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Inputs di riflessone ecclesiale

 

UN ARTICOLO APPARSO SUL “FOGLIO Dl COLLEGAMENTO DEI DIACONI FIORENTINI”

 

A QUARANT’ANNI DAL CONCILIO RIFLESSIONE SUL DIACONATO

 

L’esigenza di una riflessione era sentita da tempo, poiché si riscontravano dubbi, incertezze, perplessitò talvolta anche diffidenza sulla figura e sul ruolo del diacono.

A partire dal magistero, la riflessione giunge ad una serie di interrogativi per un approfondimento.

 

 

 

«Per la chiesa esiste un’unica strada per il futuro: quella che ha indicato il concilio. Questa strada è dunque la piena attuazione del concilio e della sua ecclesiologia di comunione» (W. Kasper, Die Communio-Ecclesiologie pag. 5). È questa la chiesa per (= mandata a) tutti gli uomini e per tutto il mondo: chiesa che si pone al servizio, che serve, laddove diaconia, intesa in senso lato, è dimensione essenziale della chiesa, chiesa in quanto popolo di Dio ancorato al suo pastore, come diceva Cipriano di Cartagine. Si tratta del popolo di Dio nel senso inteso dal concilio: non, quindi, una presunta “base” rispetto, o semmai in contrasto, con la “chiesa ministeriale”. «Il popolo di Dio è la totalità organica - e strutturata della chiesa riunita attorno al suo vescovo» (W. Kasper, cit. pag. 16).

Il vescovo è, dunque, primo responsabile e protagonista della vita e della missione ecclesiale: spetta a lui dirigerla, animarla e coordinarla, avvalendosi soprattutto della collaborazione dei presbiteri e dei diaconi a lui uniti da uno speciale legame sacramentale. Il ministero ordinato, in tale ottica,si configura come carisma ordinato agli altri carismi: esso li deve “fortificare” per la funzione che è loro propria, ispirandoli, motivandoli, qualificandoli, contribuendo, in tal modo, all’edificazione del corpo di Cristo (cf. Ef 4,12). Alla luce, pertanto, della “chiave interpretativa” di tutto il magistero conciliare - come a giusto titolo viene definita l’ecclesiologia di comunione -, proponiamo qui di seguito una sintesi dei pronunciamenti del magistero, seguita da alcuni interrogativi e brevi spunti teologici, finalizzati globalmente a favorire una più ampia riflessione sul sacro ordine del diaconato.

 

Il sacramento dell’ordine

 

Ordine e matrimonio sono i sacramenti al servizio della comunione (CCC Parte seconda, Sez.  Seconda, Cap. III), ordinati per la salvezza altrui (CCC n. 1534). Coloro che ricevono il sacramento dell’ordine sono consacrati per essere posti, in nome di Cristo, a pascere la chiesa con la parola e la grazia di Dio (CCC n. 1535; LG n. 11; CIC can. 1008; introduzione comune a Ratio fundamenlis diaconorum permanentium e Directorium pro ministerio et vita diaconorum permanentium n. 1).

Cristo stesso è l’origine del ministero nella chiesa. Egli l’ha istituita, le ha dato autorità e missione, orientamento e fine (CCC n. 874). L’ordine è la continuazione della missione affidata da Cristo agli apostoli. Comporta tre gradi: l’episcopato, il presbiterato e il diaconato (CCC n. 1536; CIC can. 1009). I ministeri conferiti dall’ordinazione sono insostituibili per la struttura organica della chiesa: senza il vescovo, i presbiteri e i diaconi non si può parlare di chiesa (CCC n. 1593). L’ordinazione è un atto sacramentale che conferisce un dono dello Spirito Santo che permette di esercitare una potestà sacra proveniente da Cristo. L’ordinazione è chiamata anche consacrazione poiché è una separazione e un’investitura da parte di Cristo stesso, per la sua chiesa (CCC n. 1538). L’ordine configura a Cristo in forza di una grazia speciale dello Spirito Santo, allo scopo di servire da strumento di Cristo per la sua chiesa. Per mezzo dell’ordinazione si viene abilitati ad agire come rappresentanti di Cristo, capo della chiesa, nella sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re (CCC n. 1581).

La grazia dello Spirito Santo propria di questo sacramento consiste in una configurazione a Cristo sacerdote, maestro e pastore del quale l’ordinato è costituito ministro (CCC n. 1585; per il vescovo CCC n. 1586; per il presbitero CCC n. 1587; per il diacono CCC n. 1588). I vescovi, dunque, assunsero il servizio della comunità con i loro collaboratori presbiteri e diaconi, presiedendo in luogo di Dio al gregge di cui sono pastori (LG 20 e; CCC nn. 886 e 1142. Introduzione comune a Ratio e Directorium n. 1), L’ordine è il ministero che abilita ad annunziare il Vangelo non come membro della comunità ma parlando ad essa in nome di Cristo (CCC n. 875).

I ministri sono veramente «servi di Cristo», ad immagine di lui che ha assunto liberamente per noi «la condizione di servo» (CCC n. 876). E’ un servizio esercitato in nome di Cristo (CCC n. 879). I ministri ordinati esercitano il loro servizio presso il popolo di Dio attraverso l’insegnamento (munus docendi), il culto divino (munus liiturgicum) e il governo pastorale (munus regendi) (CCC n. 1592; per i diaconi CCC n. 1588).

 

Sacro ordine del diaconato

Il diaconato ha la sua sorgente nella consacrazione e nella missione di Cristo, delle quali il diacono viene chiamato a partecipare. Mediante l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria, viene costituito ministro sacro, membro della gerarchia. L’ingresso nello stato clericale e l’incardinazione ad una diocesi avvengono con l’ordinazione diaconale stessa (Directorium n. 1, CIC can. 266 § 1, CCC n. 1536 e n. 1554, Ratio n. 4; Cei, I diaconi permanenti nella chiesa in Italia n. 38; Ad pascendum IX). Spetterà ai competenti ceti episcopali territoriali di vario genere, decidere, con la approvazione del sommo pontefice, se e dove sia opportuno che i diaconi siano istituiti per la cura delle anime (LG 29 b).

Identità teologica specifica del diacono: egli, come partecipazione dell’unico ministero ecclesiastico, è nella chiesa segno sacramentale specifico di Cristo servo. Suo compito è di essere «interprete delle necessità e dei desideri delle comunità cristiane» e «animatore del servizio, ossia della diaconia», che è parte essenziale della missione della chiesa (Ratio n. 5; directorium nn. 37-38; Lettura apostolica Ad pascendum, Introduzione; I diaconi permanenti nell’ Italia nn. 6,9; CIC can. 12 &1; CCC n. 1596; “Il diaconato: evoluzione e  prospettive”, cap. VII,p. II). Il diacono.., chiamato a suscitare e animare i vari servizi subordinati sia istituiti che di fatto... nell’adempimento fedele di questo servizio sarà umile ed efficace promotore di unione con il vescovo, segno vivente del Cristo pastore delle nostre anime e buon samaritano che conosce le nostre infermità, perché le ha condivise fino al sacrificio della croce (Pontificale Romanum - De ordinattione episcopi, presbyterorum et diaconorum:  Praenotanda).

Il diacono non deve sostituirsi ai laici (I diaconi permanenti nella chiesa in Italia n. 46). Il diacono è legato in modo speciale al vescovo nei compiti della sua diaconia (CCC n.1569; Idiaconi permanenti nella chiesa in Italia n. 2; Caeremoniale Episcoporum n.24). I diaconi sono posti in speciale relazione con i presbiteri con i con i quali sono chiamati a servire il popolo di Dio (Ratio n. 8). Il ministero diaconale è il servizi al popolo di Dio in comunione con il vescovo ed il suo presbiterio (CIC can. 757; I diaconi permanenti nella chiesa in  Italia nn. 7,39; CCC n. 1588; Directorium n. 28; Ratto n. 7; CD n. 15).

 

 

 

Il ministero del diacono

 

Il diacono partecipa all’unico e triplice munus di Cristo nel ministero ordinato. Il diacono è maestro, in quanto proclama e illustra la parola  di Dio; è santificatore, in quanto amministra il sacramento del battesimo, dell’eucaristia e i sacramentali, partecipa alla celebrazione della santa messa, in veste di «ministro del sangue», conserva e distribuisce l’eucaristia; è guida, in quanto è animatore di comunità o settori della vita ecclesiale (Directoriurn n. 22 LG 29a;CIC can. 1008; I diaconi permanenti nella chiesa in Italia n. 6).

