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Mercoledì, 29 Dicembre 2004 00:01

Catastrofi e immagini di Dio (Faustino Ferrari)

Come è possibile insegnare che Dio è amore quando si è capaci di parlare soltanto di catastrofe e di morte? Si può amare Dio perché sperimentato come Dio e non per timore o per paura.

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Martedì, 28 Dicembre 2004 01:25

La necessità dell’unico padre

La necessità dell’unico padre






«Il nostro padre è Abramo» (Giovanni 8,39)..

Chi non conosce, nel Nuovo Testamento, la sfida lanciata a Gesù dai suoi interlocutori di cui denunciava le azioni? O ancora, l’invettiva di Giovanni Battista alle folle che venivano ad ascoltarlo nel deserto: «Non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre!» (Lc 3,8-9).

Così, alle soglie dell’era cristiana, la figura di Abramo appare nel mondo giudaico come una figura non solo di primo piano, ma unica, il padre per antonomasia di tutti coloro che si richiamano alla fede ebraica.

«Noi siamo discendenza di Abramo», dicevano gli Ebrei, «e non siamo mai stati schiavi di nessuno!» (Gv 8,33). Se, secondo il retroscena di questa affermazione, non ci si poneva la questione se Abramo fosse o no un personaggio storico, un’altra domanda si poneva, domanda che ci fornisce una via per comprendere tradizioni conservate in particolare nel libro della Genesi: in nome di chi si poteva reclamare Abramo come padre? In questo modo, affrontare il personaggio di Abramo come figura emblematica del padre unico costringe ad un’altra linea di lettura che la Bibbia nel suo stato attuale ci impone: quella secondo un ordine cronologico che, discendendo dall’unica figura paterna, ordina il seguito della storia. Bisogna dunque ripartire non più dalla figura di Abramo «all’origine», ma da un momento tardivo della storia ebraica e partendo di qui risalire sino alla figura di Abramo.

In ognuno di questi casi, il gioco è particolare. Il primo, quello della lettura cronologica che parte dall’inizio (Gn 11,27ss), impone un personaggio, degli eventi, dei luoghi, che possono essere passati al setaccio della critica storica, cosa di cui Thomas Romer (vedi pp. 4-9) ricorda gli esiti. Il secondo, quello che risale a partire da uno o più precisi momenti posteriori, s’interroga in primo luogo su ciò che ha indotto i redattori e i teologi biblici a scegliere questo o quell’evento, ad accentuare questa o quella affermazione, in una parola, ad elaborare così, e non diversamente, a partire da questi momenti tardivi della storia di Israele, il personaggio e la sua storia così come la scopriamo nella Genesi e in talune allusioni dei libri profetici, dei salmi, delle lettere di Paolo e dei vangeli.

Questo procedimento coinvolge certo la comprensione del personaggio di Abramo stesso, ma privilegia soprattutto la comprensione che Israele ha voluto farsi e dare di lui, rivelando allo stesso tempo un certo processo di composizione dell’Antico Testamento.



Valorizzazione della storia di Abramo





All’inizio del processo, bisogna ricordare questo dato di fatto, che Abramo compare nella storia di Israele molto prima che questo popolo esista con una propria autocoscienza, dal momento che a lui per primo fu detto: «Fa un grande popolo» (Gn 12,2). La sua realtà di «padre», di «antenato» dipende dunque dalla realtà di un Israele ancora da venire. E la lunga durata che, secondo lo stato attuale del testo biblico, lo separa dai primi momenti in cui si può riconoscere Israele come popolo sulla sua terra (nei libri di Giosuè e dei Giudici), non fa che acuire la domanda: perché la storia di Abramo è stata sviluppata, e dunque valorizzata, in questo momento?

Per dare una risposta, non si tratta più di legge-re questa storia come se si trattasse di scoprirla alla maniera di una serie di episodi sconosciuti e sorprendenti; si tratta di leggerla come portatrice di elementi che giustificano che sia riportata così e soprattutto collocata «all’inizio» della storia di Israele.

Tre elementi si impongono allo spirito del lettore che ha concluso la storia dell’Antico Testamento ed è giunto, nel Nuovo Testamento, alle dichiarazioni sia degli ebrei sia di Giovanni Battista: il personaggio di Abramo, i suoi movi-menti migratori e il suo insediamento in una terra che accoglierà le sue spoglie.

Antenato di tutti gli ebrei, Abramo ha vissuto una storia che lo ha condotto dapprima dall’oriente mesopotamico (Gn 11,31) all’Occidente egizio (12,10), prima di stabilirsi sulla terra del futuro Giuda. Nel passaggio, alcuni luoghi sono destinati a ricevere una sorta di istituzione sacrale della sua presenza, dell’intervento divino e dunque delle promesse ricevute e delle gesta del patriarca. Santuari celebri (Sichem, More, Mamre, Bersabea...) riceveranno così la loro autenticazione e allo stesso tempo la garanzia della loro antichità.

Una buona memoria biblica vi riconosce una geografia e una toponimia che permettono, sin dal libro della Genesi, di leggere in filigrana di volta in volta la geografia e la storia di Israele nel corso di parecchi secoli. Tra l’esilio in Babilonia, come punto d’arrivo, e il ritorno dall’Egitto, come punto di partenza, con i luoghi di culto e di pellegrinaggio sulla terra di Canaan, è proprio l’itinerario di Abramo che traccia il modello di quello che Israele ha percorso nello spazio di alcuni secoli, e secondo gli stessi luoghi di riferimento in cui egli ha professato la sua fede. Come l’itinerario di Israele fu dunque quello del suo antenato, così i luoghi in cui egli fece culto e professò la sua fede in JHWH sono i medesimi fondati da Abramo con un senso di pietà segnato da esperienze divine effettivamente fondanti. Ma questa lettura ascendente che, partendo dalla storia tardiva di Israele, stabilisce una concordanza tra le esperienze religiose e gli eventi vissuti dall’uno, Israele, e le pratiche religiose e gli episodi della storia dell’altro, Abramo, permette di andare oltre nella comprensione dell’elaborazione dell’una e dell’altra storia e del loro organico legame.

