I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Giovedì, 10 Novembre 2005 00:30

Gesù l’africano (Pier Maria Mazzola)

Gesù l’africano

di Pier Maria Mazzola

Racconta padre Renato Kizito Sesana che, un giorno, nel centro per ex bambini di strada che ha fatto sorgere in Zambia, ebbe l'idea di porre una domanda ai piccoli ospiti: «Chi è Gesù per te?». «Gesù è il mio cuore», fu il tenore di buona parte delle risposte. Oppure: «È come mia nonna, che m'ha voluto bene più di chiunque altro». «Ma Bernard - ricorda il comboniano -, invece che un foglietto, porta una scultura abbozzata su legno. Bernard ha 11 anni. È con noi da tre, dopo aver vissuto in strada per due e aver lasciato per sempre una famiglia, che oggi non esiste più: tutti gli adulti sono morti di aids. Mi mostra un volto scolpito, a fianco dell'illustrazione del catechismo da cui ha cercato di copiarlo. La somiglianza è approssimativa, ma la differenza più grande è che il Gesù di Bernard ha un ampio sorriso. Come mai, Bernard? "Gesù è conten­to perché io sono vivo"».

È Fonte di Vita e Guaritore: è il Mediatore e l'Antenato; è l'Amato, Amico e fratello; è il Leader, Capo e Liberatore. Sono queste le principali risposte alla domanda che una docente di teologia a Nairobi, la canadese Diane Stinton, ha posto a teologi, a pastori e a laici - sia cattolici che protestanti - in Ghana, Uganda e Kenya: «Chi è Gesù Cristo per te, Africa? Chi dici che egli sia?».

È una domanda che esce dal cuore del Vangelo e sulla quale si sono già letti diversi lavori (un titolo per tutti: Cristologia africana, Paoline, 1987). Ma la ricerca non può fermarsi: perché è nella relazione con Cristo che la fede nasce, cresce, si purifica e mette radici. Tutte le altre questioni - ecclesiologiche, giuridiche o morali che siano - hanno senso solo in quanto ancorate al momento cristologico.

Il volume della Stinton, Jesus of Africa, appare come una vera e propria inchiesta sui volti di Gesù. Un esempio. Confessare che «Gesù è mganga» (guaritore) non è un'affermazione così pacifica. Questa figura tradizionale, benché necessaria, è portatrice, secondo alcuni degli intervistati, anche di connotazioni negative. Di queste sono responsabili non solo la "cattiva stampa" dei missionari nel passato, ma anche certi atteggiamenti dell'uomo della medicina, a cominciare dalla sua familiarità con gli spiriti, che inducono timore, se non diffidenza, nei suoi confronti. «Per me, ad ogni modo - spiega, nella sua lingua, un'anziana donna del Ghana, protestante - Gesù è molto, molto, molto, molto più grande del tsofatse».

D'altra parte, Gesù stesso non usava forse le tecniche dei taumaturghi del suo tempo? Solo che non si limitava a far recuperare la salute, ma «nella sua stessa persona ha offerto la liberazione per il malato, il peccatore, il depresso, lo straniero, l'emarginato, il povero e il ritualmente impuro» (Aylward Shorter).

Fili e perline

Beads and strands ("Perline e fili") è una piccola perla. È una sorta di testamento spirituale di Mercy Amba Oduyoye, una delle autrici di riferimento di Diane Stinton. Donna akan del Ghana, metodista, antesignana della teologia africana al femminile, Amba ci consegna una serie di riflessioni da vera "madre della chiesa", intrise di sapienza e autorevolezza. Alla medesima collana, "Theology in Africa Series", appartengono altri due titoli: Christians and Churches of Africa, di Kà Maria, e Jesus and the Gospel in Africa, di Kwame Bediako.

Anche quest'ultimo, un pastore presbiteriano, nella sua miscellanea di articoli in vista di un'«era postmissionaria», non trascura la cristologia, vista «in una prospettiva ghaneana». Degno di nota il suo commento alla Lettera agli ebrei, che definisce «la nostra epistola!», a motivo della sua «rilevanza per società, come le nostre, con profonde tradizioni sul sacrificio, la mediazione sacerdotale e la funzione degli antenati. Ebrei mostra Gesù come risposta alle aspirazioni spirituali cui la nostra gente ha sempre cercato di soddisfare attraverso le tradizioni». Tradizioni che, per altro, egli non "canonizza". Sul versante politico, Bediako non esita a qualificare come «ontocrazie» le società etniche ove vige «una stretta associazione tra autorità religiosa e potere politico». Ora, «storicamente, il cristianesimo è stato una forza desacralizzante». Verità da tenere presente, soprattutto quando si ha a cuore l'avvento, sinora faticoso, della democrazia in Africa. «L'idea di Gesù sulla questione "politica e potere" non è un'idea di dominazione, di autosoddisfazione o autoritativa, ma è un'idea di salvezza, di redenzione, di servizio».

«Perché restiamo bloccati?»

La preoccupazione che la teologia debba stare in costante ascolto dell’anima dell'Africa e, al contempo, essere proiettata verso il cambiamento delle condizioni socioeconomiche, culturali e persino psicologiche del continente, è ormai sempre più condivisa dai teologi africani, e scavalca le scuole di pensiero cui essi appartengono. Ancora la Stinton sottolinea, citando il keniano Jesse Ndwiga Kanyua Mugambi, che, nella scia di Jean-Marc Ela, anche altri (John Pobee, Bénézet Bujo, Aniba Oduyoye, Anne Nasimivu Wasike...) hanno «lavorato alla sintesi tra inculturazione e liberazione». Il frutto più maturo di tale sforzo sarebbe la teologia della ricostruzione (Nigrizia, 7/04, 54), il cui esponente di punta è il congolese Kä Mana.

Nella sua riflessione, Ka Mana si arrovella sulla domanda: «Perché noi africani non riusciamo a rispondere adeguatamente alle sfide del nostro destino?». «Il nostro problema - considera il teologo - è la penuria di significato che tende a caratterizzare la nostra esistenza». In altre parole - prese in prestito dal sociologo Achille Mbembe - «la sfida consiste nel creare un'altra immagine di noi stessi nel mondo». Anche per affrontare tale sfida si rivela decisivo, per Kä Mana, il passaggio cristologico: fare perno sul rapporto di Gesù con la sua morte (e risurrezione), per «rivitalizzare lo spazio mitologico africano», perché l'uomo africano ritrovi autofiducia.

In tutt'altro stile è un'opera minore, ma a suo modo degna di nota: L'imitation, spiritualité chrétienne africaine. Muovendo da un punto di partenza inconsueto (la quattrocentesca Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis), il burkinabé Jules Pascal Zabre mostra come lo schema dell'imitazione - centrale, in Africa, nell'educazione dei più giovani - corrisponda alla sequela Christi, e anche a un tratto antropologico fondamentale. Quest'ultimo aspetto non appare granché convincente, a differenza delle pagine sull'iniziazione. Rimane il fatto che, anche in questa ricerca, il fulcro è la persona di Gesù.

(da Nigrizia, aprile, 2005)

Martedì, 08 Novembre 2005 00:22

La salvezza è la pace (Enrico Peyretti)

La salvezza è la pace
di Enrico Peyretti




«Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio ma da come parla delle cose terrestri, che si vede se la sua anima ha soggiornato in Dio», dice Simone Weil, citata dal teologo torinese Oreste Aime nel (...) convegno sulla salvezza nell’Ortodossia e nel Cristianesimo occidentale, indetto dal Centro di studi religiosi comparati Edoardo Agnelli. Sembra per lo più che i teologi ortodossi volino nei cieli, senza toccare terra. Sembra di ascoltare una spiritualità così unicamente concentrata in Dio da non vedere più il mondo amato da Dio. Ora, noi siamo in terra, e aspettiamo la Gerusalemme celeste che, nelle figure del libro dell’Apocalisse, scenderà sulla terra, e non saremo noi a salire dalla terra al cielo.

La salvezza che speriamo e attendiamo è oggetto di una speranza tutta formale, oppure comincia realmente e si può intravedere in parzialità e contraddizioni, ma in realtà incoativa, già in questo tempo? Soltanto la mistica e la liturgia sono profezia del mondo risanato, o non anche la vita quotidiana nell’amore per il prossimo, che certamente è parte essenziale del cristianesimo orientale?

Dio ci salva dal peccato. E il peccato in definitiva è ogni offesa al prossimo, ogni violazione della relazione umana, ogni atto di dominio e disprezzo, che oscurano il senso dell’esistenza e creano dolore e paura, cioè morte, non-vita. Il nostro stare col prossimo è la misura del nostro stare davanti a Dio. Il prossimo è il primo sacramento di Dio, che dunque è onorato oppure offeso in esso, e di esso Dio si fa difensore e vindice.

Non c’è storia della salvezza senza salvezza della storia, diceva Ellacuria. E per Sobrino non è solo nella vita dopo la morte, ma nelle opere del Gesù storico che si attua il regno di Dio. La salvezza si realizza e si fa conoscere nel mondo delle relazioni, ha detto nel convegno Yannaras: nelle buone relazioni. Se il peccato è inimicizia, offesa e violenza nella nostra relazione con l’altro, Cristo è l’uomo senza inimicizia, è l’uomo nuovo, nonviolento nell’umanità violenta, è lui la pace vissuta, che abbatte le divisioni, è l’uomo-per-gli-altri, è il Salvatore.

Salvezza nella storia, cammino fuori dal peccato, è ogni riduzione della violenza (in tutte le sue forme, dirette, strutturali, culturali, esterne ed interne), ogni passo di pace. La parte di pace che riusciamo a costruire, come «figli di Dio», con la sua azione in noi, che lo sappiamo o no, è la profezia nella storia della piena salvezza finale.

Poiché l’amore del prossimo è l’elemento comune e la misura di fedeltà in tutte le vive religioni umane, la pace è la salvezza che Dio (comunque lo conosciamo) costruisce in noi e con noi, su tutte le vie religiose e umane autentiche. Quando Aldo Capitini esprime il pensiero che la vita senza morte (la salvezza) comincia col non uccidere, dice questo. Per Panikkar la pace è il nuovo mito emergente (mito in senso positivo), è la nuova etica universale, quasi una religione comune, nel rispetto delle differenze (la pace è pluralismo, insiste Panikkar); la pace è un valore che giudica oggi tutte le etiche, filosofie, politiche e religioni. Ci sarà il compimento della vita umana, non ci saranno molte salvezze come molte sono le teorie della salvezza. La pace è il contrario del dominio, è la carità concreta, è rispettare e amare il valore dell’altro.

Bisogna che anche la salvezza cristiana impari ad esprimersi così. Ciò non toglie nulla a Dio. Non ci si salva senza Dio, ma neppure senza il mondo, e desiderarlo non è bene. Ci si salva nella pace, la quale va all’infinito, cominciando dai passi qui difficili ma possibili, passi profetici da riconoscere con venerazione.

La salvezza è la pace. E ciò non va capito come riduzione della salvezza a qualche buona e giusta azione politica umana, come se non ci fosse Dio nell’uomo che pratica la giustizia. Va inteso nel senso che la vita buona, fragile e preziosa, nostro compito quotidiano nel piccolo e nel grande, è segno nei nostri giorni della salvezza che, nonostante la forza del male, viene, verrà, e sarà pace piena.


(da
Il foglio, n. 294, settembre 2002)

In cammino verso l'unità
(Ordine dei Frati Minori)

L'ecumenismo, e il movimento che ne attualizza le esigenze, è frutto di un lungo processo di maturazione, favorito da nuove situazioni sociali, culturali ed ecclesiali, verificatesi soprattutto a partire dal XIX secolo. Questo processo coinvolse inizialmente le chiese nate dalla Riforma protestante e progressivamente il mondo ortodosso e quello cattolico.


1.
Il mondo protestante

Diversi fattori, tra il XVIII e il XIX secolo, vennero a provocare in modo nuovo il variegato mondo della Riforma. L’illuminismo e il romanticismo, con il loro 'relativismo' dogmatico, preparano un terreno favorevole all'affermarsi dell'idea di libertà e di tolleranza religiosa. Un espansionismo coloniale dell'occidente permise a varie chiese di allargare il loro raggio di azione e di percepire in modo nuovo il problema dell'evangelizzazione. Il miglioramento delle comunicazioni rese possibile un più rapido contatto fra le chiese e un maggiore scambio di idee e di esperienze. Lo spostamento di masse dalle campagne verso le città o verso nuove nazioni spinsero i cristiani a porsi il problema dell'identità confessionale e della convivenza reciproca. I grandi cambiamenti politici in atto portarono a sviluppare una più chiara coscienza sociale e una maggiore attenzione ai problemi sociali. Non vanno dimenticate, infine, le varie correnti di 'risveglio' che posero l'accento sulla rinascita operata dall'adesione di fede a Cristo e sulla necessità di una incisiva testimonianza di vita cristiana.

Tutti questi avvenimenti si ripercuotono inevitabilmente nella vita delle chiese e danno origine a iniziative che in modo diversificato preparano un terreno favorevole al formarsi di una sensibilità attenta al problema dell'unità delle chiese. Infatti, in questo arco di tempo si assiste al sorgere di numerose Federazioni di Società missionarie, che favoriranno il coordinamento e la collaborazione fra missionari di confessioni diverse. Si formeranno anche varie Alleanze mondiali di chiese, allo scopo di realizzare una maggiore unità fra le chiese di una stessa confessione e una loro collaborazione sul piano internazionale. Si darà vita a nuove forme associative giovanili, come anche alla Federazione mondiale degli studenti cristiani, che voleva essere luogo di incontro e di reciproco arricchimento, attraverso il confronto, la condivisione delle ricchezze delle rispettive tradizioni confessionali, l'impegno comune a una vita cristiana più impegnata. Si formeranno inoltre gruppi e associazioni interconfessionali di cristiani che in nome della comune fede in Cristo si interessano ai problemi sociali dell'epoca. Similmente, si assisterà alla nascita di vari movimenti di preghiera che si propongono come loro fine specifico quello di invocare da Dio l'unità di tutti i cristiani. Grazie a queste iniziative, cristiani di confessioni diverse si danno degli strumenti per un maggiore contatto, per una conoscenza reciproca, per una qualche collaborazione in settori di azione comune.