 

Diaconia della Parola.

 

Funzione principale del diacono è collaborare con il vescovo e i presbiteri nell’esercizio del ministero della parola di Dio. Come i sacerdoti, i diaconi si dedicano a tutti gli uomini, con la buona condotta, la predicazione aperta, l’insegnamento, lo studio dei problemi del tempo (Directorium nn. 23-24;  I diaconi permanenti nella chiesa in Italia n. 41; CIC cann. 757,764, 767 &1). Per compiere questa missione i  diaconi sono tenuti a prepararsi con  lo studio accurato; lasciarsi guidare  docilmente dal magistero; imparare l’arte del comunicare la fede all’uomo moderno; tenere sempre presente l’esigenza primaria e irrinunciabile di non scendere mai ad alcun compromesso nell’esposizione della verità (Directorium nn. 23, 25, 26,72; CIC cann. 760, 767 §1,768; I diaconi permanenti nella chiesa in Italia nn. 29,31). Un impegno costante di evangelizzazione capillare e diffusa ha nel diacono il suo primo animatore (Pontificale Romanum – Praenotanda cit.).

 

Diaconia della Liturgia

 

 

Al ministero del vescovo e, subordinatamente, a quello dei presbiteri, il diacono presta un aiuto sacramentale, quindi intrinseco, organico, inconfondibile (Directorium n. 28). Quindi, essi si adopereranno per promuovere celebrazioni che coinvolgano tutta l’assemblea, curando la partecipazione interiore di tutti e l’esercizio dei vari ministeri (Directorium n. 30; LO n. 29; cf. anche SC nn. 26- 27). Per compiere questa missione i diaconi devono curare un’accurata e profonda preparazione teologica e liturgica; osservare le norme celebrative proprie con tale devozione da coinvolgere i fedeli; aver presente la dimensione estetica; essere fedeli a quanto richiesto dai libri liturgici; indossare dignitosamente le prescritte vesti liturgiche (Directorium nn. 28- 30; CIC cann. 835 &3, 837, 838, 840, 841, 846; Caeremoniale Episcoporum n. 25; ! diaconi permanenti nella chiesa in Italia nn. 36, 41,42; Missale Remanum: Institutio generalis nn. 94, 171-186, 335-336, 338, 340; Redemptionis sacramentum nn. 34, 35, 125).

E’ di particolare importanza il ministero dei diaconi nella preparazione al battesimo, nella catechesi sul matrimonio cristiano, nella preparazione dei futuri sposi, nell’aiuto dopo il matrimonio (Directorium nn. 31, 33; I diaconi permanenti nella chiesa in Italia n. 41). Ai diaconi può venire affidata la cura della pastorale familiare a livello diocesano o parrocchiale (Directorium nn. 33, 42; I diaconi permanenti nella chiesa in Italia n. 44; Cei, Direttorio di pastorale familiare nn. 260-261).

 

 

 

 

Diaconia della carità.

 

L’autorità dei diaconi, esercitata in comunione gerarchica con il vescovo e con i presbiteri, è servizio di carità e ha lo scopo di aiutare e di promuovere tutti i membri della chiesa particolare affinché possano partecipare, in spirito di comunione e secondo i loro carismi, alla vita e alla missione della chiesa (Directorium n. 37).

Le opere di carità, diocesane o parrocchiali, che sono tra i primi doveri del vescovo e dei presbiteri, sono da questi, secondo la testimonianza della Tradizione della chiesa, trasmesse ai servitori del ministero ecclesiastico, cioè ai diaconi, così pure il servizio di carità nell’area dell’educazione cristiana, l’animazione degli oratori, dei gruppi ecclesiali giovanili e delle professioni laicali, la promozione della vita in ogni sua fase. I diaconi hanno la funzione di esercitare, in nome della gerarchia, i doveri della carità e dell’amministrazione, nonché le opere di servizio sociale (Directorium nn. 38, 42; I diaconi permanenti nella chiesa in Italia nn. 44-45; CIC cann. 492-494).

 

Precisazioni e suggerimenti

 

In ogni caso, però, è di grandissima importanza che i diaconi possano svolgere, a seconda delle loro possibilità, il proprio ministero in pienezza, nella predicazione, nella liturgia e nella carità, e non vengano relegati a impegni marginali, a funzioni meramente suppletive, o a impegni che possono essere ordinariamente compiuti dai fedeli non ordinati (Directorium n. 40; I diaconi permanenti nella chiesa in Italia nn. 39, 46). Se ‘è dovere dei diaconi rispettare sempre l’ufficio del parroco e operare in comunione con tutti coloro che ne condividono la cura pastorale, è anche loro diritto essere accettati e pienamente riconosciuti da tutti (Directorium n. 41).

Altrettanto importante è definire gli ambiti ministeriali da affidare ai diaconi permanenti, secondo una figura propria e non derivata rispetto a quella del sacerdote ma coordinata con il suo ministero, nella prospettiva dell’animazione del servizio su tutti i fronti della vita ecclesiale (Cei, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia n. 12).

L’ambito diocesano offre numerose opportunità per il fruttuoso ministero dei diaconi. Infatti, in presenza dei requisiti previsti, possono essere membri degli organismi diocesani di partecipazione; in particolare, del consiglio pastorale e del consiglio diocesano per gli affari economici. Nelle curie possono essere chiamati a ricoprire, se in possesso dei requisiti espressamente previsti, l’ufficio di cancelliere, di giudice, di assessore, di uditore, di promotore di giustizia e difensore del vincolo, di notaio.

Altri campi aperti al ministero dei diaconi sono gli organismi o commissioni diocesane, la pastorale in ambienti sociali specifici, in particolare la pastorale della famiglia, o per settori della popolazione che richiedono speciale cura pastorale, come per esempio i gruppi etnici (Directorium n. 41; CIC can. 274 § 1).

 

 

Qualche proposta per la discussione

 

Il ministero esercitato da ciascun diacono nel concreto contesto della propria realtà parrocchiale, di settore o diocesana, è in linea con tutto quanto insegnato nel magistero? Quale consapevolezza hanno i diaconi, le loro spose, i presbiteri al fianco dei quali il vescovo li ha posti in relazione agli insegnamenti e agli orientamenti pastorali della chiesa? Quale consapevolezza di quanto sopra hanno la comunità di appartenenza di ciascuno e il collegio dei diaconi nel suo complesso? L’uso consolidato, anche se meno frequente rispetto al recente passato, del termine permanente accanto al sostantivo diacono non fa pensare ad una applicazione a tempo indeterminato del diaconato transeunte dei presbiteri più che al ristabilimento autentico di uno dei gradi del sacramento dell’ordine? Il presbiterato deve continuare ad essere centrale all’interno di un percorso “scalare”, o piuttosto è possibile pensare il sacramento dell’ordine, nella sua complessità, secondo uno schema triangolare (o a tridente)? E’ coerente dire che, con lo studio della sacra Scrittura, della storia e della teologia sacramentale non sembra imporsi la concezione di un percorso scalare? Quale è la concezione apostolica del sacramentum o mysterion con riferimento all‘ordine? E, se con il motu proprio Ministeria quaedam i ministeri istituiti (già ordini minori posti in posizione “scalare”), sono stati trasformati e resi differenti e complementari a fronte dell’eucaristia, la stessa logica non può essere pensata quanto ai diversi “gradi” dell’ordine?

L’episcopato è la pienezza dell’ordine; presbiterato e diaconato sono due ministeri distinti; due modalità differenti e convergenti (le braccia del vescovo) per condividere quella pienezza e contribuire a realizzarla nella prassi della vita della chiesa. La chiesa, come ogni entità vivente e più ancora di alcune altre, è una società in cui la dissimetria è costitutiva. Si tratta di ipotizzare una configurazione “a triangolo” (ad angolo) nella logica della differenza complementare: l’episcopato come sommità dell’angolo; presbiterato e diaconato i due lati che interagiscono con il vertice. Il terzo lato rimane aperto: è l’intero popolo di Dio con la sua ministerialità diffusa. Sotto l’azione incessante dello Spirito, la chiesa tutta ministeriale nasce dalla Parola, si edifica nella celebrazione dell’eucaristia e, attenta ai segni dei tempi, si  protende all’evangelizzazione del mondo mediante l’annunzio missionario del Vangelo e la testimonianza della carità.

