I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Le difficoltà maggiori si riscontrano nell'uso dei titoli attribuiti a Maria. La sensibilità teologica del protestantesimo ha letto nella letteratura cattolica eccessivi "abusi" che hanno stimolato la devozione popolare in base a "parallelismi" troppo marcati tra cristologia e mariologia.

Mercoledì, 29 Dicembre 2004 00:01

Catastrofi e immagini di Dio (Faustino Ferrari)

Come è possibile insegnare che Dio è amore quando si è capaci di parlare soltanto di catastrofe e di morte? Si può amare Dio perché sperimentato come Dio e non per timore o per paura.

Martedì, 28 Dicembre 2004 01:25

La necessità dell’unico padre

La necessità dell’unico padre






«Il nostro padre è Abramo» (Giovanni 8,39)..

Chi non conosce, nel Nuovo Testamento, la sfida lanciata a Gesù dai suoi interlocutori di cui denunciava le azioni? O ancora, l’invettiva di Giovanni Battista alle folle che venivano ad ascoltarlo nel deserto: «Non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre!» (Lc 3,8-9).

Così, alle soglie dell’era cristiana, la figura di Abramo appare nel mondo giudaico come una figura non solo di primo piano, ma unica, il padre per antonomasia di tutti coloro che si richiamano alla fede ebraica.

«Noi siamo discendenza di Abramo», dicevano gli Ebrei, «e non siamo mai stati schiavi di nessuno!» (Gv 8,33). Se, secondo il retroscena di questa affermazione, non ci si poneva la questione se Abramo fosse o no un personaggio storico, un’altra domanda si poneva, domanda che ci fornisce una via per comprendere tradizioni conservate in particolare nel libro della Genesi: in nome di chi si poteva reclamare Abramo come padre? In questo modo, affrontare il personaggio di Abramo come figura emblematica del padre unico costringe ad un’altra linea di lettura che la Bibbia nel suo stato attuale ci impone: quella secondo un ordine cronologico che, discendendo dall’unica figura paterna, ordina il seguito della storia. Bisogna dunque ripartire non più dalla figura di Abramo «all’origine», ma da un momento tardivo della storia ebraica e partendo di qui risalire sino alla figura di Abramo.

In ognuno di questi casi, il gioco è particolare. Il primo, quello della lettura cronologica che parte dall’inizio (Gn 11,27ss), impone un personaggio, degli eventi, dei luoghi, che possono essere passati al setaccio della critica storica, cosa di cui Thomas Romer (vedi pp. 4-9) ricorda gli esiti. Il secondo, quello che risale a partire da uno o più precisi momenti posteriori, s’interroga in primo luogo su ciò che ha indotto i redattori e i teologi biblici a scegliere questo o quell’evento, ad accentuare questa o quella affermazione, in una parola, ad elaborare così, e non diversamente, a partire da questi momenti tardivi della storia di Israele, il personaggio e la sua storia così come la scopriamo nella Genesi e in talune allusioni dei libri profetici, dei salmi, delle lettere di Paolo e dei vangeli.

Questo procedimento coinvolge certo la comprensione del personaggio di Abramo stesso, ma privilegia soprattutto la comprensione che Israele ha voluto farsi e dare di lui, rivelando allo stesso tempo un certo processo di composizione dell’Antico Testamento.



Valorizzazione della storia di Abramo





All’inizio del processo, bisogna ricordare questo dato di fatto, che Abramo compare nella storia di Israele molto prima che questo popolo esista con una propria autocoscienza, dal momento che a lui per primo fu detto: «Fa un grande popolo» (Gn 12,2). La sua realtà di «padre», di «antenato» dipende dunque dalla realtà di un Israele ancora da venire. E la lunga durata che, secondo lo stato attuale del testo biblico, lo separa dai primi momenti in cui si può riconoscere Israele come popolo sulla sua terra (nei libri di Giosuè e dei Giudici), non fa che acuire la domanda: perché la storia di Abramo è stata sviluppata, e dunque valorizzata, in questo momento?

Per dare una risposta, non si tratta più di legge-re questa storia come se si trattasse di scoprirla alla maniera di una serie di episodi sconosciuti e sorprendenti; si tratta di leggerla come portatrice di elementi che giustificano che sia riportata così e soprattutto collocata «all’inizio» della storia di Israele.

Tre elementi si impongono allo spirito del lettore che ha concluso la storia dell’Antico Testamento ed è giunto, nel Nuovo Testamento, alle dichiarazioni sia degli ebrei sia di Giovanni Battista: il personaggio di Abramo, i suoi movi-menti migratori e il suo insediamento in una terra che accoglierà le sue spoglie.

Antenato di tutti gli ebrei, Abramo ha vissuto una storia che lo ha condotto dapprima dall’oriente mesopotamico (Gn 11,31) all’Occidente egizio (12,10), prima di stabilirsi sulla terra del futuro Giuda. Nel passaggio, alcuni luoghi sono destinati a ricevere una sorta di istituzione sacrale della sua presenza, dell’intervento divino e dunque delle promesse ricevute e delle gesta del patriarca. Santuari celebri (Sichem, More, Mamre, Bersabea...) riceveranno così la loro autenticazione e allo stesso tempo la garanzia della loro antichità.

Una buona memoria biblica vi riconosce una geografia e una toponimia che permettono, sin dal libro della Genesi, di leggere in filigrana di volta in volta la geografia e la storia di Israele nel corso di parecchi secoli. Tra l’esilio in Babilonia, come punto d’arrivo, e il ritorno dall’Egitto, come punto di partenza, con i luoghi di culto e di pellegrinaggio sulla terra di Canaan, è proprio l’itinerario di Abramo che traccia il modello di quello che Israele ha percorso nello spazio di alcuni secoli, e secondo gli stessi luoghi di riferimento in cui egli ha professato la sua fede. Come l’itinerario di Israele fu dunque quello del suo antenato, così i luoghi in cui egli fece culto e professò la sua fede in JHWH sono i medesimi fondati da Abramo con un senso di pietà segnato da esperienze divine effettivamente fondanti. Ma questa lettura ascendente che, partendo dalla storia tardiva di Israele, stabilisce una concordanza tra le esperienze religiose e gli eventi vissuti dall’uno, Israele, e le pratiche religiose e gli episodi della storia dell’altro, Abramo, permette di andare oltre nella comprensione dell’elaborazione dell’una e dell’altra storia e del loro organico legame.

Che il popolo di Israele abbia vagato, come Abramo, nel deserto, che abbia abbandonato la Mesopotamia, che sia ritornato, come lui, dall’Egitto, che abbia dunque ricevuto, proprio come lui, la terra in eredità secondo una promessa divina, non dice che una parte di questa storia nazionale. C’è anche, infatti, nel flusso stesso di questa storia, una serie di tensioni che rivela, trattandole o tacendole, lo sviluppo della storia dell’antenato unico. La storia di Abramo non appartiene così soltanto all’ordine della riproduzione in microcosmo, o della negazione, della lunga storia successiva di Israele; essa appartiene anche all’ordine di una soluzione delle tensioni che quest’ultima ha prodotto, rivelando allo stesso tempo una delle spinte del processo di composizione della storia nell’Antico Testamento.

Per limitarci per il momento al ritorno dall’esilio, ci sono ad esempio le tensioni tra i sostenitori di un rigore morale che arrivava sino al rifiuto delle spose straniere (Esd 9), e quelli che predicavano l’apertura e la tolleranza. Questo ritorno, così fortemente desiderato dagli ebrei più zelanti, rivelava tuttavia che era fortemente intaccata un’antica unità che forse era stata solo un sogno. Tra coloro che ritornavano da Babilonia, e gli altri che si erano trovati in Egitto o erano rimasti in Palestina durante l’esilio, non cessava di emergere una grande varietà nel modo di intendere la religione, la Legge e la storia, di cui lo scisma dei Samaritani, per non parlare degli ebrei sedotti dall’ellenismo, è un chiaro sintomo.
Parallele e correlate con quelle del ritorno dall’esilio, queste tensioni si manifestano nella storia anteriore come si troverà più o meno tardi unificata nei libri dell’Esodo e dei Re. A questa storia le cui tradizioni vedono nell’Egitto e nel deserto i grandi luoghi della nascita del popolo in attesa di ricevere la sua terra e di penetrarvi a partire dal libro di Giosuè, sembrano opporsi tradizioni più «indigene» che, nelle storie in particolare dei libri dei Giudici, lasciano intendere che Israele fu sempre là, sulla sua terra, una terra che dovette difendere contro i vari nomadi venuti dal deserto. Anche nella storia di Saul e di Davide si nota la tensione tra le ricche terre del nord, la Galilea e la Samaria, e le terre povere del sud, la Giudea, di cui Davide deve accontentarsi in un primo tempo. I problemi si risolveranno momentanea-mente alla morte di Saul, ma non saranno dimenticati, cosa che sarà, in gran parte, fondamento del tentativo di colpo di stato di Assalonne contro Davide, suo padre...

Così, nonostante laboriose limature e puliture per unificarla in una continuità cronologica senza fratture, la storia di Israele, dai Giudici all’esilio e nei secoli seguenti, non poté cancellare completamente queste tensioni che talora sfociarono nel fratricidio. Per rispondere ad esigenze di coerenza allo stesso tempo storica e teologica, era necessario andare oltre questa tappa delle limature e puliture tra tradizioni diverse, o anche contrapposte, per risalire ad un principio di unità che avrebbe ridotto definitivamente tensioni, disaccordi e antagonismi tanto regionali quanto religiosi.