Che il popolo di Israele abbia vagato, come Abramo, nel deserto, che abbia abbandonato la Mesopotamia, che sia ritornato, come lui, dall’Egitto, che abbia dunque ricevuto, proprio come lui, la terra in eredità secondo una promessa divina, non dice che una parte di questa storia nazionale. C’è anche, infatti, nel flusso stesso di questa storia, una serie di tensioni che rivela, trattandole o tacendole, lo sviluppo della storia dell’antenato unico. La storia di Abramo non appartiene così soltanto all’ordine della riproduzione in microcosmo, o della negazione, della lunga storia successiva di Israele; essa appartiene anche all’ordine di una soluzione delle tensioni che quest’ultima ha prodotto, rivelando allo stesso tempo una delle spinte del processo di composizione della storia nell’Antico Testamento.

Per limitarci per il momento al ritorno dall’esilio, ci sono ad esempio le tensioni tra i sostenitori di un rigore morale che arrivava sino al rifiuto delle spose straniere (Esd 9), e quelli che predicavano l’apertura e la tolleranza. Questo ritorno, così fortemente desiderato dagli ebrei più zelanti, rivelava tuttavia che era fortemente intaccata un’antica unità che forse era stata solo un sogno. Tra coloro che ritornavano da Babilonia, e gli altri che si erano trovati in Egitto o erano rimasti in Palestina durante l’esilio, non cessava di emergere una grande varietà nel modo di intendere la religione, la Legge e la storia, di cui lo scisma dei Samaritani, per non parlare degli ebrei sedotti dall’ellenismo, è un chiaro sintomo.
Parallele e correlate con quelle del ritorno dall’esilio, queste tensioni si manifestano nella storia anteriore come si troverà più o meno tardi unificata nei libri dell’Esodo e dei Re. A questa storia le cui tradizioni vedono nell’Egitto e nel deserto i grandi luoghi della nascita del popolo in attesa di ricevere la sua terra e di penetrarvi a partire dal libro di Giosuè, sembrano opporsi tradizioni più «indigene» che, nelle storie in particolare dei libri dei Giudici, lasciano intendere che Israele fu sempre là, sulla sua terra, una terra che dovette difendere contro i vari nomadi venuti dal deserto. Anche nella storia di Saul e di Davide si nota la tensione tra le ricche terre del nord, la Galilea e la Samaria, e le terre povere del sud, la Giudea, di cui Davide deve accontentarsi in un primo tempo. I problemi si risolveranno momentanea-mente alla morte di Saul, ma non saranno dimenticati, cosa che sarà, in gran parte, fondamento del tentativo di colpo di stato di Assalonne contro Davide, suo padre...

Così, nonostante laboriose limature e puliture per unificarla in una continuità cronologica senza fratture, la storia di Israele, dai Giudici all’esilio e nei secoli seguenti, non poté cancellare completamente queste tensioni che talora sfociarono nel fratricidio. Per rispondere ad esigenze di coerenza allo stesso tempo storica e teologica, era necessario andare oltre questa tappa delle limature e puliture tra tradizioni diverse, o anche contrapposte, per risalire ad un principio di unità che avrebbe ridotto definitivamente tensioni, disaccordi e antagonismi tanto regionali quanto religiosi.

La storiografia biblica nella sua ultima sintesi rivela qui un processo particolare fondato non solo sulla necessità di raccontare degli eventi, ma di individuare da una parte e dall’altra un principio di unità, che si rivelava provvisorio sino ad un termine ultimo, un principio definitivo. Fu così necessario passare, risalendo sempre più indietro, al di là della Legge riconosciuta e letta al ritorno dall’esilio, al di là della divisione dei due regni, al di là delle contrapposizioni tra Saul e Davide come al di là dei sostenitori di un’origine straniera o esterna, dell’Egitto e del deserto fortemente simboleggiati nel libro di Giosuè, e quelli di un’origine puramente indigena come riecheggiano alcuni episodi dei libri dei Giudici o del primo libro di Samuele. In questa incessante risalita ad un’origine pura e definitivamente «unificante», si doveva superare anche la rivelazione a Mosè sul Sinai, e superare persino l’antenato eponimo, Giacobbe, colui che diede il suo nome a Israele. Si risalirebbe così a quell’Abramo la cui storia doveva necessariamente integrare, per riconciliarli e conciliarli, le diverse componenti di una storia plurisecolare, componenti vissute o sentite all’inizio come diverse, opposte, inconciliabili e talora fratricide.

Percepire in questo modo il processo di una storiografia alla ricerca di origini pressoché assolute, cioè incontestabili ed «unificanti», significa percepire un progetto che non è solo di ordine storico, ma molto di più, di ordine nazionale e politico, e in modo ancora più definitivo di ordine religioso e spirituale, tanto che, nel contesto della scrittura biblica, non si possono separare e nemmeno distinguere i due ordini. In sé, sarebbe stato abbastanza insignificante che un uomo di Ur avesse deciso un bel giorno di lasciare la patria per dirigersi verso nord; e l’invito divino rivolto ad Abramo di compiere il suo periplo dal lato di Beerseba o di Ebron non avrebbe avuto maggiore significato di qualunque altra storia edificante.