Tutta la chiesa, seguendo il suo Signore - che non è venuto per essere servito ma per servire - è posta in atteggiamento di servizio. In una concezione ministeriale della chiesa-comunione ogni ministero è per l’edificazione del corpo del Signore e perciò ha riferimento essenziale alla Parola e all’eucaristia, fulcro di tutta la vita ecclesiale ed espressione suprema della carità di Cristo, che si prolunga nel «sacramento dei fratelli», specialmente nei piccoli, nei poveri e negli infermi, nei quali Cristo è accolto e servito (cf. Pontificale Romanum  - Praenotanda).

Se anche volessimo mantenere, dunque, la concezione tridentina dell’eucaristia, e conseguentemente dell’ordine definito “sacerdozio” perché dà potere sull’eucaristia, potremmo continuare a mantenere ferma l’ipotesi della configurazione “a triangolo”. L’unico memoriale, infatti, si esprime inscindibilmente in una duplice memoria eucaristica: cultuale e diaconale. L’unica diaconia di Cristo significata e realizzata nell’eucaristia ha bisogno, per essere piena, della convergenza di due tipi di memoria: la “memoria eucaristica” propriamente detta (cultuale, fare in sua memoria) e la “memoria di servizio” (fare secondo l’esempio dato). Da ciò il presbiterato e il diaconato sono complementari per realizzare in pienezza l’eucaristia. Koinonia e diaconia si richiamano a vicenda e sono ordinate l’una all’altra.

 

 

 

Un’ecclesiologia più pneumatica, inoltre, potrebbe aiutarci percepire i ministeri non come subordinati sic et simpliciter ma come complementari, nella loro iconicità trinitaria: per la legge dell’analogia vescovo, presbiteri e diaconi che agiscono in persona Christi. Lo rappresentano nella molteplicità della sua diaconia: vescovo, presbiteri e diaconi quali portatori del solo sacramento dell’ordine nella loro specificità e complementarietà. Il sacramento come realtà collettiva, vissuto nella sua unità da un insieme di persone differenti e complementari, può essere significato dalla collegialità dei vescovi?

È audace concepire la complementarietà dei tre gradi del sacramento dell’ordine sullo stesso modello del sacramento dei matrimonio, senza dimenticare che, nel caso dell’ordine, più ancora che nel sacramento del matrimonio, si tratta della presenza sacramentale di Dio stesso nel seno della chiesa e di tutta l’umanità? Quali discernimento, formazione, spiritualità sono da assumere e coltivare per la progressiva attuazione dei principi e modelli indicati?

 

 

 

Un gruppo di diaconi fiorentini

Settima/ Settembre 2006

 

Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Domenica, 10 Dicembre 2006 09:17

SEGNO DI FEDELTÀ

 

SEGNO DI FEDELTÀ

 

 

«Non siamo qui per far numero, ma per far segno». Lo si sente ripetere spesso dai cristiani d’Algeria. E lo ribadisce con forza anche mons. Henry Teissier, 76 anni, arcivescovo di Algeri, che di questa Chiesa è stato ed è, in prima persona, segno di coraggio e fedeltà. Ha vissuto tante dure prove, mons. Teissier, specialmente negli anni del terrorismo, quando ha visto, uno dopo l’altro, uccisi i suoi confratelli e consorelle. E, nonostante la commozione che ancora oggi accompagna il ricordo, non cessa di ribadire la sua missione di fedeltà come cifra più profonda e autentica della presenza della Chiesa in terra d’Algeria.

«È quanto ci aveva detto Paolo VI in un incontro con i vescovi dell’Africa del Nord.

La Chiesa è sacramento della salvezza, segno di salvezza per il mondo. Non si domanda a un segno di essere numeroso, ma di essere fedele. Questa è una parola molto significativa per noi. Bisogna essere un segno fedele. Siamo pochi, ma se siamo segno dentro la società algerina abbiamo fatto la nostra missione».

 

Che cosa significa essere segno in un Paese musulmano, tragicamente ferito dal terrorismo islamico e ancora oggi percorso da correnti islamiste ostili alla presenza di cristiani?

La Chiesa d’Algeria è piccolissima; dopo l’indipendenza del Paese quasi tutti i cristiani europei hanno lasciato il Paese. Oggi siamo poche migliaia, di molte nazionalità, più un piccolo gruppo di cristiani algerini. Se guardiamo ai numeri di questa piccola Chiesa in questo vasto Paese, grande sei volte l’Italia, con trenta milioni di abitanti, allora la nostra presenza è insignificante. Noi, però, speriamo di essere Chiesa non solo per noi stessi, ma per il popolo algerino, con il quale cerchiamo di vivere in relazione stretta, soprattutto attraverso un grande lavoro sul piano sociale e culturale. Grazie a questo impegno e alle relazioni quotidiane che viviamo nel contesto in cui abitiamo, ciascuno di noi è per la popolazione algerina «

la Chiesa». E allora i cristiani, che a molti appaiono lontani, stranieri, legati solo alle immagini dei media che spesso li presentano in situazioni di tensione o conflitto, divengono più vicini, familiari. Noi vogliamo essere una Chiesa della relazione con la società algerina. Vogliamo dare a questa società la possibilità di vedere che esistono cristiani fedeli a Gesù e al suo Vangelo, fedeli alla preghiera e al servizio dei fratelli; non solo una Chiesa che serve i cristiani, ma che serve e ama il popolo algerino, che vive in comunione con la gente, prega e fa sacrifici per tutti. Speriamo di essere non solo

la Chiesa in Algeria, ma

la Chiesa d’Algeria in relazione, cioè, con la società algerina, Chiesa del popolo algerino.

 

È questo che intendete quando parlate di dialogo islamo-cristiano?

A noi non piace troppo parlare di dialogo islamo-cristiano, perché il dialogo ci appare come una cosa astratta, lontana dalla realtà quotidiana. Noi preferiamo piuttosto parlare di incontro islamo-cristiano, perché ogni giorno viviamo con i nostri amici algerini e condividiamo le attività della giornata e talvolta anche momenti spirituali. Per noi sono tutte occasioni di incontro. Incontro che avviene soprattutto lavorando insieme per il bene comune, grazie al quale vorremmo che si capisca che non siamo nemici, ma siamo qui per essere fratelli. Quello che speriamo è che attraverso l’amicizia si possa parlare di comunione tra musulmani e cristiani. Naturalmente noi siamo credenti, i nostri amici musulmani lo sono pure, e non si può vivere in comunione senza trovare la strada per dare un’espressione alla cosa che è più importante per noi, ovvero la nostra vita sul cammino di Gesù e del Vangelo. Allo stesso modo, noi cerchiamo di capire come i nostri fratelli musulmani vivono la loro fedeltà al Corano e alla loro fede islamica.

 

Spesso vi si definisce una Chiesa nella debolezza, ma molto più frequentemente, seppure in un contesto difficile e talvolta ostile, si sentono i cristiani parlare di condivisione della speranza…

È vero che noi siamo Chiesa nella debolezza, ma soprattutto siamo insieme al popolo algerino per condividere la speranza. Dopo la grave crisi del terrorismo, che è stata una dura prova per tutta la popolazione, oggi viviamo grandi difficoltà sul piano sociale: mancanza di casa e di lavoro, mancanza di prospettive soprattutto per i giovani… Molti cercano una speranza. Anche noi come cristiani non possiamo rinunciare a sperare e a dare speranza al popolo. Sappiamo che c’è una chiamata di Dio per ogni persona umana, per gli algerini musulmani come per i cristiani. E sappiamo che si può cercare un futuro insieme, con lo Spirito Santo che conduce ogni uomo sul cammino della sua vocazione umana che è la stessa. Non ci sono due cammini diversi. C’è una vocazione umana comune ad amare il fratello, che vale per ogni uomo e ogni donna. È qui che bisogna cercare la speranza. Molti amici musulmani, durante la crisi, ci hanno chiesto di partire perché qui era troppo pericoloso. La maggior parte di noi, però, ha deciso di restare. Molti, poi, ci hanno ringraziato. «La vostra presenza con noi ci spinge a conservare la speranza», ci dicevano. Abbiamo molte cose da fare insieme, un futuro comune; non siamo nemici come vorrebbero i fondamentalisti, siamo fratelli nel cammino comune verso la casa del Signore.

