Patmos e Rodi (1980), a Monaco di Baviera nel 1982 (Il mistero della Chiesa e dell’Eucaristia alla luce del mistero della Santissima Trinità), a Creta nel 1984, a Bari nel 1986-87 (Fede, Sacramenti e Unità della Chiesa) e a Valamo (Finlandia) nel 1988, discutendo problemi concernenti il sacramento dell’ordine.
A questo punto si verificava un fatto nuovo: tra il 1985 e il 1989 era crollato il comunismo e, conseguentemente, risorgevano le Chiese greco- cattoliche (unite a Roma). Considerando il successo dei primi incontri, nel 1993 la Commissione mista ritenne che fosse giunto il momento di toccare il tema più scottante, l’uniatismo, vale a dire le Chiese orientali già unitesi con Roma nel 1596.
I problemi dell’uniatismo
L’incontro, tenutosi a Balamand in Libano, si concluse con il rigetto per il futuro del metodo dell’uniatismo e il riconoscimento dell’essere già “Chiese sorelle”. Questo di Balamand fu un grande balzo in avanti, ma proprio per questo era difficile che passasse inosservato. All’interno delle Chiese ortodosse si è acceso un dibattito sul senso dell’espressione “Chiesa sorella” e quindi sull’effettiva rinuncia a considerare eretica la Chiesa di Roma.
Ma anche da parte cattolica il cammino ecumenico è risultato impervio con principi teorici ispirati a grande apertura e iniziative pratiche decisamente antiecumeniche. Da un lato Giovanni Paolo Il promulgava l’enciclica Ut unum sint (1995), il documento cattolico più avanzato nel campo dell’ecumenismo, che addirittura invitava i teologi cattolici a ripensare le modalità dell’esercizio del primato petrino; dall’altro, l’istituzione di svariate nuove diocesi cattoliche nella Russia ortodossa, violando il principio del territorio canonico (che, per molto meno, aveva spinto Mosca a rompere per diversi mesi la comunione con Costantinopoli).
Circondata da simili contraddizioni, la Commissione mista cattolico ortodossa nella riunione di Baltimora nel luglio del 2000 (Implicanze teologiche e canoniche dell’uniatismo), ha concluso i lavori senza riuscire a emettere un documento comune. Anzi, da allora i suoi lavori procedono a singhiozzo.
Pur dichiarando che il dialogo deve continuare, i partecipanti hanno fatto reciprocamente rilevare l’esigenza di consultarsi con le proprie Chiese. Il fatto può apparire negativo. In realtà questa crisi era abbastanza prevedibile dopo le notevoli acquisizioni a seguito di tali incontri. Man mano che si stringono i tempi (e ci si avvicina sempre più alle radici delle diversità) è più che normale un momento di riflessione.
Il nuovo papa Benedetto XVI il 29 maggio a Bari ha dichiarato solennemente la sua intenzione di continuare e sviluppare gli impegni ecumenici del suo predecessore; ma la via resta irta di difficoltà. Basti pensare alle pressioni degli uniati per ottenere un patriarcato in Ucraina, cosa che porterebbe definitivamente i russi a credere che per i cattolici l’ecumenismo non è che una forma di proselitismo.
Se, dunque, il dialogo teologico ha fatto grandi progressi, quello dei gesti stenta a decollare, da una parte fra grandi manifestazioni di cortesia e dall’altra con iniziative, poche in verità, che assestano duri colpi alla fiducia reciproca.
* docente all’istituto ecumenico di Bari
(da Vita Pastorale, Dicembre 2005)
Bibliografia
Salachas D., Il dialogo teologico ufficiale tra la Chiesa cattolico-romana e la Chiesa Ortodossa, La quarta assemblea plenaria di Bari, 1986-1987, Quaderni di ”O Odigos” 1988, Bari; Olivier C., La Chiesa ortodossa, Queriniana 1989, Brescia; Cioffari G., L’Ecclesiologia ortodossa. Problemi e prospettive, Quaderni di “O Odigos” 1992, Bari; Morini E., La Chiesa ortodossa. Storia, disciplinare, culto; Edizioni Studio Domenicano 1996, Bologna; Rosso S. e Turco E., Per una riconciliazione delle memorie. 2 Le Chiese cristiane d’oriente, Quaderni “Ecumenismo e dialogo” 2002, Torino.