In questo variegato contesto, spesso caratterizzato dalla convinzione che il confessionalismo, e dunque l'appartenenza ecclesiale, è una realtà Superata o da superare in nome della comune fede in Cristo, emergono quelle spinte che porteranno dapprima alla formazione del Consiglio Missionario Internazionale e successivamente dei movimenti di Fede e Costituzione e di Vita e Azione. Tappa fondamentale in questo cammino è la Conferenza Missionaria Mondiale di Edimburgo (1910). Infatti, durante questa conferenza di delegati di Società missionarie si perviene a una chiara presa di coscienza che le divisioni ecclesiali contraddicono il volere di Cristo e sono di ostacolo all'annuncio del Vangelo. Conseguentemente, l'ideale dell'unità sarà un tema ricorrente nei lavori dell'assemblea e si vedrà in essa la meta alla quale dovrebbe tendere il lavoro dei missionari. Questo intento rimarrà presente anche nel successivo lavoro del Consiglio Missionario (1921), caratterizzato dalla volontà di coordinare le attività delle varie Società missionarie, di promuovere la riflessione sui problemi missionari e di unire i cristiani nell'impegno per la giustizia e la pace. Per cui non è fuori luogo affermare che il moderno movimento ecumenico, almeno per quegli aspetti che sono propri al protestantesimo, affonda le sue radici nel movimento missionario.

Dal 1948 ad oggi tale organismo ha portato avanti, non senza difficoltà, una mole enorme di lavoro sul piano della riflessione e della concreta azione ecumenica. Ad esempio, è riuscito a coinvolgere sempre più le chiese nel suo organismo: dalle 161 chiese che hanno partecipato alla prima assemblea ad Amsterdam, si è arrivati alle 335 presenti all'ultima assemblea mondiale, Harare 1998, un numero in progressivo aumento (la chiesa cattolica non è affiliata al Consiglio Ecumenico, tuttavia è presente alle sue assemblee mediante osservatori ufficiali). Lo stesso Consiglio Missionario, nel 1961, ha aderito al Consiglio Ecumenico delle Chiese. Nel corso degli anni, infatti, si sono resi evidenti tutta una serie di sovrapposizioni e di doppioni fra i due organismi, per cui alla fine si è optato per la fusione, che ha impresso al Consiglio Ecumenico una più chiara attenzione ai problemi dell'evangelizzazione e della missione. Nel 1971, poi, c'è stata l'integrazione del Consigliò mondiale per l'educazione cristiana; cosa, questa, che ha portato a dare nuova vitalità a un settore già esistente nel Consiglio Ecumenico e che si articolava in varie iniziative: dalla formazione teologica, alla educazione religiosa di base, alla più generale formazione culturale umana.

In questi anni, inoltre, il Consiglio Ecumenico si è fatto promotore di diversi progetti che si pongono sui piano socio-politico. Il più famoso di tutti è il 'Programma di lotta contro il razzismo', al quale si affianca l'impegno per il rispetto dei diritti umani e per il diritto alla terra. Al tempo stesso il Consiglio si è preoccupato di promuovere una comprensione dell'economia mondiale più giusta, più solidale e più distributiva. Oltre a questo ha dato vita anche al progetto 'Giustizia, pace e salvaguardia del creato' (cf. Setil 1990), attirando così l'attenzione mondiale su un grave problema che minaccia la nostra società. È dunque evidente che il Consiglio Ecumenico in questi anni ha dato particolare rilevanza ai problemi sociali, economici e politici. Di questi problemi si è fatto portavoce e ha cercato di dare una risposta unitaria a nome di tutte le chiese.

Questo non significa che il Consiglio Ecumenico abbia trascurato del tutto i problemi teologici. É sufficiente prendere in considerazione i rapporti conclusivi delle varie Assemblee generali per rendersi conto che i temi teologici hanno avuto una certa rilevanza, come ad esempio il problema dell'unità che ritorna in tutti i rapporti delle varie Assemblee mondiali. A questo si deve aggiungere tutta la riflessione teologica che Fede e Costituzione ha sviluppato, in quanto dipartimento dottrinale del Consiglio, in particolare nell'ambito dell'unità della chiesa, della comunione nella fede, nei sacramenti, nel ministero e del servizio comune al mondo (in questo organismo la chiesa cattolica è presente a pieno titolo con i suoi delegati ufficiali).

Per quanto riguarda il tema dell'unità, negli anni '60 e '70, la riflessione si è concentrata soprattutto sui 'modelli di unità'. I risultati sono confluiti nella dichiarazione sull'unità dell'Assemblea di Nairobi (1975), dove si definì la chiesa come 'comunità conciliare' (dunque come comunione di chiese locali che vivono e manifestano la loro unità soprattutto mediante strutture conciliari, mediante concili). Recentemente, poi, la riflessione sull'unità ha portato alla formulazione di testi particolarmente significativi quali L’unità della chiesa come koinonia: dono e votazione (1991) e La natura e lo scopo della chiesa (1998).

Per quanto riguarda, invece, il problema della comunione nella fede, la riflessione si è concentrata soprattutto sul credo niceno-costantinopolitano. Su questo testo c'è stato un lavoro di riflessione comune che passando attraverso diverse redazioni, ha condotto alla pubblicazione del documento Confessare una sola fede.

Il terzo filone di riflessione riguarda il problema dei sacramenti e del ministero. In questo contesto è nato un documento che certamente è il più significativo dei documenti prodotti dal dialogo ecumenico multilaterale. E questo sia per il lungo tempo adoperato per l'elaborazione del testo, sia per la quantità di persone e di chiese ripetutamente consultate, sia per l'ampia riflessione di cui è stato oggetto. Si tratta del così detto BEM, cioè Battesimo, Eucaristia, Ministero (1982).

Il quarto filone, infine, riguarda il rapporto fra unità della chiesa e unità del genere umano. L'approfondimento di questa problematica ha portato alla formulazione, dapprima, del documento L'unità del mondo oggi e poi del testo Chiesa e mondo del 1991.

2. Nel mondo ortodosso

Fino alla prima guerra mondiale domina fra gli ortodossi un generale senso di diffidenza verso l'occidente, a causa anche dell'atteggiamento missionario che cattolici e protestanti avevano tenuto nei confronti dei fedeli ortodossi. La svolta decisiva avvenne dopo la prima guerra mondiale. Ne è segno l'accoglienza positiva che i capi delle chiese ortodosse riservarono alla delegazione episcopaliana statunitense, che nel 1919 visitò l'Europa per invitare le chiese a una futura conferenza mondiale a Fede e Costituzione. A questo farà poi seguito anche una lettera del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli destinata a tutte le chiese di Cristo, dovunque esse si trovano (1920). Questa iniziale 'apertura' del mondo ortodosso trova la sua concretizzazione nell'invio di rappresentanti ortodossi alle varie conferenze mondiali di Fede e Costituzione e di Vita e Azione. Tuttavia rimanevano delle perplessità. Molti, infatti, erano persuasi che il 'movimento ecumenico' fosse un'espressione e un mezzo per realizzare le mire espansionistiche e coloniali dei paesi occidentali. Ovviamente, l'obiezione più seria era di carattere dottrinale e si fondava sul fatto che le chiese orientali possiedono la pienezza di verità. Mettersi in dialogo con gli eretici, dunque, sarebbe stato uno sminuire l'autorità della chiesa ortodossa. Gli intenti non erano poi così chiari ed univoci neanche fra i sostenitori dell'apertura ecumenica. Per alcuni, infatti, questo non era altro che un modo per estendere l'influenza dell'ortodossia fra gli occidentali.

Spesso si critica la lentezza dei progressi ecumenici compiuti nell'ambito del Consiglio Ecumenico. Si tratta di una critica che non tiene adeguatamente in considerazione la natura stessa di questo organismo. Il Consiglio Ecumenico, infatti, è 'una fraterna associazione di chiese' che conservano la loro autonomia e il loro diritto di ratifica delle scelte compiute dall'Assemblea. La considerevole varietà di chiese che lo formano, la Molteplicità delle posizioni teologiche ed ecclesiologiche, le diverse sensibilità culturali proprie ai contesti nei quali operano le chiese, necessariamente si ripercuotono nel cammino ecumenico del Consiglio rendendolo lento, variegato, complesso.

In seguito alla seconda guerra mondiale, i rapporti delle chiese ortodosse con il mondo ecumenico della Riforma attraversarono una certa crisi, a causa anche della nuova situazione politica venutasi a creare. Infatti, la creazione del blocco di stati controllati dai comunisti condizionerà significativamente i rapporti tra i cristiani d'oriente e d'occidente. Espressione di queste difficoltà sono le decisioni prese durante la consultazione dei rappresentanti delle chiese autocefale che si tenne a Mosca nel luglio del 1948, in occasione del 500° anniversario della proclamazione dell'autocefalia della chiesa Russa.

Fra l'altro, tale consultazione espresse giudizi molto entici nei confronti del nascente movimento ecumenico. Oltre all'accusa di essere 'uno strumento dell'imperialismo americano' si criticava il Consiglio Ecumenico delle Chiese perché intenderebbe dar vita a una nuova chiesa ecumenica; perché svolgerebbe attività sociali e politiche che non competono alle chiese; perché si farebbe promotore di una radicale sfiducia verso la possibilità di giungere all'unità nella chiesa una santa cattolica e apostolica che è la chiesa ortodossa; perché la base dottrinale, con il suo richiamo unicamente alla fede in Cristo, svuoterebbe di contenuto la fede cristiana, che è trinitaria. In forza di tale giudizio solo gli ortodossi saranno presenti, in qualità di delegati delle loro chiese, alla prima conferenza mondiale di Amsterdam (1948).

Tuttavia le cose erano destinate a cambiare progressivamente. Nel 1952 abbiamo una lettera enciclica del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, dove si parla della partecipazione della chiesa ortodossa al Consiglio Ecumenico delle Chiese come una realtà 'necessaria' in quanto offre la possibilità di affrontare insieme agli altri cristiani i grandi problemi che affliggono l'umanità, come anche la possibilità di far conoscere agli eterodossi il tesoro della fede ortodossa,

Dopo la conferenza di Evanston (1954), alla quale parteciparono una trentina di ortodossi, vennero avviati contatti epistolari e personali fra il Consiglio Ecumenico e il Patriarcato di Mosca. Questo porterà nel 1961 all'ingresso della chiesa russa nel Consiglio Ecumenico, in seguito a tale passo, poi, progressivamente (tra il 1961 e 1965) anche le altre chiese ortodosse aderiranno al Consiglio.

Da allora il contributo che le chiese ortodosse hanno offerto al Consiglio Ecumenico è stato considerevole, sia in termini di persone che hanno collaborato alle varie strutture, sia in termini di riflessione e di stimoli teologici. Va detto però che la presenza degli ortodossi nel Consiglio Ecumenico delle Chiese spesso è stata anche problematica sia per gli uni che per gli altri. Emblematica a questo riguardo la dichiarazione dei delegati ortodossi presentata all'assemblea di Canberra, dove si esprimono chiare preoccupazioni circa la finalità, i mezzi, i contenuti dell'azione ecumenica perseguita dal Consiglio.

Negli anni '90 la tensione crebbe ulteriormente (anche a motivo della nuova situazione politica ed ecclesiale venutasi a creare nell'Est Europa.- caduta del muro di Berlino, libertà di culto riconosciuta anche alle chiese greco-cattoliche, arrivo massiccio di nuove chiese e di sètte, crescita dei nazionalismi, chiese locali in difficoltà ...), portando progressivamente a creare un forte sentimento antioccidentale e antiecumemeo (in questo contesto progressivamente maturerà, anche per tensioni interne, la decisione della chiesa ortodossa di Georgia di ritirare la sua adesione al Consiglio Ecumenico).

Conseguentemente, ad Harare, il tema della partecipazione e della collaborazione delle chiese ortodosse con il Consiglio Ecumenico delle Chiese ha avuto un peso rilevante. Tagliente l'intervento del capo della delegazione russa, Hilarion Alfeyev: «Dopo tanti anni di impegno ecumenico da parte nostra appare chiaro che la chiesa ortodossa e le chiese di tradizione protestante hanno camminato in direzioni diverse. Gli ortodossi non possono influenzare il programma di lavoro perché sono sempre in minoranza. Non abbiamo mai discusso temi che sono importanti per noi, come la venérazione della vergine Maria, la venerazione delle icone, la venerazione dei santi perché tali temi sono ritenuti divisivi. Ma che dire del linguaggio inclusivo e del sacerdozio delle donne: non sono questi divisivi?... Ci sentiamo sempre meno a casa nostra qui... Gli ortodossi non sono più soddisfatti del programma di lavoro e della struttura del CEC.... Alcuni, in questa sala, dicono: 'Se non siete soddisfatti, andatevene'. Noi non vogliamo andarcene; vogliamo restare, vogliamo continuare il nostro viaggio insieme. Ma vogliamo che il CEC sia radicalmente trasformato, perché possa essere davvero una casa per gli ortodossi nel secolo a venire».

3. Nel mondo cattolico

Di fronte alle iniziative ecumeniche sorte nel mondo della Riforma la gerarchia della chiesa cattolica mantenne un atteggiamento sostanzialmente negativo fino al Vaticano II. Il rifiuto cattolico aveva un chiaro fondamento ecclesiologico; si fondava sulla persuasione che nonostante le divisioni, la chiesa di Cristo è presente m modo esclusivo nella chiesa cattolica romana, fondata ed edificata sull'unico Pietro, dotata di un magistero autorevole perché sia indefettibile il suo credo. Per questa sua unità e per questa sua struttura, la chiesa cattolica romana è la chiesa voluta da Cristo, dalla quale tutte le altre comunità cristiane si sono staccate perdendo il loro carattere ecclesiale.

