Le immagini della morte del colonnello Gheddafi hanno fatto il giro del mondo e a lungo si discuterà sulla sua barbara uccisione, interrogandosi se sia stato leso il diritto internazionale che vige anche in caso di guerra. Ma una cosa è certa: il suo regime che, nel bene e nel male, ha governato la Libia per decenni è stato armato e rafforzato nella difesa militare dai paesi europei e occidentali che lo hanno combattuto negli ultimi mesi, in testa l'Italia.
A denunciare lo stretto rapporto tra i due paesi in tema di commercio di armamenti è la stessa organizzazione - Amnesty International - che reclama con forza una commissione d'inchiesta per verificare se ci sono gli elementi per portare davanti al tribunale internazionale gli assassini del rais. In un rapporto intitolato Trasferimenti di armi in Medio Oriente e Africa del nord: le lezioni per un efficace trattato sul commercio delle armi si esaminano le esportazioni verso quest'aerea del Mediterraneo che, nel corso di quest'anno, ha visto diffondersi a macchia d'olio la rabbia di intere popolazioni contro regimi repressivi e totalitari che li hanno governati per decenni e che hanno contrastato le manifestazioni di piazza molto spesso con la repressione e con la violenza.
Soprattutto l'Italia ha armato la Libia
Il caso libico eccelle su tutti ed evidenzia, se ancora ce ne fosse bisogno, la contraddizione di paesi che, per anni, con esso hanno fatto affari e hanno accolto il suo leader come un fedele alleato e compagno di strada, salvo poi decidere, prima di ogni tentativo diplomatico e politico, di contrastarlo militarmente.
Secondo il rapporto di Amnesty, dieci paesi, tra cui spicca l'Italia seguita da Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Germania, Francia e Spagna, hanno autorizzato la fornitura di armamenti, munizioni e relativo equipaggiamento al regime libico a partire dal 2005. Durante il conflitto della Libia, le forze di Gheddafi hanno commesso stragi di massa e violazioni dei diritti umani che si possono configurare come crimini di guerra contro l'umanità. A Misurata, la città bombardata dalle forze lealiste nel corso di quest'anno e divenuta una sorta di "Srebrenica" libica, Amnesty ha rinvenuto munizioni a grappolo di provenienza spagnola, proibite dalla convenzione internazionale che le regolamenta, la cui autorizzazione da parte di quel governo è del 2007. E, mentre buona parte dell'artiglieria pesante pare essere stata prodotta durante l'era sovietica, numerose sono state anche le armi ritrovate di fabbricazione italiana.
Da tempo, realtà del pacifismo italiano, tra cui l'agenzia giornalistica on line Unimondo, denunciano gli stretti rapporti tra il nostro paese e la Libia in ambito di forniture di armi e di rafforzamento dell’esercito. In un articolo dello scorso febbraio si evidenzia come l’Italia fosse il primo paese europeo nel commercio di armi con il regime di Gheddafi. Il dato, tratto da un Rapporto dell'Unione Europea in tema di commercio di armamenti, rilevava come nel biennio 2008-2009 l'Italia abbia autorizzato l'invio di armi per oltre 205 milioni di euro, pari a più di un terzo (34,5%) di tutte le autorizzazioni rilasciate dall'UE. Tra gli altri paesi si segnalavano all'incirca gli stessi rilevati ora nel rapporto di Amnesty, con l'aggiunta della piccola Malta.
Ma esiste un dato ancora più significativo. Quando sono iniziate le rivolte di piazza, in quella che è stata definita la "primavera araba", mentre Francia e Germania hanno annunciato di voler interrompere le forniture di armi verso l'Egitto, il Bahrein e la Libia, solo l'Italia non si è pronunciata in tal senso. Anzi, ha continuato più di prima a vendere armi alla Libia nonostante la legge 185/90 che regola il commercio delle armi e che è la punta avanzata in Europa del tentativo legislativo di garantire controllo e trasparenza in un ambito così importante e delicato del commercio nazionale.
Nemmeno un mese dopo la stessa agenzia di stampa evidenziava la denuncia di Rete italiana per il disarmo e della Tavola della pace circa l'invio a Gheddafi da parte del governo Berlusconi di oltre 11 mila tra pistole e fucili semiautomatici di alta precisione e di tipo quasi militare della ditta Beretta, per un valore di quasi otto milioni di euro, decidendo, per altro, di non denunciarlo in sede europea.
Non solo in Libia ma in tutta l'Africa
Le associazioni pacifiste denunciavano come gravissimo il fatto che di tale fornitura il governo non avesse fatto alcuna menzione nell'annuale relazione che la Presidenza del Consiglio è tenuta a fare ogni anno in materia di commercio di armi, come sempre previsto dalla legge 185.
«Il ministro La Russa – commentò all'epoca Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della pace - ha cercato di sviare l'attenzione dalla faccenda affermando che il suo ministero non ha dato nemmeno un coltellino per unghie a Gheddafi. E’ vero non si tratta di coltellini per unghie me di vere e proprie armi che oggi stanno facendo strage di civili».