La storiografia biblica nella sua ultima sintesi rivela qui un processo particolare fondato non solo sulla necessità di raccontare degli eventi, ma di individuare da una parte e dall’altra un principio di unità, che si rivelava provvisorio sino ad un termine ultimo, un principio definitivo. Fu così necessario passare, risalendo sempre più indietro, al di là della Legge riconosciuta e letta al ritorno dall’esilio, al di là della divisione dei due regni, al di là delle contrapposizioni tra Saul e Davide come al di là dei sostenitori di un’origine straniera o esterna, dell’Egitto e del deserto fortemente simboleggiati nel libro di Giosuè, e quelli di un’origine puramente indigena come riecheggiano alcuni episodi dei libri dei Giudici o del primo libro di Samuele. In questa incessante risalita ad un’origine pura e definitivamente «unificante», si doveva superare anche la rivelazione a Mosè sul Sinai, e superare persino l’antenato eponimo, Giacobbe, colui che diede il suo nome a Israele. Si risalirebbe così a quell’Abramo la cui storia doveva necessariamente integrare, per riconciliarli e conciliarli, le diverse componenti di una storia plurisecolare, componenti vissute o sentite all’inizio come diverse, opposte, inconciliabili e talora fratricide.

Percepire in questo modo il processo di una storiografia alla ricerca di origini pressoché assolute, cioè incontestabili ed «unificanti», significa percepire un progetto che non è solo di ordine storico, ma molto di più, di ordine nazionale e politico, e in modo ancora più definitivo di ordine religioso e spirituale, tanto che, nel contesto della scrittura biblica, non si possono separare e nemmeno distinguere i due ordini. In sé, sarebbe stato abbastanza insignificante che un uomo di Ur avesse deciso un bel giorno di lasciare la patria per dirigersi verso nord; e l’invito divino rivolto ad Abramo di compiere il suo periplo dal lato di Beerseba o di Ebron non avrebbe avuto maggiore significato di qualunque altra storia edificante.

Ma che questo itinerario evochi «in un’eco interiore» l’itinerario del popolo di cui quest’uomo era detto l’antenato, che i luoghi santi fondati da lui sotto la diretta ispirazione divina fossero quelli a cui questo popolo si recava in pellegrinaggio, questo conferiva a questa storia che, per quanto religiosa, era personale, un significato esclusivo, ultimo e definitivo.
Non si trattava più soltanto di una storia, nel senso dello storico; non si trattava più soltanto di pie leggende, per quanto fondanti un particolare santuario; non si trattava nemmeno più soltanto dell’itinerario mistico di un personaggio di alta levatura spirituale. Si trattava di far vivere un popolo indicandone il padre, colui in cui poteva non solo riconoscersi, ma riconciliarsi, assumendo tutta la sua storia nelle sue tensioni. Che si tratti di terra e di deserto, di nomadismo e di sedentarietà, d’alleanza e di legge (della circoncisione), Abramo, dall’oriente all’occidente, assicurava per finire e per cominciare l’unità di Israele.

Così sognarono e scrissero i redattori della storia di Abramo. Così sognarono e lessero le generazioni ebraiche e cristiane, correndo il rischio del giudizio che uomini ebrei non esitarono a pronunciare, a partire da Giovanni Battista e Gesù stesso.




Martedì, 28 Dicembre 2004 00:16

Immagini di un antenato (Sophie Laurant)

Immagini di un antenato
di Sophie Laurant


 

Abramo occupa, tra i personaggi della Bibbia ebraica, un ruolo privilegiato. Insieme a Mosè è, in un certo senso, il "fondatore" del giudaismo, ma al contrario di Mosè, Abramo è diventato l'antenato comune delle tre religioni monoteiste: giudaismo, cristianesimo, islam. Questo patriarca sembra godere di un'incontestabile forza di integrazione, dato che possono riconoscersi in lui correnti teologiche diverse. Esistono dunque più letture possibili della figura di questo antenato. ll fondamento di tutte queste letture, cioè il ciclo di Abramo, che si trova nel libro della Genesi (Gn 11,27-25,18), contiene già una diversità di vedute e di rappresentazioni del patriarca.

L'avventura di Abramo, che all’inizio si chiama Abram (fino a Genesi 17), inizia con il racconto della migrazione della famiglia del patriarca che si sposta dalla Mesopotamia alla Siria (Carran). Al momento della menzione di Sara (Gn 11,30), moglie del patriarca, è citata la sua sterilità. Ogni avvenire sembra già allora compromesso per la coppia. Tuttavia in Genesi 12,1-9, Dio promette ad Abramo una numerosa discendenza. Egli appare dall’inizio come il credente esemplare. Non pone alcuna domanda quando Dio gli ordina di lasciare il suo paese: obbedisce, e si mette in cammino verso una terra sconosciuta. Appena arrivato in Canaan, il patriarca ci è presentato come un’altra persona (12,10-20). A seguito di una carestia, egli si affretta a lasciare la terra promessa per l’Egitto. Là non esita a far passare Sara, la moglie, per sua sorella e si arricchisce grazie a lei. Gli interventi di Dio e del faraone ristabiliscono l’ordine turbato dalle azioni di Abramo. Dopo l’immagine di un patriarca ingannatore, si ritrova in Genesi 13 un Abramo conciliatore e uomo di pace. Il conflitto territoriale che lo oppone a Lot, il nipote, è regolato con una divisione in zone di occupazione. Al contrario, il racconto seguente (Gn 14) ci pone di fronte, in modo inatteso, un Abramo guerriero che interviene in un conflitto internazionale dalle dimensioni apocalittiche. L’Abramo di Genesi 15 esprime, eccome, i suoi dubbi circa la promessa divina; in seguito è informato da Dio sugli eventi futuri, finisce col credere ed entra nell'alleanza. In compenso, in Genesi 16, il patriarca gioca un ruolo passivo e si trova un po’ superato dagli eventi. Accetta la proposta di Sara che, a causa della sua sterilità, vuole farsi sostituire dalla schiava Agar. Quando la schiava è incinta, Abramo è incapace di governare il conflitto che sorge tra le due donne. Agar fugge, ed è un messaggero divino che interviene in favore di lei e di suo figlio Ismaele. In Genesi 17 il patriarca beneficia di nuovo di un’alleanza divina. Al contrario di quella di Genesi 15, questa comporta un segno, cioè la circoncisione. Il racconto della visita dei tre uomini misteriosi (Gn 18) mostra l’esemplare ospitalità di Abramo. Dopo questo episodio, che si conclude con l’annuncio della nascita di Isacco, Abramo assume il ruolo di mediatore per convincere Dio a non distruggere la città di Sodoma. La città tuttavia viene distrutta, mentre Lot, che vi si era insediato e che si è mostrato ospitale come suo zio Abramo, è salvato insieme con le figlie e diventa, in maniera poco ortodossa, l’antenato dei Moabiti e degli Ammoniti (Gn 19). In seguito troviamo di nuovo il patriarca fraudolento che, soggiornando presso il re di Gerar, fa nuovamente passare Sara per sua sorella (Gn 20). Malgrado ciò, in questo stesso racconto, egli è chiamato "profeta" ed è incaricato, come più tardi Giona, di intercedere per i pagani. Alla fine, subito dopo il soggiorno di Sara nell’harem di Abimelek, nasce Isacco, il figlio della promessa (Gn 21); ma Dio presto domanda ad Abramo di sacrificare questo figlio. Nel racconto di Genesi 22, che è certo il più sconvolgente dell’intero ciclo, Abramo si comporta esattamente come in occasione della sua vocazione (12,1-9). Di nuovo, egli obbedisce senza fare domande. In Genesi 12 Dio gli aveva domandato di rinunciare al suo passato, adesso egli è pronto a rinunciare al suo avvenire. La conclusione di questa prova (sostituzione di Isacco con un ariete, riaffermazione della promessa) segna in qualche modo la fine delle gesta di Abramo.

I capitoli seguenti preparano la morte del patriarca. In Genesi 23, è detto che egli compra una tomba presso Ebron; e in Genesi 24, che egli fa cercare una sposa per Isacco in Mesopotamia, rifiutando i matrimoni con le "figlie dei Cananei". Nel capitolo seguente (Gn 25) Abramo, dopo la morte di Sara, prenderà un’altra donna del paese diventando, grazie a lei, l’antenato di un certo numero di tribù. Il narratore ci informa a questo punto della morte del patriarca, la cui sepoltura dà occasione a Isacco e Ismaele di ritrovarsi.

Il racconto della Genesi mostra dunque una varietà di ritratti del patriarca. Questa diversità si spiega con l’intervento di più autori e redattori nell’elaborazione del ciclo di Abramo.



La costruzione delle gesta di Abramo


 

Nell’attuale situazione delle ricerche sul Pentateuco, è impossibile proporre una teoria condivisa sulla formazione di Genesi 12-25. Tuttavia si può affermare che l’epoca dell’esilio babilonese (597-539 a.C.) è un momento decisivo per la redazione scritta delle tradizioni su Abramo. Il libro di Ezechiele contiene, in 33,24, la citazione di una rivendicazione della popolazione non deportata: "Abramo era uno solo ed ebbe in possesso il paese e noi siamo molti: a noi dunque è stato dato in possesso il paese". Con questo argomento, la gente rimasta in Palestina (contadini e popolino) giustificano il loro diritto al possesso del paese contro gli esiliati che, invece, si considerano il "vero Israele". Ez 33,24 fornisce indicazioni preziose per comprendere la formazione del ciclo di Abramo. Si vede in primo luogo che il patriarca è un personaggio conosciuto. Questo significa che non può essere stato inventato soltanto all’epoca dell’esilio. In apparenza, egli rappresenta l’antenato e la figura di riferimento della popolazione non esiliata. La prima storia di Abramo è stata, probabilmente, redatta nel VI secolo a.C. per legittimare le rivendicazioni riportate in Ez 33,24, ma racconti orali (e forse anche scritti) su Abramo e Sara esistevano certamente all’epoca della monarchia ebraica, in particolare presso il santuario di Ebron, dato che il patriarca si insedia in questa città e vi compera la tomba di famiglia.

