I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Domenica, 25 Dicembre 2005 20:25

A immagine di Cristo (Sandro Carbone)

A immagine di Cristo
di Sandro Carbone

1. CRISTO PROTOTIPO DELL 'UOMO NUOVO

Paolo usa per la prima volta il termine «icona» in 1 Cor 11,7, partendo da Gn 1,26-27, dove l'uomo viene definito «icona di Dio». L'apostolo afferma che «l'uomo è immagine e gloria di Dio», usando il termine «icona» in relazione al termine «gloria», che sta qui ad indicare l'onore che può rendere a Dio solo chi partecipa in qualche modo allo splendore dell'essenza divina. Per Paolo, quindi, fin dall'inizio l'icona fu creata in relazione alla gloria, come riflesso di essa.

Poco dopo, quando ne riparla in 15,44ss, l' Apostolo relazione, il termine «immagine» a un doppio livello, antropologico e cristologico: «Si semina un corpo psichico (o: animale), e risorge un corpo spirituale. E se vi è un corpo psichico, vi è anche un corpo spirituale. Così sta scritto: Il primo uomo, Adamo, divenne un'anima vivente. L'ultimo Adamo divenne Spirito vivificante... E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo fatto di polvere, porteremo anche l'immagine dell'uomo celeste». Il termine «icona» viene continuamente predicato in questi passi in relazione a due prototipi opposti nel tempo e nello spazio, il primo e l'ultimo, e suggerisce l'idea di una forma che esiste come «partecipazione di...»; oppure di un «sussistere in...». Così l'umanità sussiste prima in Adamo, come partecipazione di un'unica anima vivente, ma terrena, e parte del genere animale; dopo nel Cristo risorto, come partecipazione di un'unica esistenza nuova, celeste, molto particolare, perché dono preciso di uno spirito datore di vita che supera le capacità dell'uomo (cf Rm 8,1-30).

«Vi è un corpo animale e vi è un corpo spirituale» (1 Cor 15,44). Il termine «corpo», o «carne», che in questo capitolo gli equivale, indica che questa immagine ha certamente una impronta reale, complessa e completa, delineata a partire dalla persona umana che conosciamo. Ciò è dimostrato dal fatto che Paolo aveva precedentemente messo in rapporto la risurrezione di Cristo con la risurrezione dei morti (1 Cor 15,12.17-19: «Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti?»)e la risurrezione dei morti con quella di Cristo (vv. 13.16: «Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto!»). Ciò significa che, in polemica con la mentalità greca, .egli considera entrambi in senso reale e globale, tanto è vero che nei vv. 35ss aveva cercato concretamente di spiegare «come» è da intendersi questa risurrezione dei corpi: «Come risusciteranno i morti, con quale corpo verranno?... Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale».

Sulla base di questo termine comune, Paolo può incastonare uno nell'altro i due prototipi ai quali egli riferisce il termine icona. Tra i corpi celesti e i corpi terreni, tra i due Adamo, vi è un rapporto di trasformazione sulla base di un rapporto di identità. Di conseguenza, la risurrezione di Cristo è realmente la risurrezione di un vero uomo, stabilito nel suo corpo glorioso come prototipo di ogni futuro corpo umano; e ogni uomo è chiamato a partecipare alla realtà del Cristo risorto. Il pensiero è essenzialmente quello che sarà sviluppato in Rm 8,29 e Fil 3,21: Cristo è l'architetto di una nuova umanità, di coloro che sono «predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo», il quale «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a se tutte le cose». Anzi, la risurrezione finale di ogni corpo umano è il vero senso della risurrezione del corpo di Cristo. Ciò stabilisce un forte rapporto d'identità e di compenetrazione tra l'uomo e il Cristo, tra la sua vicenda e la nostra. Infatti, come Cristo ha portato l'immagine dell'uomo terrestre, così noi porteremo l'immagine dell'uomo celeste. Anzi, questo pensiero di Paolo prende le mosse a monte proprio dall'identificazione del Cristo risorto con quell'icona portatrice della gloria divina, quell'immagine di Dio in senso radicale, di cui parla il testo di Gn 1,26-27, nella quale e in vista della quale ogni uomo è stato creato. Essa è l'anticipo del primo Adamo, quello terrestre, da essa inizialmente emanato, e poi preso, assunto in se e trasformato nell'immagine gloriosa dell'uomo celeste. Ciò che è ultimo nella realizzazione, si sa, è anche primo nella progettazione, perché la causa finale è inseparabile dalla causa formale. In questo senso Cristo è il primo ab æterno, l'icona di Dio che sussiste da sempre, per mezzo del quale l'uomo fu fatto e nel quale ogni uomo redento sussiste.

Già prima di Paolo il giudaismo aveva visto in quell'icona di Dio di Gn 1,26-27, nella quale I'uomo fu creato, un prototipo di uomo: «Il Re dei re fece ogni uomo con lo stampo del primo uomo» (Mishnah Sanhedrin IV ,5), e questo primo uomo è tanto nobile e di fattezze così divine che gli angeli volevano chiamarlo Santo (cf Genesi Rabbah VIII, 10). Infatti: «Superiore ad ogni creatura vivente è Adamo» (Sir 49,16). Significativo è l'episodio di Rabbi Banaah, che, dopo aver visto Abramo presso le tombe dei patriarchi, avrebbe voluto vedere anche Adamo. Ma allora si udì una voce: «Tu hai visto la somiglianza (demūt) della mia immagine, ma non puoi vedere la mia stessa immagine» (Baba Batra 58a). Secondo Filone Alessandrino « ci sono due tipi di uomo, l'uno è l'uomo terrestre, l'altro è l'uomo celeste», e quello celeste fu il primo ad essere creato, l'archetipo, che secondo Filone corrisponde all'idea platonica di uomo. Infine Rabbi Aqiba disse che l'elezione consiste nel fatto che all'uomo fu fatto conoscere che egli fu creato nell'immagine di Dio (Mishnah 'Avot III,14).