Già nell’ottobre del 2008 il ministro della Difesa italiano aveva autorizzato una vendita di armi alla Libia per tre milioni di euro prodotte dalla ditta Oto Melara di cui non era stato spiegata la tipologia.
In entrambi i casi – denunciavano le associazioni pacifiste - era gravissimo il fatto che il governo avesse trovato un escamotage per eludere il controllo parlamentare e quello delle organizzazioni che da anni sono impegnate nel monitorare il commercio di armamenti. Le stesse organizzazioni chiedevano la sospensione della vendita di armi a quei governi nordafricani e medi orientali che si stavano distinguendo per un inasprimento della repressione di qualsiasi tentativo di critica e di opposizione. mentre i dati dell'export nostrano mostravano uno straordinario incremento del 60%, grazie soprattutto ai contatti con il Sud del mondo, tale da porre l’Italia al quinto posto nel mondo tra i paesi esportatori di armi.
L a denuncia di Amnesty International conferma che il trend non si è arrestato, anzi. L’Italia compare in tutte le liste di esportatori di armi verso altri paesi dell’area, come lo Yemen, dove quest’anno sono morte oltre 200 persone nelle manifestazioni di piazza, l’Egitto e il Bahrein, in compagnia di Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Russia e Stati Uniti, che si collocano come i principali fornitori di armi in quell'area. «Gli embarghi sulle armi arrivano sempre troppo tardi, quando le violazioni dei diritti umani sono in corso - ha commentato Elen Hughes, principale ricercatrice del Rapporto-. Occorre che si valuti rigorosamente e caso per caso ogni proposta di trasferimento di armi in modo tale che, se c'è il rischio che queste possano essere usate per compiere gravi violazioni dei diritti umani, il governo dovrà mostrare il semaforo rosso».
In Italia questo "semaforo" è costituito dalla già sopracitata legge 185/90 che fu varata all'indomani degli scandali della cooperazione italiana in Africa, grazie ad un'ampia mobilitazione della società civile, delle ong e delle realtà, anche missionarie ed ecclesiali, impegnate nella cooperazione con i paesi in via di sviluppo. Tale normativa. che pone rigidi vincoli a un commercio così particolare come quello delle armi per garantirne il più possibile la trasparenza, è stato più volte oggetto di tentativi di modifica per depotenziarne la capacità di controllo.
Circa un anno fa le associazioni pacifiste denunciarono la volontà del governo di modificare tale normativa con una legge delega in cui si chiedeva al parlamento di riscriverla. «Non vi è nessuna pregiudiziale da parte nostra a rivedere la normativa attuale a vent'anni dalla sua attuazione - commentarono allora alcuni rappresentanti delle associazioni tra cui Francesco Vignarca, della Rete italiana per il disarmo -. Ma questa attività è una prerogativa del parlamento, non del governo, e la società civile non può essere messa ai margini per compiacere alle sole richieste dell'industria militare».
A un anno di distanza, il copione si ripete. In un comunicato stampa del 20 ottobre, infatti, Rete italiana per il disarmo e Tavola della pace denunciano «il forte rischio che l'Italia, con l'approvazione del disegno di legge comunitaria AS2322-B attualmente all'esame della Commissione politiche comunitarie del Senato, diminuisca i controlli su questo ambito delicato».
Il tentativo di "cancellare" la 185
Ancora una volta le associazioni giudicano grave che il tentativo di riforma della legge avvenga al di fuori del dibattito parlamentare, attraverso quello strumento della legge delega che l'attuale governo ha mostrato di prediligere in molti altri ambiti della sua attività legislativa.
«I sei commi dell'art. 12 che contengono la delega - spiegano – non definiscono in modo rigoroso i principi e i criteri direttivi, come prevede la Costituzione, che dovrebbero improntare la redazione del decreto legislativo conseguente, lasciando mano libera all'esecutivo di modificare, senza troppi paletti, la legge 185».
«In questo periodo di crisi economica i poteri e le lobby armiere scalpitano per avere le mani libere da vincoli di controllo del business delle armi, e il governo, con le modifiche alla 185, si appresta a sostenere questi mercanti di morte – denuncia Riccardo Troisi della Rete italiana per il disarmo in un 'intervista a Unimondo -. Al contrario, sarebbe importante attivarsi con normative e risorse che taglino le spese militari e ridistribuiscano i miliardi sottratti a queste spese inutili verso politiche di miglioramento dello stato sociale e per favorire nuove economie che mettano al centro la sostenibilità sociale e ambientale».
Ricordando come la legge 185 sia stata fondamentale per porre regole anche nelle transazioni bancarie che permettono il commercio delle armi, le associazioni si appellano al senso di responsabilità di tutti i parlamentari affinché si ponga fine all'irresponsabile pretesa di modificare la normativa al di fuori di qualsiasi controllo democratico.
Un appello di vera responsabilità, questo che, nell'epoca in cui tanti parlamentari italiani sono interessati all’unica “responsabilità” di non perdere potere e privilegi, appare come una sfida quasi titanica.
Sabrina Magnani
da: Settimana, anno 2011, n. 39, pg. 7