La prima edizione del ciclo di Abramo (contenente grosso modo 12,10-20; 13; 16; 21,1-7) dà speranza alla popolazione rurale della Giudea, esortandola, attraverso l’esempio del suo antenato, a intrattenere buone relazioni con i popoli vicini (Gn 13 e 16), a non abbandonare il paese (12,10-20), promettendole un avvenire più sere-no a dispetto della situazione precaria che sta vivendo. Quando una parte degli esiliati ritorna in Giudea, a partire dal 530, costoro, attraverso talune aggiunte redazionali, rivisitano e adattano la figura di Abramo alle esigenze dei rimpatriati. Nella nuova introduzione che contiene il racconto della vocazione (12,1-9), Abramo prefigura il destino degli antichi esiliati che, come il patriarca, sono chiamati a lasciare Babilonia per la terra promessa. Gli stessi redattori inseriscono il racconto della legatura di Isacco in Genesi 22. La prova che Abramo subisce riflette il problema teologico, caratteristico dell’epoca persiana, di un Dio divenuto incomprensibile (lo stesso problema è trattato nel libro di Giobbe). Tuttavia questo racconto invita alla fiducia in Dio malgrado le apparenze; la discendenza di Abramo non sarà sacrificata, al contrario: essa è promessa ad un avvenire glorioso.

Redattori provenienti dall’ambiente sacerdotale procedono in seguito a varie riletture, in particolare aggiungendo il cap. 17, nel quale il riferimento ad Abramo serve a fondare il rito della circoncisione che diventa, a partire dall’epoca dell’esilio, il simbolo dell’alleanza tra Dio e la discendenza di Abramo.

Il racconto di Genesi 15 è probabilmente concepito dall’ultimo redattore della storia di Abramo, allo scopo di legarla alla storia dell’Esodo (15,13-16). In questo testo, Abramo diventa il precursore di Mosè, e Dio gli si presenta con queste parole: "Io sono il Signore che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei" (v. 7), espressione che richiama l’incipit del Decalogo: "Io sono il Signore che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto". Le diverse figure di Abramo che risultano dal processo di formazione della sua storia spiegano in certo modo perché diverse correnti religiose possano riconoscersi in lui. Taluni si trovano tuttavia disorientati di fronte ad una tale diversità e si mettono a cercare il "vero" Abramo.



Il problema della storicità di Abramo

 

Abramo condivide il destino di molti antenati storici: quello di essere difficilmente afferrabile dallo storico. Se si interpreta la cronologia dei primi libri della Bibbia come una successione di periodi storici, si arriva spesso alla conclusione che bisogna collocare l’Abramo storico nella prima metà del II millennio a.C. Si è pensato di poter provare la storicità di Abramo invocando ondate migratorie aramaiche in quest’epoca. Sono stati anche utilizzati gli archivi della città di Nuzi, ad est del Tigri, per fondare la storicità dei racconti su Abramo; dato che, in certe tavolette, si trova l’appellativo "sorella" per designare la sposa, si pensava di aver trovato una situazione storica similare per il racconto di Gn 12,10-20. Inoltre il nome Abramo è largamente attestato nel II millennio. L'idea di un Abramo vissuto attorno al 1700 a.C. è stata oggi abbandonata dalla maggior parte degli specialisti.

Se si leggono con attenzione i racconti su Abramo, si constata subito che essi non menzionano alcun evento del II millennio; essi hanno piuttosto qualche cosa di atemporale. Così, in Genesi 12, il Faraone non ha un nome proprio, ma simboleggia semplicemente la potenza egizia con la quale Israele ha dovuto confrontarsi per tutto il corso della sua storia. E se i racconti su Abramo risalgono veramente al II millennio, bisognerebbe spiegare attraverso quale canale le sue imprese sarebbero state veicolate per oltre mille anni prima di essere messe per iscritto. Neppure lo studio dei nomi propri ci aiuta, perché il nome del patriarca è altrettanto popolare sia nel II che nel I millennio a.C.; e la teoria di una grande migrazione nel II millennio appare oggi poco probabile. I rari nomi propri in Gn 11,27-25 e 18 evocano piuttosto il contesto dei secoli VII e VI a.C., come ad esempio il nome proprio "Ur Casdim" che non è attestato al di fuori della Bibbia prima del VII secolo; il nome Ismaele è da associare alla confederazione "Sumu’il", attestata nei testi assiri della stessa epoca. Bisogna anche notare che la proposta di Sara in Gn 16 corrisponde chiaramente alle pratiche previste nel contratto di matrimonio neoassiro.

È dunque pressoché impossibile ricostruire un Abramo storico che sarebbe vissuto nel II millennio. Non si può però escludere la possibilità di un personaggio storico che sarebbe:all’origine delle tradizioni su Abramo. Su una stele di vittoria del faraone Sesonq, datata circa 926, si trova forse (ma la lettura resta difficile) la menzione di un"campo di Abramo" localizzato nel Neghev, non lontano da Ebron. Si potrebbe dunque stabilire un legame con l’Abramo della Genesi. Non dimentichiamo però la frequenza del nome Abramo in quest’epoca.

L’importanza della figura di Abramo non dipende affatto dalla questione della sua storicità. Le storie che lo riguardano hanno fornito a generazioni di credenti delle tre religioni monoteiste modelli di identificazione, e anche messaggi di speranza e di avvenire nonostante le prove.




Dietro le immagini si delinea il monoteismo

 


Le rappresentazioni di divinità dell'antico Israele, rivelate dall'archeologia, permettono di scrivere la storia della formazione del monoteismo. Othmar Keel e Christopher Uehlinger (1), professori presso l’Istituto biblico dell’Università di Friburgo (Svizzera), hanno ripreso trent’anni di ricerche archeologiche ed epigrafiche per tracciare un "paesaggio" religioso della Terra santa, dal 2000 a.C, (età del Bronzo medio) sino all‘epoca persiana (IV secolo a.C.). Il loro esauriente recupero di iscrizioni, sigilli, statue, luoghi di culto, fa emergere un universo politeista complesso e variegato, nel quale gli influssi egizi e mesopotamici si sovrappongono, ponendosi in relazione su tempi lunghi che coincidono solo parzialmente con i periodi di occupazione straniera della Palestina. Una prova in più dell’importanza degli scambi e dei reciproci influssi culturali, movimenti di fondo che lo storico non può ricondurre a coincidere con eventi politici. In un lento contesto storico emerge dunque poco a poco JHWH, l’aniconico, attestato come Dio unico degli Ebrei soltanto intorno ai VI secolo a.C. Per 1unghi secoli sono rimasti arcanto a lui dee, "signori degli animali", figure maschili guerriere (sorta di dei secondari). Essi erano espressioni in subordine della benedizione divina, simboli cultuali. Al ritorno dall’esilio si impone tuttavia un rigoroso monoteismo. Non c’è più spazio in Giuda "per una dea accanto a JHWH". Gli autori forniscono così una coerente conclusione della polemica suscitata nei 1975 dalla scoperta di un’iscrizione che evocava JHWH e "la sua Aserah". Il che non ha impedito la continua esistenza di templi consacrati ad una dea dominante nelle regioni vicine. L‘opera di Othmar Keel e di Christopher Uehlinger, profonda e rigorosa, è importante e, sotto molti aspetti, fondamentale. Il sottotitolo, Le fonti iconografiche della storia della religione di Israele, è più esplicito dello stesso titolo Dei, dee e figure divine. Per quanto riguarda le sintesi precedenti, i due autori rivendicano un aspetto troppo spesso trascurato: quello che consiste nel far parlare le immagini. "Molti biblisti, essi scrivono nelle conclusioni, si muovono nella Palestina antica come ciechi che abbiano a stento appreso l’idioma di questo universo. [...] Purtroppo, gli aniconici sono in genere meno consapevoli della loro ignoranza di quanto non lo siano gli analfabeti, perché, sulla base del loro carattere meno arbitrario e artificiale, le immagini rararnente provocano, corne invece fanno la scrittura e la lingua, un'impressione di totale estraneità". Agli specialisti di testi biblici Othmar Keel e Christopher Uehlinger propongono di aprire gli occhi.

(1) O.Keel - C. Uelingher, Dieux, déesses et figures divines, Cerf, Parigi 2001.

Se è vero che la violenza è presente in ciascuno di noi, per avere maggiori possibilità di reagire a quella che si manifesta nella società, occorre per prima cosa prendere coscienza di quella che ci si porta dentro.

Anglicani.
Incontro con l'arcivescovo di Canterbury
"Non accade niente
 di interessante nella Chiesa
se non per opera di Gesù"
di Gianni Valente


Quando non aveva ancora due anni, Rowan Williams prese la meningite e fu sul punto di morire. I dottori dissero che quel bambino fragile per sopravvivere avrebbe dovuto trascorrere per quanto possibile una vita tranquilla. Niente a che vedere col duro lavoro che gli è toccato in sorte, da quando nel 2002 è stato eletto centoquattresimo arcivescovo di Canterbury e primate di una Comunione anglicana attraversata come non mai da dissidi dottrinali e da presagi di declino. Eppure il 54enne gallese, che 30giorni ha intervistato durante il convegno su Thomas Merton organizzato dalla Comunità di Bose dall'8 al 10 ottobre, non ha l’aria della persona angosciata. Oggi che anche tanti ecclesiastici si agitano per riaffermare e difendere il peso e lo spazio dei valori religiosi nella società postmoderna, lui ha ben presente che camminare con Gesù "comporta il rischio di non avere da dire niente che il potere possa ascoltare, il rischio di diventare una nullità nello schema di qualcuno". E cita i primi cristiani, i quali sapevano bene che "appartenere al Dio di Gesù è altra cosa rispetto ad essere un cittadino, qualcuno con chiari diritti e uno status pubblicamente riconosciuti".

Lei è diventato arcivescovo di Canterbury da quasi due anni, e sono stati anni turbolenti all'interno della Comunione anglicana. Sono noti i suoi studi sul cristianesimo del IV secolo e sulla crisi ariana. L'hanno aiutata a valutare la condizione presente del cristianesimo nel mondo?