Ora, per Paolo solo il Cristo risorto è l'Adamo escatologico, che ha donato all'uomo la conoscenza di essere stato fatto in quella stessa immagine che ora è pienamente realizzata in Lui, Signore della gloria. Tanto più che per l' Apostolo questa conoscenza non è presente ratione propria nel primo Adamo.


2. LA «STORIA» DELL 'IMMAGINE DI DIO NELL 'UOMO

a) Immagine, gloria e somiglianza...

Sebbene Paolo riconosca esplicitamente in 1 Cor 11,7 che l'uomo fin dall'inizio fu creato secondo l'immagine e la gloria di Dio, tuttavia egli sente il bisogno di distinguere «l'immagine» e la «gloria» come se tra i due vi fosse una differenza, come se la prima fosse una forma recipiente in rapporto alla seconda. Se quell'immagine di Dio che è l'uomo, si trova ad essere distinta dalla gloria che le compete, la causa è che fondamentalmente soltanto in Cristo questo è possibile. Sull'arco di tensione delineato dal rapporto di queste due figure si dispiega tutta l'economia della storia salvifica.

Paolo sviluppa questo concetto in diversi testi. In primo luogo, in rapporto alla trasgressione di Adamo, nel capitolo 5° della lettera ai Romani v. 12. La nuova sezione della lettera tratta della vita nuova, dono della grazia di Cristo, in seguito alla caduta, al peccato e alla colpa di un solo uomo, Adamo, a causa del quale la morte è entrata nel mondo.' Adamo è però figura di colui che doveva venire, il quale ha dato molto di più in termini di dono di grazia, di giustizia e di vita eterna, di quello che l'uomo aveva perso nel primogenitore. Le due figure Adamo e Cristo, primo uomo e ultimo uomo, sono contrapposte tra loro in base a un rapporto tipologico di figura/compimento, come i termini immagine e gloria di 1 Cor 11,7.

L'apostolo ne ha già parlato in relazione al peccato dell'umanità, nel capitolo lo della Lettera ai Romani: «In realtà l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà ed ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia...» (v. 18). In questo contesto troviamo per la prima volta un termine sinonimo di icona: «somiglianza», abbinato a icona come in Gn 1,26 (LXX: il TM ha rispettivamente selem e demūt), predicato da Paolo in 1,23 di questi uomini i quali: «Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio nella somiglianza dell'immagine dell'uomo corruttibile, dei volatili, dei quadrupedi e dei rettili».

Da questo inizio della lettera ai Romani apprendiamo che nella letteratura paolina l'idea della riproduzione di una forma è resa con almeno due concetti non esattamente equivalenti: immagine e somiglianza. Nel greco della LXX, conformemente all'uso classico, immagine designa una riproduzione perfetta di un prototipo, come un quadro o una statua di un personaggio. Essa deve riprodurre le sembianze e le fattezze dell'originale, come una copia, o ancora di più, come una rappresentazione visibile dell'essenza della cosa, come un ritratto o un busto devono rendere l'idea fisica e spirituale del soggetto rappresentato, conformandosi radicalmente ad esso. Poi che l'immagine deriva da una realtà originaria, essa comporta sempre una relazione di dipendenza o d'origine. Talvolta lo stretto e completo legame che unisce il prototipo alla sua fedele riproduzione viene spiegato come irradiazione della sua sostanza, quindi come partecipante della sua stessa realtà.

Alquanto più debole sembra il concetto di somiglianza, che talvolta sembra essere introdotto più per giustificare le differenze che per spiegare le uguaglianze. Si tratta di un'immagine che non è certo identica all'archetipo, ma semmai in qualche modo simile ad esso, dello stesso tipo, per forma o dinamica. Inoltre è da notare che il concetto di somiglianza, derivando in greco da un verbo in -οω che significa «rendere simile» o «diventare simile» , esprime la particolare accezione di «reiterato movimento di conformazione a», di «crescita secondo l'immagine».

Ciò è confermato dall'uso che hanno questi termini tanto nei gli ultimi strati dell'AT, spesso in connessione col sostrato ebraico, e nel giudaismo extra biblico, quanto nel NT e nel linguaggio dei Padri della Chiesa. Se, infatti, da un lato la teologia della tradizione Sacerdotale era giunta a concepire l'uomo come immagine di Dio a partire dal fatto che egli è collocato nel creato qual segno della sovranità di Dio (Gn 1,27), per rendere lode e culto a Dio, dall'altro essa sfuma il termine con somiglianza quando parla di Dio ad immagine dell'uomo (cf Ez 1,26: «Qualcosa simile ad una figura d'uomo»). Similmente,quando gli autori del NT (cf 2 Cor 4,4; Col 1,15; Eb 1,3), o Padri della Chiesa come Tertulliano, Ireneo, Origene,ecc. devono parlare del rapporto del Figlio col Padre, usano il termine «immagine», così pure quando enunciano la realtà dell'uomo immagine di Dio in senso radicale; mentre il termine «somiglianza» trova posto piuttosto nel loro linguaggio storico-salvifico, a designare le diverse realtà antropologiche tese a «conformarsi a...».

