Mondo Oggi

Martedì, 09 Gennaio 2007 12:01

LA PROFEZIA ARRIVA DAI GHETTI

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LA PROFEZIA ARRIVA DAI GHETTI

«Non vogliamo più fare una lettura a cifre del disagio e delle situazioni a rischio Vogliamo invece “leggere i territori” in termini di relazioni, contatti, progetti. Il che vuol dire impegnarsi non solo - come abbiamo sempre fatto e continueremo a fare - a rispondere ai bisogni che ci vengono segnalati ma anche ad anticipare i fenomeni e a intercettare il disagio prima ancora che sì manifesti nelle sue forme più acute. La sola analisi di ciò che non funziona e la sola distribuzione di servizi non bastano più. Occorre uno sguardo che sappia guardare lontano»

Don Vittorio Nozza, direttore della Caritas italiana, spiega perché da oltre un anno e mezzo, in collaborazione con

la Facoltà di Sociologia della Cattolica di Milano, ricercatori ed esperti si siano addentrati nelle periferie delle dieci maggiori città italiane per sondarne umori e derive e per cercare di immaginare per questi quartieri e per le metropoli nel loro insieme scenari futuri migliori degli attuali.

Qual è stato il punto di partenza di questo lavoro?

«Non siamo partiti dal nulla, ma dalla nostra presenza nei territori. Il nostro stile è sempre quello di valorizzare innazitutto le molte cose buone che già si sono fatte e si stanno facendo. In molte situazioni

la Caritas, il volontariato, le diverse esperienze educative, la scuola, sono un punto di riferimento importante. A partire dai servizi messi in atto nei confronti di numerose persone che sono disagiate per diversi aspetti abbiamo cercato di agganciare situazioni ancora più di frontiera in modo da avere una lettura anticipata di possibili fenomeni che in futuro potrebbero esplodere in modo dirompente».

Esplosioni di violenza come è avvenuto già in altre città d’Europa, ad esempio?

«I risultati della nostra ricerca ci dicono che siamo ancora lontani da quel tipo di fenomeni. Innanzitutto perché le città italiane si caratterizzano per una ancora forte coesione sociale. Inoltre, anche nelle zone più degradate non mancano le risorse e il lavoro, anche organizzato per rispondere alle difficoltà. A differenza, per esempio, delle periferie francesi, in Italia c’è l’impegno delle comunità parrocchiali, delle associazioni, dei gruppi, dei movimenti, delle cooperative sociali. I territori non sono lasciati completamente a se stessi, ma possono contare su iniziative che già esistono».

Cos’altro distingue le nostre città?

«Il fatto che il disagio non sia dato da un fattore dominante, ma dall’insieme di più situazioni precarie. Non è tanto e solo l’immigrazione, o la mancanza di lavoro, o il problema degli anziani soli o ancora la malattia mentale che caratterizzano il progressivo degrado dei quartieri, ma il miscuglio di tutti questi fattori. Un terzo fattore che si sta cogliendo è il fatto che queste periferie non sono cresciute come un far west, ma sono venute fuori all’interno di una progettazione. Progettazione che però non è stata attenta a trovare all’interno dei territori i servizi adeguati. Non c’è stata cura e attenzione da parte delle istituzioni e così, questa carenza di punti di riferimento e di risposte ha portato a situazioni di degrado e di violenza sempre più evidenti».

Cosa può fare

la Caritas e


la Chiesa nel suo insieme in questo contesto?

«Credo che siamo chiamati ad anticipare i fenomeni e gli scenari futuri. Per questo la seconda parte della nostra ricerca si occuperà di collocare dei “segni”. Non tanto i segni soliti, come il centro di ascolto, il luogo di accoglienza, il cammino di accompagnamento a difesa dei diritti, la costruzione di relazioni per persone che vivono la solitudine. Su tutto questo c’è una buona presenza. Anche se certamente non possiamo accontentarci di questo….»

E quindi…...