Ma che questo itinerario evochi «in un’eco interiore» l’itinerario del popolo di cui quest’uomo era detto l’antenato, che i luoghi santi fondati da lui sotto la diretta ispirazione divina fossero quelli a cui questo popolo si recava in pellegrinaggio, questo conferiva a questa storia che, per quanto religiosa, era personale, un significato esclusivo, ultimo e definitivo.
Non si trattava più soltanto di una storia, nel senso dello storico; non si trattava più soltanto di pie leggende, per quanto fondanti un particolare santuario; non si trattava nemmeno più soltanto dell’itinerario mistico di un personaggio di alta levatura spirituale. Si trattava di far vivere un popolo indicandone il padre, colui in cui poteva non solo riconoscersi, ma riconciliarsi, assumendo tutta la sua storia nelle sue tensioni. Che si tratti di terra e di deserto, di nomadismo e di sedentarietà, d’alleanza e di legge (della circoncisione), Abramo, dall’oriente all’occidente, assicurava per finire e per cominciare l’unità di Israele.

Così sognarono e scrissero i redattori della storia di Abramo. Così sognarono e lessero le generazioni ebraiche e cristiane, correndo il rischio del giudizio che uomini ebrei non esitarono a pronunciare, a partire da Giovanni Battista e Gesù stesso.




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Martedì, 28 Dicembre 2004 00:16

Immagini di un antenato (Sophie Laurant)

Immagini di un antenato
di Sophie Laurant


 

Abramo occupa, tra i personaggi della Bibbia ebraica, un ruolo privilegiato. Insieme a Mosè è, in un certo senso, il "fondatore" del giudaismo, ma al contrario di Mosè, Abramo è diventato l'antenato comune delle tre religioni monoteiste: giudaismo, cristianesimo, islam. Questo patriarca sembra godere di un'incontestabile forza di integrazione, dato che possono riconoscersi in lui correnti teologiche diverse. Esistono dunque più letture possibili della figura di questo antenato. ll fondamento di tutte queste letture, cioè il ciclo di Abramo, che si trova nel libro della Genesi (Gn 11,27-25,18), contiene già una diversità di vedute e di rappresentazioni del patriarca.

L'avventura di Abramo, che all’inizio si chiama Abram (fino a Genesi 17), inizia con il racconto della migrazione della famiglia del patriarca che si sposta dalla Mesopotamia alla Siria (Carran). Al momento della menzione di Sara (Gn 11,30), moglie del patriarca, è citata la sua sterilità. Ogni avvenire sembra già allora compromesso per la coppia. Tuttavia in Genesi 12,1-9, Dio promette ad Abramo una numerosa discendenza. Egli appare dall’inizio come il credente esemplare. Non pone alcuna domanda quando Dio gli ordina di lasciare il suo paese: obbedisce, e si mette in cammino verso una terra sconosciuta. Appena arrivato in Canaan, il patriarca ci è presentato come un’altra persona (12,10-20). A seguito di una carestia, egli si affretta a lasciare la terra promessa per l’Egitto. Là non esita a far passare Sara, la moglie, per sua sorella e si arricchisce grazie a lei. Gli interventi di Dio e del faraone ristabiliscono l’ordine turbato dalle azioni di Abramo. Dopo l’immagine di un patriarca ingannatore, si ritrova in Genesi 13 un Abramo conciliatore e uomo di pace. Il conflitto territoriale che lo oppone a Lot, il nipote, è regolato con una divisione in zone di occupazione. Al contrario, il racconto seguente (Gn 14) ci pone di fronte, in modo inatteso, un Abramo guerriero che interviene in un conflitto internazionale dalle dimensioni apocalittiche. L’Abramo di Genesi 15 esprime, eccome, i suoi dubbi circa la promessa divina; in seguito è informato da Dio sugli eventi futuri, finisce col credere ed entra nell'alleanza. In compenso, in Genesi 16, il patriarca gioca un ruolo passivo e si trova un po’ superato dagli eventi. Accetta la proposta di Sara che, a causa della sua sterilità, vuole farsi sostituire dalla schiava Agar. Quando la schiava è incinta, Abramo è incapace di governare il conflitto che sorge tra le due donne. Agar fugge, ed è un messaggero divino che interviene in favore di lei e di suo figlio Ismaele. In Genesi 17 il patriarca beneficia di nuovo di un’alleanza divina. Al contrario di quella di Genesi 15, questa comporta un segno, cioè la circoncisione. Il racconto della visita dei tre uomini misteriosi (Gn 18) mostra l’esemplare ospitalità di Abramo. Dopo questo episodio, che si conclude con l’annuncio della nascita di Isacco, Abramo assume il ruolo di mediatore per convincere Dio a non distruggere la città di Sodoma. La città tuttavia viene distrutta, mentre Lot, che vi si era insediato e che si è mostrato ospitale come suo zio Abramo, è salvato insieme con le figlie e diventa, in maniera poco ortodossa, l’antenato dei Moabiti e degli Ammoniti (Gn 19). In seguito troviamo di nuovo il patriarca fraudolento che, soggiornando presso il re di Gerar, fa nuovamente passare Sara per sua sorella (Gn 20). Malgrado ciò, in questo stesso racconto, egli è chiamato "profeta" ed è incaricato, come più tardi Giona, di intercedere per i pagani. Alla fine, subito dopo il soggiorno di Sara nell’harem di Abimelek, nasce Isacco, il figlio della promessa (Gn 21); ma Dio presto domanda ad Abramo di sacrificare questo figlio. Nel racconto di Genesi 22, che è certo il più sconvolgente dell’intero ciclo, Abramo si comporta esattamente come in occasione della sua vocazione (12,1-9). Di nuovo, egli obbedisce senza fare domande. In Genesi 12 Dio gli aveva domandato di rinunciare al suo passato, adesso egli è pronto a rinunciare al suo avvenire. La conclusione di questa prova (sostituzione di Isacco con un ariete, riaffermazione della promessa) segna in qualche modo la fine delle gesta di Abramo.

I capitoli seguenti preparano la morte del patriarca. In Genesi 23, è detto che egli compra una tomba presso Ebron; e in Genesi 24, che egli fa cercare una sposa per Isacco in Mesopotamia, rifiutando i matrimoni con le "figlie dei Cananei". Nel capitolo seguente (Gn 25) Abramo, dopo la morte di Sara, prenderà un’altra donna del paese diventando, grazie a lei, l’antenato di un certo numero di tribù. Il narratore ci informa a questo punto della morte del patriarca, la cui sepoltura dà occasione a Isacco e Ismaele di ritrovarsi.