Queste eccezioni hanno indubbiamente un rapporto molto forte con la teologia e il linguaggio di San Paolo, il quale ne fa dei concetti chiave per sviluppare la sua cristologia e la sua antropologia teologica. .

b) Fatto alla somiglianza degli uomini...

In sintesi, si può spiegare il problema posto da 1 Cor 11, 7 sulla distinzione dell'immagine dalla gloria, con il messaggio dei primi capitoli della lettera ai Romani: creato immagine di Dio per essere supporto della Sua gloria, l'uomo si è volto verso un'altra fonte; un altro prototipo che non Dio stesso, cercando di riprodurne in se stesso le fattezze (somiglianze). Hanno preso come punto di riferimento l'immagine di altri uomini, o di animali o di astri celesti, divinizzandoli. In questo modo hanno scambiato la loro gloria e mutato le loro relazioni naturali (cf vv. 23.26-27), sino a disonorare completamente il loro corpo. Avendo perso la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia di una conoscenza depravata (v. 28). La loro mente ottenebrata non riflette più la luce della gloria di Dio, mettendo quindi in pericolo la loro stessa esistenza, che da essa deriva. Il termine «somiglianza» del v. 23 indica proprio il loro reiterato sforzo di conformarsi a qualcosa di alieno, nel tentativo di acquisirlo come forma definitiva del proprio essere. Infatti, questo tentativo è stato condotto tanto avanti, e non solo dalle genti, ma persino da Israele (cf Rmfatti simili a Gomorra» (Is 1, 9 citato in Rm 9,29). 1,18-32 e 2,1-3,20), che: «Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato un resto, saremo diventati come Sodoma e

Dio Padre però, nella sua immensa ed onnipotente misericordia, è intervenuto e: «Mandando il Suo Figlio nella somiglianza della carne del peccato e per il peccato, ha condannato il peccato nella carne». Se è vero che altrove Paolo usa un termine molto più forte, arrivando adire che Dio «fece» Cristo peccato in nostro favore (2 Cor 5,21), tuttavia qui il significato resta quello di una attribuzione esterna, giuridica e formale, che è ben resa nel suo significato col termine «somiglianza». Più nell'essenza entra la figura di FiI 2,6ss: «Cristo, pur essendo in forma di Dio, non reputò rapina l'essere uguale a Dio, ma annichilò se stesso prendendo la forma di servo, essendo diventato così simile agli uomini. Ed essendosi trovato così all'esteriore come un uomo, abbassò se stesso, essendosi fatto ubbidiente sino alla morte». Qui si tratta di qualcosa di più di una identificazione giuridica in un processo salvifico, ma di una assunzione e di una trasformazione, «perché noi potessimo diventare per mezzo di Lui giustizia di Dio» (2 Cor 5,21).

Quindi, «se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,17).

Per contrapposizione, come il tentativo precedente dell'uomo di conformarsi a somiglianza della sua semplice immagine naturale o, peggio, all'immagine di animali inferiori, ha abortito in una realtà di schiavitù (cf Fil 2, 7; Rm 1,26-32), così ora I'abbassamento di Cristo che ha assunto una carne simile a quella del peccato e la condizione dello schiavo, è riuscita a liberare l'uomo da quella stessa somiglianza di peccato che aveva assunto.

L'azione redentrice della misericordia di Dio si muove in ogni modo con la stessa tattica dell'azione umana, cambiandole però totalmente direzione e rendendo questa volta efficace il suo cammino, facendolo procedere secondo natura e secondo il Suo progetto storico-salvifico.

3. L'UOMO IMMAGINE DI DIO IN CRISTO

a) A somiglianza della Sua morte... per partecipare della Sua Risurrezione

Nella Lettera ai Romani si legge: «Noi siamo stati innestati con Cristo, a somiglianza della sua morte» (Rm 6,5). Siamo all'interno di un discorso «sacramentale». Si tratta del Battesimo, che ci rende conformi alla sua morte, per farci partecipare alla sua risurrezione. Anche qui, quando si tratta di partecipare alla morte, si usa il termine somiglianza, perché noi in realtà non siamo morti affatto di una morte cruenta come quella di Cristo. Ma l'identificazione è operativa, dinamica, storico-salvifica, e ha un effetto reale. Questa somiglianza alla sua morte indica infatti tutto il cammino che l'uomo deve intraprendere per diventare una forma recipiente adatta a ricevere l'azione di Dio in lui.

Quando, infatti, si tratta di conformazione all'immagine del Cristo risorto, allora Paolo usa appunto il termine «immagine», «icona». Così sintetizza bene Sant'Agostino questo procedimento che ora esamineremo brevemente in San Paolo: «Hoc agit spiritus gratiae, ut imaginem Dei, in qua naturaliter facti sumus, instauret in nobis. Vitium quippe contra naturam est».

San Paolo fa di nuovo riferimento alla creazione e a Gn 1,26-27 quando, sintetizzando i capitoli (1-8) della lettera ai Romani sulla giustificazione e la vita nuova e introducendo i seguenti sulla storia della salvezza e il problema d'Israele (cc. 9-11), in un potente sguardo sintetico e prolettico enuncia: «Coloro che Dio ha preconosciuto, li ha anche precostituiti ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, affinché questi sia primogenito tra molti fratelli» (8,29). Ciò significa che quella vera immagine ideale che esiste fin dall' eternità è il Cristo. Ritorniamo al testo di Gn 1,26-27.

Dio Padre, pensando a quell'immagine alla quale doveva essere conforme l'uomo che avrebbe creato, pensava al Figlio suo incarnato, morto e risorto. Soltanto per mezzo di quell'immagine vera, l'uomo può essere rivestito dell'immagine di Dio.

