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Lunedì, 12 Luglio 2010 12:07

Dal sepolcro alla vita

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Le situazioni di estrema povertà generalizzata acquistano, nella vita reale, lineamenti molto concreti, nei quali siamo chiamati a riconoscere le sembianze del Cristo sofferente, del Signore che c'interpella. a cura di Domenico Guarino

In America Latina, soprattutto nei paesi andini, le chiese sono piene di statue e di immagini. Tra queste spicca quella di Gesù seduto su un trono, spogliato delle vesti, con il corpo coperto di ferite e con la corona di spine sul capo. E’ il Justo Juez ("giusto giudice"), che giudica la storia e l'umanità non come un re ammantato di gloria, ma nella condizione di umiliato, spogliato e torturato. La drammatica immagine riporta a un momento della vita di Gesù, che è centrale nel mistero della salvezza: la sua passione e morte in croce.

Attorno alla passione di Cristo si è sviluppata una serie di devozioni che hanno esaltato la disposizione alla sofferenza come virtù. In molte località del subcontinente il Venerdì Santo capita di vedere persone che si flagellano o gruppi che piantano croci un po' dovunque come esercizi di pietà.
C'è una mentalità dietro tutto questo. A chi è spossato dal dolore viene spesso chiesto di offrire la propria sofferenza, unendola a quella di Gesù per la salvezza del mondo. Un'interpretazione che presuppone che la persona si trovi in una situazione di disgrazia e di perdizione a causa della propria condizione umana. Non ci s'interroga sull'origine della sofferenza, ne ci si chiede da chi e da che cosa sia provocata. A venire sottolineato è soltanto il suo valore salvifico.

Anche le comunità ecclesiali di base vedono nei poveri il Gesù crocifisso. Forti di quanto leggono nel documento della 3a Conferenza generale dell'episcopato latino-americano, celebrata a Puebla (Messico) nel 1979, nel volto di Cristo sfigurato nel Getsemani e sul Golgota vedono «i volti dei campesinos senza terra, oltraggiati dalle forze armate e dal potere; i volti degli operai licenziati senza motivo o senza un salario sufficiente a mantenere le famiglie; i volti degli anziani, degli emarginati e degli abitanti di tuguri; i volti dei bambini poveri che già dall'infanzia cominciano a sentire il morso crudele dell'ingiustizia sociale...».

Ma per i cristiani delle comunità di base sia la croce di Gesù che la crocifissione del popolo hanno cause storiche ben precise. Quindi, anche la salvezza deve avere una verifica storica. La resurrezione annunciata non può essere astratta o idealista, ma deve trasformarsi in una risposta concreta di speranza per la vita delle persone crocifisse.

La passione di Gesù c'interroga sul senso e sul perché di quella morte. E il risorgere dai morti del Crocifisso c'invita a domandarci che cosa significhi per noi vivere la risurrezione in un tempo marcato dalla sofferenza e dalla morte di molta gente.

La morte di Gesù non è il sacrificio voluto da un dio offeso e assetato del sangue di una vittima («Tu non hai voluto né sacrificio né offerta», Eb. 9,5b), ma la conclusione di una vita vissuta per amore. In altre parole: è stato I'esito finale dell'impegno (piano) di Dio di rendere presente nella storia umana il suo Regno. L'annuncio e l'inaugurazione di questo Regno — attraverso parole e azioni — terminano in un fallimento: Gesù è rifiutato e abbandonato. Alla fine, con lui rimangono soltanto alcune donne, che «osservano da lontano» (Mt 27,55) quanto sta accadendo. La vita e le parole di Gesù hanno provocato un conflitto aperto, soprattutto con le autorità del tempo. Il Vangelo di Luca mette in luce la dimensione politica della morte di Gesù, smascherando i giochi di potere tra la casta sacerdotale e il rappresentante dell'impero romano. Condannato a morte dai sacerdoti, Gesù è crocifisso, cioè eliminato con un supplizio tipicamente romano. La morte di Gesù avviene con una violenza inaudita. La crocifissione era un tormento crudele e umiliante: era il castigo riservato agli schiavi.