Gli studi degli ultimi decenni non soltanto mettono a disposizione un ricco patrimonio culturale ignorato per secoli, ma pongono anche in risalto il fatto che l’Africa deve essere ripensata come variegato luogo filosofico.
di Samir Khalil Samir
Il dialogo con l’islam richiede amore sincero. Non gesti ambigui.
Subito dopo Natale è scoppiata una polemica a Cordoba, orchestrata dalla stampa internazionale: il vescovo Juan José Asenjo Pelegrina ha osato rigettare la richiesta della Giunta islamica di Spagna presieduta dal convertito Mansur Escudero, che chiedeva che i musulmani potessero pregare nella cattedrale. Il motivo è che otto secoli fa la cattedrale era una moschea, senza ricordare che tredici secoli fa era una basilica. Il vescovo ha spiegato che una cosa simile avrebbe «generato confusione tra i fedeli» e «non contribuirà a una coabitazione pacifica tra i credenti». «Noi, cristiani di Cordoba, desideriamo vivere in pace con i credenti di altre religioni, ma non vogliamo essere sottomessi a pressioni continue che non contribuiscono alla concordia». Allora Mansur ha steso il tappeto davanti alla cattedrale e vi ha pregato.
Poco prima, i musulmani di Colonia avevano chiesto di poter pregare nel famoso duomo della città, e il cardinale Joachim Meisner vi si era opposto. A novembre, lo stesso porporato aveva vietato ai professori di religione cattolica della diocesi di organizzare preghiere interreligiose, perché i bambini non erano in grado di fare le dovute distinzioni. È stato vivamente criticato da politici e insegnanti. A quando il prossimo scandalo europeo?
Nonostante questi casi, a me sembra che il dialogo con l’islam stia entrando in una fase più autentica. Questi due rifiuti si capiscono. Negli anni Settanta-Ottanta si è un po’ diffusa la pratica di prestare ai musulmani - non senza ambiguità - luoghi di culto cristiani, ma già il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, l’aveva vietato nella sua diocesi. Oggi tutte le città europee in cui ci sono musulmani hanno una moschea, e dunque questa pretesa non si capisce più. Un conto è pregare insieme in un’aula, su testi non sacri, un conto è farlo in una cattedrale.
Ma il Papa, si dirà, ha pregato con il gran muftì d’Istanbul nella moschea blu, il 30 novembre scorso. È stato un gesto bellissimo, spontaneo, su proposta dello stesso Mustafa Cagrici: ambedue si sono raccolti in preghiera per un minuto, orientati verso la Kaaba, e il Santo Padre ha adottato l’atteggiamento del muftì. Personalmente, quando mi succede di entrare in una moschea, la prima cosa che faccio è di pregare per i musulmani, affinché Dio li sostenga e li colmi di benedizioni. Dopo tutto, una moschea è un luogo dal quale salgono milioni di preghiere verso il Padre di tutta l’umanità.
Una cosa è un gesto personale e puntuale, un’altra è un atto collettivo e organizzato. E se, per qualche motivo legittimo, un altro vescovo decidesse di far cessare questa pratica, come ci riuscirebbe senza suscitare ancora più veleno? Nel 1974 Saddam Hussein, allora vicepresidente del Consiglio della Rivoluzione, in visita a Cordoba, pregò nella cattedrale: non fu un precedente, ma un’eccezione. Che i musulmani, entrati in un luogo cristiano, preghino discretamente e silenziosamente, è bello. Ma se si mettessero a compiere la salât, cioè la preghiera rituale musulmana, sarebbe irriverente. Lo stesso andrebbe detto se io celebrassi la nostra salât, cioè la Messa, in una moschea: sarebbe una provocazione!