Per dirla con Sant' Agostino, quell'immagine nella quale noi siamo stati creati deve, per mezzo del dono della grazia di Cristo fatto dal Padre nello Spirito, cioè per mezzo della comunicazione della Sua gloria, entrare completamente in noi e realizzare una copia perfetta, un'immagine radicale, una, irripetibile e identica: un'icona del Cristo Gesù.

Questa storia viene brevemente tratteggiata in 2 Cor 3 partendo questa volta dal libro dell'Esodo. Mentre gli israeliti nel deserto avevano avuto nel volto splendente di Mosè una limitata visione della gloria di Dio destinata all'uomo, oggi tutti, gentili e cristiani, possono volgersi al Signore senza velo sugli occhi, tolto dallo Spirito del Signore, e riflettere come in uno specchio la gloria del Cristo. Questo significa, secondo le parole di San Paolo stesso, essere trasformati nella sua stessa immagine, di gloria in gloria (cf v. 18), di somiglianza in somiglianza, ricostruendo in se la radicalità dell'immagine. Questa gloria, che è già da essi condivisa con Lui, incessantemente aumenta verso uno stadio sempre maggiore, con una concatenazione reciproca in crescendo, poiché la ricezione della gloria diventa causa essa stessa di una sua maggior capacità di acquisizione.

Per Paolo il Cristo risorto ha donato all'uomo non solo la conoscenza di essere stato fatto in quella stessa immagine che ora è pienamente realizzata in Lui, ma soprattutto la possibilità di essere trasformati in quella sua stessa immagine gloriosa di Risorto.

Questo è possibile perché, da un lato, i cristiani non hanno davanti semplicemente un'immagine di un dio conoscibile solo attraverso le sue emanazioni di sapienza accessibili per speculazioni, come vuole la gnosi, ma perché essenzialmente hanno davanti un'immagine concreta, corporale, in Cristo incarnato, morto e risorto, resa dinamica e comunicabile nello Spirito attraverso progressive somiglianze sacramentali; e, dall'altro, per che il Cristo Risorto è in primo luogo l'icona di Dio che comunica all'uomo l'immagine perfetta dell'archetipo divino.

b) Cristo immagine di Dio

Siamo arrivati così al primo argomento di questa nostra trattazione, al quale abbiamo più volte accennato, ma che è stato riservato per ultimo secondo l'ordine dato probabilmente da San Paolo stesso. Di Cristo icona del Padre l' Apostolo parla infatti esplicitamente solo nella lettera ai Colossesi, a parte una glossa in 2 Cor 4,4, che probabilmente è una citazione tratta da quell'inno riportato in Col 1,15-20 (cf anche FiI 2,6-11), dove il concetto di Cristo immagine di Dio è una parte costitutiva di tutta l'argomentazione.

Ecco il testo: «Il dio di questo secolo ha accecato le menti degli increduli, affinché la luce dell'Evangelo della gloria di Cristo, il quale è l'immagine dell'invisibile Dio, non appaia loro» (2 Cor 4,4). Ora, se con «divina gloria» in questo passo s'intende il modo di vivere e di agire di Dio stesso, e se questa gloria è predicata del Cristo, ciò significa che il Cristo stesso viene detto Dio, ed il concetto d'immagine trascina qui il concetto di processione da un prototipo diverso nell'esistenza, ma identico nelle proprietà, in modo tale che l'uomo può tramite Cristo, immagine di Dio, giungere a conoscere la divinità di Dio, cioè a percepire qualcosa dell'essenza divina. Questo concetto è fondamentale per il NT e per la dottrina dell'uomo immagine di Dio. Se Dio «abita in una luce inaccessibile; il quale nessun uomo ha veduto ne può vederlo» (1 Tm 6,16), in Cristo si è fatto visibile, accessibile e conoscibile (Col1,15ss: cf Gv 1,18; 5,37, ecc.). Ciò permette all'uomo di riflettere la Sua gloria, e di esser trasformato nella Sua stessa immagine (cf 2 Cor 3.7-18; 1 Gv 1,1-5). Ma per questo è indispensabile che Cristo non sia immagine di Dio in quanto creatura Sua, ma immagine in quanto Dio. La sua definizione d'immagine di Dio gli proviene dalla sua relazione trascendente con Dio. La gloria di Dio, comunicata a Cristo, lo costituisce come immagine.

Da qui il suo ruolo: primo, nella creazione ( Col 1, 15-17); secondo, nella redenzione (Col 1,18-19; 3,9).

1. Il Figlio immagine di Dio nella creazione

«Egli è l'immagine dell'invisibile Dio, il primogenito di ogni creatura, poiché in Lui tutte le cose sono state create, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili, troni, signorie, principati e potestà; tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e a causa di Lui. Egli è prima di tutte le cose, e tutte le cose sussistono in Lui» (Col 1,15-17).

Il Cristo, in quanto Dio che si rende visibile, è all'origine di tutto il creato. Dire che il Cristo è il primogenito di ogni creatura non significa qui che è il primo di una serie, ma che si distingue da tutto il creato perché tutto il creato fu fatto per mezzo di Lui, e per mezzo di Lui riceve la capacità di continuare ad esistere (cf Sir 43,26). Egli è l'agente strumentale (quello principale è il Padre: cf il passivo «sono state create» del v. 16) che si pone di fronte a tutto il creato, perché Lui come primogenito del Padre sta al di sopra di ogni creatura (cf Prv 3,9; 8,27-31; 1 Cor 8,6; Eb 1,3.6). La creazione a opera di Cristo, immagine di Dio stabilisce tutto il mondo in potenza di fruizione derivata e di sottomissione e tutti gli uomini in attesa d'elezione. Da quel momento in poi tutta la creazione, sottomessa inoltre alla corruzione a causa del soprag-giunto peso del peccato, sospira verso il momento della redenzione, da lei non intravisto, ma da Dio previsto. Qui si delinea tutto il travaglio teologico del pensiero paolino, che va da Cristo al mondo e dal mondo a Cristo: da Cristo all'opera di salvezza e dall'opera di salvezza al Cristo.