Il racconto della Genesi mostra dunque una varietà di ritratti del patriarca. Questa diversità si spiega con l’intervento di più autori e redattori nell’elaborazione del ciclo di Abramo.



La costruzione delle gesta di Abramo


 

Nell’attuale situazione delle ricerche sul Pentateuco, è impossibile proporre una teoria condivisa sulla formazione di Genesi 12-25. Tuttavia si può affermare che l’epoca dell’esilio babilonese (597-539 a.C.) è un momento decisivo per la redazione scritta delle tradizioni su Abramo. Il libro di Ezechiele contiene, in 33,24, la citazione di una rivendicazione della popolazione non deportata: "Abramo era uno solo ed ebbe in possesso il paese e noi siamo molti: a noi dunque è stato dato in possesso il paese". Con questo argomento, la gente rimasta in Palestina (contadini e popolino) giustificano il loro diritto al possesso del paese contro gli esiliati che, invece, si considerano il "vero Israele". Ez 33,24 fornisce indicazioni preziose per comprendere la formazione del ciclo di Abramo. Si vede in primo luogo che il patriarca è un personaggio conosciuto. Questo significa che non può essere stato inventato soltanto all’epoca dell’esilio. In apparenza, egli rappresenta l’antenato e la figura di riferimento della popolazione non esiliata. La prima storia di Abramo è stata, probabilmente, redatta nel VI secolo a.C. per legittimare le rivendicazioni riportate in Ez 33,24, ma racconti orali (e forse anche scritti) su Abramo e Sara esistevano certamente all’epoca della monarchia ebraica, in particolare presso il santuario di Ebron, dato che il patriarca si insedia in questa città e vi compera la tomba di famiglia.

La prima edizione del ciclo di Abramo (contenente grosso modo 12,10-20; 13; 16; 21,1-7) dà speranza alla popolazione rurale della Giudea, esortandola, attraverso l’esempio del suo antenato, a intrattenere buone relazioni con i popoli vicini (Gn 13 e 16), a non abbandonare il paese (12,10-20), promettendole un avvenire più sere-no a dispetto della situazione precaria che sta vivendo. Quando una parte degli esiliati ritorna in Giudea, a partire dal 530, costoro, attraverso talune aggiunte redazionali, rivisitano e adattano la figura di Abramo alle esigenze dei rimpatriati. Nella nuova introduzione che contiene il racconto della vocazione (12,1-9), Abramo prefigura il destino degli antichi esiliati che, come il patriarca, sono chiamati a lasciare Babilonia per la terra promessa. Gli stessi redattori inseriscono il racconto della legatura di Isacco in Genesi 22. La prova che Abramo subisce riflette il problema teologico, caratteristico dell’epoca persiana, di un Dio divenuto incomprensibile (lo stesso problema è trattato nel libro di Giobbe). Tuttavia questo racconto invita alla fiducia in Dio malgrado le apparenze; la discendenza di Abramo non sarà sacrificata, al contrario: essa è promessa ad un avvenire glorioso.

Redattori provenienti dall’ambiente sacerdotale procedono in seguito a varie riletture, in particolare aggiungendo il cap. 17, nel quale il riferimento ad Abramo serve a fondare il rito della circoncisione che diventa, a partire dall’epoca dell’esilio, il simbolo dell’alleanza tra Dio e la discendenza di Abramo.

Il racconto di Genesi 15 è probabilmente concepito dall’ultimo redattore della storia di Abramo, allo scopo di legarla alla storia dell’Esodo (15,13-16). In questo testo, Abramo diventa il precursore di Mosè, e Dio gli si presenta con queste parole: "Io sono il Signore che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei" (v. 7), espressione che richiama l’incipit del Decalogo: "Io sono il Signore che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto". Le diverse figure di Abramo che risultano dal processo di formazione della sua storia spiegano in certo modo perché diverse correnti religiose possano riconoscersi in lui. Taluni si trovano tuttavia disorientati di fronte ad una tale diversità e si mettono a cercare il "vero" Abramo.



Il problema della storicità di Abramo

 

Abramo condivide il destino di molti antenati storici: quello di essere difficilmente afferrabile dallo storico. Se si interpreta la cronologia dei primi libri della Bibbia come una successione di periodi storici, si arriva spesso alla conclusione che bisogna collocare l’Abramo storico nella prima metà del II millennio a.C. Si è pensato di poter provare la storicità di Abramo invocando ondate migratorie aramaiche in quest’epoca. Sono stati anche utilizzati gli archivi della città di Nuzi, ad est del Tigri, per fondare la storicità dei racconti su Abramo; dato che, in certe tavolette, si trova l’appellativo "sorella" per designare la sposa, si pensava di aver trovato una situazione storica similare per il racconto di Gn 12,10-20. Inoltre il nome Abramo è largamente attestato nel II millennio. L'idea di un Abramo vissuto attorno al 1700 a.C. è stata oggi abbandonata dalla maggior parte degli specialisti.

Se si leggono con attenzione i racconti su Abramo, si constata subito che essi non menzionano alcun evento del II millennio; essi hanno piuttosto qualche cosa di atemporale. Così, in Genesi 12, il Faraone non ha un nome proprio, ma simboleggia semplicemente la potenza egizia con la quale Israele ha dovuto confrontarsi per tutto il corso della sua storia. E se i racconti su Abramo risalgono veramente al II millennio, bisognerebbe spiegare attraverso quale canale le sue imprese sarebbero state veicolate per oltre mille anni prima di essere messe per iscritto. Neppure lo studio dei nomi propri ci aiuta, perché il nome del patriarca è altrettanto popolare sia nel II che nel I millennio a.C.; e la teoria di una grande migrazione nel II millennio appare oggi poco probabile. I rari nomi propri in Gn 11,27-25 e 18 evocano piuttosto il contesto dei secoli VII e VI a.C., come ad esempio il nome proprio "Ur Casdim" che non è attestato al di fuori della Bibbia prima del VII secolo; il nome Ismaele è da associare alla confederazione "Sumu’il", attestata nei testi assiri della stessa epoca. Bisogna anche notare che la proposta di Sara in Gn 16 corrisponde chiaramente alle pratiche previste nel contratto di matrimonio neoassiro.

