Di questo quartiere conosco i vicoli, le vecchie case, i muri decrepiti. Salgo scale che hanno portato il peso dei secoli e sotto i miei piedi i gradini tremolano come se dovessero crollare da un momento all’altro. Dalla finestra della mansarda scorgo un gatto che pare pietrificato mentre fa la posta ad alcuni piccioni appollaiati sui comignoli.
Conosco gli odori della cipolla soffritta e del coriandolo, della senape, dell’agnello e della manioca. I volti di un sacco di gente, tra i mille colori diversi delle vesti e delle pelli. Dal modo di camminare, dalla gestualità, dalla soavità della lingua, dalla risata forte imparo a scoprire i luoghi di nascita, le culture di appartenenza, i riti lontani, le fatiche dell’immigrazione.
A volte salgo sulla cima del campanile. Oltre le antenne televisive, i camini e le guglie. L’orizzonte si fa più ampio. La città è una distesa di tegole. Alcuni palazzi si levano più orgogliosi. Sembrano dita puntate contro il cielo. Dal cortile mi giungono le grida dei bambini che stanno giocando. Le persone ora paiono piccoli esseri che strisciano lungo le vie. Il vento stormisce tra le fronde dei possenti tigli. L’orizzonte è pervaso dal grigio sporco delle polveri e dello smog.
Dal castello cambia la prospettiva. Il quartiere si confonde in una massa di case e di tegole. Non più gli odori, ma giunge il continuo, diffuso rumore del traffico cittadino. Mi è difficile riconoscere la familiarità delle case e chi in esse vi abita.
All’anagrafe cittadina sono registrati — dati del 2000 — 194.697 abitanti. Nel nostro quartiere siamo poco più di tremila, in un miscuglio di lingue, nazioni e religioni. Dalla cima della montagna sembra più semplice parlare di cifre mentre gli occhi comprendono la distensione dell’intera città. Il rumore del traffico risulta attenuato. Tutta la frenesia sembra annullata dalla percezione di una piatta calma, indifferente. La città diventa un oggetto, un predicato nel linguaggio quotidiano. Nella notte, un ammasso di luci dai contorni incerti.
La città che amo è fatta di vicoli, di case, di volti e di odori. E se a volte mi prende la nausea per l’acre odore di piscio che la calura estiva fa salire dal selciato non per questo il mio amore viene meno. Neppure le grida, le lacrime ed i dolori non riescono a rendermela estranea o a farmi sentire uno straniero in perenne stato d’assedio.
E così, a poco a poco, nel fondo cangiante dell’iride di mille occhi diversi imparo a conoscere il mondo.
Faustino Ferrari