2. Cristo immagine di Dio nella redenzione

«Ed egli stesso è il capo del corpo che è la Chiesa, il principio,il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Poiché è piaciuto al Padre che tutta la pienezza abiti in Lui» (Col 1,18-19).

In questo caso il termine primogenito ha un altro significato. Il Cristo è stato costituito «Figlio di Dio in potenza» e « Signore», ricostituito in perfetta immagine di Dio come era prima dei secoli, proprio per che diventasse primogenito di molti fratelli, primizia di coloro che dormono, nel senso vero di colui che fa sussistere non solo per mezzo di se o a causa di se, ma anche in se, nella sua immagine, tante «icone» di cui Lui è l'archetipo. Per di più, solo a causa del fatto che con la sua risurrezione ha nuovamente sottomesso il creato a se e ha dato il potere ad ogni uomo di rigenerarsi completamente, «spogliato dell'uomo vecchio con i suoi atti, e vestito il nuovo, che si rinnova a conoscenza, secondo l'immagine di colui che l'ha creato» (Col 3,9-10), Cristo avrà in mano il Regno ed ogni signoria, che potrà rimettere al Padre (1 Cor 15,24).

c) Conclusione: l'uomo in Cristo immagine di Dio

«Se uno è in Cristo, è una nuova creatura» (GaI 6,15; 2 Cor 5, 17). Anche la creazione escatologica di Dio fa sempre riferimento a Gn 1,26-27. Paolo esorta a rivestire I 'uomo nuovo, che è il compimento in noi di quell'immagine a somiglianza del Creatore nella quale siamo stati creati, che di fatto è il Cristo (Col 1,15), ma che ora deve rinnovarsi completamente in noi di conoscenza in conoscenza, giorno dopo giorno, conformandosi alla kenosi del crocifisso (cf FiI 2,6ss) per poter poi raggiungere di somiglianza in somiglianza la piena e perfetta immagine del Cristo Risorto in noi (cf 2 Cor 4,16; Rm 6,5; 8,29; Col 3,9-10).

Quell'immagine figurale nella quale eravamo stati creati, che era potenza di fruizione derivata, supporto di una somiglianza e crescita secondo determinate somiglianze attraverso l'obbedienza della croce, ora di gloria in gloria è diventata sussistente di vita nuova ed eterna come partecipazione diretta all'emancipazione dell'essenza divina, partecipazione nel Logos all'impronta della sua sostanza (cf Eb 1,3), alla gloria, come immagine dell'Immagine di Dio che è il Figlio Suo, reso a noi visibile, conoscibile e comunicabile nello Spirito (cf 2 Cor 3,18; Rm 5,5; 8,8-14; GaI 5,16-23 ecc.). Il concetto d'immagine applicata all'uomo abbraccia così tutta la realtà dell'uomo, la anticipa e la sintetizza, dalla creazione alla redenzione, e soprattutto a partire da quest'ultima, perché fondamento dell'ontologia dell'icona è la sua escatologia. Infatti, sia che si applichi all'uomo terreno, sia che si applichi all'uomo celeste, essa indica sempre una relazione di origine e di dipendenza dal modello ultimo, anche se a diversi livelli e con diversi movimenti, dall'emanazione all'assunzione, dal tipo all'antitipo, dall' Adamo al Cristo, dalla figura allo svelamento, dalla fotografia al negativo a quella al positivo, per dirla in altre parole.

Termine di questo processo e di questa economia è l'uomo nuovo, fatto ad immagine del Cristo glorioso che l'ha generato. Esso appartiene all'ordine escatologico (1 Cor 15,45), è «spirituale» nel significato pieno del termine, partecipa a Dio in Cristo, è d'origine celeste (1 Cor 15,46s), è l'uomo immagine di Dio in senso radicale, l'uomo divinizzato, irradiazione della Sua sostanza, quindi partecipante della Sua stessa realtà. È I 'immagine di Cristo che il Padre per mezzo dello Spirito ha impresso in noi, perché diventassimo sua dimora santa e gloriosa (cf Ef 2,19-22), «ut imaginem Dei, in qua naturaliter facti sumus, instauret in nobis».

Con ciò siamo tornati a quella dinamica dell'assunzione e trasformazione dell'uomo terreno in uomo celeste, di cui trattavamo nel paragrafo secondo a partire da 1 Cor 15,45ss, e vi resteremo fino a quando di somiglianza in somiglianza giungeremo all'immagine radicale, «quando questo corruttibile avrà rivestita l'incorruttibilità, e questo mortale l'immortalità» (1 Cor 15,54), allora «Dio sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,28).

Domenica, 25 Dicembre 2005 20:10

Si è fatto povero per noi (Michele Lenoci)

Si è fatto povero per noi

di Michele Lenoci

Punto di partenza della nostra ricerca, tendente a evidenziare la portata profonda della condivisione di Cristo con la nostra umanità, è il passo di 2 Cor 8,9. Il brano si trova inserito nel contesto della colletta organizzata fra le Chiese per i fratelli poveri di Gerusalemme, e precisamente nella serie delle varie motivazioni addotte da Paolo per esortare i Corinzi a rispondere con generosità a tale iniziativa. All'improvviso, l' Apostolo, con «una impennata cristologica», afferma: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà».

