Pregare. È un atto religioso che si esprime attraverso un’umile richiesta fatta con parole o con atti. Dal Dizionario Garzanti della lingua italiana: «Rivolgere la mente e la parola a Dio per adorarlo, ringraziarlo, chiedere perdono o invocare grazie».
Imprecare. Dal latino imprecari, composto da in- con valore intensivo e precari, “invocare, pregare”.
La radice dei due termini è la medesima. Semanticamente, nella nostra lingua, esiste una profonda correlazione tra questi due atti umani.
Dalle labbra del profeta Geremia, da quelle dell’impaziente Giobbe e di vari Salmisti possiamo apprendere la preghiera imprecatoria? Possiamo riavvicinare le nostre rabbie, le nostre insofferenze e le nostre idiosincrasie alla nostra più profonda dimensione religiosa, senza tentare di nasconderle dietro i falsi veli del non-è-opportuno, non-è-cristiano, non-è-religioso?
In questi tempi in cui imperversano il political correct, gli igienici, smaglianti sorrisi televisivi, i salotti ciarlieri ed i prelati silenti.
Mentre con i princìpi del nostro libero mercato tolleriamo che l’esistenza di oltre due miliardi di persone rimanga sotto la soglia di sopravvivenza. Quando le televisioni ci propongono quotidianamente immagini di guerra e di morte. Quando invochiamo la libera circolazione delle merci e dei capitali e trattiamo al pari dei delinquenti quanti emigrano in cerca di vita, libertà e speranza.
E mentre accettiamo che tutto questo perduri, anche domani e dopodomani. Con i nostri silenzi, con la nostra rassegnazione e con la nostra colpevole indifferenza.
Oh, quanto mi sembrano preludere all’ateismo tante delle nostre pie, affettate, smielose, ridondanti preghiere con le quali cerchiamo di imbonire il Buon Dio!
Faustino Ferrari