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Martedì, 23 Marzo 2010 15:33

Le insidie della Jube Road

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La capitale del Sudan meridionale importa,in particolare dall’Uganda,gran parte di ciò che consuma. Un commercio non privo di rischi. Alimentati anche da Khartoum.

Un frastuono di cingoli e ferraglie, accompagnato dallo stridio dei freni, annuncia l'agognato arrivo. Il camion è giunto a destinazione: il Custom Market, il mercato più grande di Juba, una città avvolta nella polvere, con solo due chilometri di strada asfaltati. Una trentina di vacche vengono fatte scendere. Forse finiranno al macello. Oppure diventeranno proprietà dei popoli pastori del Sud Sudan: bari, nuer, azande, toposa, shilluk e, soprattutto, dinka, i più numerosi. Il valore delle vacche è simile a quello degli esseri umani per molti gruppi etnici del Sud Sudan.

L'autista urla qualcosa in kiswahili e i tre aiutanti capiscono che il loro capo è nervoso. Ha guidato dalle 2 del mattino alle 8 di sera, ed è stato fortunato: non ci sono stati incidenti e le mazzette alla frontiera non sono state particolarmente onerose. Diciotto ore di strada da Kampala, la capitale ugandese, a Juba, capitale del governo del Sud Sudan (Gss).

Con la firma del fragile accordo di pace tra i guerriglieri dell'SpIa (Esercito di liberazione del popolo del Sudan) e il governo di Khartoum nel gennaio 2.005, il Sud Sudan, regione semiautonoma, ha posto formalmente fine a una guerra con il nord del paese che durava dall'indipendenza nel 1956, con un intervallo di qualche anno negli anni Settanta.

La Juba Road è pericolosa: ribelli, imboscate e mine inesplose. L'Onu sta sminando la zona e i militari dell'SpIa sono obbligati a scortare ogni mezzo con almeno un soldato. La strana convivenza della popolazione locale con la forte presenza straniera (gente degli stati africani limitrofi, centinaia di operatori umanitari) crea pericolosi contrasti, che si respirano nelle strade.

Gli ugandesi portano legname, cibo e altro materiale di cui non c'è ombra in Sud Sudano Arrivano collanine indiane d'oro finto, vecchi orologi giapponesi, frutta e verdura. Ma la gran parte dei sud-sudanesi non sembra interessata al business. Il 76% della popolazione non sa né leggere né scrivere (dato Unicef). È, quindi, molto difficile far entrare nella mentalità della gente un'idea di commercio che vada al di là dello scambio di bestiame per il sostentamento del proprio clan, o di armi che servono a difendere il territorio.

«I sud-sudanesi sono pigri», mi dice Lydia Lowero, nord-ugandese, che da due anni vive a Juba e gestisce una bancarella di frutta e verdura: "Hanno sempre avuto gli arabi a comandarli. E ora se la prendono con noi che cerchiamo di guadagnarci da vivere».

Solo nell'ultimo anno sono state registrate decine di casi di violenza nei confronti degli ugandesi da parte dei civili e della polizia sud-sudanesi. «Alcune mie amiche sono state violentate. Molti sudanesi ci minacciano e rubano dalle bancarelle. Se proviamo a rispondere, noi donne veniamo violentate e gli uomini picchiati», afferma Beatrice, una ragazza ugandese che ha aperto un piccolo business di cellulari nel mercato di Konyo Konyo. Aggiunge: «Ultimamente, però, le cose si sono un poco calmate. Oggi, nei mercati, oltre alla polizia, circolano anche vari addetti alla sicurezza in borghese».

Uno dei fatti che ha messo in maggiore evidenza le tensioni provocate da questo commercio è stato l'accoltellamento, a settembre, di Nicholas Tony Makayi, vicepresidente della comunità dei commercianti ugandesi, da parte della polizia sudanese. Ma non è un caso isolato. Già nell'ottobre 2006, appena fu aperta la Juba Road, cinque ugandesi, tra cui un bambino, erano stati uccisi da uomini armati che avevano aperto il fuoco sull'automezzo su cui viaggiavano. Habib Miggade, ufficiale del Consolato ugandese, mi conferma che la situazione è migliorata: «Le tensioni tra ugandesi e sud-sudanesi si stanno allentando. Il Gss ci sta aiutando molto in questo senso».

 

La mano di El-Bashir

Le angherie da parte di alcune autorità sudanesi continuano, invece, attraverso la corruzione e le intimidazioni. A Nimule sono sorti uffici doganali illegali. Sempre più ugandesi e kenyani si lamentano delle mazzette che devono far scivolare nelle mani di questo o quel ufficiale per far passare il loro carico. Le autorità se ne approfittano e aumentano le tasse arbitrariamente. E non si può protestare, altrimenti si rischia di rimanere fermi per giorni.

Il ministro del commercio del Gss, Anthony Lino Marana, ha dichiarato quanto segue al The Juba, il giornale locale: «Chi tratta male i commercianti deve sapere che sta uccidendo l'economia del paese». E ha spiegato che la città «è probabilmente l'unica capitale africana dove tutto viene importato»: da Khartoum, dagli stati africani confinanti, dal Medio Oriente e dall'Asia. Frutta molto denaro il commercio di auto rubate a Kampala: viaggiano senza targa e poi vengono facilmente vendute a Juba.

Salva Kiir, presidente del Gss, ha invece accusato il governo di Omar El-Bashir di stare dietro alle imboscate. Sembra che Khartoum finanzi bande di mercenari che hanno il compito di compiere razzie e seminare terrore, minando così i rapporti commerciali che il Sud Sudan sta faticosamente instaurando con i paesi vicini. Uno degli ufficiali dell’intellegence sud-sudanese assicura: «Siamo pronti a scortare con decine di soldati ogni camion. Non permetteremo a El-Bashir di minare i rapporti economici con i nostri vicini».

Crocevia e tappa obbligata di questo commercio è Gulu (Uganda), una cittadina che, da quando sono iniziati i negoziati di pace, sta crescendo velocemente. Sui divani lisi dell'Acholi Inn di Gulu si discutono i termini di transizione per i più importanti carichi (leciti o illeciti) che devono arrivare a Juba. Agenti dei servizi segreti, uomini d'affari, personale delle agenzie umanitarie e camionisti preferiscono trattare con un sotto fondo di musica congolese, il televisore che gracchia in lontananza e le luci soffuse di color verde, giallo e viola. La frontiera con il Sud Sudan è a meno di due ore e spesso conviene viaggiare di notte, quando fa più fresco. Certo, lì finisce l'asfalto e la strada aumenta di pericolosità; gli attacchi dei ribelli causano qualche ritardo. Ma questo non può fermare l'onda commerciale che sta crescendo nell'area. Così, un paffuto ugandese sui trentacinque anni si alza dalla sedia, beve il suo ultimo sorso di Pilsener, posa il bicchiere sul tavolo e con decisione comanda ai suoi compagni: «Tuende, andiamo!».

 

Matteo Fraschini Koffi

Nigrizia

Letto 2237 volte Ultima modifica il Mercoledì, 24 Marzo 2010 09:46

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