È dunque pressoché impossibile ricostruire un Abramo storico che sarebbe vissuto nel II millennio. Non si può però escludere la possibilità di un personaggio storico che sarebbe:all’origine delle tradizioni su Abramo. Su una stele di vittoria del faraone Sesonq, datata circa 926, si trova forse (ma la lettura resta difficile) la menzione di un"campo di Abramo" localizzato nel Neghev, non lontano da Ebron. Si potrebbe dunque stabilire un legame con l’Abramo della Genesi. Non dimentichiamo però la frequenza del nome Abramo in quest’epoca.

L’importanza della figura di Abramo non dipende affatto dalla questione della sua storicità. Le storie che lo riguardano hanno fornito a generazioni di credenti delle tre religioni monoteiste modelli di identificazione, e anche messaggi di speranza e di avvenire nonostante le prove.




Dietro le immagini si delinea il monoteismo

 


Le rappresentazioni di divinità dell'antico Israele, rivelate dall'archeologia, permettono di scrivere la storia della formazione del monoteismo. Othmar Keel e Christopher Uehlinger (1), professori presso l’Istituto biblico dell’Università di Friburgo (Svizzera), hanno ripreso trent’anni di ricerche archeologiche ed epigrafiche per tracciare un "paesaggio" religioso della Terra santa, dal 2000 a.C, (età del Bronzo medio) sino all‘epoca persiana (IV secolo a.C.). Il loro esauriente recupero di iscrizioni, sigilli, statue, luoghi di culto, fa emergere un universo politeista complesso e variegato, nel quale gli influssi egizi e mesopotamici si sovrappongono, ponendosi in relazione su tempi lunghi che coincidono solo parzialmente con i periodi di occupazione straniera della Palestina. Una prova in più dell’importanza degli scambi e dei reciproci influssi culturali, movimenti di fondo che lo storico non può ricondurre a coincidere con eventi politici. In un lento contesto storico emerge dunque poco a poco JHWH, l’aniconico, attestato come Dio unico degli Ebrei soltanto intorno ai VI secolo a.C. Per 1unghi secoli sono rimasti arcanto a lui dee, "signori degli animali", figure maschili guerriere (sorta di dei secondari). Essi erano espressioni in subordine della benedizione divina, simboli cultuali. Al ritorno dall’esilio si impone tuttavia un rigoroso monoteismo. Non c’è più spazio in Giuda "per una dea accanto a JHWH". Gli autori forniscono così una coerente conclusione della polemica suscitata nei 1975 dalla scoperta di un’iscrizione che evocava JHWH e "la sua Aserah". Il che non ha impedito la continua esistenza di templi consacrati ad una dea dominante nelle regioni vicine. L‘opera di Othmar Keel e di Christopher Uehlinger, profonda e rigorosa, è importante e, sotto molti aspetti, fondamentale. Il sottotitolo, Le fonti iconografiche della storia della religione di Israele, è più esplicito dello stesso titolo Dei, dee e figure divine. Per quanto riguarda le sintesi precedenti, i due autori rivendicano un aspetto troppo spesso trascurato: quello che consiste nel far parlare le immagini. "Molti biblisti, essi scrivono nelle conclusioni, si muovono nella Palestina antica come ciechi che abbiano a stento appreso l’idioma di questo universo. [...] Purtroppo, gli aniconici sono in genere meno consapevoli della loro ignoranza di quanto non lo siano gli analfabeti, perché, sulla base del loro carattere meno arbitrario e artificiale, le immagini rararnente provocano, corne invece fanno la scrittura e la lingua, un'impressione di totale estraneità". Agli specialisti di testi biblici Othmar Keel e Christopher Uehlinger propongono di aprire gli occhi.

(1) O.Keel - C. Uelingher, Dieux, déesses et figures divines, Cerf, Parigi 2001.

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Sabato, 18 Dicembre 2004 21:01

Durare (Faustino Ferrari)

Non è il denaro e non sono gli averi a far girare il mondo. Il mondo danza nel compimento del dono. Il mondo ci si rivela come dono.

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Sabato, 18 Dicembre 2004 20:56

La sofferenza e la malattia (Faustino Ferrari)

Proprio per la partecipazione da parte di Dio alla storia umana, fino all'assunzione della sofferenza e della morte, per il cristiano queste esperienze sono pur sempre avvolte nel mistero, ma cominciano ad acquistare un diverso significato.

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Sabato, 18 Dicembre 2004 20:53

Immaginare (Faustino Ferrari)

Dopo tanto discorrere e discutere, sembrava prevalere il parere che l’uomo e la donna dovessero essere creati come animali amorfi...

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Sabato, 18 Dicembre 2004 20:50

Guardare (Faustino Ferrari)

La città che amo è fatta di vicoli, di case, di volti e di odori...

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Ho già abbondantemente illustrato come la partecipazione rituale ed effettiva al banchetto eucaristico esprima ed esiga la comunione con i fratelli. Altrimenti, avremmo un segno, cui non corrisponderebbe la realtà.

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Il fallimento del progetto di Dio
Gn 3-11 e le «strutture di peccato»
di  Gaetano Castello


Proponiamo una lettura dei capitoli 3-11 della Genesi tra i più noti della letteratura biblica, cogliendo alcuni interessi spunti sul dilagare del peccato nel mondo e la sua tendenza ad organizzarsi in «strutture di peccato». Si tratta solo di «spunti» offerti come contributo per una riflessione avvertita, non solo dai credenti, come necessaria ed urgente.

