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Venerdì, 16 Aprile 2010 13:53

Armi alle stelle

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La crisi economica non sembra scalfire questo mercato. Superata la soglia dei 1.400 miliardi di dollari l’anno. L’Italia è all’ottavo posto; la sua industria bellica, Finmeccanica, al secondo. Si confida in un trattato internazionale, voluto dall’Onu, che regolamenti un mercato lasciato a sé stesso.

Mentre gli arsenali s’ingrassano, le pance si svuotano. Un inversamente proporzionale eticamente stonato, ma che sembra assumere, ormai, i connotati di una regola non scritta in quest’era contraddittoria. Negli ultimi sei mesi del 2009, nel mondo è aumentato di 100 milioni il numero delle persone che soffrono la fame, superando nel complesso la soglia del miliardo. Nel 2008, la spesa militare, invece, ha toccato una cifra record: 1.464 miliardi di dollari in valori correnti, ovvero 1.226 miliardi in valori costanti. Una cifra che è pari al 2,4% del Pil mondiale e che ci riporta agli anni della Guerra fredda. Una crescita del 4% rispetto all’anno precedente. Un boom del 45% nell’ultimo decennio. La crisi finanziaria internazionale sembra aver fatto il solletico a questo settore, che continua a crescere in modo indisturbato. Un solo scatto per fotografare le sproporzioni: per dimezzare la povertà nel mondo entro il 2015, in base alla scaletta imposta dagli Obiettivi del Millennio dell’Onu, servirebbero 760 miliardi di dollari; dall’alba al tramonto di un solo giorno si spendono 4 miliardi di dollari per mantenere gli apparati militari.

Il re sole degli armamenti resta lo zio Sam: gli Stati Uniti, nel 2008, hanno speso 607 miliardi di dollari, quasi quanto il resto del mondo messo insieme. Sette volte più della Cina (84,9 miliardi), che si colloca al secondo posto di questa particolare classifica. Che è tratta dal rapporto annuale sullo stato di sicurezza della proliferazione e della spesa per gli armamenti nel mondo, redatto dal Sipri, l’istituto di ricerche svedese, tra i pochi accreditati internazionalmente a fornire un quadro attendibile sull’incerta spesa militare.

A braccetto con quest’ultima è cresciuta anche la produzione di armamenti, con un automatismo assolutamente prevedibile. Nel 2007, la vendita complessiva delle cento maggiori industrie a produzione militare ha raggiunto i 347 miliardi di dollari. Ce lo ricordano Massimo Paolicelli e Francesco Vignarca nel loro recente libro, Caro Armato, edito da Altraeconomia edizioni. Un mercato, quello delle armi, caratterizzato da grandi fluttuazioni di anno in anno e da un colossale processo di concentrazione dell’industria a produzione militare. Sono sempre di meno ma sempre piùelefantiaci, infatti, i colossi “armati” che controllano questo mercato.

Una concentrazione di potere e un’esplosione della spesa che iniziano a preoccupare anche le stesse potenze militari. Non esiste attualmente, infatti, una regolazione comune del commercio di armi. Ci si affida direttamente alle legislazioni nazionali, che sono disomogenee e spesso incomplete. Per questo, è stato accolto con un  mix di sorpresa e gioia il voto dell’assemblea dell’Onu del 30 ottobre scorso a favore dell’adozione di un chiaro scadenzario temporale per elaborare il Trattato internazionale sui trasferimenti delle armi. Centocinquantatré paesi – tra cui anche gli Usa, che per la prima volta hanno assunto una posizione favorevole – hanno detto di sì alla scrittura di regole internazionali più stringenti per cercare di ridurre le conseguenze di questo commercio indiscriminato, che alimenta guerre e conflitti. Soprattutto nel sud del mondo, in Africa in particolare, visto che il 38% dei conflitti armati combattuti nel mondo, ne 2007, si è consumato proprio in quel continente.

Così, i sostenitori del Trattato si sono dati appuntamento al 12 luglio 2012 per la conferenza finale e per la firma del documento. E l’11 novembre, sulla prima pagina dell’Osservatore romano, David Milliband e Bernard Kouchner, ministri degli esteri di Inghilterrae Francia, hanno assegnato un ruolo di guida in questa battaglia al Vaticano e hanno aperto ai gruppi della società civile. «Collaboreremo – hanno scritto i due – con una vasta gamma di organismi non governativi, di gruppi religiosi e di attivisti indipendenti che hanno espresso tutti il proprio sostegno al Trattato, per garantire che le loro voci vengano opportunamente ascoltate».