 

Lei stigmatizza spesso la mancanza di conoscenza reciproca come terreno su cui fermentano incomprensioni, equivoci e scontri tra musulmani e cristiani. Come andare oltre per promuovere conoscenza e dialogo?

Noi cristiani siamo spesso rinchiusi su noi stessi, sul credo della Chiesa, sul nostro patrimonio di tradizione, e così via… Lo stesso vale anche per la comunità musulmana, chiusa sulle proprie tradizioni, sul Corano che dà la verità, che è la verità. Ma noi, cristiani e musulmani, siamo insieme nel mondo. Per noi cristiani è importante sapere come camminare con i nostri fratelli musulmani e anche per loro è necessario conoscere qual è il cammino di noi cristiani, quale chiamata abbiamo ricevuto da Gesù e dal suo Vangelo. Spesso i musulmani guardano alla Chiesa come a una cosa lontana che non ha niente a che fare con loro. Dobbiamo attraversare le frontiere della differenza per trovare il dono di Dio che sta nella vita dei nostri fratelli. È così che costruiamo il Regno, che è comunione non soltanto tra i cristiani ma tra tutti i figli di Dio. È un cammino di amicizia, che dobbiamo cercare con tutti coloro che sono più aperti, ma anche con quelli che pensano che siamo nemici. Bisogna aiutarli a capire che siamo fratelli e lavorare insieme per il bene comune.

 

Il governo algerino ha recentemente approvato una nuova legge che regolamenta i culti non cristiani e che prevede pene molto severe per chi viene accusato di proselitismo. Come giudica questo provvedimento, molto restrittivo della libertà religiosa?

È una legge che ha di mira soprattutto i cristiani evangelici, che fanno presentazione pubblica del cristianesimo nelle strade, distribuiscono apertamente

la Bibbia, promuovono conversioni… Per questo il governo ha preso misure che per noi sono difficili da accettare, perché si parla di prigione per tutti coloro che presentano il cristianesimo ai musulmani: questo non è accettabile e non è una soluzione. Certamente bisogna trovare modi di relazione rispettosa tra cristiani e musulmani e allontanarsi da forme di proselitismo propagandistico. Io stesso ritengo che la comunicazione spirituale possa avvenire a un altro livello. Per questo, siamo solidali con i nostri fratelli evangelici, ma vogliamo anche distinguerci. D’altro canto, speriamo che il governo trovi altre soluzioni, che non siano l’arresto e la prigione.

Pensa che la penetrazione di correnti islamiche più tradizionaliste, se non addirittura fondamentaliste, all’interno del governo abbia ispirato questo provvedimento e, in prospettiva, il Paese potrebbe di nuovo sprofondare nella violenza?

 

In passato c’erano gruppi islamici fondamentalisti, che accettavano come principio l’uso della violenza in nome di Dio. Oggi ci sono ancora gruppi di fondamentalisti, che tuttavia non propugnano più la lotta armata, ma sono più orientati alla fedeltà alla legge musulmana e ai precetti del Corano. Oggi ci troviamo di fronte a queste nuove correnti di fedeltà e pietà. Si tratta di uno sviluppo proprio della società che non solo dobbiamo accettare, ma anche in questo ambito siamo chiamati a cercare la possibilità di un incontro.

 

 

 

Anna Pozzi

Mondo e Missione/Novembre 2006

Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Giovedì, 23 Novembre 2006 19:27

SPERANZE “leggere”

SPERANZE “leggere”di Gianni Ballarini
da Nigrizia/Settembre 2006

La sorpresa sta nel vedere il suo nome nell’elenco di chi vuole inserire il capitolo armi leggere nella 185 del 1990, la legge che disciplina il controllo sull’esportazione e importazione dei materiali di armamento. Proprio così: il generale Luigi Ramponi - ex presidente della commissione difesa del Senato e uomo di punta in Parlamento dell’ala militarista di Alleanza nazionale - ha dichiarato pubblicamente il suo appoggio alla proposta d’integrare l’attuale normativa con una regolamentazione delle operazioni legate alle armi leggere. E’ successo il 6 luglio scorso, in commissione difesa del Senato, dove, per la prima volta dopo 15 anni, si è discussa la 185. Relatrice, la diessina Silvana Pisa.

Ad ascoltare in aula la confessione di Ramponi, il sottosegretario alla difesa Lorenzo Forcieri, uomo di collegamento della Quercia con il mondo militare e già presidente dei parlamentari italiani nel gruppo Nato. In commissione, il sottosegretario ha confermato come l’esecutivo di centrosinistra «non abbia alcuna intenzione di stravolgere lo spirito della 185, che può tuttavia essere migliorata, attesi i profondi mutamenti che dal 1990 sono intervenuti in materia di commercio di armamenti». Frase buttata lì, che avrebbe potuto alimentare paure e interrogativi autunnali in chi teme ulteriori svuotamenti della normativa. L’esponente diessino fornisce a Nigrizia l’esegesi delle sue parole: «Non sono all’ordine del giorno di questo governo stravolgimenti peggiorativi della 185, in fatto di trasparenza. Si potrebbe intervenire solo per semplificare alcune norme. E penso che questa legge, se non viene vista ideologicamente come un totem intoccabile, possa essere migliorata, in particolare sul tema delle armi leggere, capitolo da introdurre nella normativa. Sarebbe un intervento assai utile e per nulla impossibile. Aziende del nostro paese esportano armi leggere, dopo aver vinto legittime gare internazionali. Perché non rendere questi passaggi assolutamente trasparenti? Se invece, come la storia recente ci ha insegnato, queste armi imboccano percorsi più oscuri e ce le ritroviamo “riciclate” in qualche paese in conflitto, è giusto un controllo rigoroso. Sono situazioni da regolarizzare».

Ma il sottosegretario sa che le sue parole camminano sul ghiaccio. «E’ una materia estremamente delicata e che irrita la sensibilità di molti. Ci vuole cautela nell’affrontarla».

E già in commissione difesa del Senato c’è stato chi ha alzato le antenne, come lo stesso presidente Sergio De Gregorio, espressione della maggioranza (senatore dell’Italia dei Valori), ma da sempre custode fedele degli interessi dei militari e delle aziende di settore. La cui lobby, sul tema, ha costruito le barricate. Sono altre le richieste che ha avanzato al governo Prodi: a) riportare le spese per la difesa sopra l’11% del Prodotto interno lordo (PiI); b) ristrutturare l’apparato militare, tagliando le spese che toccano organismi, sedi e personale, per potenziare la ricerca e lo sviluppo; c) continuare l’impegno nelle missioni militari all’estero; d) maggiore attenzione al processo di costruzione dell’Europa della difesa.

Ma è soprattutto sul primo punto che aziende e lobbysti non vogliono fare sconti. A sostegno della loro causa, portano il recente Rendiconto generale dello Stato, preparato dalla Corte dei Conti e dedicato all’esercizio finanziario 2005. I fondi destinati al ministero della difesa, già in diminuzione rispetto all’esercizio precedente, risultano essere stati decurtati anche in corso d’opera: lo stanziamento definitivo di 17.782 milioni è inferiore di 1.717 milioni rispetto a quello iniziale. E anche nei prossimi 3 anni la situazione, ascoltando le ragioni del clan “armiero”, non appare rosea. Nel Documento di programmazione economico-finanziaria (Dpef), discusso alle Camere, i tagli di bilancio per la difesa si aggirano attorno ai 412 milioni di euro.

AFFARI MILITARI

Un pianto militare che dura da anni. E che mal si concilia con la classifica che il Sipri, l’istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma, pubblica sulle spese militari. Anche nel 2005, l’Italia ha mantenuto la settima posizione, con 25,1 miliardi di dollari. Lo stesso ministro della difesa, Arturo Parisi, non disarma. Appena letto dei tagli, è partita una sua controffensiva. E ha annunciato che il governo ha previsto, per il 2006, uno stanziamento di 400 milioni di euro per la difesa. Senza trascurare le nuove risorse per la missione in Libano.