ROWAN WILLIAMS: Qualche volta forse abbiamo costruito un'immagine troppo abbellita delle epoche passate, come se tutto andasse bene nella vita della Chiesa. Invece se si studia la storia, ti accorgi che a volte per interi decenni la Chiesa era profondamente divisa. Ma questo non vuol dire che anche in quei periodi non ci fossero verità da scoprire. Lo studio del IV secolo che ho condotto per tanti anni mi ha aiutato a vedere che le persone possono rimanere sante pur in mezzo al vortice degli eventi in tempi tribolati. E che non puoi pensare di dedurre da che parte sta la verità contando le teste. Perché in quella crisi sant'Atanasio era rimasto quasi solo a custodire la vera fede davanti all'arianesimo. In alcune situazioni occorre aspettare con pazienza. Atanasio era molto vicino alla vita monastica dei suoi tempi. E questo per me è un indizio che coloro che affidano la propria vita alla vocazione monastica hanno spesso la vista più lunga.

Anche dei primi vescovi in terra britannica lei ha esaltato la virtù della pazienza...

WILLIAMS: Il vescovo Restitutus nel 314 aveva preso parte al Concilio di Arles. Negli ultimi anni doveva essere fiducioso nel futuro della sua Chiesa, perché le cose parevano andare bene. La persecuzione era finita, l'imperatore era amico. Se fosse vissuto cento anni dopo, avrebbe visto la fine di quella iniziale civilizzazione cristiana, quando i pirati barbari travolsero tutto. Quando arrivò Mellitus, inviato da Gregorio Magno, non sembra che ci fossero più tracce di presenza cristiana. Dovette rimanere parecchio tempo in Francia, in attesa di tempi migliori, che permettessero di ricominciare. Per questo ho detto che i vescovi di Londra hanno sempre dovuto essere tenaci e pazienti...

Il nostro appare come un tempo di prova per il cristianesimo. Eppure sembra un tempo religioso e spirituale. Come spiega questo paradosso?

WILLIAMS. Uno dei tratti salienti della nostra cultura è che siamo individualisti e con un'attitudine consumistica nei confronti delle cose. Anche nella religione non si cerca quello che è vero, che è reale, ma ciò che mi offre benessere, che si può usare per sentirsi a posto. Un sentimento spirituale che tranquillizzi il resto della propria vita. Non un annuncio che irrompa nella vita come una novità, cambiando le cose. In vaste parti dell'Occidente, poi, le persone hanno il rigetto verso l'appartenenza a organizzazioni collettive. Se la Chiesa ha una crisi della propria membershtp, i partiti politici stanno anche peggio...



Il cristianesimo appare come un passato che non riguarda la vita, o addirittura come un peso. Le Chiese reagiscono cercando di riaffermare il proprio peso nella società. E moltiplicano gli interventi pubblici. Su ogni argomento.

WILLIAMS. Quando ascolto domande come questa, mi sento subito imputato. Dall'arcivescovo tutti si aspettano che parli in pubblico su tante cose. È una cosa che adesso mi tocca fare, e non è facile. Quando mi capita di incontrare dei giovani, si vede bene che quello che può attirarli alla fede non sono certo i pronunciamenti dei capi della Chiesa. Quando ero vescovo in Galles mi davo molto da fare per i giovani della diocesi, e per molti anni abbiamo avuto un eccellente ministero pastorale rivolto a loro, che consisteva principalmente nell'intrattenerli e farli divertire. Poi è arrivato un nuovo cappellano, ha organizzato subito un ritiro di preghiera con i giovani della diocesi per la Settimana santa. E in quell'occasione un ragazzo che era venuto da agnostico alla fine ha chiesto di essere battezzato. Da quel semplice fatto ho intuito che vedere gli occhi di altri che guardano al Signore è la sola cosa che fa prendere sul serio la Chiesa. Se la Chiesa qualche volta ha cose utili da dire sulla cultura e la politica beh, si può fare, e va bene. Ma la storia non finisce lì...

Cosa è la Chiesa per lei?

WILIIAMS: Ho scritto di recente sulla cristianità degli inizi, e ciò che secondo me descrive la Chiesa nei primi secoli è che è una comunità che vive seguendo un altro Re. A pensarci bene, nei tempi moderni diamo molto peso alle convinzioni teoriche delle persone, a quello che hanno nella loro testa, ma non pensiamo mai all'appartenenza reale a Cristo, dentro una comunità. La Chiesa non esiste per decisione mia o di un qualsiasi numero di persone, ma per l'azione di Dio. Noi, le nostre opinioni, le nostre prospettive, non dettiamo legge su ciò che la Chiesa è al presente. L'esperienza di tale assenza di controllo è in sé stessa salutare. Mentre a volte le Chiese sembrano agitate per questo, per l'incontrollabilità, di Gesù Cristo, per il fatto che Lui non è prigioniero dei nostri pensieri. Adesso c'è bisogno di questo riconoscimento, più che in altri momenti. Il riconoscere che siamo nella Chiesa come degli invitati, perché siamo stati chiamati. Altrimenti la Chiesa sarebbe soltanto una Litigiosa società umana.

E i litigi di certo non mancano.

WILLIAMS: Il fatto è che la Chiesa non è la comunità di persone che vanno d'accordo con noi e condividono le stesse idee. Sono persone che non scegliamo noi. Che magari non ci piacciono. Ma che sono scelte e cambiate da Gesù stesso. Non accade niente di interessante nella Chiesa se non per opera di Lui, che può redimere i nostri disastri umani. Che ha promesso di rimanere coi suoi ogni giorno, fino alla fine del mondo. E ha detto di guardare e chiedere aiuto ai piccoli, ai poveri, ai bambini.

Mi ha colpito la frase di un suo discorso, in cui lei ha detto che "l'ortodossia fluisce, sgorga dalla gratitudine, e non il contrario". Cosa intendeva dire?

WILLIAMS: Il pensiero dei primi cristiani, anche a livello teologico dottrinale, sorse dal fatto che loro vedevano di essere condotti da Gesù in una nuova vita. Le prime parole del cristianesimo sono state quelle usate per rendere gloria a Dio. La dottrina teologica è sorta riflettendo su questo. Se manca questa iniziale gratitudine e riconoscenza per il semplice fatto di Gesù, non si risolvono certo i nostri problemi solo insistendo sulla disciplina.

D'altra parte, circolano anche teologie per cui l'incarnazione di Cristo garantirebbe a priori la salvezza a tutto il genere umano e a tutto il mondo, in maniera meccanica. Concorda con queste tesi?

WILLIAMS: Il disaccordo che provo nei confronti di alcune correnti della teologia americana della creazione è sul fatto che tutto è già deciso, non lasciano spazio neanche alla possibilità che l'uomo possa dire no. Non conosco il cuore degli altri ma conosco il mio, e so che sono capace di creare disastri. Il mio professore all'Università mi ripeteva sempre che nessuna teologia può stare in piedi senza tenere in conto la possibilità del fallimento.

È noto che lei si appassiona alle vite dei santi. Quali santi le sono più cari?

WILLIAMS: Amo soprattutto santa Teresa e san Giovanni della Croce. Ho sempre avuto una predilezione per la spiritualità carmelitana. Ho letto Teresa a quindici anni. Non l'ho capita, ma sentivo che mi piaceva. Poi ho letto anche Edith Stein. Riguardo alle Chiese d'Oriente, mi sono affezionato a san Serafino di Sarov. Lo scorso anno in Russia ho potuto visitare la sua tomba.


Lei cita spesso anche sant'Agostino.

WILLIAMS: Agostino ha creato la disciplina dell'autoanalisi, dell'autocomprensione, mostrando come siamo modellati dalla nostra memoria. Oggi, nell'era postmoderna, siamo indotti a passare da sensazione a sensazione, bruciamo esperienza dopo esperienza, e non c è più storia. Mentre lui ci fa vedere che è la storia che fa la persona. Anche nel rapporto con la realtà civile, Agostino ci ha insegnato che dobbiamo cercare il bene della città in cui viviamo, del luogo in cui siamo, lavorando per la giustizia, senza identificare mai il successo di tale società con il regno di Dio. Coinvolgimento, e allo stesso tempo distacco. Come ho detto prima, noi siamo di un altro Re. Insomma, a volte dico che Agostino può anche essere considerato il fondatore della psicoanalisi e della politica moderna...

É nota anche la sua passione per la liturgia.

WILLIAMS: La liturgia ci ricorda sempre che andiamo verso il giudizio. Che le nostre vite sono poste dentro un nuovo contesto, dove noi entriamo come ospiti. Una liturgia che fosse solo la proiezione delle mie idee sarebbe qualcosa di effimero. Della liturgia che si celebra alla Comunità di Bose, ad esempio, mi piace che non è frettolosa, si prende il tempo che serve, è piena di riferimenti biblici, ed è semplice.

In tutta sincerità, come giudica il primato petrino?

WILLIAMS: Mi è chiaro che fin dall'inizio c'è stato uno speciale carisma, un servizio speciale esercitato dal vescovo di Roma per tutta la Chiesa. Ma dal momento in cui questo è diventato qualcosa di legale e rigidamente definito dal punto di vista teologico, come risulta nelle definizioni del Concilio Vaticano I, mi riesce difficile non avere riserve. Ad esempio, riguardo all'infallibilità come carisma spirituale individuale. Come scriveva il teologo anglicano Austin Farrer, l'infallibilità non dovrebbe essere considerata come una "licenza di stampare fatti". Da quando questo Papa nell'enciclica Ut unum sint ha invitato a discutere di questo tema, tutti noi, anglicani, cattolici e altri, abbiamo una buona occasione per valutare criticamente ciascuno la propria storia. Noi anglicani sperimentiamo come può essere difficile vivere in una Chiesa senza un centro chiaro di autorità. Io non voglio essere un papa. Ma ho presente il problema. So quanto è importante nelle Chiese avere una vera responsabilità l'uno verso l'altro. Nella Chiesa d'Occidente questa esigenza di un'autorità centrale storicamente si è focalizzata nel papato...