Fondandosi su tali principi, la chiesa cattolica non poteva sostenere altro ecumenismo che non fosse quello del ritorno alla chiesa lasciata. Dunque le varie iniziative ecumeniche sorte all'interno delle chiese della Riforma, non potevano riguardare direttamente la chiesa cattolica: questa possiede già l'unità che Cristo ha voluto per la sua chiesa. Le varie iniziative ecumeniche, se mai, riguarderanno il mondo della Riforma e dovrebbero mirare a creare una maggiore unità fra queste chiese e a favorire il ritorno alla chiesa cattolica (cf. l'enciclica Mortalium Animos (1928) di Pio XI; l'enciclica Mystici Corporis (1943) di Pio XII; l'Istruzione Ecclesia Catholica (20.12.1949) del S. Ufficio)

All'atteggiamento chiuso e diffidente della gerarchia cattolica corrisponde un interessamento crescente da parte di singoli teologi e di gruppi di fedeli al problema dell'unità e alle iniziative ecumeniche fra i non cattolici. Fra gli anni '20 e '50 la chiesa cattolica è percorsa a livello di base da correnti che in forme diverse si interessano al problema dell'unità e che sensibilizzano il mondo cattolico al problema ecumenico; correnti che privilegiano ora l'aspetto spirituale (cf. Couturier e altri che si interessano alla diffusione della preghiera per l'unità dei cristiani; oppure le abbazie di Chevetogne e di Niederalteich che accanto a una seria produzione teologica, danno un grande risalto all'azione liturgica e alla vita spirituale); ora l'aspetto pastorale (cf. il movimento di Una Sancta Bruderschaft), ora l'aspetto storico e teologico (cf. J. Lortz, Y Congar, H. de Lubac, K. Rahner, M. D. Chenu, P Y Frére...). Un grande contributo alla maturazione della sensibilità ecumenica in ambito cattolico è venuto, infine, da quei movimenti di rinnovamento che precedettero il Concilio: il rinnovamento biblico, patristico, liturgico, teologico ... Tutti questi sviluppi, progressivamente, prepareranno la svolta ecumenica del Vaticano II (cf Unitatis Redintegratio).

Terminato il Concilio, la chiesa cattolica si è realmente impegnata a porre in atto quanto espresso nei vari documenti, non senza difficoltà e tentennamenti. Fra le iniziative postconciliari va ricordato: a) il sorgere a livello di chiese locali di commissioni per l'ecumenismo; b) l'attenzione al problema ecumenico nell'ambito della formazione teologica; c) la diffusione della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani; d) l'istituzione di centri di studio con una chiara finalità ecumenica; e) l'avvio di dialoghi bilaterali con le altre confessioni cristiane sia a livello mondiale che locale.

In questo contesto, in particolare, va ricordata l'attività del Segretariato per l'unità dei cristiani (oggi Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani), il quale ha prodotto diversi documenti di carattere ecumenico, fra i quali occorre ricordare il nuovo direttorio ecumenico (1993). Si tratta di un testo che vuole essere punto di riferimento per tutta l'azione ecumenica della chiesa cattolica. Per cui in esso si offrono chiare indicazioni dottrinali e comportamentali per tutti i fedeli e specialmente per coloro che sono direttamente impegnati nella causa dell'unità, raccogliendo tutte le norme già fissate per applicare e sviluppare il concilio e per adattarle alla realtà attuale.

Anche i pontefici, dopo il Vaticano II, in moltissime occasioni e in diversi modi hanno testimoniato l'impegno della chiesa cattolica per la causa dell'unità. Molti sono i gesti compiuti è le parole dette. Qui ci limitiamo a menzionare due recenti documenti pontifici. Il primo documento da ricordare è l'enciclica Orientale Lumen (2 maggio 1995). Si tratta di una lettera che non presenta, in realtà, novità di rilievo. Tuttavia riveste un ruolo importante per il cammino ecumenico, perché è apparsa in un periodo di particolare difficoltà nei rapporti fra oriente e occidente; difficoltà sorte a causa della concreta situazione determinatasi nei paesi dell'ex blocco comunista, dove l'azione della chiesa cattolica e delle chiese greco-cattoliche è vista come un'intrusione nella vita di chiese ortodosse.

Il secondo testo da ricordare è l'enciclica Ut Unum Sint (25 maggio 1995). Questa enciclica nasce dal desiderio di unità che anima l'impegno pastorale dell'attuale pontefice e vuole essere un invito rivolto a tutta la chiesa cattolica ad operare per l'unità della chiesa. In essa l'impegno ecumenico della chiesa cattolica viene definito 'irreversibile'.

4. dialoghi bilaterali

Il coinvolgimento della chiesa cattolica nel movimento ecumenico si è concretizzato fra l'altro nell'avvio di dialoghi bilaterali con varie confessioni cristiane. La forma bilaterale di dialogo è una novità in ambito ecumenico (il Consiglio Ecumenico delle Chiese privilegia il dialogo multilaterale) e coinvolge un diverso soggetto, cioè le Federazioni/Alleanze di chiese (il Consiglio Ecumenico è invece formato da chiese territoriali).

Il dialogo bilaterale consente ai partners di elaborare un adeguato piano di lavoro, una specifica metodologia; di individuare problematiche specifiche, di precisare con maggiore chiarezza il fine a cui tendere. Per questi suoi aspetti positivi il dialogo bilaterale si è largamente diffuso (vedi dialoghi della Chiesa cattolica con altre confessioni, sia a livello mondiale che locale; ma anche dialoghi fra le stesse confessioni separate da Roma).

Questa fitta rete di dialoghi ha prodotto un enorme numero di testi di convergenza teologica (ovviamente, i documenti prodotti da tali commissioni non hanno valore vincolante per le chiese: sono proposti alla riflessione e alla ricezione delle chiese) nei quali si precisano le posizioni dottrinali reciproche; si determinano convergenze teologiche; si favoriscono migliori relazioni reciproche.

I molti temi affrontati in questi dialoghi si possono riassumere attorno ad alcuni nuclei: a) autorità nella chiesa (la Sacra Scrittura, la Tradizione, le professioni di fede, le decisioni conciliari, il magistero); b) giustificazione; c) ministero ordinato (natura, funzioni, struttura del ministero); d) teologia sacramentaria; nozione di sacramento, eucaristia e battesimo; e) i matrimoni interconfessionali; f) chiesa (un tema che sta diventando sempre più rilevante e centrale nei vari dialoghi).

In questo contesto va ricordato anche il Gruppo Misto di lavoro tra la Chiesa cattolica e il Consiglio Ecumenico delle Chiese, istituito nel 1965. Il gruppo ha prodotto diversi rapporti ufficiali nei quali troviamo un'attenta analisi della situazione ecumenica. Ha promosso anche studi su temi che riteneva di particolare importanza ecumenica: sulla cattolicità e apostolicità, sul proselitismo, sulla professione di fede comune, sulla testimonianza comune, sulla gerarchia delle verità, sulla chiesa locale e universale e sulla formazione ecumenica

Volendo concludere queste brevi indicazioni, ci sembra significativo ricordare le parole dell'ex segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, Ph. A. Potter, il quale in un'occasione ebbe a dire: «È assai ironico notare che i rapporti del CEC con la più importante delle chiese non affiliate, quella cattolico romana, siano stati più intensi che non con molte delle chiese membri».

(Tratto da Ordine dei Frati Minori, La vocazione ecumenica del francescano, ISE Venezia - Roma, 2001, pp. 78-92)

ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)

(Passi scelti)

LA CREAZIONE


(II - 20a - Midrash ha-Neelam)

Disse Rabbi Shim'on: Guai alle creature che non badano e non sanno. Quando al Santo, che benedetto egli sia, venne il pensiero di creare il mondo, in quell'unico pensiero furono presenti tutti i mondi ed in esso vennero creati, secondo quanto è scritto:

“Li hai fatti tutti con sapienza” (Sal. CIV, 24). Con quel pensiero che è la sapienza, sono stati creati tanto questo mondo che il mondo superiore.Egli distese la sua destra e creò il mondo superiore, distese la sinistra e creò questo mondo, secondo quanto è scritto: “La mia mano ha fondato la terra e la mia destra ha disteso il cielo, io li chiamo ed essi si alzano assieme” (Is. XLVIII, 13). Tutti furono creati in un solo momento ed in un solo attimo. Dio fece questo mondo in corrispondenza con il mondo superiore: ciò che esiste in alto è il modello di ciò che esiste in basso, e tutto ciò che esiste in basso è il modello di ciò che esiste nel mare. E tutto è uno.

(I - 77a)

Rabbi Yosè prese a dire: “Come sono care le tue sedi, o Signore delle schiere” (SaI. LXXXIV, 2). Quanto dovrebbero meditare gli uomini sulle azioni del Santo, che benedetto egli sia! Infatti gli uomini non pongono mente e non sanno su che cosa si fonda il mondo, e su cosa essi stessi poggiano. Quando il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, fece i cieli di fuoco e di acqua, mescolati insieme, ed essi non si solidificarono. Successivamente si solidificarono e stettero nello spirito eccelso. Di là Dio piantò il mondo in modo che poggiasse sulle colonne e queste colonne, a loro volta, non si reggono se non per merito di questo spirito. Quando esso si allontana, le colonne vacillano ed ondeggiano e tutto il mondo trema, come è scritto: “Egli scuote la terra dal suo luogo e le sue colonne vacillano” (Giob. IX, 6). E ogni cosa, a sua volta, poggia sulla Torà, perché quando i figli di Israele si occupano della Torà il mondo si mantiene ed essi si mantengono; e le colonne se ne stanno alloro posto perfettamente salde.



(I - 47a)

“Dio vide che tutto quello che aveva fatto era molto buono” (Gen. I, 31). E che Dio non l'aveva già previsto? Sì, il Santo, che benedetto egli sia, aveva previsto tutto. Il fatto che abbia usato l'espressione “che tutto” è per comprendere in essa tutte le generazioni che sarebbero apparse successivamente e tutto ciò che si sarebbe rinnovato nel mondo di generazione in generazione, ancor prima che se ne vedesse la realizzazione.

L'espressione “quel che aveva fatto” si riferisce all'opera della creazione, nel corso della quale fu creato il fondamento e la base di tutto ciò che sarebbe avvenuto o si sarebbe rinnovato nel mondo nei periodi successivi. Il Santo, che benedetto egli sia, vide ciò che non era e lo pose nell'opera della creazione.



(III - 9b - 10a)

Rabbi Yehudà prese a dire: “Dio disse: sia un firmamento in mezzo alle acque, che separi le une dalle altre” (Gen. I, 6). Nello stesso momento in cui il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, egli creò anche sette firmamenti in alto, sette terre in basso, sette mari, sette fiumi, sette giorni, sette settimane, sette anni, sette cicli di settemila anni della durata del mondo. Il Santo, che benedetto egli sia, si trova nel settimo di tutto.

Sette firmamenti sono in alto, ed in ognuno di essi ci sono stelle, costellazioni e pianeti. In ogni firmamento ci sono inoltre degli angeli, gli uni presso gli altri, che accettano su di loro il giogo del regno del loro Signore. Infine, in ogni firmamento ci sono angeli e “divini servitori”, diversi gli uni dagli altri: alcuni hanno sei ali, altri ne hanno quattro; alcuni hanno quattro facce, altri due, altri ancora una; alcuni sono di fuoco fiammeggiante, altri di acqua, altri di spirito, secondo quanto è scritto: “Tu ti servi dei venti come dei tuoi angeli e del fuoco ardente come di tuoi servitori” (Sal. CIV, 4). Tutti i firmamenti, gli uni presso gli altri, sono come le membrane della cipolla, alcuni in basso, alcuni in alto. Ognuno di essi trema per timore del suo Signore, in base alla cui volontà si muove o sta immobile. Al di sopra di tutti i firmamenti c'è il Santo, che benedetto egli sia, che sostiene tutto con la sua forza ed il suo vigore.

In corrispondenza dei firmamenti, ci sono sette terre in basso e tutte sono abitate. Alcune sono in alto ed altre sono in basso: la terra di Israele è più in alto di tutte e Gerusalemme è più in alto di ogni altro centro abitato. I nostri compagni che abitano il sud lessero nel libro degli antenati e nel libro di Adamo, che le terre sono divise in questo modo. Esse si trovano in basso, secondo il modello dei firmamenti che si trovano in alto, le une presso le altre. Tra una terra e l'altra un firmamento fa da separazione, cosicché ognuna di esse può essere contraddistinta con un nome particolare. In ogni terra c’è un giardino dell'Eden ed una Geenna, e vi vivono delle creature differenti le une dalle altre, secondo il modello degli angeli che vivono in alto. Alcune di esse hanno due facce, altre quattro, altre ancora solo una, e l'aspetto delle une è diverso da quello delle altre.

(III - 168b - 169a)

Disse Rabbi Shim'on bar Yochai a colui che lo accompagnava: “Conosci tu una cosa nuova, intorno alla quale mi trovo confuso?” Gli rispose: “Dì pure”. Egli allora disse: “Vorrei conoscere il segreto dell'eco. L'uomo fa udire la propria voce nel campo o in altro luogo ed un'altra voce, sconosciuta, gli torna indietro”. Allora quegli così parlò: “O uomo pio e santo, su tale argomento diverse opinioni sono sorte e varie precisazioni sono state fatte dinanzi al capo dell'assemblea del mondo superiore. Quando il capo dell'assemblea ridiscese, disse: Così è stato risolto l'argomento nell'assemblea celeste e si tratta di un profondo mistero.

Considera dunque. Esistono tre voci, che non scompaiono mai, a parte le voci della Torà e della preghiera, che quando salgono in alto aprono i cieli. Si tratta di altre voci, che non salgono e non scompaiono mai. Esse sono tre. La voce della partoriente nel momento delle doglie, che vaga per l'aria da un'estremità dal mondo all'altra. La voce dell'uomo, nel momento in cui la sua anima esce dal corpo, che vaga per l'aria da un'estremità del mondo all'altra. La voce del serpente quando cambia la pelle, che vaga per l'aria da un'estremità del mondo all'altra. O uomo pio e santo, quanto questo tema è vasto ed importante! Che avviene di tali voci ed in quale luogo esse entrano ed aleggiano? Queste sono voci di dolore: esse vagano da un'estremità del mondo all'altra e penetrano negli anfratti e nelle fessure del terreno, nascondendosi là. Quando un uomo emette la propria voce, a quel suono quelle voci si destano. Solo la voce del serpente non si desta alla voce dell'uomo. E come si desta? Al suono di un colpo. Quando un uomo batte un colpo, a quel suono si ridesta la voce del serpente, che si era nascosta. Quella voce e non un'altra voce, perché ogni voce desta la voce corrispondente, ogni specie la sua specie. Perciò nel giorno solenne del Capo d'Anno il suono del corno desta un altro suono del corno: ogni specie segue la propria specie. La tendenza del serpente è verso il male, per colpire e per uccidere, e la sua voce non si ridesta se non al suono di una voce della sua stessa specie. Perciò quando l'uomo colpisce la terra con il bastone, richiama la sua specie e ridesta la voce del serpente, che risponde alla propria specie. E questo è un mistero profondo.