E pure le aziende di settore galleggiano nell’oro. La Finmeccanica controlla quasi per intero il mercato italiano. Nella lista delle 100 aziende top della difesa stilate da Defense News nel 2005, il colosso presieduto da Pier Francesco Guarguaglini è in quarta posizione in Europa, con ricavi pari a 7.670 milioni di dollari. Nel 2005 Finmeccanica ha registrato un incremento del 45% degli ordini del gruppo (da 10,5 a 15,4 miliardi di euro) e un più 25% di valore della produzione, portata a 11,4 miliardi di euro.

Una holding che spesso opera borderline. Sul confine. Con i vincoli posti dalla 185 che, talvolta, si scansano per lasciarla passare. Degli esempi? L’articolo 1 della legge del 1990 vieta il trasferimento di armi a paesi coinvolti in conflitti e responsabili di violazioni di convenzioni internazionali sui diritti umani. Una norma successiva nega il commercio “militare” con i paesi che risultano beneficiari di aiuti per la cooperazione.

In realtà, il 12 luglio scorso Alenia Aermacchi, società Finmeccanica, ha firmato un contratto con il ministero della difesa nigeriano per la manutenzione e l’aggiornamento di 12 velicoli MB-339. Valore dell’appalto: 84 milioni di dollari. Eppure, la Nigeria ha non solo problemi di gravi violazioni dei diritti, ma anche una situazione conflittuale nel Delta del Niger. E l’Italia, alla fine del 2005, ha cancellato ad Abuja quasi 900 milioni di euro di debito.

E’ passata quasi sotto silenzio, inoltre, l’intesa raggiunta a gennaio da Finmeccanica con la Libia. Il gruppo di Guarguaglini, Augusta Westland (sempre legata al colosso italiano) e la Libyan Company for Aviation Industry hanno sottoscritto un accordo per costituire una joint venture, denominata Liatec (Libyan Italian Advanced Tecnology Company), con sede a Tripoli, e che ha come compito quello di rimettere in efficienza le flotte di elicotteri e aerei libici. L’Augusta Westland, in concomitanza con l’annuncio della firma, ha ottenuto dalla Libia la commessa per 10 elicotteri A 109E Power, per un contratto il cui valore s’aggira sugli 80 milioni di euro.

Ma l’affare è ben più ampio di quanto possa apparire. E ha riflessi assai rilevanti per il business Finmeccanica in Africa. Infatti, la neo società beneficerà di diritti commerciali per la vendita di elicotteri, assemblati localmente, in un certo numero di paesi del continente. La Liatec, poi, sarà in grado di rifornire molti paesi dell’area di sistemi elettronici e terrestri, oltre all’assistenza tecnica, la manutenzione e le parti di ricambio. Segno che il gruppo italiano punta diritto anche sul mercato africano.

Il controllo in Italia

In Italia non esiste un quadro giuridico univoco e coerente in materia di armi leggere e di piccolo calibro (cfr. Le armi dei Bel Paese, di Elisa Lagrasta, per Ediesse Archivio Disarmo, 2005). La legislazione si articola in due settori: armi da guerra e armi comuni da sparo. Il primo è disciplinato dalla legge 185 del 1990; il secondo, dalla 110 del 1975. Le armi che non rientrano nell’elenco posto sotto osservazione dalla 185 sono le cosiddette armi civili, ossia pistole, revolver, carabine e fucili concepiti per la caccia, lo sport o la difesa personale, e le munizioni comuni da sparo. La 110 indica il ministero dell’interno come responsabile del rilascio delle autorizzazioni per le esportazioni di queste armi.

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Martedì, 21 Novembre 2006 11:24

Il Gesù storico

 

Il Gesù storico

È partito il corso di aggiornamento su "Gesù di Nazareth tra storia e fede" organizzato dall'Istituto Superiore di Scienze Religiose "Ecclesia Mater" e dall'Ufficio per la Pastorale Scolastica e l'IRC del Vicariato di Roma. Oltre 120 gli iscritti.

Giovedì 26 ottobre, nel corso della lezione inaugurale, mons. Rino Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense, ha sottolineato che «la cristologia costituisce il cuore di ogni teologia perché segna il punto iniziale di ogni riflessione critica della fede su se stessa e rappresenta pure il suo punto finale come esperienza della contemplazione e dell'adorazione della figura divina». Dopo aver ribadito l'importanza della ricerca storica su Gesù e le varie tappe che ha attraversato, Mons. Fisichella ha rilevato che sarà comunque compito della riflessione teologica «riportare Gesù ai Vangeli. In altri termini, Gesù dovrà avere senso per le situazioni concrete di vita, perché lo scopo del Vangelo è appunto quello di essere segno intramontabile, in mezzo alle generazioni, della salvezza rivelata da Gesù».

Il 9 novembre, la seconda lezione è stata tenuta dal prof. Giorgio Jossa, docente alla Università "Federico II" di Napoli e alla Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale. Il docente ha ripercorso le tappe della ricerca sul Gesù storico dalla fine del Settecento fino al secondo dopoguerra, arrestandosi sulla soglia della "Third Quest". Rispondendo poi alle numerose domande dei presenti  ha chiarito che «è sbagliato separare il Gesù storico dal Cristo della fede». A proposito delle difficoltà e della legittimità della ricerca storica, ha poi ribadito che lo storico deve fermarsi di fronte a qualcosa che non può essere ricostruito dalla sua ricerca, perché gli evangelisti raccontano una storia kerygmatica, interpretata alla luce della fede.

 

Anno Accademico dell'"Ecclesia Mater". Il 6 novembre ha preso l'avvio il nuovo Anno Accademico dell'Istituto Ecclesia Mater. Mons. Luigi Moretti, Vescovo ausiliare di Roma, nel suo intervento ha lodato il grande sforzo che è stato realizzato per corrispondere ai nuovi criteri del "Processo di Bologna" con la riforma dei cicli di studio. Il Decano della Facoltà di Teologia della Università Lateranense, il prof. Mons. Renzo Gerardi, ha spiegato, nella sua prolusione, che scopo della riforma, tra l'altro, è di mettere ordine nell'insegnamento superiore che ha visto finora una "frammentazione", che andava a scapito della qualità, potendo distinguere tra Facoltà teologiche, Istituti - incorporati, aggregati, affiliati - e Istituti Superiori di Scienze Religiose, Istituti di Scienze Religiose, Scuole di Formazione Teologica. La riforma prevede anche una verifica della qualità, che impegna Santa Sede e Università, la formazione di una vera e propria rete accademica, la distinzione n  etta e precisa, a favore della qualità degli studi, tra percorso accademico nelle Facoltà e Istituti collegati e percorso non accademico proposto nelle varie Scuole di formazione.

Mons. Giuseppe Lorizio, Preside dell'Istituto, nel suo intervento ha delineato il progetto formativo dell' "Ecclesia Mater" alla luce del Convegno di Verona. Per il testo completo del discorso:

www.vicariatusurbis.org/ecclesiamater

 

È nata la Newsletter dell'Associazione Teologica Italiana (ATI). Nel primo numero, del 12 ottobre, il Presidente, mons. Piero Coda, sottolinea che  si tratta di un «piccolo passo, cui speriamo ne seguano altri, per moltiplicare la nostra capacità di condividere e confrontare i nostri sforzi e i nostri percorsi, per ritrovare modi di fare teologia insieme, per dare sempre meglio all'ATI un volto comune, in un arricchimento di verità di indirizzi e iniziative, che porti il suo contributo alla Chiesa e alla teologia in Italia». Per iscriversi:

www.teologia.it

 

Formazione a Verona. Ambito Affettività Sul piano degli interventi pastorali, è emersa innanzitutto l'importanza di un compito culturale per la Chiesa. Ad essa è chiesto il servizio della verità, decisivo di fronte all'attacco all'identità dell'uomo che nella vita affettiva trova un punto di fragilità forte. Ci si aspetta dalla Chiesa una riflessione "alta" che non abbassi il livello e che sappia "rendere ragione" della bellezza dell'esperienza cristiana nella vita affettiva. Una proposta condivisa e prioritaria è quella di una formazione non settoriale, che sappia cogliere tutta la persona nella varietà delle sue condizioni esistenziali. Molto sentita è l'esigenza di una pastorale unitaria che non divida i contesti di vita. Pare insufficiente occuparsi dei soli passaggi "consolidati" del percorso di iniziazione cristiana: occorre accompagnare la vita tutta. A questo proposito va evidenziato che in quasi tutti i gruppi sia stata sottolineata l'importanza della direzione spiri  tuale come accompagnamento della persona. D'altra parte è stato anche rilevato che i sacerdoti sono anch'essi "figli del nostro tempo" e quindi spesso poco attrezzati a rispondere a questo difficile compito.