Il dialogo richiede discernimento. Ogni gesto ambiguo porta più danno che beneficio, anche se l’intento è buono. Il dialogo richiede amore sincero. Il musulmano è mio fratello. L’islam può essere un progetto sociologico, culturale, politico o militare, oppure spirituale e religioso; ma il musulmano non è un progetto, è un uomo come me, che va rispettato nella sua dignità di persona e di credente, e amato con lo stesso amore che nutro verso il cristiano. Amore e verità, affetto e discernimento sono inseparabili e ci permettono di basare il dialogo interpersonale su fondamenta solide. Trattandosi di musulmani, il fondamento è Dio stesso. Anche per questo il vero dialogo non può fare a meno dell’annuncio del Vangelo, come d’altronde il musulmano sincero e pio che mi vuol bene mi annuncia Dio come l’intende lui. Lungi dall’essere un’aggressione, l’annuncio è amore servizievole. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s’impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà. In questo senso, i dialoghi di cui ho parlato si compenetrano a vicenda.
(da Mondo e Missione, Febbraio 2007)
di Rino Cozza csj
Realizzare un progetto di vita innovativo significa pensarsi in modo nuovo per poter pensare il nuovo; ma ciò non è possibile se si deve fare riferimento a realtà nate nel contesto di quella cultura secolare in cui ciò che in quel tempo è percepito come “verità” assume il carattere di immutabilità.
Anche nella nostra vasta area geografica, imprevedibilmente, stiamo assistendo a una inaspettata vitalità delle forme di vita evangelica delle quali la vita religiosa ne è un particolare modello. Numerose sono le nuove fondazioni, che esprimono una incuriosente vitalità, sorte in questi ultimi decenni, la cui forma aggregativa è originale rispetto alle canoniche. Il fine primario – che è quello di rendere attuale la presenza di Cristo e la sua missione sanante – è comune a tutte queste e alle forme di antica fondazione.
Quanto sta avvenendo ci induce a essere attenti scrutatori di orizzonti ove convergono le linee dei tramonti e delle aurore.
SPERANZA E RICOLLOCAMENTI RICHIESTI
Si tratta di rispondere alla domanda: che cosa debbo fare per avere la vita?” consapevoli che le risposte del Signore sono sempre all’interno di un dato contesto culturale e storico.
In alcuni interventi dello scorso anno, su questa rivista, mi ero soffermato nel dire che la speranza era riposta nella capacità di riacculturare la spiritualità, che non significa soltanto diventare più spirituali ma avere la capacità di marcarla con le attuali coordinate di vita e di ridirla con il linguaggio di coloro a cui ci si rivolge, non essendo più sufficiente quello delle nostre origini. Secondo: che per poter essere fermento la vita religiosa deve cercare spazi nel dinamismo della vita ecclesiale, impastandosi con le altre vocazioni. E ancora: rispondere alla istanza di fraternità, vale a dire alla esigenza di passare dall’essere “confratelli” all’essere “fratelli” per una esperienza spirituale vissuta insieme, in funzione del divenire “creatura nuova” nell’oggi, non estranea alla maturazione delle esigenze che vanno meglio a esprimere autenticamente la persona.
Ora, nella attuale riflessione enucleo altri “semi” in cui è riposta la speranza.
