La violenza è inaccettabile. Nessuna ambiguità è ammessa quando si mette a ferro e fuoco una città come Roma. Nulla può giustificare la violenza e spiace constatare che, proprio in casa nostra, unendosi forze antagoniste e nuovi movimenti, la protesta si traduca in una miscela esplosiva. Su questo terreno occorrono risposte forti e nette che bandiscano ideoligismi di maniera.
In tutto il mondo, però, la protesta nasce da mille, troppi disagi e merita di essere esplorata con spirito analitico.
Alla recente straordinaria globalizzazione economica non ha corrisposto alcuna globalizzazione giuridica, anzi, all'interno dei singoli Stati sovrani è prevalso, quale incentivo allo sviluppo economico, il principio cardine della deregolamentazione, cioè del "non - diritto". Né a questa mancanza ha sopperito una autoregolamentazione dei sovrani dell'economia, le grandi multinazionali, incapaci di evitare la prevalente anarchia finanziaria.
Il lato più negativo della globalizzazione è certo quello di aver creato insostenibili e insopportabili ineguaglianze in tutti i Paesi, sia gli emergenti, che per tramite suo avevano goduto nello scorso decennio di imponenti crescite di ricchezza, sia quelli a economie avanzate. Dalle ineguaglianze è nata una reazione globale, che spesso qualifica i protagonisti sotto il generico attributo di "indignati". Tuttavia, fra la guerra civile in Libia, la primavera araba, le proteste a Wall Street, gli scioperi dei lavoratori impoveriti, gli assalti alle banche centrali, le onde migratorie di disperati che sfidano la morte, i movimenti sbandati a favore dell'antipolitica, pur completamente diversi nelle loro motivazioni e strutture hanno un identico minimo comune denominatore: la ribellione contro disuguaglianze, povertà e ingiustizie. Mi si potrebbe forse obiettare che le disuguaglianze sono sempre esistite e che, fin dagli inizi della rivoluzione industriale, la più profonda disparità era quella fra i lavoratori e i proprietari del capitale, ciò che ha fondamentalmente costituito la base e poi il successo dell'analisi marxista. Oggi, però, la situazione è completamente cambiata, tant'è che il divario si ripropone addirittura all'interno della classe lavoratrice. Tra l'operaio specializzato e istruito e quello non preparato il reddito del primo è normalmente dieci volte superiore; ma la forbice si ripropone identica anche nei Paesi poveri, dove la condizione del lavoratore non specializzato è sotto i limiti della sussistenza, nella miseria. Questa è altresì la spiegazione dei flussi migratori dai Paesi più poveri di cui l'Italia è testimone.
E veniamo alla primavera araba. I sistemi politici del Medio Oriente hanno da sempre avuto caratteri autoritari. I regimi dei Paesi più ricchi di petrolio, indispensabile allo sviluppo economico globalizzato, sono stati i più efficienti nello smorzare, appena sorti, i tumulti che potevano originare i tentativi di destituirli. Fa solo eccezione la Libia di Gheddafi, dove i ribelli non sono stati spazzati via per l'intervento militare della Nato. La diffusa nazionalizzazione delle industrie petrolifere fece passare il potere economico dalle famose sette sorelle, più qualcun'altra, nelle mani dei politici, che sono riusciti a sedare il malcontento riducendo le tasse e concedendo altri benefici per evitare insostenibili diseguaglianze. L'Algeria, ad esempio, proprio quest'anno, ha annunciato piani di investimenti in nuove infrastrutture e una sostanziale riduzione delle imposte; l'Arabia Saudita ha decretato un aumento considerevole dei salari nel settore pubblico e sussidi di disoccupazione; il Kuwait ha elargito un dono in denaro per ciascun cittadino di più di tremila euro e buoni pasto gratuiti per quattordici mesi. È pur vero che se fra questi Paesi alcuni, come il Messico, l'Indonesia e la Nigeria sono addirittura transitati a regimi di democrazia e quindi di responsabile trasparenza, altri, e certo i più ricchi come l'Algeria e l'Arabia Saudita, continuano a vivere nella totale opacità della loro ricchezza, nascosta nei rivoli della corruzione delle chiuse élite del potere. Va peraltro subito ricordato e sottolineato che le rivolte in Egitto e in Tunisia iniziarono proprio quando i loro popoli divennero coscienti del divario fra la ricchezza di politici corrotti e la miseria in cui erano costretti a vivere.
