Formazione Religiosa

Mercoledì, 29 Dicembre 2004 00:01

Catastrofi e immagini di Dio (Faustino Ferrari)

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Come è possibile insegnare che Dio è amore quando si è capaci di parlare soltanto di catastrofe e di morte? Si può amare Dio perché sperimentato come Dio e non per timore o per paura.

Ogni volta che si presenta una catastrofe dalle proporzioni immani, ritornano ad affiorare domande di senso, si chiama in causa l'esistenza o la bontà di Dio, ci si chiede il perché delle cose, incombe l'assurdità del caso, ci si avvale della fortuità dell'esistenza. Lo stesso fenomeno sembra ripetersi in questi giorni. Il violento terremoto del 26 dicembre al largo dell'isola indonesiana di Sumatra ha prodotto un moto ondoso che si è riversato sulle spiagge lontane di decine di nazioni provocando la morte di un numero ancora imprecisato di morti. Sessantamila, le cifre di oggi (28 dicembre), ma qualche fonte parla di settantamila, forse centomila. Si teme che possano scoppiare epidemie e che il numero dei morti possa tristemente continuare a salire.

Di fronte a questi avvenimenti, oltre alle domande che puntualmente si affacciano nella mente degli uomini, sembra che ci si debba confrontare con una dimensione specifica dell'esperienza religiosa che potremmo chiamare esemplificativamente "teologia della catastrofe". Se il mondo è il luogo della rivelazione di Dio, la creazione ne contiene le tracce. Sta all'uomo cogliere queste impronte, comprendere la presenza di Dio all'interno della sua creazione. Scorgere la presenza del suo Autore. Le meraviglie della natura, secondo questa prospettiva, sono un libro aperto che rivela la grandezza e la bontà di Dio. E le catastrofi? Possono essere lette come i segni premonitori, pre-giudicanti, i prodomi offerti dal Creatore alle sue creature.

Se un rosso tramonto, una meravigliosa cascata, una spettacolare notte lunare ci parlano dell'esistenza di Dio, in quale modo un'immensa catastrofe può essere interpretata come messaggio divino? Dovremmo rispondere che possono rappresentare un segno di un castigo divino? Probabilmente, sì. E quindi dovremmo concludere che una "teologia della catastrofe" non solo sia possibile, ma anche necessaria. E con tali premesse diventa ben facile partire in quarta con tanti discorsi pii, appelli morali, pensieri "spirituali", inviti alla conversione…

Mi trovo a dissentire da una tale prospettiva. Il cristianesimo, al pari dell'ebraismo, non è una religione "naturale" (vale a dire, che si basa sui fenomeni naturali), ma frutto di una "rivelazione". Dio non si comunica semplicemente nella natura, ma attraverso la sua Parola. Fermarsi alla "natura", al mondo, senza confrontarsi con la sua Parola può rivelarsi fuorviante. Anzi, potremmo alla stregua del messaggio biblico, definirla come una prospettiva suscettibile di idolatria. Vale a dire, una prospettiva che rischia di non rivelarci il vero volto di Dio, ma una sua maschera, una sua falsa simulazione. A tal punto che il salmista può a ragione affermare che "i cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia" (Sal 19, 2-3). Ma aggiunge subito che "non è linguaggio e non sono parole, di cui si oda il suono" (v. 4). (Orribile ed orripilante la traduzione CEI che aggiunge una negazione nella seconda parte del versetto 4, stravolgendone e ribaltandone il senso. Negazione che il testo ebraico non conosce). Il linguaggio e la parola che l'uomo può udire è quello della sua Parola. E non a caso il salmo 19 ha una seconda parte che a prima vista sembrerebbe separata dalla prima (che è una lode al Dio creatore del cielo e del sole), ma che, nella prospettiva della rivelazione risulta pienamente comprensibile: "ma la legge (torah, parola) del Signore è perfetta" (v. 8). L'invito all'ascolto della Parola di Dio può essere considerato un ritornello che si ripete costantemente nella bibbia. Anche nei vangeli troviamo gli stessi concetti. Il Logos che sovrasta la creazione è al tempo stesso la Parola che si comunica agli uomini (Gv, 1, 1-18). "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". (Lc 16, 29) è la risposta che il ricco epulone si sente riferire da Abramo, nel racconto della parabola del povero Lazzaro. Maria viene detta beata da Elisabetta in quanto ha creduto all'adempimento della parola del Signore (Lc 1, 45).

Sarebbe, sicuramente, necessario un discorso più lungo ed articolato. Per il cristiano (come per l'ebreo, credo), più che insistere sulle possibilità che certi avvenimenti "naturali" possono avere come impatto sulla sensibilità comune, è necessario essere testimone credibile di questa Parola annunciata ed accolta nella propria vita. La tentazione di avvalersi di facili scorciatoie è alquanto pericolosa e portare fuori strada. Ritengo che sia quanto mai penoso insistere sulle dimensioni della catastrofe (o della morte) per risvegliare l'interesse per Dio e per la religione.

Come è possibile insegnare che Dio è amore quando si è capaci di parlare soltanto di catastrofe e di morte? Si può amare Dio perché sperimentato come Dio e non per timore o per paura. Che Dio sarebbe, un Dio che si avvalesse delle catastrofi, delle guerre e dei cataclismi, perché l'uomo possa credere in lui?

Nel 1 Libro dei Re troviamo narrata al capitolo 19 la vicenda di Elia che si mette in cammino verso il monte Oreb. Il racconto risulta essere una larvata critica (o, comunque, un superamento) alla descrizione di certe manifestazioni divine. Il Dio che si rivela al profeta sul monte Oreb non lo fa attraverso il forte vento né col terremoto e neppure attraverso il fuoco. Il Signore, ripete con un ritornello il racconto biblico, non era in essi. Dio si rivela «qôl demamâ daqqâ» (v. 12), espressione praticamente intraducibile, che potrebbe essere intesa come «voce di un sottile mormorio». Nella voce del silenzio. Più degli agenti atmosferici o dei fenomeni catastrofici, per rivelarsi Dio ha bisogno di un cuore che sappia ascoltare. Ascoltare la voce del silenzio.

Se pensassimo che oggi siano necessarie catastrofi per far risuonare la voce di Dio, saremmo ben meschini. Se riteniamo che il linguaggio della natura ha maggior peso della Parola di Dio, forse ci stiamo allontanando da una comprensione cristiana dell'esistenza. Se ci riferiamo a Dio soltanto a partire dalle catastrofi, che immagine di Dio abbiamo ereditato?

Certo, tutto è grazia. Tutto si inscrive in un percorso salvifico, in una storia di salvezza. Ma nella misura in cui ciascuno di noi è capace di lasciar risuonare nella propria vita quell'unica, grande salvezza che è il Logos divino.

Faustino Ferrari

 

Letto 3148 volte Ultima modifica il Domenica, 15 Gennaio 2017 21:16
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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