Nel passato, per i Religiosi/e l’identità era data per lo più da ciò che facevano, ora – e questo è stato detto più volte e da più parti – le opere apportano pochissimo all’identità: «Questo fatto può essere letto come un segno provvidenziale che invita a recuperare il proprio compito essenziale di lievito, di fermento».(1)
NUOVE TRACCE DI SENSO
È tempo dunque di passare dalle opere alle sfide e di accogliere in particolare le povertà a cui nessuno risponde. Dire questo non significa preclusione a ogni tipo di opera ma a quelle che non sono trasparentemente strumento in funzione delle sfide. Come andare avanti non frenati da verità virtuali (non nel senso teologico) espresse con parole senza senso per l’attuale sensibilità culturale? La chiave è nella capacità di inventiva o creatività, che significa capacità di produrre nuove rappresentazioni dei problemi e delle soluzioni; di rifigurare a ogni appello i propri sistemi organizzativi e mentali ricollocando dinamicamente l’identità a misura del bisogno per poter porre il Vangelo nell’oggi della storia. Creatività è la capacità di proporsi dei progetti che siano passibili di continuo adattamento ai bisogni sempre nuovi. Tutto ciò può essere prodotto da quei gruppi capaci di pensare mondi possibili, spinti dal sogno, vale a dire da un valore intravisto e sostenuto da una positiva emozione e dalla voglia di “esserci”, perché nessun valore entra nella vita della persona se questa non ha partecipato a costruirlo. Il futuro è «in piccoli gruppi di giardinieri che si sostituiscano ai notai»,(2) e in “spazi” che consentano di liberarsi da eccessive pressioni di conformità per poter essere grembo fertile di significati nuovi in riferimento a un valore, in grado di inventare nuove forme di vita individuale e collettiva.
BISOGNA DE-ISTITUZIONALIZZARE
Ogni fondatore, al gruppo di iniziatori ha dato il nome di “famiglia” religiosa; con il passare di pochi decenni lo stesso gruppo si è ritrovato “istituto” religioso, non solo per esigenze di diritto canonico ma per un processo naturale che si chiama istituzionalizzazione. Il carisma nasce da una inedita e libera azione dello Spirito, l’istituzione viene in aiuto con la sua funzione di volano che è quella di immagazzinare la forza dinamica delle origini per riproporla via via nel cammino della sua storia. Il momento però diventa critico quando finisce un’epoca, per il fatto che il volano (istituzione) non è capace di disimparare per apprendere. Quando sopravvengono nuovi contesti l’originalità di ispirazione deve essere tutta incentivata dai nuovi orizzonti sociali ecclesiologici e antropologici e non solo dai “saperi” immagazzinati dal “volano”. Certamente i termini carisma e istituzione non sono in contrapposizione, ma è altrettanto certo che il loro rapporto rimane sempre dialettico e che in ogni caso l’istituzione è in funzione del carisma e non viceversa. La storia di san Francesco è quasi il paradigma di questa conflittualità permanente tra carisma e istituzione, tra VR come segno profetico e VR come modello istituzionale (3) Non è certo possibile prescindere dalla dimensione istituzionale essendo questa un rilevante patrimonio di memoria e intelligenza ma è altrettanto vero che un carisma nato in controtendenza, estemporaneo alle norme sociali ed ecclesiali finisce dall’essere da queste “normalizzato”. Per poter abitare il futuro la vita religiosa dovrà ricomporre l’equilibrio ora sbilanciato sulle norme. G. Riglet, un sacerdote belga vicerettore dell’università di Lovanio, sintetizza bene questo punto: i nostri contemporanei vogliono senso, sì, ma rifiutano l’esorbitante pensiero normativo. E la Chiesa fa fatica a produrre senso senza produrre norme. Ecco la straordinaria conversione che è chiesta alla vita religiosa. E capisco che sia un cambiamento vertiginoso: proporre senso senza rinchiuderlo. Un senso che dia respiro”. (4)
Che dire di varie nuove comunità monastiche che nella riplasmazione di nuovi modelli hanno scelto di non far parte dell’ Ordo monasticus per dar vita a un monachesimo nella Chiesa locale? In effetti realizzare un progetto di vita innovativo significa innanzitutto pensarsi in modo nuovo per poter pensare il nuovo, il che non è possibile se si deve fare riferimento a realtà nate in contesto di quella secolare cultura secondo la quale ciò che in quel tempo è percepito come “verità” assume il carattere di immutabilità.