Introduzione



Gn 1-11 costituisce nel suo insieme la grande introduzione alla storia di Israele che, secondo la narrazione biblica, ebbe le sue remote origini nella chiamata di Abramo (Gn 12,1-3). Tesi generale di quei capitoli è che il progressivo allontanamento dell’uomo da dio pone le basi per una alleanza particolare, quella con Abramo, preludio all’Alleanza del Sinai. Si danno insomma le motivazioni per comprendere come mai Dio abbia eletto un popolo proponendogli una alleanza e vivendo con esso un rapporto privilegiato. Questa impostazione deriva dall’intento stesso dei compositori e dei redattori del racconto come risulta dall’osservazione attenta dei due documenti fondamentali che, composti in epoche diverse, sono stati poi raccolti insieme a formare l’attuale narrazione. In ognuno dei due antichi documenti, ricostruiti attraverso l’ausilio della critica letteraria, si intravede questo motivo di fondo benché espresso in maniera diversa.
Gli antichi documenti, detti «Jahvista» e «Sacerdotale», si sono serviti, a loro volta di un materiale preesistente, la cui origine è da ricercare nell’ambiente del vicino oriente antico; si tratta prevalentemente dei cosidetti «miti delle origini», racconti in cui si tentava di chiarire il senso della vita, della morte, dei problemi umani a partire da situazioni archetipe, «originarie». È una maniera pre-scientifica e pre-filosofica, ma non per questo meno vera, di affrontare le grandi domande dell’esistenza.



1. Il peccato come scelta dell’uomo




Proprio dal confronto con miti del vicino oriente antico si coglie il messaggio particolare di cui il testo biblico è portatore: il peccato, in Gn 3-11, non è frutto di una lotta mitica tra gli dei; la miseria e il caos che regnano in tante situazioni umane non vengono attribuiti semplicemente ad una vicenda svoltasi fuori del tempo, su di un piano diverso da quello umano, il piano della divinità. Non si proiettano, insomma, sulle vicende umane le conseguenze di vicende divine. Il campo viene sgombrato da una delle principali componenti dei miti delle origini: quanto di peccaminoso e di disordinato vi è nella storia umana, dipende dalle scelte dell’uomo, ‘ādām.
L’equilibrio Dio-uomo-natura, descritto nel suo insieme dai primi due capitoli della Genesi, è messo in discussione dall’atteggiamento dell’uomo e della donna chiamati, perchè immagine di Dio, ad esercitare la loro responsabilità nel gestire armonicamente quel rapporto. In Gn 3-11 si descrive il dilagare del peccato nella vita umana a causa del rifiuto da parte dell’uomo di vivere responsabilmente i rapporti col suo creatore, provocando, nel contempo, rapporti squilibrati degli uomini tra loro e con la natura. Questo motivo centrale, su cui la tradizione ebraica e cristiana ha continuamente riflettuto a partire dal concetto di peccato e di responsabilità «personali», ha un risvolto non meno importante rappresentato dal dilagare del peccato nell’organizzazione stessa della vita umana, nella civilizzazione del mondo e nella cultura. È l’altra faccia di quella eredità del peccato di cui parla S. Paolo (Rm 5,12-14).