Da questo punto di vista l'esigenza di formazione, che è avvertita a tutti i livelli, va concepita prima di tutto come formazione di tipo antropologico e fruibile non solo da giovani, adulti e famiglie, ma destinata anche a consacrati, presbiteri e seminaristi oltre che ad educatori ed operatori della pastorale. Particolarmente auspicabile al proposito è una maggiore valorizzazione della presenza educativa della donna, con la sua risorsa di femminilità e di attenzione alla vita.

 

Libri. J.N. Aletti, M. Gilbert, J.L. Ska, S. De Vulpillieres, Lessico ragionato dell'esegesi biblica. Le parole, gli approcci, gli autori, Queriniana, Brescia 2006; 168 pp., Euro 15,00.

 

Gli Autori sono noti esegeti e professori di sacra Scrittura: essi intendono venire incontro a chi si accinge allo studio o alla semplice lettura dei testi biblici, per facilitare la comprensione delle parole tecniche, dei concetti fondamentali e, in generale, del linguaggio che riguarda la Bibbia. La prima parte è dedicata alla presentazione dei libri della Bibbia, alla loro trasmissione, al canone della Scrittura, alle lingue usate, alle versioni, ai manoscritti. La seconda parte riguarda il linguaggio utilizzato nell'esegesi moderna e la sua

evoluzione: fornisce il lessico dell'approccio diacronico e storico-critico. La terza parte presenta il lessico dell'esegesi sincronica, secondo le diverse modalità di analisi: narrativa, retorica, epistolare. Nell'ultima parte vengono presentati i vocaboli specifici usati con frequenza nell'analisi letteraria generale, i termini ebraici, greci, inglesi e tedeschi che un lettore può incontrare in opere che riguardano la Bibbia.

 

La mailing list cui viene inviato questo numero è stata fornita dal "Comitato per gli Studi Superiori di Teologia e di Religione Cattolica"

della CEI.

 

OFTeL - Pubblicazione quindicinale dell'Istituto "Ecclesia Mater" della Pontificia Università Lateranense.

Direttore: Mons. Giuseppe Lorizio - Direttore responsabile: Fabrizio Mastrofini. Comitato di redazione: Mons. Giuseppe Lorizio, Mons. Nunzio Galantino, don Pierluigi Sguazzardo, don Filippo Morlacchi.

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OFTEL - OSSERVATORIO FORMAZIONE TEOLOGICA DEI LAICI NEWSLETTER PROMOSSA DALL'ISTITUTO ECCLESIA MATER DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSE

DIRETTORE: GIUSEPPE LORIZIO - DIRETTORE RESPONSABILE: FABRIZIO MASTROFINI NUMERO 2 - 15 NOVEMBRE 2006

 

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 LA POLITICA: POTERE FORTE O STRUMENTO DEI POTERI FORTI?

di Lino Duilio
da Rivista Servire/gennaio-marzo 2006

La questione del rapporto tra potere politico e potere economico è questione nuova eppure antica, nel senso che la loro è una relazione problematica, che esiste da sempre e che risulta ancora più specifica a partire dalla nascita dell’epoca moderna, quando economia e politica si costituirono, insieme alla scienza, al diritto e ad altre sfere dell’agire umano, come sfere dotate di una propria autonomia, svincolate da un preciso riferimento ad un fondamento morale di origine trascendente.

La complessità di quel rapporto viene dunque da lontano e, per le caratteristiche quantitative e qualitative che gli intrecci sono andati assumendo nel tempo, affonda le sue radici, oltre che nelle dinamiche proprie del mondo degli affari e del fallibile comportamento umano, nei caratteri peculiari della scienza economica moderna.

Le continue, reciproche interferenze tra potere economico e potere politico si realizzano, in modo aperto o in modo subdolo, su un terreno che ha assunto progressivamente una dimensione di valore che va ben al di là della funzione specifica che ne aveva segnato l’origine: stiamo parlando del “mercato” o del “sistema di mercato”. Il quale oggi detta legge, fornisce orientamenti, indirizza previsioni, costruisce “visioni”: il suo funzionamento, in nome della cosiddetta “sovranità del consumatore”, evoca continui e nobili richiami a questioni eminenti come la libertà, la giustizia, la distribuzione della ricchezza, l’equità.

Ma a ben vedere, con lo sviluppo sempre più sofisticato del modello capitalistico di produzione, il sistema di mercato mostra alcuni limiti e, se non adeguatamente regolamentato, produce eventi che ripropongono la domanda di quale debba essere lo spazio di autonomia assegnato all’economia nel più complessivo equilibrio sociale e nei riguardi del potere politico.

La domanda appare giustificata da alcune palesi “contraddizioni” che risultano comprensibili ad ogni normale intelligenza.

Per un verso infatti, con il passare del tempo,assistiamo al plateale rovesciamento di alcune di quelle che erano considerate tradizionali “virtù”: i comportamenti speculativi ad esempio, più che essere condannati, tendono progressivamente ad essere apprezzati come opera dell’ingegno; il mercato stesso viene sempre più idealizzato e percepito come unico e sicuro rimedio a tutti i mali del mondo; la stessa guerra comincia ad essere vissuta come strumento utile all’affermazione della democrazia. Sul piano più fattuale, per altro verso, le distorsioni emergono dallo spettacolo presente quotidianamente sotto i nostri occhi, sia a livello di sviluppo economico del pianeta che di più specifiche dinamiche interne ai cosiddetti paesi sviluppati. Fame, miseria, differenze abissali di status tra i cittadini del mondo, forme estreme di benessere e di povertà, sovralimentazione e sottoalimentazione, rapporti commerciali non proprio paritari tra stati, questi ed altri sono gli elementi di conoscenza offerti dalla concreta situazione del mondo. E se si volge lo sguardo ai contesti a noi più familiari, non vi è chi non veda come forme di capitalismo “selvaggio” e di familismo amorale, intreccio tra politica ed affari, assenza di regole nella trama dei rapporti economici siano all’ordine del giorno.


Il sopravvento dell’economia

Provando a guardare dietro la facciata, sembra emergere la realtà di un potere che è molto più visibile ma molto meno effettivo nella sfera politica, mentre è molto meno apparente ma molto più sostanziale nella sfera economica. Con la conseguenza di un connubio tra politica ed affari vissuto come antidoto o come convenienza, con la politica che finisce comunque nelle braccia dell’economia e della finanza, e con la sostituzione, a scapito dell’interesse generale, delle corporazioni di interesse, di natura economica, industriale e finanziaria, sulle istituzioni, da sempre concepite come presidio di tutela del bene comune per tutti i cittadini.

In definitiva, la realtà empirica è lì a dimostrare che un mercato evoluto non rappresenta lo spontaneo prodotto dell’azione umana ma il tutto di regole e di principi che sono andati progressivamente affinandosi, anche a seguito dei numerosi fallimenti che si sono verificati nel tempo.

In assenza di tutto questo, non disponendo di una propria autosufficienza sul piano etico, l’economia sembra sviluppare una genetica inclinazione al disordine ed alla sopraffazione, sedimentando distorsioni che si rivelano dannose per lo stesso processo di crescita della libertà. Del resto, che essa fosse incline a prendere il sopravvento su tutto il resto era ben chiaro già nella fase della nascita dell’economia politica come scienza. Lo ricorda Ernst F. Schumacher, un economista tedesco di nascita ma angloamericano di formazione, in un aureo libretto pubblicato a Londra nel 1973, dal titolo “Piccolo è bello”. Dove si legge che “Tornando insieme nella storia possiamo ricordare che quando si discuteva a Oxford 150 anni fa sull’opportunità di istituire una cattedra di economia politica erano in molti a non essere lieti di questa prospettiva. Edward Copleston, il grande Rettore dell’Oriel College non voleva ammettere nel curriculum dell’Università una scienza “così incline a usurpare tutto il resto” anche Henry Drummond di Albury Park, che aveva sovvenzionato la cattedra nel 1825, sentì la necessità di chiarire che si aspettava che l’Università tenesse al proprio posto la nuova scienza”.

E la politica? Come ha reagito la politica dinanzi ad una tale inclinazione?