Nel grido di Gesù («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?») dobbiamo sentire il grido degli impoveriti di oggi. Quel grido è quello di uomini, donne e bambini che portano sul proprio corpo i segni della morte, creando una relazione, profonda ed esistenziale, tra il loro dolore e quello di Gesù.
Sento spesso quel grido. L'ho udito, alcune settimane or sono, sulle labbra di Bernard: giunto dal Senegal per trovare qui da noi condizioni di vita migliore, s'è visto il sogno distrutto da una legge che lo criminalizzava per il solo fatto di non avere i documenti in regola.

Ho visto le ferite di Cristo sul corpo di Victor: senza fissa dimora, è stato massacrato di botte da degli sconosciuti ed è morto nell'indifferenza delle istituzioni e di una città.

Ho scorto le lacrime di Cristo in quelle di Maria: ragazza madre, l’estate scorsa ha perso il suo unico figlio in un incidente stradale e oggi va ripetendo: «Perche m'è stato tolto l'unico figlio che avevo?».
E mi pare di vedere l'onnipotente debolezza dell'amore di Gesù nella serena impotenza di Margherita: da mesi una grave malattia sta distruggendo il suo fragile corpo.

Certo, è lecito aiutare le persone ad accettare la sofferenza e invitarle a viverla in profonda comunione con Cristo. Lo faccio, quando capisco che chi mi ascolta ha la capacità di cogliere il vero significato delle misteriose parole di san Paolo: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la chiesa» (Col 1,24). Giuro, però, che avverto sempre un brivido lungo la schiena.

Ma è anche doveroso avere il coraggio di urlare a chiare lettere la "verità storica" di certe sofferenze e di certe morti. Come fece Pietro, quando, parlando al popolo radunato nel tempio di Gerusalemme, disse: «Voi avete ucciso l'autore della vita» (Atti 3,15a). Molte morti "prima del tempo" sono dovute a situazioni d'ingiustizia e a un sistema che continua a fare scelte contrarie alla vita.

Non è vero che la storia è condannata a perpetuare schemi di potere e di sopraffazione. La risurrezione di Cristo ha spezzato («una volta per sempre», Eb 10,10) questa catena di morte e aperto la possibilità di qualcosa di assolutamente nuovo. Strappando Gesù dalla morte, Dio ha detto il suo"si"definitivo all'impegno del Figlio per il Regno.

Questo impegno è oggi portato avanti dai discepoli di Cristo. E la risurrezione non va soltanto attesa in un domani, ma "vissuta" oggi: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,14). Credere nella risurrezione significa trasformare ogni situazione di morte in situazione di vita.

Non è vero che il male ha sempre l'ultima parola. Chi crede nella risurrezione è convinto che l'umanità non cammina verso il fallimento e che la storia non è enigmatica, oscura, senza una meta.
Se Cristo risorto è il fondamento della nostra fede e il principio della nostra liberazione, non possiamo "conformarci" a un mondo pieno di odio, di ingiustizie, di bugie e di oppressione. Dobbiamo credere in un mondo "nuovo", in un mondo "risorto", e adoperarci perche questo mondo diventi sempre più visibile già da ora.

II 24 marzo scorso è stato il 30° anniversario del martirio di mons. Oscar Romero, l'arcivescovo di San Salvador, assassinato durante la celebrazione della messa dai militari perché si era fatto voce del senza voce, difensore pacifico del popolo oppresso. Romero credeva nella risurrezione: «Se mi uccideranno, risorgerò nella vita del popolo salvadoregno». Ma credeva anche che la nuova vita instaurata da Cristo risorto è un dono da vivere nel presente: «La dimensione dell'uomo è, sì, trascendente, ma anche storica, temporale, concreta. L'uomo chiamato alla salvezza eterna è quello che oggi sta morendo di fame o non ha un salario giusto. L'uomo che possiede una vocazione per il cielo, Dio l'ha creato perché sia felice in terra. L'uomo che sarà nell'eternità fratello di tutta l'umanità deve imparare la fraternità sulla terra, perché la smettiamo di odiarci e ucciderci».

a cura di Domenico Guarino
Nigrizia aprile 2010

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