(I - 208a - 208b)

“Giuseppe non poté più resistere dinanzi a tutti i presenti ed esclamò: Fate uscir tutti. E nessuno rimase con lui quando si fece conoscere ai suoi fratelli” (Gen. XLV, 1). Rabbi Chiyà prese a dire: “Dà in abbondanza ai poveri, la sua giustizia dura in eterno, la sua gloria si innalza con onore” (Sal. CXII, 9). Considera dunque. Il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo e lo pose sotto il dominio dell'uomo, di modo che egli fosse il re di tutto. Dell'uomo esistono nel mondo tipi differenti: ci sono i giusti ed i malvagi, gli stolti ed i sapienti, i ricchi ed i poveri. E tutti esistono nel mondo. Ciò affinché gli uni traggano benefici dagli altri: i malvagi dai giusti, gli stolti dai sapienti ed i poveri dai ricchi. Perché l'uomo si merita la vita eterna ed è legato all'albero della vita soltanto attraverso la giustiziache esercita e che dura in eterno, come è scritto: “la sua giustizia dura in eterno”.

“Dà in abbondanza ai poveri”. Rabbi El'azar disse: Quando il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, lo fissò su una sola colonna, il cui nome è “il giusto”. Il giusto è infatti il fondamento del mondo: egli abbevera ed alimenta tutto, come è scritto: “dall'Eden usciva un fiume che bagnava il giardino e di là si divideva e formava quattro capi”(Gen. II, 10).

“E di là si divideva”. Che significa “si divideva”? Invero l'alimento e le acque di quel fiume sono dapprima assorbite completamente dal giardino, e successivamente sono divise e diffuse ai quattro angoli della terra. E molti sono coloro che anelano ad abbeverarsi e ad alimentarsi di là, come è detto: “Gli occhi di tutti sono rivolti con fiducia a te e tu dai loro il loro pane a suo tempo” (Sal. CXLV, 15). Perciò l'espressione “dà in abbondanza ai poveri”si riferisce al giusto. L'espressione “la sua giustizia dura in eterno” si riferisce alla comunità di Israele, che per mezzo di essa si mantiene nel mistero della pace, in una durata perfetta. L'espressione “il malvagio vede e si adira” (Sal. CXII, 10) si riferisce al resto degli idolatri. Considera dunque. Il regno dei cieli è il Tempio di Gerusalemme, che mantiene tutti i poveri sotto l'ombra della divina presenza (Shekhinà), ed il giusto si chiama tesoriere della carità,facendo egli del bene ed alimentando tutti, secondo quanto è scritto: “Egli dà in abbondanza ai poveri”. Perciò i tesorieri della carità ricevono il premio per tutti, perché essi fanno la carità.

“E nessuno rimase con lui quando si fece conoscere dai suoi fratelli”. L'espressione “con lui” si riferisce alla comunità di Israele. “I suoi fratelli” sono gli angeli e le altre schiere celesti, a proposito delle quali è scritto: “Per il bene dei miei fratelli e dei miei amici, pregherò che la pace regni in te” (Sal. CXXII, 8).


(I - 75a - 75b)

“E nel sabato e nel capomese verrà aperta”, perché allora ci si serve della cosa sacra in un giorno sacro. Quello è il momento adatto, in cui la luna si unisce al sole. Considera dunque. Questa porta non viene aperta in quei sei giorni feriali, perché essi sono i sei giorni profani che dominano sul mondo e lo alimentano, con la sola eccezione della terra di Israele. Ed essi dominano, perché questa porta rimane chiusa. Però “nel sabato e nel capomese” essi vengono eliminati e non dominano più, perché questa porta è aperta ed il mondo nella gioia, di là trae alimento, senza essere posto sotto il dominio del male. Ma come puoi dire che in quei sei giorni le forze profane dominano da sole? Considera dunque. L'espressione “che volge a oriente” significa che prima che tali forze sorgano a dominare, Dio guarda sempre al mondo. Tuttavia la porta, dalla quale il mondo si alimenta del sacro, non viene aperta se non nel giorno del Sabato e del capomese. Tutti gli altri giorni dipendono dal Sabato e da esso traggono alimento, perché nel giorno del Sabato tutte le porte sono aperte e si realizza il riposo per tutti, per i mondi superiori e per quelli inferiori.



(III - 159a)

Il Santo, che benedetto egli sia, possiede tre mondi, nei quali egli si trova nascosto. Il primo, e più segreto di tutti, è il mondo superiore, che non può essere visto e conosciuto se non da lui, che è nascosto in esso. Il secondo è collegato con il mondo superiore, ed attraverso di esso il Santo, che benedetto egli sia, si fa conoscere, secondo quanto è scritto: “Apritemi le porte della giustizia... Questa è la porta del Signore” (Sal. CXVIII, 19-20). Questo è il secondo mondo. Il terzo si trova al di sotto dei primi due mondi ed in esso è la separazione. Questo è il mondo, dove si trovano gli angeli superiori; però il Santo, che benedetto egli sia, vi si trova e non vi si trova. Potrebbe esserci adesso, ma quando si provasse a scrutare per conoscerlo, si allontanerebbe e non si lascerebbe vedere, sicché tutti chiedono: “Dov'è il luogo della sua gloria?”: “Benedetta la gloria del Signore da ogni luogo” (Ez. III, 12). Questo è il mondo, dove Dio non si trova sempre.



(II - 148b - 149a)

E scritto: “Dio disse: Sia la luce. E luce fu” (Gen. I, 3). Disse Rabbi Yosè: Quella luce fu nascosta e messa da parte per i giusti nel mondo futuro, secondo quanto è scritto: “La luce è stata seminata per il giusto” (Sal. XCVII, 11), per ogni giusto. Quella luce non fu utilizzata nel mondo altro che nel primo giorno della creazione, dopo di che fu nascosta e non venne più utilizzata.

Rabbi Yehudà disse: Se quella luce fosse stata nascosta del tutto, il mondo non avrebbe potuto sopravvivere per un solo momento. Ma fu nascosta e “seminata” come il seme che produce germogli e frutta, ed attraverso di essa il mondo si mantiene. E non c'è giorno in cui questa luce non si irradi nel mondo, facendolo esistere. Il Santo, che benedetto egli sia, attraverso di essa alimenta il mondo. In ogni luogo in cui c'è gente che si affatica nello studio della Torà, avviene che di notte un sottile raggio esce da quella luce nascosta e giunge fino a coloro che si affaticano sulla Torà, secondo quanto è scritto: “Tutti i giorni il Signore mi manda la sua bontà e tutte le notti il canto in suo onore è presso di me”(Sal. XLII, 9). Lo abbiamo già spiegato. Il giorno in cui fu eretto il Tabernacolo in basso, cosa accadde? “Mosè non poté penetrare nella tenda della radunanza, perché la nube posava su di essa” (Es. L, 35). Cos'era la “nube”? Era un raggio che usciva da quella luce originale per la gioia della sposa che era entrata nel Tabernacolo in basso. Da quel giorno non si e più rivelata, ma continua ad esercitare la sua influenza sul mondo, rinnovando ogni giorno l'opera della creazione.

(I - 207a)

E scritto: “Con la sapienza il Signore fondò la terra” (Prov. III, 19). Il mondo superiore non fu creato altro che dalla sapienza. Anche il mondo inferiore non fu creato se non dalla sapienza. Ed ambedue tali mondi sono scaturiti dalla sapienza superiore e dalla sapienza inferiore. “Con l'intelligenza egli consolida i cieli” (Prov. III, 19). Che significa l'espressione “consolida?” Egli consolida i cieli giorno per giorno, senza interruzione; non li ha infatti stabiliti in un solo periodo ma giorno per giorno li viene stabilendo. E questo è il mistero, che sta dietro al verso: “I cieli stessi non sono meritevoli ai suoi occhi” (Giobbe XV, 15).Ti può mai venire in mente che nei cieli vi sia una manchevolezza? Ma così si deve intendere. L'importanza dei cieli consiste nell'apprezzamento e nel grande amore che il Santo, che benedetto egli sia, ha per loro, che gli sono assai cari. Perciò non sembra ai suoi occhi che essi siano stabiliti come si conviene, nonostante che egli li venga stabilendo giorno per giorno. Dio infatti per l'amore che ha per loro desidera illuminarli in perpetuo, senza interruzione. E il mondo futuro emana ogni giorno delle luci splendenti, senza interruzione, perché essi siano sempre illuminati. Perciò è detto: “i cieli non sono meritevoli ai suoi occhi”. Non è infatti scritto soltanto “i cieli non sono meritevoli”, ma è aggiunta la precisazione “ai suoi occhi”. Quindi si comprende il verso: “Con l'intelligenza egli consolida i cieli”.

La musica e la morte
Commento a Blok (Seconda parte)
di Vladimir Zelinskij



V

Cosa sappiamo noi, oggi, della teologia della lingua? Pur professando la fede nel Verbo di Dio, accogliamo il discorso nostro quotidiano con indifferenza, come uno scambio di segni convenzionali. Abbiamo soggiogato la lingua alla vanità e alla schiavitù, ne abbiamo fatto espressione del nostro umano, terreno patire e affannarci. “Ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l'uomo” (Mt. 15, 18). Il mondo è profanato innanzitutto dal discorso umano, quando è usato per l'inganno, l'appropriazione, l'asservimento e la discordia. Il pathos dell'omicidio s'incarna nel discorso menzognero e promette una libertà inaudita e una straordinaria fioritura della personalità. Ciò che esce dalla nostra bocca ci impone l'ubbidienza al mondo, ci attira verso il “basso”, verso un ottenebramento e una chiusura dell'essere che non sono percepiti dal nostro sguardo comune. La lingua, nella quale usiamo esprimerci, è ferita dal peccato originale nella stessa misura della ragione con la quale pensiamo, della società in cui viviamo. Non abbiamo ragione di ricercare definizioni, sociali o altro, del volgo, giacché noi stessi esistiamo in un mondo involgarito dal peccato, giacché scriviamo e parliamo volgarmente, con parole torbide, snervate, e giacché il nostro discorso volgare è usualmente per noi l'unico, naturale.

Nel suo discorso su Puskin, Blok chiama volgo anche “chi non desidera capire, pur dovendo molto capire, giacché anch'egli serve la cultura (...)”. La serve, ma non necessariamente nelle vesti di censore bensì, spesso, anche in quelle di poeta. Poiché nel mondo, dove il poeta cerca a volte salvezza nella pazzia, gli uomini ragionevoli producono intanto una poesia volgare, facile intruglio di emozioni ritmiche, ritmologia pseudopopolare da ceto impiegatizio, bizzarro discorso-gassosa filtrato attraverso milioni di occhi e di anime, sorta di spumante sciropposo apprestato dal decotto scipito della nostra vita confusa, e che dalla poesia nel significato blokiano dista ben più dello sport e dell'industria cinematografica.

Tuttavia è vano supporre che la poesia nobile sia alcunché di sublime che sovrasta da lontano la vita, che sia solo rarità, se non lusso vero e proprio per il nostro dispendio spirituale, che sia un valore culturale prezioso cui siamo pronti ad accordare l'attenzione che le autorità civiche tributano ai bronzei classici ufficiali recando loro fiori regolamentari a nome di una simbolica massa di lettori...

Cos'è dunque il “volgo”? Noi tutti, che parliamo volgarmente. E la poesia? Purificazione della parola in nome della verità che essa nasconde e che per essa è stata creata. Ma non diventiamo forse tutti poeti, quando ci addentriamo nella poesia e ci apparentiamo con la verità che la poesia porta alla luce?

(1). I “suoni ricondotti all'armonia” sono la poesia. Questa poi ci porta il singolare annuncio, che “il mondo è incantato e l'uomo libero” (2) che “il mondo è segretamente meraviglioso” (3). Il mondo si espande in armonia, e noi conosceremo in esso quella verità, che ci incorpora totalmente, per amor della quale ci siamo spinti in noi stessi, superando vecchiume e sc<> ne. In un libro ho avuto la ventura di trovare una riflessione sul paradiso che l'autore, senza tanto pensarci, attribuisce anche alla poesia. Vorrei riportarla qui:

“Ciò che, per quanto poco, si è impadronito seriamente della nostra anima non è che un barlume, una promessa inesaudita, un'eco inafferrabile. Ma se questa eco coagulasse in suono, voi la riconoscereste immediatamente e direste con ferma convinzione: "Sì, proprio per questo sono stato creato". A nessuno possiamo parlarne. E l'arcano suggello di ogni anima, del quale non si può raccontare, anche se vi abbiamo aspirato ancora prima di trovarci la moglie, l'amico, un'occupazione, e vi aspireremo nell'ora della morte, quando ormai per noi non ci saranno più né occupazione né amico né moglie. Finché ci siamo, c'è anche questo. Se lo perderemo, avremo perso tutto” (4).

La poesia è vendica, perché mette a nudo la verità riposta e la bellezza segreta. Poesia e verità sono congiunte dalla musica e sono ontologicamente un'unica cosa. Pavel Florenskij era nel giusto quando sottolineava che la creazione del poeta partecipa di una certa realtà spirituale; non è pienamente nel giusto, forse, quando divide tutta la realtà esclusivamente in realtà sofianica e realtà demoniaca. Uno spiritualismo tanto categorico e senza compromessi può talvolta essere troppo rigido per questo mondo, dato che ritiene autentico solo ciò che si trova al di là della percezione nostra corporale. E se il visibile non è che “riflesso di ciò che è invisibile all'occhio” (5), se ogni “qui e ora” è fortuito, sospetto, transeunte, il poeta non è allora, nel migliore dei casi, che un visionario privo di precise coordinate mistiche, che a mala pena sfiora con il suo “sesto senso” ciò che richiede invece un occhio fermo, esercitato. Ma il rendere alle cose il loro autentico nome - renderne la verità - non merita forse una benedizione?