Ma si tratta solo di una costruzione storica? Il ruolo della Chiesa di Roma non sorge dal martirio degli apostoli Pietro e Paolo?

WILLIAMS: Quando io e mia moglie siamo venuti a Roma, scendendo alla tomba di Pietro siamo rimasti veramente commossi. La testimonianza apostolica di Pietro, riportata in tutto il Vangelo, si compie lì, nel suo martirio. E quando si parla di ministero petrino, si parla di questo, io penso che sia questo. Hans Urs von Balthasar, un teologo a cui sono affezionato, scrisse sul ministero petrino al tempo di Paolo VI, quando Paolo VI era criticato e attaccato da tutte le parti. E lui scrisse: ecco, adesso io vedo bene cosa è realmente il ministero petrino.

Nelle convulsioni del presente, in Occidente aumentano gli allarmi nei confronti dell'islam, che starebbe portando un sistematico attacco alla civiltà occidentale e alle sue radici cristiane. Come giudica queste interpretazioni dell'attuale momento storico?

WILLIAMS: Uno degli impegni che mi sono assunto come arcivescovo è stato quello di continuare il dialogo islamo-cristiano ad alto livello iniziato già dal mio predecessore. Alcune settimane fa sono andato in Egitto, e all'Università islamica di Al-Azhar ho parlato sulla dottrina della Trinità. In quel Paese, ad esempio, c'è una stretta collaborazione tra le nostre comunità e le comunità islamiche. Io non vedo come prospettiva obbligata quella dello scontro di civiltà. La civilizzazione cristiana deve qualcosa al mondo islamico, cosi come la civiltà islamica deve molto alla cristianità. Ebrei, cristiani e musulmani hanno una lunga storia comune. Più riconosciamo questa storia di convivenza, meglio è per il futuro. Non è neanche vero che tutto il Medio Oriente è islamico. Le antiche Chiese d'Oriente sono lì dai tempi della predicazione apostolica. Prima della guerra in Iraq ho fatto interventi pubblici e ho anche parlato privatamente con membri del nostro governo per segnalare il pericolo che sarebbe venuto, a causa della guerra, ai cristiani del Medio Oriente, che finiranno per pagare il risentimento crescente verso il mondo occidentale.

A pagare nel vortice di violenza che avvolge il mondo sono spesso i bambini. Lei ne ha parlato spesso...

WILLIAMS: Ritengo che uno dei peggiori nuovi mali degli ultimi due decenni, propriamente satanico, è l'attacco ai bambini. Quelli di Beslan, quelli iracheni o egiziani. Quelli palestinesi e quelli israeliani. O gli innocenti bambini soldato in Africa. È una connessione difficile da fare, ma anche la scelta dell'aborto la prendiamo così alla leggera... Non c'è più speranza e fiducia nel futuro dei bambini, e in queste vicende ciò si vede come in uno specchio.

(da 30giorni, n. 10, anno XXII - 2004)

L'utopia della fede
 come forza per curare l'universo
di Marcelo Barros

Quanto più si moltiplicano le guerre e si inasprisce il sistema economico che assassina interi popoli come una bomba terrorista, tanto più si estende per il mondo una rete di persone e gruppi che si impegnano a favore della pace e vogliono trasformare il mondo. La moltiplicazione di incidenti ecologici rivela come la natura non sopporti più tante aggressioni. Di fronte a questo, le religioni non possono limitarsi a consolare il cuore dei fedeli o a chiudersi nei propri interessi istituzionali interni. I loro fondatori hanno lasciato in eredità l'amore solidale, la compassione e la cura nei confronti dell'umanità e della terra povere di salvezza. Sempre più gruppi di fedeli di diverse tradizione spirituali, molti dei quali non legati ad alcuna istituzione religiosa, cercano di vivere la spiritualità come solidarietà e non accettano di godere della pace interiore che la religione propone senza che il mondo intero sia salvo.

In questi giorni, si completano 42 anni da quell'11 ottobre in cui Giovanni XXIII, un papa anziano eletto dai cardinali perché non cambiasse niente, convocò a Roma i vescovi cattolici di tutto il mondo nel Concilio Vaticano II, soffiando nella Chiesa cattolica una nuova aria di amorevolezza, un'inattesa primavera di apertura e di impegno a dialogare amichevolmente e rispettosamente con tutta l'umanità. È importante sottolineare come egli facesse questo in una Chiesa estremamente centralizzata, nel modello dell'Impero governato da Pio XII e in un mondo in cui nordamericani e russi si minacciavano con missili atomici e i marines di Kennedy aveva invaso la Baia dei Porci.

Per quanto molti dei semi piantati da papa Giovanni e dal Concilio non siano stati successivamente coltivati e sviluppati dal Vaticano e da gran parte della gerarchia ecclesiastica, la Chiesa cattolica non è più stata la stessa. Nessuno può fermare lo Spirito. Alcune intuizioni fondamentali di questo processo di rinnovamento sono irreversibili: l'importanza della comunità locale come Chiesa con volto e consistenza propri, l'uguaglianza di dignità e di diritti tra tutti i membri del popolo di Dio, la relazione tra fede e vita, la centralità della Parola di Dio rivelata nella Sacra Scrittura e la missione di costruire un mondo nuovo come testimonianza del regno di Dio.

In America Latina, il Concilio Vaticano II ispirò la seconda Conferenza dei vescovi cattolici a Medellin (1968). Questo incontro significò la nascita di una Chiesa cattolica dal volto propriamente latinoamericano. Qui. Presero ufficialmente il via la Teologia della Liberazione e un modello di Chiesa impegnata a non convertire nessuno alla propria fede, ma a collaborare con tutte le persone di pace nella costruzione di un Continente libero e giusto. È necessario che risuoni di nuovo in questo Continente la proposta dei vescovi di quella epoca:

"Che si presenti sempre più nitido, in America Latina, il volto di una Chiesa autenticamente povera, missionaria e pasquale, slegata da ogni potere temporale e coraggiosamente impegnata nella liberazione dell'essere umano nella sua integrità e dell'umanità intera" (Medellin 5,l 5 a).

Ora, più di quarant'anni dopo, viviamo in un mondo in cui, in funzione del mercato, differenti attività umane si associano e si integrano a livello planetario. Tuttavia, il progresso e il benessere conquistati dalla tecnica sono al servizio di una minoranza dell'umanità. Appena 200 multinazionali controllano l’800/o della ricchezza mondiale. L'Europa e l'America del Nord consolidano il proprio comfort a costo di un aumento terribile della miseria e della fame di più di 2/3 dell'umanità. I governi nazionali perdono la loro autonomia e si trasformano i meri funzionari locali della Banca Mondiale per garantire che gli interessi sul debito vengano pagati. La dignità di ogni essere umano e i diritti dei popoli sono violati in funzione della sicurezza militare dell'impero nordamericano. Questi squilibri economici e sociali provocano terribili problemi ecologici. Per servire le leggi del mercato, la natura è saccheggiata, avvelenata e privata della sua biodiversità. Molte discussioni sullo sviluppo sostenibile ricordano quello che i prigionieri politici dicono sulle sessioni di tortura nelle prigioni della dittatura militare. Un medico assisteva alla tortura per dire fino a che punto il torturato potesse sopportare i colpi senza rischio della vita. È questo che certe imprese che dicono di avere "un impegno ecologico" fanno con la terra, l'acqua e l'aria che respiriamo.

I problemi sono urgenti e chiedono soluzioni immediate. Gli organismi internazionali si mostrano impotenti ad amministrare la crisi. I partiti politici, anche quelli dagli ideali più puri, arrivati al potere si sono mostrati uguali a chi li ha preceduti. Il divorzio sempre più grave tra Stato e società civile fa sì che anche il cammino di incontri e forum che l'umanità ha visto svolgersi non riesca, perlomeno finora, ad influenzare il cammino ufficiale delle nazioni. Da dove può venire la speranza? Che contributo possono dare le persone che credono in Dio come fonte di amore, se le religioni continuano ad essere isolate e prese dai loro interessi istituzionali e dai loro problemi interni?

Dalla fine degli anni '80, il Consiglio Ecumenico delle Chiese, che riunisce 340 Chiese cristiane, propone un processo di dialogo tra le Chiese e un nuovo Concilio ecumenico, per approfondire la responsabilità dei cristiani nei riguardi della giustizia e della pace nel mondo e della difesa della natura. Durante il processo preparatorio dell'anno 2000, 40 vescovi cattolici avevano scritto una lettera al papa chiedendo un nuovo Concilio. Questa lettera già conta più di l0 mila firme, tra quelle di religiosi e quelle di laici

Nel gennaio del 2005, prima del quinto Forum Sociale Mondiale, si svolgerà a Porto Alegre un Forum Mondiale su Teologia e Liberazione per approfondire i fondamenti religiosi e spirituali dell'impegno delle religioni e delle Chiese per un nuovo mondo possibile.

Le maggiori difficoltà che le religioni incontrano per dialogare ed unirsi nel servizio dell'umanità vengono da fattori che nulla hanno a che vedere con Dio e la spiritualità. Sono questioni legate al potere dei leader e alle interpretazioni dogmatiche della dottrina. La spiritualità non divide mai nessuno. Al contrario, crea tra gli esseri umani una Fraternità dello Spirito che può essere il punto di partenza per un'alleanza mondiale tra tutte le persone amanti della pace, della giustizia e della comunione con l'universo. Pur senza ancora incontri formali, viene lanciato un grande Forum Mondiale per una Mistica della Vita. Non mi chiedete altro. Nel IV secolo, diceva S. Agostino: "Indicatemi qualcuno che ami ed egli sentirà quello che sto dicendo. Datemi qualcuno che desideri, che cammini in questo deserto, qualcuno che abbia sete e aneli alla fonte della vita. Mostratemelo ed egli saprà quello che voglio dire" (Trattato sul Vangelo di Giovanni 26,4).