Fin dai tempi dei Padri questo testo ha avuto interpretazioni discordanti. Alcuni hanno inteso la «povertà» di Cristo in riferimento alla incarnazione, in quanto assunzione della nostra natura umana, povera, limitata, sottoposta anche alla morte; altri, nel senso di povertà reale, come scelta, fatta da Cristo, di una vita economicamente povera.

Le due posizioni, spesso presentate come conflittuali e opposte tra loro, se considerate alla luce dell'intero epistolario paolino e dei dati globali del NT, si illuminano e si integrano reciprocamente: la povertà in senso sociologico ed economico, che si riscontra nella vita di Gesù, è la manifestazione esteriore della povertà più radicale accettata con l'incarnazione.

Sia grammaticalmente che contenutisticamente 2 Cor 8,9 è simile ad altri passi paolini (2 Cor 5,21; Gal 3, 13s; 4,4s; Rm 8,3s) che E. STAUFFER definisce «formule paradossali dell’incarnazione», mentre M. D. HOOKER parla di «formule di interscambio». Tali testi sono normalmente bipartiti e contengono, nella prima parte, l'affermazione di una scelta fatta da Cristo di una situazione negativa a Lui non dovuta, e, nella seconda, la finalità soteriologica di tale scelta.

Una particolare somiglianza si nota con il celebre inno cristologico di Fil 2,6-11, di cui 2 Cor 8,9 sembra essere un condensato meno elaborato ma ugualmente pregnante. I due passi sono costruiti con il participio presente in una apposizione e l'aoristo nella proposizione principale, per esprimere non successione temporale ma simultaneità e contemporaneità. Ambedue, inoltre, contengono una visione sintetica e globale della vita e della storia di Cristo, dall'abbassamento nella incarnazione sino alla suprema umiliazione della croce, per giungere alla esaltazione celeste.

Dal confronto con i testi suddetti si può concludere che in 2 Cor 8,9, dato che la frase ha come soggetto «Gesù Cristo» e non «il Verbo», l'impoverimento non va inteso nel senso dell'abbandono della natura divina, bensì nel senso della rinuncia ai privilegi e alle prerogative divine, e della assunzione di una precisa modalità di esistenza, contrassegnata dalla debolezza, dal limite, dalla mortalità. È questa la "ricchezza" alla quale Cristo rinuncia. Si noti pure che, nel corpus paolino - eccetto 1 Tm 6, 17 - il vocabolario della “ricchezza” , (ploutos e derivati) non è mai usato per indicare i beni terreni, ma solo i beni divini: ricchezza di Dio (Rm 11,33), di Cristo (Ef 3,8), della grazia (Ef 1,7; 2, 7).

Vanno in questo senso anche le affermazioni dei Padri della Chiesa: «Il Signore è povero in quanto uomo. Secondo l' Apostolo si è fatto povero per arricchirci, Lui che di tutte le cose del mondo non ebbe che il suo corpo. E, per la salvezza, ha voluto nascere povero da una vergine; padrone dei cieli, non ha posseduto ne argento, ne campi, ne greggi» (Ilario di Poitiers). «Pur essendo ricco, ha preso una carne mortale nel seno della Vergine; e tutte le circostanze che hanno contrassegnato la sua infanzia povera sono state le conseguenze di questa povertà fondamentale che era l'incarnazione» (Agostino).

La scelta della "povertà" non avvenne quindi nella sfera divina prima dell'incarnazione: essa ha avuto luogo ripetutamente nell'ambito della vita terrena di Gesù e si è evidenziata concretamente come assunzione di un tenore di vita caratterizzato, se non dalla indigenza e dalla miseria, certamente dalla modestia e dalla sobrietà; condivisione della nostra «carne di peccato» (Rm 8,3); compromissione con la "povertà" dell'uomo nella "kenosi" della morte.

"Povertà" socio-economica di Gesù

Gesù venne al mondo in una delle grotte scavate nelle colline circostanti Betlemme, grotte adibite spesso ad abitazioni per famiglie, ed ebbe come culla una mangiatoia (Lc 2,7). Quando venne presentato al Tempio, i suoi genitori offrirono «una coppia di tortore» (Lc 2,24), offerta che secondo la Legge (cf Lv 12,6ss) dovevano compiere coloro che, per non agiate condizioni economiche, non potevano permettersi di offrire un agnello.

Nella sua adolescenza Gesù non frequentò le scuole dei rabbi (Gv 7,15), nelle quali i figli delle famiglie benestanti si preparavano alla carriera di scriba e ai compiti più importanti della società (cf At 22,3). La sua formazione avvenne, invece, nella famiglia e nella sinagoga.

Visse per trent'anni nell'anonimato, senza distinguersi dagli altri coetanei e senza compiere gesti degni di attirare l'attenzione dei suoi concittadini. Si spiega così la loro reazione, stupita e insieme incredula, attestata in Mc 6,3: «Non è questi il falegname, il figlio di Maria?». Trascorse questi anni in un villaggio sconosciuto e senza importanza (cf Gv 1,45), aiutando Giuseppe nel suo lavoro. Dai nazaretani verrà designato come «il figlio del carpentiere (tekton)» (Mt 13,55) e come tekton egli stesso (Mc 6,3); l'appellativo può indicare mestieri sostanzialmente equivalenti: falegname, carpentiere, artigiano.