ITALIA TANTO ARMATA

E Roma? Diciamo che il made in Italy armiero tira. Secondo il Sipri, siamo all’ottavo posto nella classifica dei paesi più spendaccioni, con 40,6 miliardi di dollari. La nostra spesa militare pro capite è pari a 689 dollari, superiore a quella della Germania (568 dollari), del Giappone (361 dollari) e della Russia (413 dollari). Solo Usa, Francia e Gran Bretagna ci superano in questo conteggio. A sentire generali e stellette, l’Italia sembra sprofondare

in una valle di lacrime e di tagli. La Finanziaria “tremontiana” prevede per la difesa una programmazione triennale, in cui lo stanziamento per il 2009 è di 20 miliardi 294 milioni di euro e spiccioli; per il 2010, di 19 miliardi 321 milioni e rotti; per il 2011, di 18 miliardi 999 milioni.

Ma da queste cifre mancano sempre alcune voci: il solito fondo di 1 miliardo nel bilancio del tesoro per il finanziamento delle missioni all’estero; il fondo, superiore al miliardo, nel bilancio economico per il settore aeronautico, navale e terrestre; il fondo riservato ai servizi segreti civili e militari ed extraspese. Morale: le spese militari lasceranno sul terreno dei conti pubblici, nel 2010, oltre 23 miliardi di euro.

Nei prossimi anni, poi, dovremmo portare a termine acquisti di sistemi d’arma particolarmente esosi: dalla portaerei Cavour (1.396 milioni di euro), alle 17 fregate Fremm (5.680 milioni di euro), ai 131 cacciabombardieri Joint Strike Fighter (13 miliardi di euro), per citarne solo alcuni. Uno studio condotto dall’ong Intersos ci ricorda che l’Italia è quindicesima nell’Unione europea per quanto riguarda gli stanziamenti per la lotta alla povertà nel mondo, ma terza per numero di militari impegnati nelle missioni all’estero (8.730 a novembre). Secondo questa ricerca, tra il 2006 e il 2009 sarebbero stati spesi 4.346 milioni di euro per l’invio dei militari nelle missioni, mentre le risorse per la cooperazione sarebbero state 2.042 milioni di euro.

E che dire della corsa agli armamenti di Finmeccanica, colosso italiano a controllo pubblico? Nel 2009, il centro di ricerche del Congresso Usa colloca l’industria italiana al secondo posto nel mondo, davanti a Cina, Russia e Francia, con 3,7 miliardi di dollari di guadagni dall’export di armi. Triplicato il risultato dell’anno precedente. Per capire la crescita in questo settore, basti ricordare che nel 2000 erano “solo” 200 i milioni di dollari dell’esportazione italiana.

Finmeccanica, con i suoi 73.400 dipendenti nel mondo e i suoi 15 miliardi di euro di fatturato complessivo, rappresenta, di fatto, l’industria militare italiana e si colloca al terzo posto,come dimensioni, tra le aziende europee del settore difesa. Le sue società, nonostante la crisi che ha colto l’industria metalmeccanica italiana (-30% nei primi sei mesi del 2009), lavorano a pieno ritmo (398 milioni di euro gli utili del gruppo nei primi 9 mesi dell’anno scorso).

Ma l’Italia non è solo industria di sistemi d’arma. Il nostro paese mantiene ancora l’infelice (per noi) primato di essere il secondo esportatore mondiale di armi leggere (se ne calcolano 875 milioni nel mondo). Non solo le esportiamo, grazie al distretto bresciano che è tra i primi al mondo nella produzione, ma riempiamo pure i tinelli di casa nostra. Secondo un’inchiesta pubblicata nel luglio del 2008 dall’Espresso, sarebbero almeno 13 milioni gli italiani che detengono fucili o pistole in casa o che si addestrano nei poligoni. Un italiano su quattro.

Perseguitati dall’ossessione semantica della sicurezza, mai come oggi ci siamo tanto armati.

Dossier Nigrizia

Letto 2638 volte Ultima modifica il Venerdì, 16 Aprile 2010 14:07

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