«Dovremmo riuscire a comprendere i possibili fenomeni devianti ed essere capaci di anticipare le risposte. Per questo cercheremo innanzitutto di coinvolgere le amministrazioni locali. Ci auguriamo che la nostra ricerca aiuti le istituzioni a capire che non si possono trascurare ulteriormente questi territori, già molto provati. Da una parte, dunque, vogliamo svegliare l’attenzione delle amministrazioni pubbliche e, dall’altra, vogliamo far sì che le presenze che già ci sono non si sentano abbandonate a se stesse, ma che invece siano rafforzate con supporti e reti».

Un lavoro che partirà subito?

«E’ necessario muoversi in fretta. Non possiamo permetterci di stare fermi per ritrovarci tra qualche anno ad analizzare il nuovo disagio e i nuovi problemi che intanto si saranno radicati nel territorio. Cerchiamo una modalità di impegno che non ci veda ancora occupati nei classici servizi, ma che sia di tipo culturale, dialogante, di risveglio, di responsabilità, di sollecitazione del territorio. Non vogliamo andare ancora una volta a investire in “opere buone”, ma vorremmo impegnarci in azioni che provochino “opere buone”. Questo non è un tirarci indietro, ma   un esserci, come Caritas e come Chiesa, più in chiave di sentinella, di antenna, di favorente una serie di compiti che spettano in primo luogo alle istituzioni e alle realtà locali».

La lettura di questa ricerca è soltanto sociologica o anche pastorale?

«Non abbiamo separato i campi. Gli esperti hanno contattato, sul territorio, tutte le realtà che vi operano, dalla parrocchia alle scuole. La lettura è dunque non solo sociologica, ma molto esperienzale: si combina insieme il culturale con il pastorale e con il sociale. Non vogliamo che sia una pura lettura da “sacrestia”, ma neppure che sia una cosa prettamente da studiosi. Anche perché le risposte dovranno essere integrate, a rete. La pastorale non è un qualcosa di astratto, che si applica all’interno delle parrocchie, ma si confronta quotidianamente con le persone, con problemi, con lo sviluppo di un territorio».

Concretamente che cosa significa?

«L’obiettivo è di stare nei territori non in maniera gestionale. Certamente restiamo attenti a dare delle risposte anche sui bisogni immediati, ma non possiamo fermarci a questo. Non abbiamo segnali di disastri simili a quelli che sono successi in altre città fuori dall’Italia, ma sappiamo bene che alcune situazioni, se non curate, possono portare a una frattura molto grave e a punti di difficile ritorno. All’interno dei contesti che abbiamo analizzato ci sono cose pesanti che vanno valutate attentamente. Quello che ci dà speranza, però, è che ci sono anche presenze significative. Non c’è, insomma, una totale disumanizzazione del territorio.

La Chiesa lavora molto in questi territori ed è anche riconosciuta come punto di riferimento».

Come vi muoverete dopo la presentazione di questa ricerca?

«Attualmente ci caratterizziamo, soprattutto noi della Caritas, per il fatto di stare, di abitare il territorio, di ascoltarlo. D’ora in avanti vorremmo che sempre di più fossimo riconosciuti come riferimento per diversi mondi e diverse realtà sia istituzionali, che ecclesiali, che di società civile. Con il lavoro di ricerca che abbiamo fatto e con i passi futuri vorremmo che la nostra azione sia ancora più in movimento. Non che quanto si è fatto e si fa sia statico. Il punto, però, è che nei prossimi anni vogliamo assumerci l’impegno di stare ancora più addentro alle situazioni e di cercare le “lontananze più lontane” facendo sì che nascano relazioni. Vorremmo essere sempre in movimento, come lo sono i quartieri di cui ci occupiamo e le vite delle persone che incontriamo. Così anche la nostra azione pastorale potrà essere più incisiva e più rispondente alla valorizzazione piena delle risorse personali e comunitarie. Non è un impegno facile quello che ci attende, ma è l’unica strada che possiamo battere per stare accanto alle persone, facilitare una migliore qualità della vita, aprire le città alla speranza. E per non trovarci tra qualche anno a raccogliere i cocci delle ennesime buone proposte andate in fumo».

Annachiara Valle

Jesus/Novembre 2006

Letto 1712 volte Ultima modifica il Martedì, 13 Marzo 2007 23:55
Fabrizio Foti

Architetto
Area Mondo Oggi - Rubrica Ecclesiale