La politica ha teso ad instaurare un rapporto con l’economia all’insegna di un condizionamento possibile ai fini della tutela dell’interesse generale. In ciò assumendo la tesi che l’economia in sé tutela interessi parziali, e che è necessario introdurre regole di comportamento che non favoriscano prevaricazione ed ingiustizia. Questa preoccupazione è diventata a volte eccessiva ed invadente, come nel caso dei sistemi ad economia pianificata. Con risultati, come è unanimemente riconosciuto, del tutto fallimentari.

Il problema del rapporto problematico tra economia e politica, però, resta tuttora aperto. Ed oggi ancora più intricato per lo scarto che esiste, nella cosiddetta “società globale”, tra il luogo delle decisioni, sempre più sovranazionale, e gli effetti di queste decisioni, che ricadono tuttora all’interno degli stati nazionali.

Per il ritorno della politica

Come si può uscire da questa situazione? Come è possibile affrontare i problemi inediti che emergono in questa società postindustriale? Come è evitabile la sudditanza, anche culturale, della politica nei riguardi dell’economia?

Per contrastare efficacemente la piega che le cose stanno prendendo, credo che occorra innanzitutto reagire al disincanto ed allo scetticismo che pervadono i nostri comportamenti, e riaffermare con convinzione il primato della politica sull’economia. Un primato che definirei “debole” più che forte, nel senso che sia capace di mettersi sempre in discussione, ad evitare l’eccesso di una politica che imbrigli la libertà economica dentro pastoie che costituirebbero il classico rimedio peggiore del male.

Per ottenere un tale risultato, è necessario pensare all’introduzione di regole in grado di favorire una vera concorrenza tra gli attori economici, evitando che, in modo aperto o malcelato, si formino concentrazioni in grado di dettare esse le regole del gioco. Perché regole vere possano essere pensate è necessario agire per “un più di politica” rispetto alla situazione attuale, intendendo per politica evidentemente quella con la “P” maiuscola, che punta all’interesse generale ed esalta il ruolo delle istituzioni, da intendere come “luogo” che preserva lo spazio delle libertà.

Fondamentale per un simile obiettivo è la crescita della coscienza civica e la conseguente possibilità di avere una pubblica opinione non facilmente condizionabile da messaggi lesivi delle fondamentali regole in materia di bene comune e di trasparenza dei comportamenti pubblici e privati. È questione - quest’ultima - oggi ancor più rilevante se si pensa che di frequente il potere economico e finanziario si trasforma in potere mediatico, in grado di condizionare pesantemente la formazione dei consenso sociale e dunque la libertà del cittadino.

Volendo concludere, il rischio della società moderna, e della società italiana ancor più in particolare, è che la politica, anziché essere un potere autorevole e forte, nel senso spiegato, diventi essa stessa uno strumento dei poteri forti. È un rischio del quale essere consapevoli e che occorre assolutamente contrastare. Non si tratta, evidentemente, di un compito facile, anche perché man mano che si procede verso una società della conoscenza a livello globale risulta ancora poco chiaro qual è lo spazio delle decisioni rilevanti che restano assegnate alle politica: a questo fine, mancano istituzioni adeguate, difettano le procedure, tardano a venire le necessarie riforme nei rapporti tra stati.

In ogni caso, anche se molto cammino resta ancora da fare, una cosa sembra sempre più chiara: in futuro, se si vorrà costruire una prospettiva possibile di libertà, di giustizia e di pace, avremo bisogno di una politica più forte, che sia in grado di ridimensionare questa pretesa onnivora dell’economia, che si manifesta sia a livello culturale che di pratiche individuali e di performance più complessive.

Perché uno scenario di tal fatta divenga probabile, è necessario ricreare le condizioni, ai diversi livelli, perché le istituzioni recuperino la loro intrinseca dimensione etica, grazie a nuove regole che andranno introdotte ed alla formazione di libere coscienze di uomini e donne di fortissima tempra spirituale che, con buona volontà, si ridedichino alla politica con passione e con rigore.

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Mercoledì, 11 Ottobre 2006 19:58

Etica e politica: divorzio inevitabile (Franco Monaco)

Il problema del matrimonio, piuttosto che del divorzio, con l’etica si pone per ogni sfera dell’ attività umana: famiglia, scuola, lavoro, cultura, politica. Chi non indulge a una visione meccanicistica o deterministica della vita e della storia, chi cioè le interpreta come poste sotto il segno della libertà (e della responsabilità), non può non porsi il problema di orientare giudizi, scelte e comportamenti alla verità e al bene.

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NdR: questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 1 agosto 2006
Il primo ministro britannico ha rivelato di essersi accordato, venerdì scorso, con il presidente americano per effettuare «uno sforzo finale» e cercare di rimettere in moto le trattative, sospese a tempo indeterminato lunedì scorso, tra i 149 Paesi della Wto, l'Organizzazione mondiale del Commercio. George Bush, per parte sua, ha confermato di avere istruito la negoziatrice americana, Susan Schwab, a continuare negli sforzi per rianimare i colloqui nel giro di settimane. Qualche speranza affinché anche il sistema globale degli scambi non scivoli verso la strada delle ripicche e delle dimostrazioni muscolari, dunque, rimane. Non è però il caso di trattenere il fiato, per ora. Il dato di fatto è che il negoziato è saltato esattamente una settimana dopo che i leader del mondo, riuniti nel G8 di San Pietroburgo, avevano dato indicazione pubblica affinché i loro ministri del Commercio raggiungessero un accordo. Che Bush e Tony Blair tengano oggi aperta una porta, dunque, non è indicativo del fatto che Stati Uniti e Unione Europea riescano davvero ad arrivare a una liberalizzazione significativa, soprattutto in fatto di agricoltura. Men che meno è un segno della disponibilità delle potenze emergenti a raggiungere un compromesso in tempi rapidi: in un incontro tra la signora Schwab e il ministro degli Esteri brasiliano Celso Amorim, sabato scorso, si è parlato di cinque-otto mesi prima che le trattative possano riprendere. Ieri, anche il commissario europeo al Commercio, Peter Mandelson, si è chiesto in un articolo molto aperturista sul «Financial Times» «quale fenice può risorgere dalle ceneri», dopo il fumo e le fiamme dei giorni scorsi. E ha sostenuto che «in agricoltura le posizioni non sono irriconciliabili»: la Ue deve muoversi verso il taglio delle tariffe chiesto dai Paesi emergenti e gli Stati Uniti devono tagliare pochi miliardi di dollari di sussidi agli agricoltori americani. Si può fare, dice Mandelson. In Europa, tra l'altro, si parla di un possibile consiglio straordinario dei ministri del Commercio per dare un mandato più flessibile al commissario stesso. Gli ostacoli politici, però, sono seri. La Francia, che vede arrivare le elezioni presidenziali, ha più volte detto di avere ormai superato il limite delle concessioni che i suoi agricoltori possono sopportare. E a Washington, con le elezioni di medio termine in autunno, la lobby degli agricoltori è fortissima. Un esito positivo del Doha Round beneficerebbe l'economia mondiale e soprattutto quella dei Paesi poveri. Ma, in questo momento, farebbe di più: sarebbe il rilancio di un sistema multipolare in un mondo con pochissimo ordine. Il litigio, invece, porta brutte notizie. Da quando i negoziati sono stati interrotti, le tendenze commerciali meno positive hanno preso a correre: la Russia ha dovuto accettare di rinviare al 2007 o al 2008 l'ingresso nella Wto; l'India ha detto che svilupperà i suoi accordi commerciali bilaterali, al di fuori del sistema multilaterale; la Cina sta già registrando rallentamenti nel passo delle riforme economiche (lo ha denunciato il dipartimento al Commercio americano). Le ragioni per insistere con il Doha Round sono insomma forti. Il guaio è che, come sanno Bush e Blair, lo erano già a San Pietroburgo.