CARISMA CONDIVISO CON LE ALTRE VOCAZIONI
Questo discorso – è bene riproporlo – è presente nello strumento di lavoro del Congresso 2004 dove si dice che «si sta definendo un nuovo modello di vita consacrata attorno a nuove priorità, nuove forme organizzative e di collaborazione aperta e flessibile con tutti gli uomini e le donne di buona volontà». (5) Nel processo rifondativo il punto di partenza dei religiosi è l’accoglienza di alleanze come una questione radicale dell’esistenza consapevoli che un sistema chiuso va verso l’entropia e l’asfissia: laici e religiosi sono due polmoni che favoriscono la dinamica respiratoria. (6) La maggior parte delle nuove forme di vita evangelica – come già ho avuto modo di dire in un altro articolo – adotta, in funzione del carisma, la forma di realtà concentriche che consiste nel diverso livello di partecipazione e di appartenenza. Al centro c’è un cerchio più piccolo che sceglie a tempo pieno la forma della consacrazione, stabilendo vincoli giuridici stretti con l’istituzione. Radialmente poi ci sono cerchi sempre più ampi, formati da quelli che si riconoscono nell’ispirazione carismatica in forme di impegno diversificato. Nella strategia delle realtà concentriche dunque sono possibili livelli di maggiore o minore prossimità integranti l’unico carisma in modo differenziato, dinamico e progressivo.(7) Da tale forma organizzativa è derivata, anche, la fortuna dei movimenti. Per parte dei laici e dei religiosi partecipare a uno stesso carisma significa, assumendone la globalità, condividerlo in qualche suo aspetto, come parte di un tutto con il quale confrontarsi, integrarsi, sistematizzarsi, senza “confondersi”, a partire dal presupposto che come religiosi «non solo abbiamo qualcosa da dare ma anche molto da ricevere», specialmente quello di riesprimere in situazione di secolarità il nostro bagaglio spirituale a partire dalla consapevolezza che le risposte di ieri non bastano più.
Segno di un carisma che ha fatto la scelta della integrazione è dato dal sentire che ognuno cresce nell’esercizio dello scambio di doni che sono quelli della laicità e della consacrazione. Allora per carisma condiviso si intende una realtà nuova «in cui si dilata e si arricchisce il carisma spirituale e apostolico del fondatore». Questa è grande novità: la ricchezza di un carisma che si manifesta in pienezza quando si concretizza nei diversi modi di vivere la vita cristiana e fa maturare una comunione di vocazioni. Quanto espresso conduce a dire che il carisma nelle sue due dimensioni, spirituale e apostolica, per poter essere dono alla Chiesa nella pienezza delle sue potenzialità, non soltanto concede spazi ma necessita di complementarietà.
CARISMI D’ISTITUTO IN COMUNIONE TRA LORO
L’immagine comunionale della Chiesa è centrale nella teologia del Vaticano II. È interessante quanto fa notare al riguardo Von Balthasar secondo il quale il termine communio, dal punto di vista filologico può derivare da cum-munio che significa difendersi insieme, fare corporazione, oppure, altra lettura, da cum-munus, che vuol dire mettere insieme i propri doni, due significati che non si oppongono. S. Paolo si esprimerebbe così: “a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1 Cor 12,4-5). C’è come una tensione nella Chiesa, cioè un movimento incessante: dalla diversità all’unità, dall’unita alla diversità. La diversità senza l’unità porta alla frantumazione, al caos; l’unità senza la diversità porta alla massificazione, quindi all’inerzia, alla paralisi nella Chiesa. L’esortazione apostolica Vita fraterna in comunità parla di indebolimento della fraternità nella Chiesa originata dalla “scarsa qualità della fondamentale comunicazione dei beni spirituali. Ogni carisma è rilevante, perché dono della Trinità alla Chiesa per il mondo, tanto che non è possibile immaginare di esaurirlo all’interno della propria vocazione. I carismi, per manifestarsi pienamente, devono far leva sulla condivisione perché sono doni che non appartengono esclusivamente a chi li detiene. Condivisione di carismi significa scambio reciproco di un qualcosa che non si possiede come proprietà privata ma come dono da ricevere e donare.
