Allungare l'età pensionabile è cosa buona e giusta: ce lo rammentano le più autorevoli voci internazionali, dal Fmi alla Ue; ce l'ha ripetuto anche di recente il governatore di Bankitalia; lo sostengono le maggiori forze politiche. Ma ora che il governo, nel gran calderone della manovra del 31 maggio, ha frapposto una manciata aggiuntiva di mesi di lavoro tra i sessantenni e l'agognata quiescenza, apriti cielo: una caterva di critiche, e non solo dall'opposizione. Certo, un intervento che lede gli interessi di un milione di persone già nel 2011, e di una platea assai più vasta sul medio periodo, suscita un'allergia congenita nelle forze politiche. Ma c'è un altro motivo: come la gatta frettolosa fa i gattini ciechi, anche una manovra messa in piedi in poco tempo, quale ombrello nella tempesta finanziaria, colpisce sovente alla cieca, tanto più quando affronta una materia delicata come quella previdenziale, che incide sui progetti individuali. Ricordarsi dell'imperativo di allungare la vita attiva solo quando si ha l'urgenza di "far cassa" (si risparmieranno circa 3 miliardi fino al 2013), significa condannarsi ad aporie, contraddizioni, iniquità. Vediamone alcune tra le più rilevanti.
Il gioco delle finestre Il perno della stretta previdenziale è costituito dall'abolizione delle finestre fisse, sostituite da una sola scorrevole. Fuori dal gergo, chi fino a tutto il 2010 matura i requisiti del pensionamento deve aspettare, per l'uscita effettiva, tra un minimo di sei mesi e un massimo di 11 per le pensioni di anzianità, per quelle di vecchiaia dai tre ai cinque. Dall'anno prossimo, invece, tutti potranno andare in pensione solo 12 mesi dopo averne raggiunto i requisiti (18 se lavoratori autonomi). L'intervento del governo fa scomparire le sperequazioni delle finestre fisse che potevano comportare per due lavoratori con la medesima anzianità, l'uno nato il 30 giugno e l'altro il 1 luglio, fino a sei mesi di differenza nell'attesa. L'eliminazione di questa piccola ingiustizia porta però con sé un allungamento per tutti dei tempi di pensionamento. Rispetto a prima, la nuova regola ha un costo diversificato: paradossalmente "pagano" di più i pensionandi di vecchiaia rispetto a quelli di anzianità. I primi dovranno attendere tra sette e nove mesi più di prima, se dipendenti, e tra nove e 12 se autonomi; i secondi "solo" tra uno e sei mesi in più in entrambi i casi.
40 anni non bastano Tra le più penalizzate dalla nuova finestra troviamo una fascia di lavoratori che fin qui era stata maggiormente protetta dalle ripetute riforme: quelli con un'anzianità di lavoro di 40 anni, che potevano andarsene dopo un'attesa di non più di tre mesi e con un'età anagrafica inferiore alla minima stabilita per la generalità dei casi. Ora anche i lavoratori di lunghissimo corso dovranno attendere nove mesi in più: "Questo maggior inasprimento per chi ha 40 anni di contribuzione è indubbiamente singolare", ammette Giuliano Cazzola (Pdl), maggior esperto del centrodestra sulla partita previdenziale, lasciando intendere che forse il decreto potrebbe venire modificato. La sensazione di scarsa equità si accentua per la mancanza di misure perequative fortemente simboliche, quali l'annunciato e poi scomparso prelievo sugli assegni di quiescenza più alti: sogni d'oro per le pensioni d'oro.
C'è lavoro e lavoro