Fonti:
Corriere della Sera
www.tradewatch.it
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Venerdì, 18 Agosto 2006 14:44

LA FINANZA ETICA NON ESISTE

LA FINANZA ETICA NON ESISTE

da
Carta n° 7, luglio/agosto 2006

(abstract)

La finanza etica non può esistere. È un ossimoro che può condurci su
percorsi equivoci. Dobbiamo invece ripartire dalla moneta e dal suo ruolo di
supporto tecnico ai processi produttivi e di scambio. Affermare questo significa
rendere la moneta dipendente dalle scelte produttive e non queste dalla
finanza. Significa inoltre abbandonare l’idea che la moneta, mediante la sua
forma finanziaria, possa divenire fonte di valore e di guadagno. Senza questo
salto di qualità non si esce dai meccanismi perversi della speculazione
finanziaria ai quali va ricondotto lo stesso concetto di interesse. Non può
esistere una “banca etica” il cui utile non sia il risultato di una
partecipazione al rischio di ogni operazione imprenditoriale di investimento,
in forma solidale con i produttori, ma sia un utile acquisito come diritto solo
per il possesso del denaro che viene messo in circolazione indipendentemente
dall’esito finale dell’operazione economica. Altro aspetto della banca etica
deve essere il rifiuto di partecipare alle attività di imprese non etiche e a
forme di investimento finanziario anonime come avviene mediante l’immissione
sul mercato delle azioni e delle obbligazioni. L’anonimato è la causa
principale della mancanza di etica e della corruzione di certa finanza. 

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ROMA-MOSCA: SALE ANCORA

LA TENSIONE SUL NODO DELL’UNIATISMO

 

“E’ una posizione aggressiva: dal vaticano ci aspettiamo  dei passi concreti, non delle dichiarazioni poi puntualmente smentite dai fatti”: non usa mezzi termini il vescovo ortodosso di Egorievsk Mark Golovkov, vicepresidente dell’Ufficio relazioni estere del Patriarcato di Mosca. Il riferimento è alle modalità con cui il Vaticano sta gestendo la situazione della Chiesa greco-cattolica in Ucraina. Si tratta di quella che spregiativamente viene chiamata Chiesa uniate, il cui leader, cardinale Lubomyr Husar, chiede che la sua Chiesa venga elevata a rango di patriarcato, con sede a Kiev. Di fatto dalla città di L’viv l’arcivescovado è già stato spostato nella capitale dell’antica ‘Rus cristiana, patria spirituale degli apostoli Cirillo e Metodio. E Benedetto XVI, il 22 febbraio, ha inviato una lettera a Husar, “arcivescovo maggiore di Kyiv-Halic”, per ricordare le persecuzioni di 60 anni fa subite dai greco-cattolici, che oggi diventano “stimolo per la comunità greco-cattolica ad approfondire il suo intimo e convinto legame con il successore di Pietro”.

Se Kiev dovesse essere elevata a rango di patriarcato, agli occhi di Mosca vorrebbe dire che secondo Roma, i discendenti dei primi evangelizzatori cristiani non sarebbero gli ortodossi, ma i cattolici che nel XVI secolo si sono riuniti al Papa. Una richiesta quella del cardinale Husar, osteggiata da diversi personaggi della Curia romana attenti al dialogo ecumenico. Anche il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, ha dichiarato più volte la non opportunità della cosa, aggiungendo che nulla era stato deciso in proposito dal Pontefice.

Per spiegare il clima teso che esiste in Ucraina a causa di questi eventi, il vescovo Mark ricorda che era stato raggiunto un accordo di collaborazione “ma poi i nazionalisti uniati della Chiesa greco-cattolica non hanno voluto tener fede ai patti e hanno preso con la violenza  molte chiese ai nostri preti, i quali oggi non possono celebrare in quei villaggi dove la maggioranza della popolazione è ortodossa”. Inoltre, accusa, “corre voce che

la Chiesa uniate si consideri come

la Chiesa di tutti gli ucraini. Più volte il cardinale Husar ha dichiarato che in Ucraina ci dovrebbe essere un unico Patriarca, in comunione con Roma, cioè lui. E a questa cosa sono contrari tutti i Patriarchi della Chiesa ortodossa. Il Vaticano, che sostiene anche economicamente

la Chiesa uniate, ha il dovere di intervenire”. Fino a quando questo punto non sarà chiarito, dice Mark, la sostanza delle relazioni non cambia. E nessuna visita tra il Papa e il patriarca Aleksji II può prospettarsi all’orizzonte.

 

 

vi.pri

Jesus/maggio 2006

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Lunedì, 24 Luglio 2006 11:54

“IO ERITREO CAPPELLANO A MILANO”

“IO ERITREO CAPPELLANO A MILANO”

Tra le cappellanie della comunità straniera, quella eritrea a   Milano è una delle più vecchie e consolidate, frutto del continuo flusso migratorio degli eritrei che hanno cercato nell’ex Paese colonizzatore sicurezza da guerre, persecuzioni e carestie.

I primi arrivi datano verso la fine degli anni Sessanta. Alora ad assisterli ci sono alcuni giovani frati cappuccini, in Italia per completare gli studi. La loro è un’assistenza non solo spirituale. I religiosi aiutano gli immigrati nel trovare casa, lavoro, per avere i permessi di soggiorno, ecc. E  non guardano alla fede.  Aiutano tutti: i cattolici (una minoranza)  e i non cattolici (la maggioranza). 

“L’assistenza agli eritrei – spiega padre Habtemariam Ghebreab, l’attuale cappellano – è nata ufficialmente 24 anni fa quando l’allora arcivescovo Cardinal Carlo Maria Martini, riconobbero il nostro sforzo per aiutare gli eritrei e ci permise di dare vita a un’assistenza”. Da allora, alla sua guida si sono alternati quattro cappuccini: Andemariam Tesfamicael, Stefano Tedla, Teclemariam Haile (conosciutissimo a Milano con il nome di padre Marino) e, appunto, Habtemariam Ghebreab . Padre Habtemariam, 62 anni, è nato in un villaggio vicino ad Asmara. Ha studiato in Africa e si è specializzato alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Prima di tornare in Italia nel 2002, è stato in Etiopia (dove ha diretto il seminario di Addis Abeba ed è stato maestro dei novizi) e in Eritrea (dove è stato coadiutore parrocchiale a Keren e Asmara). “A dire il vero – spiega padre Habtemariam – sono tornato per caso. Ero venuto qui per cure mediche, poi i superiori mi hanno chiesto di rimanere per dare una mano a padre Marino. Quando padre Marino si è ammalato, ho preso il suo posto. Anche se lui continua a collaborare con me”.

A Milano, il cappellano è il punto di riferimento per 200 famiglie eritree cattoliche. “Prima dell’indipendenza dell’Eritrea – ricorda -, la cappellania offriva assistenza spirituale ai cattolici, ma anche ai copto-ortodossi che venivano da noi per Messe e battesimi. Poi, nel 1993, si è costituita la comunità copta a Milano e da allora gli ortodossi hanno avuto il loro pastore”. 

La gran parte dei cattolici sono giovani immigrati, molti fuggiti dal loro Paese e arrivati qui dalla Libia. Ma ci sono anche persone arrivate in Italia molti anni fa. 

“Noi – osserva padre Habtemariam – cerchiamo di aiutarli come possiamo. Un tempo padre Marino li assisteva in tutto: dalle pratiche burocratiche alla casa, al lavoro ai rapporti con le istituzioni. Ora è diventato più difficile perché il numero degli immigrati è cresciuto e lavoro e casa sono merce rara per tutti”. 

L’assistenza è quindi prevalentemente spirituale. “Ogni domenica mattina – spiega – celebro una Messa in lingua zigrina. La celebrazione è accompagnata dai canti in gheez, una lingua arcaica dal quale sono nate le più importanti lingue di Etiopia ed Eritrea. Il sabato poi tengo lezioni di tigrino (per i bambini eritrei o meticci) e di catechesi ai giovani”. 

Padre Habtemariam ormai si è integrato in Italia. Oltre al suo servizio rivolto alla comunità eritrea collabora con i confratelli cappuccini del convento di viale Piave. “Devo essere sincero – ammette – non ho faticato molto ad ambientarmi. Un po’ perché molte abitudini degli eritrei sono state mutuate dai colonizzatori italiani. Ma anche perché nei conventi ad Asmara e Addis Abeba avevo già convissuto con missionari italiani e conoscevo bene il loro stile di vita : in Italia poi lavoro come in Eritrea: Nel senso che i miei parrocchiani sono tutti eritrei come lo sarebbero in una parrocchia a Keren, Asmara, Massaia, ecc.

Essere qui o là non fa molta differenza: L’unico vero problema è che qui i fedeli sono sparsi in una grande città come Milano. E non sempre è facile tenere i contatti con loro”.

Enrico Casale

Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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