Scopo della poesia non è solo d'esprimere l'invisibile nel quotidiano, bensì di rivestire il visibile della luce dell'invisibile, di rendere la risonanza a ciò che abbiamo disimparato a percepire col nostro morto orecchio. Far sì che le cose permangano nella forma che avevano uscendo dalle mani del Creatore. La definizione di fede che Paolo dà nell'Epistola agli ebrei paradossalmente può essere applicata anche alla poesia. “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono.” (Eb. 11, 1). La sostanza della definizione è che l'“invisibile” è da noi atteso e presagito, che l'anima nostra anela all'invisibile, che è ammaliata dalla nostalgia per esso e lo scorge con sicurezza nella speranza. Le “cose”, il mondo nel suo insieme, il creato e l'esistente, autentico e originario, si fanno d'un tratto visibili. Non si tratta di un platonico mondo delle “idee” che la nostra anima deve concepire o “ricordare”, si tratta invece del mondo che la circonda, invisibile e visibile, per questa espressamente creato e che questa attende, ma celato in una percezione consueta, non epurata.

In poesia la parola sembra a volte strapparsi inopinatamente qualcosa, diventare d'un tratto spoglia, e ogni tanto giungiamo a cogliervi un certo “strano movimento illustrativo, sempre lo stesso guizzante ardere di vesti (...)” (6). Così, sembra che un raggio di luce strappi alle tenebre qualcosa che sta in agguato, e ci chiama, e nel cielo stellato, o nel “granello di polvere di terre lontane” (7) appariranno d'un tratto l'armonia e la creaturalità, e forse un pizzico di benedizione si verserà dall'umana parola...

Noi uomini esistiamo perché possediamo la parola. Ma solo la poesia può ricondurci alla sua autenticità, può purificarla dalla mancanza di forma, dalla torbidezza. Essa ci riconduce a quella verità che portiamo nella memoria e nel cuore, la verità della lingua. Quando la poesia scompare (e questo avviene, secondo un'osservazione di Mandel'stam, solo nei periodi di idiozia sociale), con quanta rapidità sbiadisce la lingua e ingrigiscono le cose che essa nomina. Ricordiamoci che Puskin e Blok, Tolstoj e Gogol' restarono per tanta gente l'ultimo focolare, mai estinto: della favella russa, che non lasciarono raggelare quand'essa già pareva non echeggiare più un discorso umano.

La lingua non è solamente “la patria viva e trepida dentro di noi” (come mi è capitato di leggere non so dove), ma, ancora è la realtà particolare della nostra esistenza, la sua recondita musicalità. Il dono della poesia non fa semplicemente affiorare questa musicalità della lingua, ma ci unisce alla fonte stessa della musica, al Verbo. Poiché il Verbo, per la cui forza si regge il mondo, è fonte della luce. Esso è la scaturigine attraverso la quale tutto il creato giunge all'essere e all'armonia. “Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, (...) di tutto ciò che esiste” (Gv. 1, 3).

Il poeta ci incorpora, nella parola, a ciò che è stato elargito dall'essere. Mentre s'affatica sull'armonia, egli opera per la purificazione del mondo creato. Egli cerca di ricondurre al Padre il creato, spoglio e sonoro, “segretamente meraviglioso”. Questo segreto egli è chiamato a manifestare in tutta la sua musicalità, in tutta la sua autentica verità. Proprio in questo denudarsi dell'essere, in questa fioritura dell'essere, invisibili ancora sotto la fuliggine del peccato, si svela un aspetto della vocazione cristiana dell'uomo. Questa vocazione, però, non si scinde in singoli aspetti, ma è integrale. La santità, nelle sue vette, si cobra di poesia e la poesia, compiuta in sé l'opera di purificazione interiore, trova nella Chiesa la via che conduce all'azione sacra. Ma ciò che la Chiesa vede con sguardo chiaro e veggente, la poesia arriva a presagirlo solo come il sogno

“(...) vivo e fugace,
che la felicità giungerà inattesa
e sarà finalmente perfetta”.

Ma il poeta è affascinato dai propri sogni, si lascia coinvolgere nei loro riflessi e reciproci giochi. In un mondo di disarmonia e pesantezza egli si sottomette all'ineluttabile forza d'attrazione del dono elargitogli. Ma quanto più grande è il dono, tanto più stretto è il legame con il mistero che ne sgorga e vi si rivela. Quanto più grande è il dono, tanto più si spalanca e si volge all'esterno, verso le cose, verso i fratelli. Donde si origina poi la resistenza che afferra l'artista, la tensione tra l'umana grevità del dono e la sua divina levità, la scissione tra “l'opera del Signore” (8) e l'accaparramento umano. Il poeta si preoccupa di preservare dalla plebe il proprio mistero, vuole fuggire con questo verso il mare e nel bosco, dove si “sciolgono i veli” e dove diventa alfine intelligibile il linguaggio delle forze naturali; ma una volta solo di fronte a queste forze il poeta si rivela inerme davanti a esse. Forze micidiali e selvagge si scagliano contro il suo luminoso mistero, tentando d'impadronirsene. A ogni passo ci ricopre l'ombra “del ricordo mortale”, della “creatura gemente”, della croce che è nel destino di tutto ciò che vive. In ogni cosa e in ogni luogo ombra e luce si cimentano nella loro interminabile contesa. Destino del cristiano è questa lite tra due visioni, due intuizioni, due verità. E questo contrasto si scolpisce con particolare forza nella parola e nel mistero che essa esterna. La musica della benedizione che si estende a tutto il creato e a tutto ciò che esiste si scontra qui con le “selvagge passioni” e lo “splendore del non essere”, (10) con l'attrazione notturna della morte e l'obbedienza al suo angelo. In una poesia così strettamente legata alla profondità dell'esperienza cristiana, ancorché non rasserenata, com'è la poesia blokiana, questo contrasto trova una nuova soluzione e un nuovo collocamento nell'armonia.

Comprendere e dar senso a questo contrasto si può solamente ponendosi - in comunione e sacrilegamente - nel cuore stesso del dissidio, cioè nella disputa su Cristo. Cristo come sorgente d'armonia è a un tempo musica e tormento della poesia blokiana.

“Folle, inebriante galoppo imbrigliato!” scrisse nel 1904 a E. P. Ivanov. “Ma le briglie erano lente, come si vedrà ancora. Dunque vien voglia di andare a briglia sciolta e darsi al bere. Dite che in un momento qualsiasi potrebbe sorgermi innanzi il Galileo, benissimo! Solo, per amor di Dio, non ora!

“Solo nella quiete vedremo l'Alba. Noi invece siamo in rivolta, siamo imbrattati di sangue. Io sono sporco di sangue. Soprattutto la scissione. Giacché io "a volte" mi tormento anche per Cristo. Ma lasciamo tutto questo a domani.”

E all'indomani, attraverso anni di “scissioni”, ecco I dodici:

VI

“(...) perché Cristo? Ma più scrutavo, più chiaramente scorgevo Cristo. E allora annotai: purtroppo è Cristo”, dice Cukovskij.

“L’emozione dionisiaca ha tratto a riva dal suo abisso un sacro nome inatteso, forse, allo stesso poeta” (12).

“Qualunque sia stata la logica del progetto blokiano, qualunque siano state le analogie storiche di cui il poeta abbia caricato il "suo Cristo", non si può non riconoscere che l'immagine del salvatore e redentore, per secoli strumento d'ipocrisia e inganno nelle mani del pretame, introduce una certa dissonanza nella musica fiammeggiante del poema. Il lettore di I dodici ha ben diritto di condividere l'iniziale sincero dubbio dell'autore stesso: "Perché Cristo?"” (13).

“Anche adesso egli ha veduto qualcuno, però, naturalmente, non Colui che egli nomina, ma una scimmiottatura, un impostore che si sforza d'assomigliare in tutto all'originale e si distingue per un unica lettera del nome (14), così come alla bella di Gogol' non è rimasta internamente che un'unica macchia oscura. E notate che l'apparizione del "Cristo di neve" non allieta ma spaventa.”(15). “Questo Gesù Cristo appare come scioglimento di un'orribile paura (...)” (16) .

“Non piace nemmeno a me il finale di I dodici. Avrei voluto che questo finale fosse diverso. Quando arrivai in fondo io stesso mi meravigliai: perché Cristo? (...)”, dice C'ukovskij.

Chi potrà rispondere alla perplessità che prende lo stesso autore? A chi, in fin dei conti, spetta l'ultima parola? Agli studiosi di letteratura? ai teologi? alla rivoluzione russa, cioè a quella stessa forza della natura cui Blok si consegnò ciecamente (sono parole sue) nel gennaio del 1918? Tutta la poesia blokiana è solcata dal tema di Cristo: l'ultima strofa di I dodici non fa che raccogliere in unità una moltitudine di motivi sparsi. Il Cristo di I dodici rappresenta lo scioglimento, la nuova riproposizione del sordo contrasto musicale latente che, se volessimo svolgerlo e identificano in persone, vede l'ateo combattere contro l'asceta, ma il ribelle non ha la forza di sconfiggere in sé il mistico. Musica e morte si contendono l'un l'altra la verità su Cristo. Ed era Blok per primo a tormentarsi moltissimo per questa inarticolata equivocità.

Certamente, mai Blok avrebbe potuto riferire a sé quanto aveva detto un giorno Dostoevskij, e cioè che avrebbe preferito rimanere con Cristo al di fuori della verità, piuttosto che con la verità al di fuori di Cristo. Cristo non era per Blok che un frammento di quella “leggenda canora”, di quella “lirica grandezza” che era per lui la Russia. Cristo non era che un frammento di quella verità che prendeva in lui il nome così vago di “musica”. Il poeta, nonostante sia anche “di parole sacrileghe creatore”, percepisce questi nomi come qualcosa di inscindibile. Leggendo attentamente alcune sue poesie, tentiamo di cogliere cosa esattamente stia al cuore della sua creazione:

la musica, la Russia, Cristo, oppure tutti questi temi che in lui si fondono in un tutto unico:

“Fitte erte boscose,
Là un tempo, nell'alto
Si tagliarono gli avi ceppi ardenti
E cantarono il loro Cristo.

Ora la pastorale sferza più non colpisce
E più non suona canti la siringa,
Solo l'umido muschio pende dalle balze
Come il logoro capecchio delle streghe.

Per l'eternità, come in un torpore profondo,
Si son abbassate le ciglia del muschio
E dormono, cullate dal torpore
Della quiete, nemica delle genti.

E dall'uomo il mesto airone
Non è più atterrito sulle paludose balze.
Ma in ogni quieta e rugginosa goccia
Prendono forma fiumi, laghi e paludi.

E le rugginose e silvestri gocce,
Nascendo in arcane scurità,
Portano alla Russia impaurita
La nuova del Cristo fiammeggiante”.

La poesia, come spesso succede in Blok, inizialmente pare avviluppata e chiusa nel tessuto sonoro: per riuscire a entrarvi occorre rimuovere la sua cortina musicale. La struttura del verso immediatamente cattura certi ritmi e certe espressioni dentro di noi, cosicché finiamo inavvertitamente per trovarci avvinti dai suoi vincoli canori. Restiamo come impigliati in quell'imponderabile materia semitrasparente di cui la poesia si fa un sipario. Sul sipario è raffigurato un bosco alla Vasnecov (17) appena stilizzato, oltre il quale si spiega l'azione visibile della poesia, il suo “soggetto”. Questo si schiude come la reminiscenza musicale dei raskol'niki (18) russi. Con la Rus' dei vecchi credenti Blok entrava in contatto, probabilmente, soprattutto attraverso l'arte. Tre anni prima di scrivere questa poesia, aveva veduto la Chovans?ina, l'opera di Musorgskij, che nel finale vede i vecchi credenti bruciarsi in massa perché braccati fin nel cuore della foresta dalle truppe zariste. Questo “Cristo fiammeggiante” egli poté sentirlo anche nella stessa musica dell'opera. Scrisse allora alla madre:

“La Chovans'cina non è ancora geniale (ossia non è ancora soffio dello Spirito Santo), come non è ancora geniale la Russia tutta, nella quale appena si prepara il futuro. Pure essa sta al centro stesso, nel punto preciso in cui balena il soffio dello spirito (...)”.

Il “soffio dello spirito” è percepito dal poeta attraverso “onde sonore”. E Blok si sforza d'indovinarne la fonte. Al di là della musica dell'opera, al di là del respiro della Russia, va maturando un futuro geniale: armonia incarnata. Mentre aspira a trovare una denominazione puntuale e arcana della sua sostanza: armonia, genialità e Russia, a Blok torna alla memoria una delle ipostasi della Trinità. Là dove balena il soffio dello spirito, ritrova anche il “Cristo fiammeggiante” purificatore...

La scena “aperta” della poesia ci presenta la Rus' scismatica. Essa viene rimossa nella profondità del tempo e dello spazio, là dove ciò che è stato è stato, in un angolo pigro e remoto. Il percorso musicale che vi conduce ha inizio ancor prima, quasi affonda nell'antichità epica. Al Cristo scismatico, al Cristo ribelle dell'ultima strofa ci riporta il canto degli avi, da tempo ammutolito. Ma il suo silenzio serba ancora in sé luce e quiete. I primi versi della poesia ci riconducono un canto, iniziatosi un giorno e perduto chissà dove, ci uniscono allo spirito, luminoso e recondito, della musica. A far di Blok un grande poeta è questa capacità di percepire l'essenza musicale del mondo, di coglierne l'autentico suono, che il tempo non spegne, “nell'anima o fuori: questo Blok non lo seppe mai” (19) .

Un tempo questa musica era veramente risuonata nella Rus'. Forse era essa stessa la Rus'. E raccolse i propri fedeli, coloro che la udivano, chiunque sapesse percepirne col cuore il misterioso, imperativo richiamo. Ma anche allora il mondo non era sufficientemente musicale, e già, sembra, gli agglomerati umani nelle città del XIV-XV secolo e anche prima, spegnevano nei cuori i segni celesti della musica. Coloro che venivano attratti dal richiamo lasciavano le città per romitaggi impervi dove potersi applicare alla preghiera e vivere dell'opera spirituale, sottomettendosi alla musica. Solo preghiera e musica li univano, non sapevano nulla l'uno dell'altro. Ma le voci del loro solitario ascetismo attraevano altri; nasceva così la comunità, così sorgevano la regola, il monastero; poi, a coronamento del tema musicale, si ergeva tra i boschi la cupola di un piccolo tempio fatto di tronchi dove, probabilmente, aleggiava a lungo il buon odore della resina e del legno tagliato di fresco. Là i monaci ponevano l'altare, e lo consacravano nel nome della Trinità Santa e Vivificante

e cantavano il loro Cristo.