Quando iniziò la vita pubblica, Gesù abbandonò il lavoro manuale svolto fino ad allora, per dedicarsi totalmente e incondizionatamente al suo ministero, distinguendosi sotto questo aspetto dagli scribi che esercitavano un mestiere in concomitanza con l'insegnamento. Lo differenziava, inoltre, dai rabbi del suo tempo il fatto di non avere, come loro, una sede fissa e stabile, condizione essenziale per un insegnamento regolare ed efficace. Gesù era invece sempre in movimento e si spostava continuamente da un luogo all'altro (Mt 4,23 e altrove).

Non si preoccupò di forme sicure di previdenza, preferendo vivere di donazioni libere e spontanee (Lc 8,3). A chi chiese di poterlo seguire, Egli fece presente che viveva in condizioni di precarietà e di insicurezza, avendo rinunciato nel suo ministero alla tranquillità e al calore di una casa: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20 par. Lc 9,58). Il detto, che per la sua forma linguistica e letteraria sicuramente risale allo stesso Gesù, ci rivela come egli concepisse la sua missione.

Tuttavia, se è vero che Gesù scelse liberamente e volontariamente la povertà, è altrettanto vero che non può essere collocato tra gli indigenti, tra coloro cioè che mancano del necessario per vivere e non sono neanche in grado di procurarselo. Dai vangeli sappiamo che Gesù poteva contare sull'ospitalità dei suoi amici e dei suoi seguaci (Mc 3,30; Lc 10,38s) e che poteva disporre di una certa quantità di danaro, messo a sua disposizione da benefattori e benefattrici, per provvedere al necessario per vivere (Gv 4,8) e per aiutare i poveri (Gv 12,6; 13,29).

Se Gesù rinuncia ad una professione ben retribuita, a risorse sicure, a una casa sua, egli lo fa per essere in tutto servo del Regno che annuncia. La sua non è miseria ma sobrietà, motivata non dal disprezzo dei beni economici oda un ideale di ascetismo e di austerità, sul tipo di quello praticato da Giovanni Battista (i suoi nemici anzi lo accusano di essere «un mangione e un beone»: Mt 11,18s); è dettata, piuttosto, oltre che dalla volontà di dedicarsi pienamente alla sua missione, dalla fiducia illimitata nella sollecitudine paterna di Dio. Gesù ha vissuto per primo quello che ha insegnato: «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33).

La «povertà» di Cristo come condivisione

L 'affermazione cristologica di 2 Cor 8,9 non vuol certo affermare che Gesù si è spogliato della sua natura divina, bensì della gloria e della maestà di cui avrebbe potuto circondarsi venendo tra noi. Preferendo la "povertà" di una condizione umana, del .tutto simile alla nostra fuorché nel peccato (Eb 4,15; Gv 8,46), Cristo ha fatto sua la condizione e la sorte di tutti gli uomini.

I vangeli (in particolare Marco) riportano parole, gesti, sentimenti che evidenziano l'umanità di Gesù: la compassione nei riguardi di chi soffre (Mc 1,40-43), l'indignazione e l'afflizione dinanzi alla durezza di cuore (Mc 3,5; 10,13), la meraviglia e lo stupore per la incredulità dei concittadini (Mc 6,1 ), l'ignoranza dell'ora della parusia (Mc 13,22). Il secondo evangelista riferisce persino il giudizio non certo favorevole e riguardoso pronunciato nei confronti di Gesù: «È fuori di sé» (3,21).

Lo stesso Giovanni, pur mettendo in rilievo la divinità e la gloria del Verbo incarnato, non cerca di attenuare o di velare i tratti che ne rivelano l'umanità. Il Gesù giovanneo è un anthropos ( = uomo): il termine, usato con riserbo nei sinottici, è molto frequente nel quarto evangelista, che lo adopera con una certa gradualità e con una chiara pregnanza di significato per indicare il "mistero" dell'uomo Gesù (4,29; 5,12; 7,45s.51; 8,39s; 10,33; 11,50; 18,17). Giovanni presenta Gesù soggetto, come ognuno di noi, alla stanchezza e alla sete (4,6s), sensibile alla dolcezza e al fascino dell'amicizia (11,5; 13,1; 15, 14s), commosso e in pianto dinanzi alla tomba di Lazzaro (11,34-38), toccato profondamente dalla prospettiva del tradimento di Giuda (13,21).

Un'altra forma di "povertà", che riscontriamo nella umanità di Gesù, è la rinunzia a poter disporre di se stesso e del proprio tempo. Scrive a questo proposito J. Guillet: «Gesù non si appartiene e uno dei segni di questa rinuncia è il suo modo di vivere nel tempo. Una delle forme di ricchezza è avere del tempo davanti a sé, poter disporre a piacimento dei momenti che vengono, usarli a modo proprio... Ora Gesù vede la propria esistenza asservita e spogliata di se stessa. Non un istante che gli appartenga e di cui egli disponga a piacimento... Il suo tempo non gli appartiene, ma è tutto consacrato al Padre e alla sua opera... Il suo tempo non è suo, ma di tutti quelli che hanno bisogno di lui. Egli lo riceve dal Padre non come un tesoro di cui disporre a piacimento, ma come un deposito di cui rendere conto».

La "povertà" di Gesù si manifesta anche nella rinuncia a una propria progettualità nella determinazione della missione da realizzare e dei mezzi da adoperare. Nella piena accettazione del suo essere «figlio» si affida totalmente al Padre, in atteggiamento di consapevole obbedienza e sottomissione alla sua volontà (Gv 4,34; 5,30; 8,29). Unica sua preoccupazione è quella di compiere tutto ciò che piace a Lui (Gv 8,55), di annunciare e proclamare solo quanto ha udito e gli è stato ordinato da Lui (Gv 12,49s; 14,31) e di osservare i suoi comandi (15,10; 17, 1s).