2. L’istinto del «mangiare»




La caduta di Adamo ed Eva (Gn 3), originata dalla trasgressione dell’ordine divino di non mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, viene rappresentata significativamente dall’atto quotidiano e vitale del «mangiare». Il verbo ‘ākal, che ricorre insistentemente nella narrazione, scandisce le varie fasi della storia del primo peccato dell’uomo. Richiamati dalla voce del serpente, Adamo ed Eva rinunciano a gestire responsabilmente la propria libertà escludendo dall’orizzonte della scelta il creatore e il suo divieto. Si tratta del trionfo dell’istinto che però finisce per compromettere non solo i rapporti tra gli uomini ed il creatore ma anche i rapporti dei due tra loro e con il creato. L’albero della conoscenza, come tutto il resto, viene ordinato semplicemente a soddisfare l’istinto del mangiare, un istinto non negativo in se stesso (2,16) ma da controllare perché non si trasformasse nell’incontrollabile spinta a «divorare» indistintamente quanto si presentava deisderabile. La prima conseguenza del gesto viene annotata con poche ma significative parole nel v. 7: Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
Con una conclusione che in parte rende ragione alle promesse del serpente «si aprirono loro gli occhi», si mette immediatamente in evidenza la scoperta della nudità che, diversamente da un’interpretazione di tipo sessuale spesso associata alla nudità ed allo stesso peccato originale, indica la vulnerabilità. Si tratta qui di una conoscenza non individuale ma sociale. Il bisogno di protezione dell’uno nei confronti dell’altro ha ragione di essere proprio per quanto accadrà nella seconda scena del racconto (3,8-13) in cui l’uomo scaricherà la sua responsabilità sulla donna e questa sul serpente.
Il bisogno di coprirsi di fronte all’altro diventa bisogno di nascondersi davanti a Dio: Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (3,9-10).
Il testo indica come effetto primario della trasgressione non tanto il sentimento più ovvio del rimorso, della colpa, quanto il percepire l’altro come potenziale nemico avvertendo la propria vulnerabilità.
Alla descrizione della caduta (vv. 1-7) e all’indagine divina (vv. 8-13), segue la terza scena (vv. 14-19), la sentenza di Dio, in cui con le maledizioni divine si evidenziano le conseguenze della trasgressione. Si osservi innanzitutto che la maledizione di Dio è relativa esclusivamente al serpente ed al suolo mentre per l’uomo e la donna si esplicitano le conseguenze frutto della nuova situazione creatasi: rapporto di dominazione tra l’uomo e la donna (v. 16), e disarmonia tra l’uomo e la terra (vv. 17-19):
Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per casa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».
La scelta di farsi guidare dall’istinto del mangiare ha come effetto immediato la configurazione di nuovi rapporti. Il bisogno di coprirsi risponde, come conseguenza del peccato, all’appetito del serpente di colui che mangia. L’altro è non più ‘ezer «aiuto», «alleato» (2,18) ma il possibile aggressore. Tale conseguenza si rende evidente nel tipo di rapporto che si configura tra la donna e l’uomo al v. 16: «... Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Il termine ebraico te šûqāh tradotto con «istinto», è da intendere come desiderio di impadronirsi di una persona. Il dominio (radice ebraica YRD) che nel primo capitolo si riferiva alla superiorità dell’uomo sulle altre specie viventi (1,26.28), entra nel rapporto uomo-donna rendendo ambigua la stessa struttura familiare come vissuta nei secoli ed esperita in molti casi anche oggi.
La seconda alterazione avviene tra l’uomo ‘ādām e la terra ‘ādāmāh da cui l’uomo è stato tratto e a cui è destinato. Il rapporto con la terra, precedentemente descritto nei termini pacifici del  1coltivatore e custodire» (2,15), diventa teso. Vi è quasi una resistenza della terra nell’offrire all’uomo i suoi frutti, un uomo guidato dall’istinto del mangiare, di appropriarsi di ciò che stimola il suo appetito. Ritroveremo questa problematica al termine del racconto del diluvio, in cui si registra la trasformazione ormai avvenuta nel rapporto tra l’uomo e il mondo animale, un rapporto connotato dal timore e terrore del bestiame nei confronti dell’uomo (9,1-4).
Il peccato, la rinuncia ad esercitare la responsabilità di fronte all’Altro , al Creatore, ha generato una alterazione dei rapporti uomo-donna e uomo-natura attraverso il dominio dell’istinto del «mangiare», di impossessarsi di ciò che appare «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile» (3,6). Siamo qui all’origine non solo del peccato dell’uomo come singolo individuo, ma all’origine di un modo sbagliato di stabile i rapporti tra le persone e con il mondo. È a partire da questa logica che la prassi di dominio dell’uomo sulla donna, finisce per assumere una funzione strutturale, trasmessa cioè dalle istituzioni culturali, economiche, religiose, dai comportamenti sociali. Il racconto della Genesi con il suo invito a meditare sull’«origine» dell’umanità, tende a stimolare una rinnovata coscienza del rapporto autentico tra uomo e donna, e più generalmente tra le persone, per fondare una prassi di vita critica rispetto ai presupposto stessi delle «strutture» umane.
L’atteggiamento «divoratore» nei confronti della terra richiederà degli interventi limitativi di Dio (9,4), laddove non è risultato sufficiente l’appello alla responsabilità. Si tratta anche qui di una logica che fonda una prassi generatrice di «strutture di peccato», atteggiamenti che cioè si strutturano nell’agire sociale, nella cultura tanto da non tendere più immediatamente percepibile la responsabilità del singolo. Proprio nello squilibrio tra l’uomo e la natura, nell’atteggiamento «divoratore» non del singolo ma di modi di organizzare la società e di soddisfare i suoi crescenti bisogni, si assume oggi, drammaticamente, la consapevolezza di come il peccato dell’uomo «divoratore» abbia assunto dimensioni sovra-personali, appunto «strutturali».