Magari tutto ciò non è penetrato nei versi, ed è rimasto un enigma, ma questo antico canto era intelligibile anche all'anima blokiana, recatole dal fluire di quelle preghiere, dalla schiera di quei santi che si innalzano sopra la Rus', e per sempre partecipa - “là, un tempo, nell'alto” - della memoria del poeta, memoria musicale ed ecclesiale.

Ora però queste lontananze sono impenetrabilmente serrate; in primo piano stanno umidi muschi stregati, un cattivo abbandono, la reticenza penosa del nord russo. La “squallida Rus' finnica”, come la chiamava Blok, e attorno: prostrazione e condanna. E pure quella musica non è morta, ma dorme. La terra tutta ne è impregnata. Riempie le paludi, cola goccia a goccia dal fitto del bosco. La Rus' palustre è gravida di un'ardente tempesta. Quando si scatenerà, essa porterà il nome di Cristo.

Il tema dell'autunno e delle paludi s'insinua nella poesia blokiana e poi d'improvviso vi dilaga. La lugubre quiete delle paludi e degli autunni ha un duplice significato per il poeta:

“Orgia scatenata e crocefissione”, come dice Fedotov. Dall'autunno, dall'orgia, dalla crocifissione e dalle paludi sorge la Pietroburgo blokiana, “la città più terribile e regale del mondo”, (20) cresciuta sulle paludi, piena di oscure visioni, la Pietroburgo delle sconosciute, dei tuguri, delle bettole, gonfia di rivoluzione e di I dodici... Ma stagni e autunno dominano anche fuori città. I ceppi per il fuoco sono da tempo arsi, il canto degli avi non giunge da nessun luogo. “L'unico nemico comune a tutti noi” scrive Blok alla madre nel 1909, “è il sistema statale russo, il sistema ecclesiastico, le bettole, il fisco e i burocrati (...)” La storia è andata in cenere, la musica si è inaridita in essa. “I contadini, cantando, portano la sifilide da Mosca e la diffondono per tutti i villaggi. Il mercante cui avevano falciato il prato si è dato al bere, e con occhi ebbri ha appiccato il fuoco al fienile nel suo podere. Il diacono ha messo al mondo figli illegittimi. A Fedot è crollato il tetto dell'isba, ma Fedot non lo raccomoda. Da noi i vecchi han preso a morire, e i giovani a divenir vecchi. Il mio vecchio zio si è messo a proferir sciocchezze, come ancora non aveva mai fatto. E anch'io il mattino dopo sono andato ad abbattere un vecchio lillà.” (21).

Oggi, chi scruta la rivoluzione russa cercando di penetrarne il senso deve decifrarla anche nell'anima di Blok. “La rivoluzione è accaduta perché Blok potesse scrivere I dodici”, scrisse un poeta, I. Sel'vinskij, ironizzando su se stesso. Ma questa assurdità può diventar vera se sommata a un'altra: la rivoluzione accadde perché già il ritmo e l'orgia di I dodici si erano accumulati nel cuore di Blok. “Con tutto il corpo, con tutto il cuore, con tutta la coscienza, ascoltate la Rivoluzione” (22) esortava poco prima di scrivere I dodici, sentendo che in essa si univano un'intima musica e l'inebriante passione di morte... “Era un lillà centenario”, prosegue Blok, “i grappoli di fiori radi e azzurrognoli, ma il fusto così grosso da resistere all'ascia. Lo demolii tutto, dietro c'era un boschetto di betulle. Abbattei anche il boschetto; dietro a questo c'era un dirupo. Dal dirupo non scorgevo più nulla, tranne la mia propria casa sopra la testa: ora è là, inerme a tutti i venti e alle tempeste. Scavando sotto crollerebbe coprendomi per sempre.” (23).

Dalla sua proprietà Blok segue lo sfacelo avanzante e vuole aderirvi. Come suscitare la tempesta purificatrice: a colpi d'ascia, con uno scongiuro musicale, con un fischiettio ebbro e autunnale? Blok andrà dove lo trarranno le forze della natura, dove lo convocherà il suo “Cristo fiammeggiante” al quale, pur con tutti i suoi “sdoppiamenti”, egli resterà sempre fedele. “La religione è una cosa sporca (preti ecc.)”, annota dopo aver scritto I dodici. “Il pensiero tremendo di questi giorni è che il problema non sta nel fatto che i soldati dell'armata rossa siano "indegni" del Gesù che oggi a loro si accompagna; ma piuttosto nel fatto che sia proprio Lui ad accompagnarli, mentre dovrebbe essere un Altro.” (24).

Commento di Orlov, uno studioso di Blok: “Un "Altro" che sia più degno di condurre il popolo verso il futuro (...)” (25).Commento di Dolgopolov, altro studioso di Blok: “Le forze della natura esigevano da Blok una incondizionata sottomissione, poiché, chiunque esse fossero, era dalle loro mani che usciva la storia. Blok vi si sottomise. E fu la sottomissione alla necessità storica, alla storia stessa (…)” (26).

Commento di Lunac'arskij:

Così vanno con passo sovrano,
E a distanza segui tu, poeta,
Dietro ad un vessillo come il sangue rosso,
Intonando le strofe che son loro.
Conquistare ti sei lasciato infine
Dalla romanza tragica e crudele.
Ma di vittoria tu non hai speranza,
Giacché non è cosa per te, il socialismo.

E infine lo stesso Blok:

“Voi non fate che ascoltare”, dice il poeta. “Vagar per le strade, catturare frammenti di parole ignote. E poi venir qua a raccontar l'anima propria a un prestanome.
“Il cameriere:
“E' poco chiaro, ma molto raffinato (...) (Si stacca dal tavolo e accorre alla chiamata di un avventore. Il poeta scrive su un taccuino)” (28).

VII

Quel Cristo che balena nella tormenta di I dodici Blok lo aveva forse percepito anche nel canto degli avi? Davvero il Cristo dell'“angolo in alto”, sopra “l'uccisione di Kat'ka”, come scrisse Blok al pittore Annekov, che stava preparando la copertina per la prima edizione del poema, e il Cristo che si rispecchia nel centro del mistero musicale di Blok sono inscindibili l'uno dall'altro? E in questo caso concorderemo con quei critici di regime che sono disposti a sopportare Cristo solo come ambigua e oscura metafora della grandezza della rivoluzione, che ha riconosciuto la propria necessità storica? Oppure ci allineeremo al punto di vista più liberale, “estetico”, che vede nell'“immagine di Cristo” soltanto una tra le migliaia e migliaia di melodie che sono create dall'arte universale, che sono rese irripetibili proprio in Blok, ma che non sono senso, non Nome né Realtà? Oppure ancora decideremo di far corrispondere quella melodia, quella immagine che è nell'anima dell'artista con l'Originale della fede?

Berdjaev aveva detto: nello stesso momento vissero in Russia il grandissimo santo Serafim di Sarov e il grandissimo poeta Aleksandr Puskin, che neppure seppero mai l'uno dell'altro. Ma nel fare l'esempio della dolorosa, irriconciliabile spaccatura tra due cammini, quello della salvezza e quello della creazione, che, a suo avviso, invece, dovrebbero necessariamente incrociarsi e fondersi, Berdjaev stesso non sospettava nemmeno che avrebbe potuto prendere ad esempio due suoi contemporanei. Più o meno nello stesso periodo infatti, e non lontano l'uno dall'altro, vissero padre Ioann di Kronštadt, che aveva il dono del la chiaroveggenza e una parola dotata di potere taumaturgico, e Aleksandr Blok, poeta-medium, che attingeva allo spirito della storia, al suo ritmo. Da qualche parte, probabilmente, nella farragine dei giornali (incominciava allora l'epoca dello strapotere delle comunicazioni) erano balenati i loro nomi, ma alle loro reciproche orecchie non era giunto che il chiasso, molesto e ozioso, e i nomi erano spariti in modo ancor più amaro e irreparabile. Tra l'altro erano entrambi dei mistici, dei chiaroveggenti, e l'asprezza della loro separazione, la loro profonda dissomiglianza può essere semplicemente sfumata dal fatto che entrambi - il santo e il poeta - videro Cristo nel proprio servire, e di Lui scrissero. Ma, naturalmente, nulla potevano avere in comune La mia vita in Cristo (29) e il “Cristo fiammeggiante in una bianca ghirlanda”. Così come niente in comune avevano il Cristo della salvezza e della preghiera interiore e il Cristo della tempesta e dell'Apocalisse, appartenenti a due mondi poetici e confessionali ormai da tempo distaccati, quello della liturgia e quello della lirica.

Le loro vie divergevano largamente, e ormai se ne sono perse le tracce. Ma proprio in Blok, come alla vigilia d'una lunga notte, guizzò un certo barlume della cultura ortodossa, si mostrò per un baleno a segno del suo estremo saluto. Poiché la tragedia del rinnegamento e dell'orgia, la tragedia del cader prigionieri delle forze naturali e della “tatara libertà”, tragedia da lui portata, in lui maturata e quindi riversata in fragilissimi vasi lirici, fu comunque vissuta “presso le mura della chiesa”. Quei campi e quelle colline che nella sua giovinezza lo videro vagare dietro alle sue visioni si apparentarono musicalmente con le chiese che vi erano disseminate (e che ancora vivevano allora), e l'eco delle preghiere e dei sacramenti si fuse nelle sue poesie con altre voci. Il Blok paladino, bestemmiatore, ossesso, Mozart, il Blok che, con l'universale umanità di un Puškin, sa essere romantico tedesco, “cavaliere povero” della Bellissima Dama, e Cavaliere sofferente della Bretagna medievale, il Blok dal “volto di un fiorentino del Rinascimento”, come dice Gor'kij, restò comunque sempre il “figliol prodigo” della sua Chiesa, ed è impossibile comprenderlo a partire da un supposto “isolamento” storico o lirico rinchiuso in se stesso. In lui è la rottura, il crollo, l'insuccesso, e pure in lui è anche una sorta di promessa. E il grande poeta di una terra nella quale, a essere sinceri, ben pochi successi hanno avuto la civiltà umana e la morale universale, ma dove pure, tra le tenebre, la rivolta e la barbarie, germogliano per un ignoto miracolo i radiosi colossi della santità, esseri della stessa stirpe della Madre di Dio, e dove, sempre, i figli di bravi sacerdoti finiscono tra i nichilisti e i dinamitardi, e i figli di madri devote diventano saccheggiatori di chiese; ma persino questo animale singhiozzante, che “insaliva i tagliandi” sotto le immagini può conservare in sé, come forza inebriante, il volto di quell'unica Russia, “blokiana”, che è “fra tutte le contrade per me la più cara” (30).

Qualcuno ha detto che solamente questa Russia gli fu cara. Poiché la Russia del parlamento, dell'ordine borghese, delle mesdemoiselles che suonano il piano al di là della parete, gli era insopportabile.

L'anima di Blok era una sorta di campo di battaglia ove due forze si sopraffacevano vicendevolmente lasciando lui, mistico e medium, inerme di fronte a esse. Nel suo recesso lirico, l'anima palpitava per Cristo, quasi a distruggere le cortine che lo avvolgono, per poi continuamente ricoprirsene di nuovo, dimentica dell'antica verità che Dio è pronto, ma noi non lo siamo.

Nella “musica della Rivoluzione” Blok riuscì per l'ultima volta a conciliare le due forze che lo possedevano, a unire, nello “spirito della musica”, Cristo e 1' “Altro”. “Il demone intimo un tempo a Socrate di dare ascolto allo spirito della musica” (31) scrisse in Intelligencija e rivoluzione, e noi cogliamo in quello spirito la gelida attrazione della morte, inviata sulle onde liriche e racchiusa nell'armonia. Questa è benedetta e profanata, mentre l'unione innaturale e inscindibile di musica e morte porta in sé, secondo Blok, uno sdoppiamento tormentoso. Cristo s'incarna nell'armonia, scostando i veli, le nebbie, le forze spontanee, ma sempre giunge al poeta rifratto, sdoppiato. Blok vi si imbatte nella Tormenta e nella Rivoluzione, e ora Lo chiama Colui che viene, ora Cavaliere azzurro, ora Bambino nell'anima incenerita, ma l'autentico, l'unico Suo Nome, rivelato soltanto dalla Chiesa e dal Vangelo, egli non lo sa intuire. Il demone, o lo “spirito della musica”, suo inviato, quasi lo rapisce all'ultimo istante. “Quel che per te è Cristo, per me non è Cristo”, scrive a un amico nel 1905, “(...) parola vuota per me, termine caduto in disuso, "come cenere nella tomba" (...)”, scriveva ancora nel 1904, ma in quale altro poeta troviamo così messo a nudo il mistero dell'armonia?

Cristo! malinconica nativa vastità!
Mi prostro sulla croce!
Ma la barca tua troverà l'approdo
Alla mia crocifissa elevazione?

E se volessimo trovare la parola che unisca la sua “esperienza religiosa” al “sentimento civile”, questa parola sarà dolore per la Chiesa russa. Dolore: un impasto così inconcepibile e russo di odio e d'amore, come la stessa unione blokiana di sfacelo e armonia, del canto avito, edificatore di templi, e della “musica della Rivoluzione”, che i templi profanava. Questa musica risuona a volte in Blok così rozza e incongrua che non riusciamo a udirvi che la furia schiaffeggiata: “Perché si distrugge un'antica cattedrale? Perché cento anni fa, qui, un pingue pope, con un singulto, prendeva bustarelle e commerciava in vodka” (32); furia che d'un tratto lascia il posto a una melanconica tenerezza: “(...) una chiesa di legno abbandonata in mezzo a una fiera oscena e ubriaca (...)” (33). E poi ancora furia e tenerezza insieme: nella lite, nel dolore, nell'armonia...

Avendo aperto, un giorno, la Filocalia, Blok si sorprende di quanto sia viva per lui l'esperienza degli asceti, e di quanto siano invece morte le parole della Sacra Scrittura con cui quelli argomentano la loro esperienza. Nel profondo, la sua esperienza poetica prende le mosse dall'esperienza ascetica. “Mi colpisce personalmente il fatto”, scrive alla madre, “che l'atteggiamento di Evagrio verso i demoni è esattamente lo stesso che ho io verso i sosia, per esempio nell'articolo sul simbolismo.”