(Tratto da Adista n. 88, 2004)

 Nonviolenza
Gesù non era scemo
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Amare i nemici, diceva. Quelli ti odiano e tu li ami. Furbo! Prestare senza aspettarti restituzione. Fallimento assicurato! A chi ti dà uno schiaffo, porgi l’altra guancia. A chi ti prende la tunica, dai anche il mantello. Così lo incoraggi a continuare! Se uno ti costringe per un miglio, tu vai per due. Sì, e poi?

Tanti bravi cristiani mettono silenziosamente da parte queste esagerazioni di Gesù: va bene, voleva dire di essere generosi, ma se dovessimo prenderlo alla lettera… E chi è meno pio giudica che Gesù insegnasse a sottomettersi ai prepotenti. Tre volte bon — dicono a Venezia — con quel che segue... Non è così che si sta al mondo.

Come capire questi insegnamenti?

Walter Wink, nel libro Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio, edizioni EMI, dà alcune interpretazioni interessanti. Giorgio Barazza, che ringrazio molto, me ne fornisce una sintesi, che io qui restringo ancora.

Questi consigli di Gesù offrono una misura pratica e strategica per dare agli oppressi un potere nonviolento e liberante (pag. 308).

«Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Io invece vi dico di non resistere al male, anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra» (Matteo 5, 38-39). Per colpire la guancia destra, l’altro avrebbe dovuto usare la sinistra, il cui uso era vietato, riservato ai soli compiti impuri. Dovendo usare la destra, il colpo sulla guancia sinistra poteva essere solo un manrovescio. Questo colpo, più che una percossa inflitta ai propri pari, era un’umiliazione, destinata agli inferiori: schiavi, figli piccoli, donne. Gesù parlava a povera gente, che conosceva questa umiliazione. Ora, offrire l’altra guancia era privare l’oppressore della sua pretesa superiorità. Era come dirgli: «Prova ancora. Io non ti riconosco il potere di umiliarmi. Sono pari a te. Tu non riesci ad offendere la mia dignità». Questa reazione avrebbe messo l’offensore in difficoltà: come può colpire ora la guancia sinistra (ovviamente con la propria destra)? Non più con un manrovescio (impossibile), ma con l’interno della mano, come farebbe in una rissa con un proprio pari. Anche se facesse flagellare l’inferiore per quella reazione, questi avrebbe comunque mostrato in pubblico la sua uguaglianza naturale con chi si crede superiore. Un debole ha impedito a un prepotente di svergognarlo, ed anzi ha svergognato lui. Dirà Gandhi: «Il principio dell’azione nonviolenta è la non-collaborazione con tutto ciò che si prefigge di umiliare».

Leggiamo poi: «A uno che vuole trascinarti in giudizio per prenderti la tunica, dagli anche il mantello» (Matteo 5, 40). Questa disgrazia poteva capitare a un povero, carico di debiti. Ce n’era certamente, tra la gente che ascoltava Gesù. L’indebitamento era una piaga endemica nella Palestina del primo secolo. I romani tassavano pesantemente i ricchi. Questi investivano in immobili, cioè in terre, per mettere al sicuro il denaro. La legge e l’uso ebraico erano contrari alla vendita della terra, il bene più ambito. La politica di innalzamento degli interessi rendeva sempre più difficile ai contadini piccoli proprietari il saldo dei loro debiti e li costringeva a vendere la terra ai ricchi. Ai poveri così derubati, impotenti a pagare nuovi debiti, Gesù consiglia di dare via anche l’ultima veste. Sarebbero usciti dal tribunale completamente nudi. C’è da immaginare che la folla in ascolto del discorso della montagna a questo punto sia scoppiata a ridere. Nella scena abbozzata da Gesù, il creditore è lì con gli abiti del debitore in mano, mentre questo esce nudo. La situazione si ribalta a favore del debitore. La legge lo condanna a quella condizione, ma, denudandosi, egli eleva un’aspra protesta contro il sistema che lo riduce così. La nudità era tabù in Israele ma più del nudo era censurato chi lo guardava e chi l’aveva causato. Il creditore è posto nella condizione di voyeur, quella per cui Cam fu maledetto (Genesi 9). Il sistema che opprime i piccoli proprietari è smascherato. Il creditore, se comprende, può pentirsi della durezza di cui ha approfittato. Il povero che si riteneva impotente scopre di poter avere l’iniziativa, e, anche se l’ingiustizia legale rimane immutata, ne dimostra l’assurda crudeltà, la ridicolizza. Il vero denudato è il creditore e la legge che lo favorisce.

«Se uno ti vuol costringere per un miglio, va’ con lui per due» (Matteo 5, 41). Chi può costringere così un altro? Il contesto è l’occupazione militare. I soldati romani occupanti potevano imporre questa angaria (corvée, lavori forzati) ai locali, per esempio facendo portare carichi pesanti. Per le popolazioni soggette ai romani, ciò era motivo di forte risentimento. Ed era già un provvedimento benevolo la limitazione ad un miglio. La quale indica pure che dovevano essere frequenti gli abusi dei soldati, che imponevano percorrenze maggiori. Gesù non propone né la rivolta né la sottomissione. Propone un atto con cui l’oppresso riprende l’iniziativa e afferma la propria dignità. Immaginiamo la scena: passata la prima pietra migliare, il soldato si sente dire dall’ebreo con fermezza e dignità: «Te lo porto un altro miglio», e deve pensare: cosa diavolo ha in mente? mi vuole provocare? vuole denunciarmi, farmi punire? Dalla situazione servile, l’oppresso ha ripreso la sua libertà d’azione. Il soldato è disorientato davanti all’imprevedibile. Oggi non riesce a sentirsi superiore ai civili. Si abbassa a pregare l’ebreo di restituirgli il carico! Lo humor di questa scena può sfuggire a noi, ma non sfuggiva agli ascoltatori di Gesù, ben esperti di questa prepotenza, bisognosi di riscattarsi.

L’amore verso il nemico vuol dire anche portarlo in condizione di incertezza e di ansia, che possano aiutarlo a cambiare comportamento. Quando Gesù, nella sinagoga di Nazareth (Luca 4, 14 e seguenti) inaugura la sua missione attribuendosi la realizzazione della profezia di Isaia (cap. 61): «Lo Spirito del Signore … mi ha inviato … a liberare gli oppressi», non fa dello spiritualismo disincarnato, tanto meno propone una “religiosa” rassegnazione alla violenza. Gesù non era né scemo né vigliacco, come dimostrò fino in fondo. Era anche un leader della lotta nonviolenta.

Venerdì, 24 Dicembre 2004 00:31

Europa e Islam: due identità smarrite

Europa e Islam:
 due identità smarrite
di Sandro Magister
da www.chiesa.espressonline.it

(abstract)

È uscito da pochi giorni in Italia un libro su occidente e Islam che è una lettura d’obbligo anche per i diplomatici vaticani. È stampato da Vita & Pensiero, l’editrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ne è autore Roger Scruton, filosofo e saggista inglese, già professore al Birkbeck College di Londa e alla Boston University. Il titolo originale è "The West and the Rest". La versione italiana, "L’Occidente e gli altri", è apparsa nella collana di geopolitica dell’Alta Scuola di Economia e di Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica diretta da Vittorio E. Parsi, che è anche editorialista del quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire", ed esperto di fiducia del cardinal Camillo Ruini.

Già le primissime righe del libro vanno contro i canoni del politicamente corretto: "La famosa tesi di Samuel Huntington secondo la quale alla guerra fredda sarebbe seguito uno scontro di civiltà ha più credibilità oggi di quanta ne avesse nel 1993, quando fu avanzata per la prima volta". Ma assai più ricco di sorprese è il seguito. Se la libertà di cui si fa vanto la civiltà occidentale comprende anche il rifiuto di sé — e Scruton riserva a questa pervasiva cultura del rifiuto uno dei suoi capitoli più fiammeggianti — allora "si tratta di una civiltà volta alla sua stessa distruzione". Viceversa l’Islam si definisce non in termini di libertà ma di sottomissione: e anche questa sottomissione è autodistruttiva. È prigioniera di un testo sacro, il Corano, che finché continua a essere letto al di fuori del tempo e della storia fa di ogni musulmano uno sradicato. Nella prefazione all’edizione italiana del volume, Khaled Fouad Allam — acuto intellettuale della diaspora musulmana, algerino con cittadinanza italiana — convalida in pieno questa condizione di smarrimento di sé dell’Islam nella modernità.
 
E non è tutto. A giudizio di Scruton, ciò che rende ancora più esplosivo lo scontro tra le due civiltà è l’avanzata della globalizzazione. Essa diffonde nelle nazioni musulmane immagini, prodotti e figure delle democrazie occidentali secolarizzate, sia in quanto hanno di attrattivo e vincente, per ricchezza e potere tecnologico, sia in quanto hanno di vacillante e morente sul terreno della cultura e dell’identità collettiva. Scrive Scruton: "Lo spettacolo della libertà e della ricchezza occidentali, che si accompagna al declino dell’occidente e allo sgretolarsi delle sue fedi, provoca necessariamente, in chi invidia il primo e disprezza i secondi, un cocente desiderio di punire". Altri passaggi folgoranti del suo libro sono quelli che criticano la tendenza a dar vita a legislazioni transnazionali, a corti penali internazionali, alla stessa Unione Europea come superstato, in realtà "nuova mano invisibile dell’imperialismo" ed "espressione politica della cultura del rifiuto". A giudizio di Scruton solo la giurisdizione territoriale e le fedeltà nazionali possono fondare una cittadinanza condivisa e ospitale, anche per il musulmano. In occidente sono gli Stati Uniti a tener ferma questa consapevolezza: "Il trionfo dell’America è stato di persuadere ondate di immigrati a rinunziare a tutti i legami conflittuali e a identificarsi con quel paese, quella terra, quel grande esperimento di insediamento, e a partecipare alla sua difesa comune".
 