Ma nei Paesi ricchi, dove i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e la disoccupazione aumenta, mentre le giovani generazioni si trovano senza futuro, si manifesta nelle piazze contro il potere finanziario. Ebbene, iniziando dagli Stati Uniti, la disoccupazione è al livello più alto degli ultimi trent'anni, milioni di americani hanno dovuto abbandonare le loro case a causa della speculazione finanziaria, e i salari reali sono i più bassi dal periodo della Grande Depressione; mentre la ricchezza si è spostata, fuori d'ogni proporzione, ancor di più a favore dei più ricchi, chiamati "i titani della finanza globale". E nulla sembra cambiare. L'ultima diffusa ideologia capitalista sostiene che questo altro non è che la legge del mercato e della globalizzazione, impossibile da contrastare. Orbene, Jacob S. Hacker e Paul Pierson, in un poderoso e accurato studio (Winner - Take - All politics: how Washington made the rich richer - and turned its back on the middle class), hanno dimostrato che le spaventose disuguaglianze non sono la conseguenza naturale delle forze di mercato, ma sono dovute a decisioni politiche ben precise che, dagli anni Settanta del secolo scorso, hanno amplificato gli effetti delle trasformazioni economiche e diretto gli enormi guadagni, esclusivamente a favore delle classi ricche.
Ne sono esempio, le politiche di corporate governance che hanno garantito stratosferici compensi a dirigenti, indipendentemente dai risultati delle società, la selvaggia deregolamentazione dei mercati finanziari, che ha reso possibile e lecito alle banche e alle loro istituzioni consorelle di creare strumenti di mercato surreali, i quali hanno ulteriormente arricchito manager e investitori esponendo lavoratori e pensionati a rischi rovinosi.
Ciò che i due studiosi non hanno analizzato è soprattutto lo scontento che fin dagli anni Sessanta-Settanta ha caratterizzato il giudizio della classe media americana nei confronti dei governanti, nonché le proteste per le guerre inutili, per le divisioni razziali e per il disprezzo dei diritti umani. Ed oggi, quando la politica reale, non quella a parole, sembra dettata solo da Wall Street, la protesta si sta espandendo in tutti gli Stati Uniti. Non diversamente, anche nella periferica Europa, dove le politiche attuali per risolvere la crisi sono sempre più dettate dalle Banche centrali e le imposte discipline di austerità van tutte a danno dei disoccupati e dei poveri, ma risparmiano i ricchi. Non è strano che il salvataggio della Grecia, con austerità connessa, vada a vantaggio delle banche europee che avevano sottoscritto i suoi titoli pubblici, ma stia provocando al suo interno miseria e ribellioni. Neppur sembra un caso che Francia e Germania, dove le diseguaglianze sono meno evidenti e rilevanti che negli altri Paesi dell'Unione, compreso il nostro, siano d'accordo con la Banca centrale europea.
Ma cosa sta allora alla base di questa indignazione globale? La risposta fu già espressa in sintesi nel 1971 dal grande filosofo John Rawls (A Theory of Justice) quando scrisse che l'individuo razionale: «Non è danneggiato dalla consapevolezza o dalla sensazione che altri possiedano un indice maggiore di beni sociali principali o, perlomeno, ciò è vero finché le differenze tra sé e gli altri non superano un certo limite ed egli non comincia a credere che le ineguaglianze esistenti sono basate sull'ingiustizia, o sono il risultato di un'azione incontrollata del caso, priva di qualunque scopo sociale compensativo».
Gli indignati dunque non sono certo a favore dell'antipolitica, bensì di una politica che persegua, anche nella globalizzazione, fini di giustizia e risolva a tutti i livelli le sempre più intollerabili diseguaglianze, figlie del predominio della finanza.