Ci ritroviamo qui di fronte a una sorprendente autodecifrazione dell'arte tramite gli strumenti stessi dell'arte. Nessuno potrebbe gettare uno sguardo così a fondo nell'anima dell'artista se non fosse l'artista stesso a far dono della sua visione. “Egli è posseduto da molti demoni”, dice Blok, “(altrimenti detti "sosia"), di cui il suo mal talento creativo produce a suo arbitrio gruppi di cospiratori in continuo mutamento. A ogni istante egli cela a se stesso, grazie a tali congiure, una parte dell'anima. In forza di questa rete di inganni, tanto più abile quanto più è incantata l'oscurità circostante, egli riesce a fare uno strumento di ciascun demone, a stipulare un contratto con ciascun sosia; e tutti costoro frugano nei mondi color lilla, procacciandogli le migliori gemme, tutto quel che desidera: chi gli reca una nuvoletta, chi il respiro del mare, chi un'ametista, chi lo scarabeo sacro, o un occhio alato. Tutto questo il loro signore getta nel crogiolo della propria creazione artistica, e riesce così infine con aiuto di scongiuri a raggiungere l'incognito, per sua meraviglia e sollazzo; l'incognito è la bambola-beltà” (34).

L'incognito, la bambola-beltà sono un altro nome dell'armonia...

VIII

“Il poeta è figlio dell'armonia; e gli è stato assegnato un ruolo particolare nella cultura mondiale.” (35) Ma non è affatto un ruolo “armonico”, bensì storico. Il tempo e gli spiriti del tempo: ecco chi sono i nuovi eredi dei tesori che ha raccolto, nuvolette, respiri di mare e vasi sacri che siano. A dire il vero, il mistero più non si compie in essi. I ripostigli dell'anima vengono oziosamente esposti nei musei. Alle “onde sonore” viene impressa la necessaria direzione. Le forze spontanee, dalle quali è sorta un tempo l'armonia, fungono ora da guide presso la “bambola-beltà”, l'anima del poeta. Di giorno, quando il museo è aperto, queste spiegano dettagliatamente quale sia il ruolo del poeta in quella grande opera cui egli si è apparentato nello “spirito della musica”. Ma di notte, gettata la maschera, ridiventano demoni, ridiventano sosia del poeta e gli si presentano a riscuotere secondo il contratto stipulato nei “tempi armonici”della creazione artistica...

e a guardarmi verrebbero, attraverso
la grata, come belva, e a farmi il verso
e a ridermi sul muso (36).

Non ci serve più rispondere a I dodici o “polemizzare” sarcasticamente con il demonismo blokiano. Una risposta è già stata data, l'abbiamo ben udita, sia nella stessa agonia del poeta, sia nelle convulsioni della storia, partorita “nella nebbia”. La sorte del poema è nota: il tempo lo ha congelato e canonizzato. Sappiamo pure dove il “Cristo di neve” ha condotto la banda dei suoi apostoli; questo luogo lo vediamo molto bene noi, oggi. Balenato in una nebbia tempestosa e rosata, compiuta la missione di metafora, costui, “il mercenario, che non è pastore” (Gv. 10, 12), ha permesso al suo gregge di seguire l'anarchia delle forze naturali, dandosi volontariamente alla necessità storica. Gli eroi e i prototipi di I dodici - il pope, il borghese, il retore dalle lunghe chiome, e poi anche la pattuglia notturna di soldati rossi - tutti, chi era pro e chi era contro, o chi è restato a terra, si sono persi nell'oscura tormenta, senza un ricordo, senza ritorno, e più nessuno ormai riuscirà a scoprire dove e quando. Ma l'armonia che li ha generati, la musica che ha spostato le rocce e ha dato inizio a un'invisibile opera di riedificazione, si è spenta per ultima. Tutti han fatto ritorno alla madre della loro morte, dopo aver senza volerlo e a caso compiuto un successivo gesto di nemesi in quel dramma, lirico e storico a un tempo, il cui ritmo e il cui soggetto Blok cercò di cogliere dagli atti precedenti. Ma può essere che, fedele alla sua attrazione verso la morte, egli abbia genialmente avuto un intuizione musicale anche in questa occasione? E possibile, veramente possibile che, conoscendone la fonte, egli abbia anche previsto la strada che avrebbero preso le sue “onde sonore” nell'immediato futuro storico? Ma le onde ormai sono scemate, le bufere sono ammutolite. E le nevi che esse hanno portato si sono accumulate e imbrunite. Il tempo è prossimo all'aurora e ha portato la prima cauta luminosità. Il Cristo di I dodici è ritornato nella canzone, che nemmeno mai si è allontanata dagli antichi remoti pendii. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Così ebbe termine l'epoca del fermento, dello sdoppiamento, della rivolta e delle promesse. La devozione ortodossa dell'infanzia, così come si era conservata in Blok, nelle benedizioni nel nome del Signore in calce a ogni lettera ai suoi cari, o nel segno di croce sopra “il caro lettino”, e persino nelle preghiere della sera, più non poteva convivere nelle anime con una “bestemmia puramente clinica”, come disse Bunin. La bestemmia era diventata politica e la devozione martirio. La musica era tornata là donde era venuta, nei boschi, nelle catacombe, nei sotterranei, sul fondo di Kitež, (37) mentre al di sopra, con strepito e fracasso, si arrabattava la storia, senza più orecchio né musicalità. Ormai non si potevano più spremere versi dall'aria, coglierli dalle albe. I campi sono disertati dalle visioni, l'erba non fruscia più misteri. Le sconosciute chissà perché non gettano uno sguardo nelle birrerie. Per gli ultimi sentieri blokiani vanno ora i tram pieni zeppi di Mandel'štam. “Io, piccola ciliegia nel tram di un tempo terribile (...)” (38).“(...) già si nota un nuovo ruolo della persona umana, una nuova razza”, scriveva Blok nel 1919, quando ancora percepiva qualcosa (39).

Così ancora una volta, l'ultima, si svela il senso remoto dello “spirito della musica” blokiano: la sua arcana parentela con la morte. Ma non è dalle forze spontanee, non è dal verso che questa morte emerge, non è nella corsa, o nella velocità sfrenata, non nell'acquisizione del ritmo ricercato che la si può cogliere, essa cresce nella lenta disidratazione musicale, come la marea decrescente che rivela il fondo cupo che rapidamente si dissecca. Il tempo ha tracannato un'altra anima, colma di onde sonore, e insoddisfatto è fuggito avanti. “Prosciugamento”, questa è la parola con la quale Blok indica nel Diario la sua prostrazione mortale, mortifera.

“Un'anima stanca siede per un attimo alle soglie della tomba. È di nuovo primavera, di nuovo lungo i pendii fiorisce il mandorlo. Passano di là la Maddalena col vaso, Pietro con le chiavi; Salomè che porta la testa sul piatto; la sua veste lilla e d'oro è così pesante e ampia che deve scostarla con il piede.

L'anima del poeta, “svuotata dal banchetto” e abbandonata dalla musica, alle soglie della morte passa attraverso il cimento. Il paradiso della poesia e l'inferno dell'arte sono ormai dietro le spalle. Come quegli schiavi di Platone che siedono nella caverna, incatenati con la schiena alla luce, essa vede nel ricordo soltanto le ombre musicali del fluire della vita passata: la Maddalena con il vaso di preziosa mirra che reca per i piedi del Salvatore; Pietro con le chiavi del Regno dei Cieli; Salomè con la testa mozzata di Giovanni Battista, ricevuta in premio perché la sua danza era piaciuta a Erode e ai suoi ospiti... Salomè è forse quella zingara che narra danzando la vita del poeta? (43) Oppure è quella stessa forza naturale, fusione di bufera e di danza, che ha penetrato l'anima del poeta e l'ha poi succhiata? “Nell'ombra della galleria ducale, appena rischia-rata dalla luna, furtivamente passa Salomè, recando la mia testa insanguinata” (44). O è lui stesso a vedere in sé un servitore del “dio ignoto”, quel preannunziatore dell'armonia che dovrà pagare per essa con la testa? Giacché ogni armonia - che si esprima con la lingua degli uccelli, dei gigli di campo, delle navi che prendono il mare - deve comunque annunziare Cristo come sua fonte e ultimo asilo, il Cristo-Musica, il Cristo-Eternità, il Cristo-Vincitore della morte. “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino (...)” (Mc. 1, 15).

Noi moriamo e l'armonia rimane (45). Mai più, ormai, potranno disgiungersi, separarsi le diverse forze spontanee che in essa si sono fuse in unità. Si sono intrecciate le onde sonore che sgorgano da profondità insondabili, e così pur sempre si sono ormai rapprese in rilievi di parole due inconciliabili volti della Russia, la blokiana “segreta libertà”, e la sua stessa “missione storica”, le “sincere promesse della gioventù”, il “patrimonio dei docenti”, gli appelli di morte e le canzoni “di bontà e di luce”, (46)
i campi beati e le visioni di “fiammeggiante delirio”
... le ingiurie dei guardiani
e il suon delle catene (47).

Note

(1) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, Adelphi, Milano 1978, p. 153.

(2) A. Blok, O sovremennom sosto janii russkogo simvolizma (Lo stato attuale del simbolismo russo).

(3) A. Blok, dalle lettere.

(4) C. S. Lewis, The Problem of Pain.

(5) “Riflesso di ciò che è invisibile all'occhio” è un verso di una poesia di Vladimir Solov'ëv.

(6) A. Blok, dai taccuini.

(7) cfr. la poesia di Blok “Ricordi? Nella rada sonnolenta [...]” (1904) (tr. it. in A. Blok, Poesie, Guanda, 1975, pp. 374-376):
 “Trova per caso sul tuo temperino
un granello di polvere di terre lontane -
e il mondo apparirà di nuovo strano,
avvolto in una nebbia colorita!”

(8) “L'opera del Signore” sono parole pronunciate da Vladimir Solov'ëv in punto di morte (“E' difficile l'opera del Signore”).

(9) A. Puskin, “Non voglia Iddio ch'io perda la ragione” (tr. it. in A. Puskin, Lirica, Sansoni, Firenze 1968) pp. 417-418).

(10) “Selvagge passioni”, “splendore del non essere” sono espressioni di Blok.

(11) A. Blok, I dodici (tr. it. in Poeti russi nella rivoluzione, a cura di B. Carnevali, Newton Compton editori, Roma 1971, pp. 42-67).

(12) K. Moc'ul'skij, Aleksandr Blok.

(13) Vladimir Orlov, Poema Aleksandra Bloka “Dvenadcat'” (Il poema di Aleksandr Blok “I dodici”).

(14) Nel testo russo compare la grafia “Isus”, mentre quella normale è “Iisus”. Ndt

(15) Sergii Bulgakov, Na piru bogov (Al banchetto degli dei).

(16) Pavel Florenskij, Blok.

(17) Apollinarij Vasnecov (1856-1932) pittore, fratello del più famoso Viktor. Paesaggista, amava descrivere la malinconia della terra lussa. Ndt

(18) Raskol'niki (scismatici) sono i cosiddetti “vecchi credenti” che rifiutarono di accettare la riforma liturgica del patriarca Nikon nel XVII secolo. Ndt

(19) L. D. Blok, Byli i nebyli (Sono stati e non sono stati).

(20) Da una lettera indirizzata a E. P. Ivanov dall'Italia: “La città più terribile e regale del mondo resta, probabilmente, Pietroburgo”.

(21) A. Blok, Ni sny, ni iav' (Né sogni ne' realtà).

(22) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 73.

(23) A. Blok, Né sogni né realtà.

(24) A. Blok, Dnevnik (Diario), 20 febbraio 1918.

(25) Orlov, op. cit.
(26) Citazione da A. Jakobson, Konec tragedii (La fine della tragedia).

(27) Ibid.

(28) A Blok, Neznakomka (La sconosciuta), dramma.

(29) La mia vita in Cristo è un'opera del padre Ioann di Kronštadt.

(30) A. Blok, Poesie, ed. cit., p. 378.

(31) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed cit., p. 73.

(32) Ibid. p. 66.

(33) A. Blok, dal Diario dopo I dodici.

(34) A. Blok, Lo stato attuale del simbolismo russo.
(35) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 153.

(36) A. Puskin, op. cit., p.418.

(37) Kitež, la città della leggenda russa, sprofondata sul fondo di un lago a causa del venir meno della fede dei suoi abitanti. Solo i puri di cuore possono ancora sentire il suono delle sue campane. Ndt

(38) “Io, piccola ciliegia nel tram di un tempo terribile [...]” è un verso da una poesia di Osip Mandel'štam.

(39) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 149.

(40) Ibid. p. 153.

(41) V. F. Chodasevic', Nekropol'.
(42) A. Blok, Né sogni né realtà.

(43) “Salomè è forse quella zingara (...)” richiama la poesia di Blok:
Io, che ero un tempo superbo e altezzoso,
con una zingara sono ora in paradiso,
ed ecco la imploro umilmente:
“Bada, zingara, balia la mia vita”.
(tr. it. in A. Blok, Poesie, op. cit., p. 300).

(44) Ibid., p. 241, dalla poesia Venezia, che fa parte dei ciclo Versi italiani (1909).

(45) “Il poeta muore e l'armonia resta” è la parafrasi delle parole blokiane “Noi moriamo e l'arte resta” (La missione del poeta) (A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 162), che è a sua volta una variazione del detto latino: “Ars longa, vita brevis”.

(46) La “missione storica”, le “sincere promesse della gioventù”, il “patrimonio dei docenti”, (il Bimbo) “di bontà e di luce”, sono tutte espressioni prese da versi, taccuini e articoli di Blok.

(47) A. Puškin, op. cit., o. 418.


(Fine)

(da Russia Cristiana, VI, 1981, 3 (177), pp. 17-37)

Domenica, 06 Novembre 2005 19:09

Itinerari interiori (Bernard Feillet)

Intorno agli anni ’50 – questa metà del sec. XX che René Rémond apprezza in "Cristiani, voltate pagina" come l’ultimo periodo di un cattolicesimo largamente stabile nella società francese - era relativamente facile chi si diceva credente o non credente di una o di un’altra religione.

La sapienza del mondo – come la chiama l’apostolo Paolo – resta sotto lo scacco del fallimento. È una sapienza che non riesce a dire tutto sull’uomo. A dargli le risposte ultime sul senso della sua vita e della sua esistenza.

Venerdì, 04 Novembre 2005 22:20

4. La parola di Dio (Enzo Bianchi)

Per cogliere le acquisizioni e le vie aperte dalla Sacrosanctum concilium circa la parola di Dio occorrerebbe leggerla e interpretarla accanto agli altri testi conciliari, soprattutto la Dei Verbum, la cui visione abbraccia evidentemente anche l'ambito liturgico.