Il cristianesimo è indicato da Scruton come elemento essenziale di questa cittadinanza capace di dare identità all’occidente e di accomunarlo agli altri, sia pure nella diversità delle fedi. Esso "dice al cristiano di guardare l’altro non come una minaccia ma come un invito all’accoglienza". Ma, allo stesso tempo, il cristianesimo impone di difendere chi è aggredito. Perché la predicazione di Gesù è predicazione di pace, non però pacifista: "L’idea di perdono, simboleggiata dalla croce, distingue l’eredità cristiana da quella musulmana. Cristo ci ordina persino, quando siamo aggrediti, di porgere l’altra guancia, allora incarno la virtù cristiana della mansuetudine. Ma se mi è stato dato in custodia un bambino che viene aggredito, e porgo l’altra guancia del bambino, divengo complice della violenza. Questo è il modo in cui il cristiano dovrebbe comprendere il diritto alla difesa, ed è come esso è inteso nelle teorie medievali della guerra giusta. Il diritto alla difesa nasce dalle obbligazioni nei confronti degli altri. Sei obbligato a proteggere coloro il cui destino è sotto la tua custodia. Un leader politico che porge non la sua guancia ma la nostra, si rende partecipe della successiva aggressione. Perseguendo l’aggressore, anche in maniera violenta, il politico serve la causa della pace e anche quella del perdono, del quale la giustizia è lo strumento" (*). Pagina dopo pagina, Scruton mette a nudo grandezze e miserie dell’occidente di oggi, a tu per tu con la sfida islamica. Con argomentazioni spesso controcorrente.

(*) — N.d.r: il precetto evangelico di porgere l’altra guancia è stato troppo spesso guardato come un messaggio assurdo e impraticabile; troppe altre volte sono stati fatti tentativi penosi o maldestri di adattarlo ai propri interessi o alle proprie idee. Che cosa vuole dire Gesù con questa espressione? Per comprenderla in pieno dobbiamo rileggere la frase che Gesù dice al sommo sacerdote quando questo, durante l’interrogatorio notturno in casa sua, lo schiaffeggia: "Se ho parlato male, dimostrami dove è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti ?" (Gv 18,23). Dunque Gesù reagisce non porgendo l’altra guancia, ma facendo una domanda; quale è dunque il significato della sua frase a un tempo famosa e controversa? È, a nostro avviso: non opporti al nemico lasciandoti trascinare sul piano del malvagio. Reagisci, come cristiano saggio, vivo e creativo, così da creare una situazione nuova che faccia riflettere il nemico. Il cristiano dunque ricorrerà alla violenza per difendere i deboli o per mettere il nemico nella impossibilità di nuocere unicamente e soltanto se nessun altro modo o nessun’altra strada sono stati efficaci...


Lo statuto della donna
intervista a Ghaleb Bencheikh




Ghaleb Bencheikh el-Hocine, nato in Francia di origine algerina, dopo la laurea in fisica si è dedicato agli studi di filosofia e teologia. Il padre Abbas è stato rettore della moschea di Parigi e il fratello Soheib è il gran mufti della moschea di Marsiglia. Vicepresidente della conferenza mondiale delle religioni per la pace, animatore della trasmissione televisiva dedicata alla religione islamica, in onda la domenica mattina su France 2. In Italia è stato pubblicato Che cos'è l'Islam

Il progetto della riforma del Codice della famiglia in Algeria ha scatenato un forte confronto politico. Mentre i partigiani del progetto si difendono, i partiti islamici attaccano affermando che contraddice i testi sacri dell'islam. Ma possiamo trovare nel Corano delle prescrizioni corrispontenti a un Codice della famiglia, o a uno statuto della donna?

G. Bencheikh- Gli islamisti sono i partigiani della “ideologizzazione” della religione islamica. Vogliono farne un progetto sociale, politico, il che, in sé, è una innovazione recente nella storia dell'islam; databile, grosso modo, agli anni venti con l’affare dei Fratelli musulmani.

E' sorta come contro-riforma in relazione alla famosa nahda, la nahda è stata il rinnovamento, la rinascita a cavallo del XIX e XX sec. Dunque, ecco l'idea dell'islamismo come progetto politico, assoggettamento, statalizzazione, manipolazione della tradizione islamica, per fini sociali e politici. Non c'è nel Corano un codice ben stabilito, che sia così chiaro, esplicito come quello  a cui si riferiscono questi islamici. Perché l'idea che noi abbiamo del progresso, della modernità, della civilizzazione, è  che appartiene agli uomini di legiferare nelle questioni della città. E' vero che per i credenti musulmani, Dio parla nel Corano. Ma tutto questo è molto complicato. Per definizione se Dio è onnipotente, onnisciente, se tutto può, tutto fa, la sua parola è inesauribile. In compenso, il Corano è contingente, finito, si articola nella storia, è trasmesso all'interno di una cultura. Questo vuol dire che c'è una maniera di lasciare posto all'interpretazione degli uomini. Perciò, alcuni passaggi del Corano che sarebbero duri contro le donne, non sono da considerare ai nostri giorni che una giurisprudenza- d'origine divina per chi crede- per  un certo momento della storia, per una società particolare, nel caso la società tribale della penisola arabica del VII sec. Voler dare un valore atemporale, normativo, universale a quello che è contingente e finito, e articolato nella storia, è un grave errore. Questi passaggi del Corano che, presi tali quali, sono duri contro la donna, non si possono integrare nella grande opera sociale di questo inizio secolo. Semplicemente bisogna dire che sono caduti in disuso. La loro incidenza sociale è caduca. Ciò a cui fanno allusione è obsoleto. Ai nostri giorni, per esempio, non si può domandare seriamente che in caso di testimonianza ci debbano essere due donne per un uomo. E' un attacco gravissimo alla dignità della donna.

Nonostante ciò le autorità algerine affermano a viva voce che il codice della famiglia deve rispettare la šarî‘a..

Nel 1984, quando il Codice della famiglia è stato adottato, la pusallimità, l’apatia, la vigliaccheria del legislatore, cedendo alle sirene islamiche che tuonavano, a fatto si che si sia stati più realisti del re. In questo codice ci sono cose che la stessa šarî‘a -parola che non vuol dire altro che legge di ispirazione religiosa-, nella sua forma più rigida, non ha previsto. Un esempio: quando una donna divorzia, questa šarî‘a prevede che lei abbia la custodia dei figli, che resti a casa. Ora il Codice di famiglia non le ha concesso ne la custodia dei figli, ne l'abitazione, ciò è iniquo. Recentemente si è ritornato su questi casi gravi, ma a mio parere si è ancora molto al di qua di ciò che bisognerebbe dire e fare per avere semplicemente un Codice civile, per le questioni matrimoniali, che rispetti la dignità umana della componente femminile, come di quella della componente maschile.

Cosa risponde a chi, pretendendo di basarsi sui testi sacri e la tradizione islamica, dice che la donna non è uguale all'uomo? O che “deve obbedire all'uomo”?

Obbedire a cosa e per cosa? Perché vorremmo che all'interno della coppia ci fosse una relazione dominante- dominato, uno che ordini e qualcuno che deve obbedire? Non ha senso! Ed è pure in contraddizione con la Costituzione algerina che prevede che una cittadina possa postulare alla magistratura suprema. Allora come potremmo volere che il più alto magistrato del paese, il capo dell'esercito, colui che incarna la nazione e lo Stato, debba obbedire, nelle considerazioni private e famigliari, a uno dei suoi amministrati? Non è serio. Per quanto concerne i testi sui quali ci si fonda, a livello ontologico, dell'uguaglianza innata, vera, non c'è differenza tra uomo e donna. Non c'è nel Corano che la donna è nata dalla costola dell'uomo, non c'è che lei è la tentata e la tentatrice a sua volta, non c'è una teologia che fa della donna la causa di tutti i nostri peccati, di tutti i nostri mali. In compenso, a livello statutario, ci sono dei passaggi che affermano, ahimè! una preminenza dell'uomo rispetto alla donna in certi casi: la testimonianza, a cui mi riferivo poco fa, la poligamia, l'eredità, e questa storia del velo. Ma anche là, bisognerebbe saperli relativizzare al loro contesto, spiegare perché sono stati rivelati a quell’ epoca. Sono questi passaggi che ai giorni nostri i giureconsulti maschilisti, sessisti, fallocrati, misogeni, hanno preso a pretesto per giustificare la soggezione della donna. Ma questo modo di piegare il religioso per delle considerazioni, psicologiche, personali, politiche, sociali non ha fondamento legittimo a livello di esegesi, di interpretazione.

Prendiamo l'eredità. E' vero si dice che alla donna va la metà di ciò che spetta all'uomo. Ma e il “ma” è di peso, in primo luogo lei prima non ereditava: il fatto di darle una parte di eredità, è riconoscerla come soggetto, autrice del suo destino, mentre prima faceva parte del patrimonio allegato, del bene trasmissibile. Certo non ha che la metà dell'eredità, ma non è tenuta, religiosamente,a sovvenire ai bisogni della famiglia; all'epoca era il marito che ne aveva il dovere. Ai nostri giorni la situazione è cambiata, l'uomo e la donna sovvengono insieme ai bisogni della casa. Di colpo le ragioni che facevano si che si desse la metà dell'eredità alla donna non sono più valide. Perciò neanche le conseguenze non devono più essere valide

Lei richiama i credenti al dovere permanente d'interpretazione dei testi...