Allora è tempo di un ripensamento creativo circa le relazioni tra carismi, perché la Chiesa non può essere «un supermarket di valori (carismi) ma un’unica grande comunione, a somiglianza trinitaria». Questa comunione non significa sfondersi ma prendere coscienza della propria identità per aprirsi all’alterità, diversamente ci si consegna a un inevitabile destino di estraneità e diversità, con la conseguenza che un dato carisma diventa insignificante.
In conclusione si può dire: la vita religiosa non è soltanto in funzione dell’annuncio dell’aldilà atteso, ma è costituita perché l’aldilà sia presente nella storia con sforzi di prefigurazione, di profezia reale, di storie vissute, in funzione dell’avere più vita. Per questo uno sceglie di consacrarsi: per avere la vita in abbondanza, certamente secondo logiche evangeliche, che però oggi si calano su un concetto di persona evoluto secondo alcune istanze antropologiche in precedenza misconosciute. Da questi presupposti «sorgono da ogni parte nuove proposte – particolarmente dal laicato – che per la loro spontaneità e il loro entusiasmo di gioventù, tracciano un sentiero dinamico e stimolante».(8) La maggior parte degli iniziatori sono laici e come tali portano all’interno della consacrazione la sensibilità ai valori terreni, specie la gioia dello stare assieme, l’amicizia.
Per quanto riguarda la VR quali gli ostacoli alla speranza di futuro? Il Congresso 2004 avvisava del pericolo in atto di investire il più delle forze sul possibile del “già” piuttosto che sul possibile del “non ancora”. È l’istinto di autoconservazione, di autodifesa di fronte all’incertezza del futuro (9) che porta a cogliere la propria identità prevalentemente dal tempo precedente: ma questo è come volere che un giovane in fase evolutiva leghi la propria identità nel passato. La preoccupazione del “già” induce a operazioni di ordinaria manutenzione, deboli in tempi in cui non sono neppure sufficienti i lavori di straordinaria manutenzione ma necessita mettere mano alle fondamenta della “casa”.
Le prospettive di futuro chiamano in causa il tipo di formazione dei consacrati. Perché tanti insegnamenti non generano apprendimento? M. Guzzi risponde così alla domanda che lui stesso si pone: «perché l’apprendimento è inteso come trasmissione di informazioni e non come ristrutturazione di significati e muove da una concezione individuale e non relazionale, nega dimensioni come le emozioni, il tempo, l’ambiente… Ciò avviene perché la maggior parte di coloro che insegnano, lo fanno in base a quello che hanno imparato quando sono stati allievi. Lo stile è quello indicativo di nozioni certe, lineari, e aconflittuali.
Al centro della formazione non c’è la creatività ma la ripetitività, mentre è un processo continuo di definizione e ristrutturazione del significato”. (10) Da quanto detto si può presumere che usciranno dall’attuale situazione critica quelle forme di VR che sapranno cogliere il momento presente come parola di Dio iscritta nella odierna storia di salvezza e con quella sollecitudine che solo la novità può alimentare, senza cedere alla tentazione di racchiuderla negli schemi cristallizzati di un sistema culturale che ci portiamo dietro perché “fedeli” a logiche di quel tempo che non c’è più.
Note
1) Ripartire da Cristo (n. 13).
2) M. Guzzi.
3) P. Arnold.
4) M. Guzzi in Servitium, Bergamo 2000, pag. 169.
5) Instrumentum laboris, Congress 2004 n. 73.
6) P. Generale Fatebenefratelli.
7) J.B. Libanio.
8) S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline p. 111.
9) F. Ciardi.
10) M. Guzzi.
(da Testimoni, 15 settembre 2006 n. 15)