3. Il dilagare della violenza




Due testi in particolare ci aiutano ad approfondire la nostra ricerca: la storia di Caino e della sua discendenza e la storia del diluvio.
La narrazione famosa del primo omicidio della storia, che non a caso si configura come fratricidio mettendo in luce la comune «origine» degli uomini, viene solitamente considerata nel suo valore esemplare, e non senza ragione, per la descrizione della dinamica della violenza nel rapporto tra gli uomini su cui si è riflettuto solitamente a partire dalla responsabilità personale. Ma la storia di Caino, il personaggio principale della narrazione, continua con la storia della generazione che con lui ha inizio: Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio. A Enoch nacque Irad... e Metusaél generò Lamech. Lamech si prese due mogli: una chiamata Ada e l’altra chiamata Zilla. Ada partorì Iabal: egli fu il padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame. Il fratello di questi si chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto. Zilla a sua volta partorì Tubalkàin, il fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro (4,17-22).
Caino è il costruttore della prima città, posto cioè alla base della società umana. Non solo. Viene espressamente detto dal testo che dalla sua discendenza ha origine, nel suo complesso, la civiltà umana e la sua ossatura economica: la vita pastorale (4,20), la musica (4,21), la metallurgia (4,22). Tutta la civiltà porta il peso della colpa di Caino.
Non a caso padre di coloro che si specializzeranno nelle diverse arti è Lamech, discendente di Caino, di cui viene proposto il modo di pensare, la logica del suo comportamento, attraverso un canto, il secondo della Bibbia dopo quello della gioia di Adamo per la creazione di Eva (2,23):
Lamech disse alle mogli:
«Ada e Zilla, ascoltate la mia voce;
mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire:
Ho ucciso un uomo per mia scalfittura
E un ragazzo per un mio livido.
Sette volte sarà vendicato Caino
Ma Lamech settantasette» (4,23-24)
La logica che guida l’agire dell’uomo nella società che da Caino è nata è quella espressa da Lamech nel suo orgoglioso canto della violenza (Ho ucciso per una scalfittura e per un livido) moltiplicata (settantasette colte).
È utile considerare, sia pure brevemente, le principali caratteristiche dell’omicidio commesso da Caino, in cui si ritrovano le scelte che hanno per così dire ispirato, sostenuto, al di là di Caino stesso il dilagare la violenza.
La narrazione della vicenda offre poche informazioni sui personaggi, vengono messe però in risalto le differenze che caratterizzano i due «fratelli»:
Poi (Eva) partorì ancora suo fratello Abele. Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo (4,2).
Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso... (4,3-4).
La prima differenza è culturale. Indicando i due diversi lavori il testo richiama la distanza esistente tra il mondo agricolo e quello pastorale, due occupazioni dietro le quali si configura una diversa organizzazione della vita.
La seconda differenza, che scaturisce immediatamente dalla prima, è cultuale: l’offerta caratterizza il tipo di culto, diverso evidentemente nelle due culture, quella agricola e quella pastorale.
Il dramma ha inizio proprio da questa differenza tra «fratelli», una differenza messa in evidenza nella diversa accoglienza dell’offerta da parte di Dio. Da sempre la domanda sul motivo che Dio avrebbe avuto per prediligere un’offerta e non l’altra, è stata al centro dell’attenzione dei lettori. Il testo non si preoccupa di offrire una motivazione convincente, indica invece con chiarezza il punto di partenza della vicenda: la differenza. E in ultima analisi è proprio questa «differenza» non accettata che crea la crisi di fronte alla quale Dio interviene stimolando Caino alla riflessione, a prendere le distanze rispetto al pericolo di cedere ad un comportamento istintivo, tendente a eliminare la differenza (4,6-8).
AI rifiuto della differenza fa seguito, nella dinamica innescatasi in Caino, il rifiuto della responsabilità che nasce direttamente dal suo essere il «fratello». Non a caso il termine «fratello» è ripetuto sette volte nei versetti 1-11 tanto da costituire il filo conduttore del testo. Nella sua risposta Caino non solo mente dicendo di non sapere dove sia Abele, ma giustifica la menzogna rifiutando la responsabilità che deriva dall'esserne «fratello», una responsabilità molto più sentita in un tempo in cui l'istituto familiare costituiva il riferimento principale se non esclusivo per la sicurezza dell'individuo di fronte ad un mondo minaccioso ed agli inconvenienti della vita. Rifiuto della differenza e rifiuto della responsabilità di «fratello» costituiscono, in maniera diversa, i due momenti tragici che motivano e giustificano il primo gesto violento dell'umanità. Con Lamech, come abbiamo visto, questa logica della violenza viene posta esplicitamente alla base di un agire che viene ad iscriversi, benché non deterministicamente, nello stesso sviluppo della società umana.
L 'alterazione prodotta dall'azione di Caino viene segnalata sia nella conclusione del testo con il nuovo tipo di rapporto che si stabilisce tra Caino ed il suolo (4,12), sia nella minaccia di violenza che viene da chiunque incontrerà Caino (4,14).
Che la «logica della violenza» riesca a costituire un vero e proprio modo di vivere guidando e giustificando atteggiamenti comuni ad essa ispirati, appare evidente sia dal testo di Lamech, già considerato, sia, più avanti, dall'amara constatazione divina circa il dilagare di corruzione e violenza sulla terra (6,5.12.13).



4. Babele, la «porta del cielo»



Nel racconto umoristico della «torre di Babele» (Gn 11,1-9) la tecnica costituisce il nuovo supporto di una società che si organizza con l'intento di distinguersi dagli altri popoli: Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (11,3-4).
La volontà di distinguersi, «facciamoci un nome», è associata alla pretesa capacità di raggiungere il cielo. La torre di Babele diventa così la grande metafora dell'orgoglio dell'uomo civilizzato, sostenuto dall'idea che il progresso tecnico sia la chiave per «raggiungere il cielo». L 'intervento di Dio (vv. 6-9), la sua punizione, consiste non a caso nella dispersione, nella differenziazione che si esprime con la molteplicità delle lingue.
Distinguersi dagli altri popoli in virtù delle capacità tecniche alle quali è affidato il senso della riuscita umana, della risposta all'aspirazione umana verso l'Infinito rappresenta, sul-
la base del racconto genesiaco, un aspetto della logica del peccato animatrice di strutture di peccato.



Conclusione



Abbiamo indicato alcune piste di riflessione offerte da Gn 3, 11 sulla diffusione di logiche di peccato che tendono a diffondersi ed organizzarsi in strutture sovra-personali, vere e proprie «strutture di peccato». Senza nulla togliere al carattere personale del peccato (la sua origine demoniaca e l'aspetto individuale), ci sembra che il testo della Genesi suggerisca all'uomo una visione disincantata del mondo e delle strutture nelle quali egli si trova ad operare. La logica del peccato che nel racconto di Caino viene a configurarsi come logica della violenza, non solo si trasmette (Caino -Lamech -generazione diluviana) coinvolgendo in maniera sempre più anonima e generale gli uomini, ma viene amplificata dall’agire individuale, dal contributo del singolo (Lamech).
Rispetto a questa constatazione, intraprendere vie diverse, rispettose dell’equilibrio originario voluto dal creatore (Set, Noè... Abramo), costituisce una possibilità per l’uomo, una possibilità concessa in maniera definitiva da Gesù Cristo.
Sono molti i richiami storici e anche di attualità che ci inviterebbero a proseguire su questa pista di riflessione. Si pensi, per es., alle strutture economiche del mondo capitalistico che sovrastano l’individuo, rendendolo partecipe di meccanismi che esigono, a livello sovra-personale, quel rifiuto delle differenze e della fraternità in nome dell’esigenza «divoratrice» del capitale.
Una campo fecondo per una riflessione etica, già avviata in questo senso e che può trovare, ci sembra, un utile supporto in Gn 3-11 in vista di un impegno più incisivo del singolo e della comunità dei credenti in dialogo con gli uomini di buona volontà.

(da Parole di vita, 2, 2004)



Pubblicato in Bibbia
Martedì, 30 Novembre 2004 01:43

Pregare imprecando (Faustino Ferrari)

Pregare. Imprecare. La radice dei due termini è la medesima. Semanticamente, nella nostra lingua, esiste una profonda correlazione tra questi due atti umani.

Pubblicato in Bailamme

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