Il Corano dice effettivamente che bisogna esercitare la ragione, l'intelligenza. C'è di meglio. Nel Corano un passaggio dice “ E le loro faccende sono oggetto di consultazione tra di loro”. Perciò fa parte delle nostre faccende, di noi musulmani, all'inizio del XXI secolo. In Algeria, è già gravissimo aver messo nella Costituzione che l'islam è la religione dello Stato. Lo Stato non deve avere religione per principio. Lo Stato è il garante del libero esercizio dei culti. Se vogliamo essere moderni, dobbiamo dotarci di istituzioni moderne, rispettare tutte le tradizioni religiose e lasciare la gestione del culto islamico a un organismo autonomo, indipendente. Ai nostri giorni, si dovrebbe dire che non c'è nessuna ragione in materia di considerazione matrimoniale, o di successione, o di Codice civile, di riferirsi al Corano. Tanto più che il Corano a dato luogo nel corso della storia a multi interpretazioni. Non vedo perché oggi se ne deve previleggiare una rispetto a un'altra. E come per caso si privilegia la più drastica.

L'opposizione degli islamici alla riforma del Codice della famiglia si focalizza soprattutto sulla soppressione della tutela della donna per il matrimonio, che considerano come “una protezione”. Cosa ne pensa?

E’ una stupidaggine. Ciò ha origine dall’idea che la donna è una minore a vita. Considerarla una protezione è confinare la donna in un ruolo inferiore, e in uno statuto che non è degno della sua condizione di essere umano. È vero, in questo modo la giovane donna ancora vergine, aveva bisogno del parere del padre, che era un po’suo tutore, essendo le società ciò che erano all’epoca. Ma non è una obbligazione religiosa rigida, una prescrizione coranica. La sola questione che vale è sapere se è maggiorenne oppure no. Se lei ha raggiunto la maggiore età, non ha più bisogno di nessuna tutela, fosse quella di suo padre, per sposarsi, viaggiare, ecc.Bisogna uscire dall’archaismo.

Gli islamici tengono in massima considerazione il mantenimento della poligamia, a motivo, ancora, che è stabilita dal Corano.

Il Corano non ha mai detto agli uomini: voi avete diritto di avere quattro mogli. Non è un diritto, è una virtualità in un contesto ben particolare. È detto :”Se temete di non essere equi con gli orfani, sposate allora di fra le donne che vi piacciono, due o tre o quattro, e se temete di non essere giusti con loro, una sola, o le ancelle in vostro possesso,questo sarà più atto a non farvi deviare (1)". "Dio non ha posto due cuori nel petto dell’uomo. Voi non potete essere equi con le vostre spose, anche se ciò fosse il vostro più ardente desideri (1).” Ecco i testi che parlano di questa famosa poligamia. Tre osservazioni. Uno, è in un quadro molto particolare, la presa in carico di vedove e orfani. Due, in una società tribale, dove la poligamia era anarchica, senza limiti, rispetto al numero delle donne di Salomone o di Davide, portarle a quattro, per l’epoca, era un progresso spettacolare. Tre, ai nostri giorni, è la monogamia stretta che deve prevalere; non si può seriamente continuare a tergiversare domandandosi se la poligamia deve essere assoggettata al consenso della prima sposa (2). Abbiamo a che fare con uomini maschilisti, sessisti, fallocrati, misogini che vogliono soddisfare i loro bisogni libidinosi fondandosi sul Corano. Non c’è altro da dire. Un a nazione democratica, moderna, che crede nel progresso, abolisce cose del genere. Non si deve volerla limitare per legge- che deve essere una legge relativa al diritto positivo-, teorizzare sulla poligamia.

Cosa ne pensa della proibizione, ugualmente stipulata nel Codice di famiglia, del matrimonio di una donna o di un uomo musulmano con un uomo o una donna non musulmani?

Da sempre si autorizza l’uomo musulmano a sposare una ebrea o una cristiana, una credente adepta di un’altra religione, non un’atea. Ma l’inverso non è possibile: una donna non sposa nessuno che non sia musulmano. Perché? L’argomento avanzato era: in una società patrilineare, (cioè dove i valori metafisici erano sempre trasmessi dal padre, e virolocale, cioè dove la donna si trasferiva nella casa del marito), i musulmani riconoscevano l’insegnamento di Mosè, di Gesù, ma non l’inverso. Quindi si ragionava dicendo: la donna verrà soffocata per la sua religione, perché gli ebrei e i cristiani non riconoscono la profezia di Muhammad; ciò sottindente che essi avrebbero proibito il libero esercizio del suo culto. E per la patrilinearità, i bambini che nasceranno saranno perduti, rispetto alla Umma, la comunità musulmana.

Ai nostri giorni, questi argomenti sono caduti in disuso. Uno stato laico moderno, farà si che l’ebreo, il cristiano, l’ateo o il musulmano non abbia più motivo di predominio sulla coscienza della propria moglie. È lo Stato che deve le garantire il libero esercizio del suo culto. Quale che sia suo marito, la sua islamicità e la sua fede sono garantite. Non possiamo neanche dire che la sua islamicità è in pericolo per il fatto che ha sposato un non musulmano, perché questo non potrà interferire nel modo di vivere la sua spiritualità. E poi bisogna uscire da questa idea contabile della Umma, ne perdiamo qualcuno qui, ne acquistiamo qualcuno là. No, le questioni di salvezza, di religione, di spiritualità, impegnano prima di tutto la coscienza umana nell’intimo di ciascuno, non sono una questione di numero. Infine per una donna vivere con un marito non musulmano nell’armonia, nel rispetto, nell’amore, è molto più apportatore e gratificante, che sposare un musulmano che la picchia e l’opprime.

A sentire gli attacchi contro la riforma del codice, si ha l’impressione di una profonda paura nei confronti della donna..

Senza adulazione, sono tra quelli che pensano che il XXI sec. sarà femminile o non sarà. Sono tra quelli che credono che se avessimo dato alle donne la gestione degli affari del mondo, si avrebbero avute meno violenze, meno guerre. Sono tra quelli dispiaciuti che la civilizzazione sia sempre stata maschile; la donna, dopo essere uscita dal gineceo greco, è stata via via, menade, baccante, odalisca, gheisha, egira, tutto ciò che si vuole, ma mai definita intrinsecamente. Le relazioni uomo-donna devono essere fondate sull’armonia, sull’attrazione fisica, sull’amore, sulla misericordia, sulla complicità, sul fatto di vivere insieme, simultaneamente, una bella avventura; non sulla paura, sulla negazione dell’altro, la soggezione o l’asservimento dell’altro. Cercare di vivere insieme in armonia, e in perfetta uguaglianza ontologica, di diritto, di rispetto, con solo criterio determinante la dignità umana, sia nell’uomo che nella donna.

Anche la questione del velo è sintomatica di questa paura. Per gli islamici, in Algeria come in Francia, sarebbe un’altra protezione della donna. Cosa risponde in proposito?

Anche là si tratta di scempiaggine. La donna non ha bisogno di un tessuto per essere protetta. Ciò che la protegge è prima di tutto la sua istruzione, la sua educazione, la sua cultura,  la sua acquisizione del sapere, il suo senso dell’onore, la sua virtù, il suo pudore. Si il Corano ha menzionato il velo , non è una novità. La donna ebrea si rasa il cranio e mette una parrucca: i capelli sono considerati un attributo erotico. La lettera di S. Paolo ai Corinzi dice: “Se una donna non è velata, è come si fosse rasata, e dato che non è preferibile essere rasata, è preferibile essere velata (3)”. Ciò si poteva spiegare all’epoca. Si dimentica anche che il califfo Umar, potentissimo e piissimo, a cui gli islamici si rifanno sempre, picchiò una donna musulmana, detta di bassa estrazione, quando volle velarsi. Non iniziamo a combattere per mezzo di versetti coranici, ma c’è ne uno ,versetto 60 della sura 24, la sura della Luce, che dice in sostanza: “ ..e che non sperano più di sposarsi, non è peccato per loro se depongono le loro vesti , senza però mostrare le loro parti belle”. Ciò regola il problema delle nostri madri e delle nostre nonne, anche se dietro questo passaggio c’è un’idea maschilista.

Per quanto riguarda le ragazze appena puberi, che imbacucchiamo in un tessuto variegato che le imbruttisce, è una catastrofe, un non senso, e le conseguenze psicologiche che lasceranno sono gravissime. Perché?

Durante un dibattito contro Tariq Ramadan, all’Unesco, dissi:” Se lei dice che bisogna salvaguardare la donna, nascondendole i capelli per non far fantasticare i ragazzi, bisognerebbe piuttosto educare i ragazzi che fantasticano su di essi, che incolpare la ragazza di essere giovane”. Noi siamo in questa situazione semplicemente perché non abbiamo avuto un “ momento Freud” da noi. Non abbiamo avuto il dibattito sulle relazioni uomo-donna, pudore-impudicizia, ecc.

Ci dimentichiamo che a Samarcanda, Tashkent, Bukara, o, ancora meglio, a Cordova, a Seviglia, la licenza era percepita da parte dei musulmani: gli ebrei, i cristiani vedevano le musulmane come giovani piuttosto dissolute, mentre l’ostentazione del pudore, il bigottismo erano più dalla parte, a quei tempi, degli ebrei e dei cristiani, che avevano una relazione con il corpo, i rapporti carnali, esclusivamente ristretta alla procreazione. Questo non era il caso, e in principio non lo è neppure oggi , della visione islamica.

Ai  nostri giorni , è l’inverso, sfortunatamente. Semplicemente perché abbiamo accusato un enorme ritardo in tutti i campi, compreso quello dei rapporti uomo-donna. L’equivalente, ai nostri giorni, del versetto coranico che chiede alle donne di portare su di esse il velo, di non scalpitare al fine di non attirare lo sguardo degli uomini, è il raccomandare alle credenti di vestirsi in maniera pudica, e questo sia da una parte che dall’altra.

(Intervista realizzata da Karima Goulmamine. Da L'Humanité - edizione del 12 novembre 2004. Traduzione dal francese a cura di Maria Domenica Ferrari)

Note

(1) Corano IV 3; IV 129.

(2) il progetto di riforma del Codice algerino prevede di sottomettere la poligamia all’accordo della prima moglie e del giudice.

(3) Corinzi 11,5-6 I versetti dicono “ Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole mettere il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si metta il velo.”

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