Venerdì, 04 Novembre 2005 22:05

La Chiesa Greco-Melkita (Lorenzo Lorusso)

La Chiesa Greco-Melkita

di Lorenzo Lorusso o.p.


Cenni storici.

La Chiesa Melkita non è una Chiesa nazionale come tutte le altre Chiese orientali, ma è una Chiesa sparsa in tutto il Vicino Oriente arabo e nella diaspora, ereditaria legittima di tre sedi apostoliche:

Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Le sue origini si confondono con la predicazione del Vangelo nel mondo greco-romano del Mediterraneo orientale e l'estensione del cristianesimo al di là dei confini dell’Impero. La formazione dei patriarcati di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme, i primi al concilio di Nicea (325 d.C.), il terzo a Calcedonia (451 d.C.), l'hanno formata e ne hanno fatto una entità territoriale e giuridica.

La Chiesa Melkita deve il suo carattere di Chiesa sui iuris a due fedeltà: quella all'impero di Bisanzio e quella ai sette primi concili ecumenici. Il suo nome lo si deve ai monofisiti (ritenevano che dopo l'incarnazione ci fosse in Cristo una sola natura) per stigmatizzare la sua fedeltà all'imperatore (malka in siriano) e alla dottrina del Concilio di Calcedonia.

La conquista arabo-islamica del VII secolo portò i patriarcati melkiti sotto la dominazione non cristiana, e così Alessandria, Antiochia e Gerusalemme saranno in terra d'Islam fino alla dominazione ottomana del 1516. Salvo rare eccezioni, i cristiani non subirono persecuzioni, ma un regime di vessazioni e di soggezioni. Essi assumeranno con rassegnazione e coraggio il loro nuovo ruolo di testimoni di Cristo in Islam. Non avendo più la possibilità di svolgere un ruolo politico, i Melkiti si dedicheranno alle professioni liberali, soprattutto la medicina, e saranno gli artigiani della versione in arabo dell'eredità filosofica, medica e scientifica della Grecia antica.

La riconquista bizantina non durerà che un secolo (960-1085). Essa ebbe come conseguenza la bizantinizzazione della liturgia dei tre patriarcati.

Con le crociate, i patriarchi e i vescovi latini rimpiazzarono i gerarchi melkiti (ad eccezione di Alessandria). La Chiesa locale fu sottomessa a una Chiesa straniera. Una sorta di estraniazione si stabilì tra le due, senza che la prima, tuttavia, rompesse le sue relazioni con Roma.

Il regno dei Mamelucchi (1250-1516) non solo mise fine ai possessi franchi in Oriente, ma fu un periodo cruciale per le comunità cristiane: persecuzioni, distruzioni, massacri. Risale a questo periodo una regressione del cristianesimo. Tuttavia il "piccolo resto" continuerà la sua missione di testimonianza e di fedeltà a Cristo.

La conquista ottomana (1516-1918) non fu più clemente, almeno fino al XVII secolo. Ormai tutto l'Oriente dipendeva da una sola autorità, quella del sultano. Costantinopoli diverrà non solo capitale politica di un immenso impero, ma anche capitale religiosa dell'Oriente, come Roma lo era per l'Occidente. Il Patriarca ecumenico fu chiamato ad esercitare un'autorità sui gerarchi melkiti. La loro conferma e a volte la loro elezione dipendeva ormai da Costantinopoli. La gerarchia d'Alessandria e di Gerusalemme si ellenizzò completamente. A partire dal 1534 sino ai nostri giorni, tutte le loro sedi episcopali furono assegnate ai greci. I due patriarcati si staccarono così da Roma per abbracciare lo scisma. L'ellenismo non ebbe presa su Antiochia, i cui patriarchi erano scelti fra il clero indigeno; essi conservarono dei legami con Roma, anche se qualche gerarca restava più favorevole a Costantinopoli che a Roma.

La comunione con Roma.

Dopo l'unione formale stabilita al Concilio di Firenze, alcuni missionari gesuiti, cappuccini, carmelitani e francescani, si misero al servizio della gerarchia locale e cooperarono con essa. Gli stessi pastori che non erano in comunione con Roma indirizzarono i loro fedeli ai missionari. Il popolo sentiva la necessità di una intelligenza più profonda della fede tradizionale che professava malgrado la repressione. Una parte attirata dalla cultura occidentale prese in blocco ciò che la latinità le apportava. Fu così che dopo qualche decennio apparve una nuova maniera di concepire la fede tradizionale. Il comportamento di questi nuovi "cattolici1' fu considerato come un tradimento e una mutazione della fede ancestrale da una frazione attaccata al suo passato. Così la comunione con Roma fu messa in questione e due modi di concepirla fecero la loro apparizione. L'identità antiochena si perse. Una frazione di fedeli propendeva verso Bisanzio e divenne più costantinopolitana che antiochena, e l'altra verso Roma con una forma di relazione più romana che fedele alla fede della Chiesa locale. Così alla morte del patriarca Atanasio nel 1724, una doppia linea di patriarchi fu instaurata: una ortodossa e l'altra cattolica. Esse durano ancora ai nostri giorni.

La Chiesa greco-melkita-cattolica si organizzò interiormente. Nuovi Ordini monastici furono fondati. Un clero educato a Roma dispensava l'insegnamento nelle nuove scuole fondate. Un seminario fu aperto a Ain Traz (1811). Ricordiamo in modo particolare due grandi patriarchi del XIX secolo: Maximos Mazloum (1833-1855) e Grégoire Joseph (1864-1897). Mazloum perfezionò la legislazione canonica tramite i concili di Ain Traz del 1835 e di Gerusalemme del 1849; estese la sua sollecitudine al patriarcato di Alessandria, dove si erano rifugiati i cattolici di Siria e del Libano per fuggire alle persecuzioni, e al patriarcato di Gerusalemme. Nel 1838 al patriarca di Antiochia fu anche riconosciuto il titolo patriarcale di Alessandria e Gerusalemme. Ma Mazloum è soprattutto conosciuto per essere stato l'artefice del riconoscimento da parte del sultano dell'indipendenza completa della sua Chiesa, tanto dal punto di vista civile che ecclesiastico (1848).

Il patriarca Grégoire Joseph lavorò per la riforma della sua Chiesa nel senso della pura tradizione orientale. Al Concilio Vaticano I si oppose all'opportunità della proclamazione dei dogmi del primato e dell'infallibilità del Papa, così come venivano intesi dalla maggioranza dei Padri, e abbandonò i lavori del Concilio proprio in prossimità della votazione della costituzione Pastor Aeternus. L'approvazione del patriarca infine giunse, ma in un secondo momento (rispetto alla votazione del Concilio). Egli lottò contro il protestantesimo che penetrava con forza in Oriente, fondando i collegi patriarcali di Beirut (1865) e di Damasco (1875). Nel 1866 riaprì il seminario di Ain Traz, ma soprattutto fu all'origine di quello di S Anna di Gerusalemme (1882).

Ricordiamo anche il patriarca Maximos IV (1947-1967), per il suo apporto al Concilio Vaticano II. Egli era cosciente di parlare a nome dei "fratelli assenti", della Chiesa ortodossa. Egli concepiva la sua Chiesa come ponte tra Roma e l'Ortodossia. Il suo successore, Maximos V Hakim, ha seguito la linea tracciata dal suo predecessore, ma con un attenzione tutta particolare ai fedeli della diaspora.

Attualmente, la Chiesa Melkita conta circa 1.350.000 fedeli distribuiti in quattordici eparchie (diocesi) in Siria, Libano, Giordania e Israele, cinque eparchie in diaspora (USA, Brasile, Messico, Australia, Canada), due esarcati patriarcali (Iraq e Kuwait), due esarcati ortodossa. Brasile, Messico, Australia, Canada), due esarcati patriarcali (Iraq e Kuwait), due esarcati apostolici (Argentina e Venezuela). Egitto, Sudan e Gerusalemme sono considerati territori patriarcali. (...)

L'attuale Patriarca, S.B. Grégoire III Lahham, è nato a Daraya, presso Damasco, il 15 dicembre 1933. Nel 1943 entrò nel seminario dei Salvatoriani presso Saida in Libano. Dopo gli studi istituzionali fu inviato a Roma nel 1956 presso il Pontificio Istituto Orientale, dove conseguì il dottorato in Scienze Ecclesiastiche Orientali. Fu ordinato presbitero il 15 febbraio 1959 nella chiesa del monastero di Grottaferrata. Tornato in Libano, fu nominato superiore del Grande Seminario del suo Ordine a Jeita, presso Beirut, e insegnava teologia e liturgia presso l'università dello Spirito Santo di Kaslik (Beirut).

Nel 1974, dopo l'arresto dell'arcivescovo Hilarion Capucci da parte delle autorità israeliane, il patriarca Maximos V Hakim lo nominò Amministratore Patriarcale, poi Vicario patriarcale di Gerusalemme. Il 27 novembre 1981 fu consacrato vescovo a Damasco.

Quando il patriarca Maximos V rassegnò le sue dimissioni per motivi di salute, il Santo Sinodo riunito a Raboueh il 29 novembre 2000 lo elesse Patriarca di Antiochia e di tutto l'Oriente, di Alessandria e di Gerusalemme. La sede patriarcale è Damasco (Siria).

L'anno liturgico bizantino.

Il rito della Chiesa Melkita è quello bizantino, celebrato sia in arabo come in greco, con la forma dei sacramenti, dell'Eucaristia e del tempio uguale a quello delle Chiese ortodosse. Il rito bizantino chiamato anche rito greco, si è sviluppato a Costantinopoli sulla base di elementi provenienti dalla tradizione di Antiochia, Alessandria e dalla Cappadocia. All'inizio era solamente in greco, ma a partire dal medioevo è stato tradotto nelle lingue utilizzate dalle diverse popolazioni che aderivano alla fede calcedonese, nel Medio Oriente e nelle regioni limitrofe, quindi in Europa centrale ed orientale ed in Russia. Questo è il rito proprio delle Chiese ortodosse calcedonesi e delle Chiese greco cattoliche. Oltre il patriarcato ortodosso di Costantinopoli e qualche gruppo di fedeli cattolici in Turchia, il rito bizantino è seguito in Medio Oriente dai patriarcati greco-ortodossi di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme, come dalla Chiesa Melkita cattolica. I patriarcati ortodossi di Antiochia, di Gerusalemme e di Alessandria e la Chiesa Melkita utilizzano soprattutto come lingua liturgica l'arabo, mentre l'impiego del greco è stato ripreso nel patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, anche se limitato alle celebrazioni liturgiche nei luoghi santi e nei monasteri. Nel patriarcato di Costantinopoli il greco è la lingua liturgica.

Ispirazione principale della liturgia è la lettura della Sacra Scrittura. Nella tradizione bizantina grande rilievo viene dato alla lettura del Nuovo Testamento, del quale si prevede la lettura integrale ogni anno. La lettura diretta dei testi dell'Antico Testamento, invece è piuttosto limitata.

Durante l'anno liturgico si legge il Vangelo secondo diverse modalità. In una prima sezione, si segue l'ordine dei quattro Vangeli: Giovanni, da Pasqua a Pentecoste; Matteo, dopo Pentecoste sino al 14 settembre (Esaltazione della Croce); Luca, sino alla quaresima; Marco, in quaresima.

Altre sezioni raccolgono i testi di tutti e quattro i Vangeli relativi alle feste o ai giorni che ricordano avvenimenti particolari della vita di Gesù: un gruppo segue il calendario lunare della Pasqua ebraica; un altro gruppo il calendario solare dei dodici mesi.

L'anno liturgico bizantino si svolge secondo due cicli ben distinti. Uno ruota attorno alla Pasqua, ed è legato al calendario lunare; l'altro celebra le altre feste attorno al calendario solare dei mesi.

A. Il ciclo lunare è centrato sulla Pasqua e comporta diversi momenti:

1. La preparazione alla Pasqua con la pre-quaresima (4 domeniche e 3 settimane) e la quaresima o 40 giorni. Durante la quaresima si celebra la Divina Liturgia soltanto di sabato e di domenica, oppure, in altri giorni e per circostanze particolari, si presenta nella forma detta dei "Presantificati".

2. La Grande Settimana inizia con il sabato e la domenica, che ricordano la risurrezione di Lazzaro e l'entrata a Gerusalemme. Dal lunedì al giovedì evoca gli ultimi insegnamenti di Gesù e gli avvenimenti che precedono immediatamente la Passione. Culmina nei tre giorni, da venerdì a domenica, ove si celebrano successivamente la Passione, la Morte e la Risurrezione.

3. Cinquanta giorni seguenti, Penticostarion, celebrano la pienezza del mistero della Risurrezione.

4. Anche il tempo dopo la Pentecoste conserva diversi legami con il calendario lunare. Dopo la Domenica di "Tutti i Santi", che chiude il Penticostarion, si ripristina l'uso del ciclo liturgico settimanale. Esso parte dalla domenica, centrata sulla Risurrezione ma al contempo inserita nell'insieme del mistero divino. Il lunedì ricorda gli angeli; il martedì Giovanni Battista; il mercoledì e il venerdì il mistero della Croce vivificante; il giovedì gli apostoli e San Nicola; il sabato i defunti e più specialmente i Santi. La Madre di Dio è inseparabilmente associata a tutte le celebrazioni, e il ricordo dei martiri viene spesso evocato.

B. Il ciclo solare segue il calendario mensile. Con inizio il primo Settembre, comprende le feste del Signore, della sua Madre, dei Santi e di avvenimenti particolarmente importanti come i concili ecumenici. Si celebra in date fisse.

L'anno liturgico bizantino è una continua celebrazione del mistero pasquale-pentecostale. questa impronta risurrezionale-escatologica della liturgia bizantina è la base per la devozione ai defunti così marcata nell'anno bizantino.

(da O Odigos - La guida, n. 3, luglio/settembre 2004, p. 15)



Mercoledì, 02 Novembre 2005 00:57

Davanti a Dio (Sr. Germana Strola o.c.s.o.)

La vita monastica invita ad assumere con coraggiosa pienezza tutto ciò che implica il permanere davanti a Dio: attraversando la complessità del vivere umano in tutte le sue dimensioni, diviene per questo, ma come in sovrappiù, un ministero di intercessione...

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