La "povertà" di Gesù si manifesta, infine, nella scelta fatta fin dall'inizio del suo ministero, della via messianica del rifiuto della forza, della violenza, dell'affermazione di sé, alternativa alla aspettativa generale di un messia potente non solo da un punto di vista politico-militare. Gesù sceglie volontariamente per sé, e presenta ripetutamente ai suoi, una proposta di realizzazione umana e di salvezza basata non sul successo, sul prestigio, sull'asservire gli altri a se, ma sul «rinnegare se stessi», «prendere la propria croce», «perdere la propria vita per salvarla», «essere non il primo ma l'ultimo e il servo di tutti» (Mc 8,34s; 10,35).

Coerente con questa logica è la scelta, incomprensibile per la mentalità umana comune, della non assunzione, da parte di Gesù, di una posizione sociale di rilievo, senza creare buoni rapporti con le autorità politiche e religiose del tempo. Se fosse nato e vissuto in ambienti socialmente rispettati, se si fosse circondato di persone culturalmente qualificate, la sua missione avrebbe potuto avere risonanze più ampie e conseguire risultati più rilevanti. Ma questa - direbbe Paolo - è «la sapienza di questo mondo» che «Dio ha dimostrato stolta» (1 Cor 1,20), in Cristo «il quale è diventato per noi sapienza...» (1 Cor 1,30).

La "povertà" di Cristo nella kénosi della croce

Soprattutto nella prova della passione e della morte Gesù vive fino in fondo il suo «farsi povero per noi», ed è nell'esperienza della croce che si può cogliere tutta la vicinanza dell'uomo Gesù alla condizione degli uomini suoi fratelli.

L 'idea, presente in Paolo (cf FiI 2,6-8; 2 Cor 5,21 ecc.) e in tutto il Nuovo Testamento (cf Mc 10,45 ecc.), è sviluppata in maniera ampia e particolareggiata nella lettera agli Ebrei. Nel suo scritto l'autore prende le distanze dalla concezione veterotestamentaria del sacerdozio, fondato sulla esigenza della separazione più rigida, regolato da norme minuziose di purità rituale e oggetto spesso di mire e maneggi ambiziosi e disinvolti. Il sacerdozio «nuovo» realizzato e vissuto da Gesù ha, invece, come sua legge e come condizione qualificante la rinuncia ad ogni ricerca di gloria, l'abnegazione, l'assimilazione ai fratelli in tutto, fuorché nel peccato (cf Eb 2,17s; 4,15). Questi requisiti indispensabili vengono pienamente soddisfatti «nei giorni della vita terrena» di Cristo, e precisamente quando «offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Colui che poteva liberarlo da morte» e nei quali «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l' obbedienza dalle cose che patì» (5,7s): «Affermazioni ardite - commenta A. Vanhoye - che siamo tentati di ignorare o di attenuare, ma che rivelano però tutta la serietà della incarnazione e della redenzione».

Partendo da questa visione originale e innovatrice della mediazione sacerdotale, l'autore della lettera agli Ebrei può affermare che Gesù «diventa» sommo sacerdote nel momento della passione e morte, nel momento cioè in cui diventa sommamente partecipe della essenza più profonda della condizione umana.

La passione e la croce sono il punto d'arrivo di tutta l'esistenza di Gesù vissuta come "kenosi", come spogliazione, come "povertà". La croce indica non solo la morte avvenuta nell'angoscia e nella sofferenza, ma anche tutti i dettagli e le circostanze precise di quella morte. Gesù sperimenta il tradimento, il rinnegamento, l'abbandono dei suoi, dettato sia dalla paura sia dalla delusione patita dinanzi all'esito tragico e fallimentare della sua vicenda. Subisce gli insulti e le denigrazioni delle guardie romane, dei capi del popolo, della folla presente sul Calvario e sopporta, indifeso e umiliato nella sua dignità, una morte ignominiosa, tendente non solo a eliminarlo fisicamente ma anche a cancellarne l' onore e la reputazione.

Inchiodato sulla croce, dopo un lungo silenzio, muore lanciando un grido straziante; si rivolge al Padre dicendo non più «Padre mio», come sempre faceva distinguendosi dagli altri uomini, ma soltanto «Dio mio, Dio mio...» (Mc 15,34; Mt 27 ,46). «Gesù si rivolge al Padre con una domanda. E il Padre tace. La voce che ha parlato al battesimo e alla trasfigurazione, qui tace... La domanda esprime l'abbandono degli uomini e di Dio, ma anche la fiducia. È infatti l'inizio della preghiera del giusto abbandonato che muore affidandosi pienamente a Dio (Sal 22). Dunque fiducia. Ma è la fiducia in una esperienza di totale abbandono. Questa è la fede di Gesù». Come scrive A. Camus nella sua opera «Il caso»: «Non era un superuomo... io lo amo questo mio amico, proprio perché morì con la domanda sulle labbra». Come conseguenza ultima del suo essere uomo, Gesù vive in pieno l'ora della notte di Dio, il momento estremo dell'impotenza di Dio, nella sua morte solitaria e abbandonata.

La croce di Cristo, però, non è fallimento: la sua morte vissuta nella preghiera, nell'obbedienza filiale al Padre e nell'amore solidale verso i fratelli, rivela la profondità del mistero della sua persona («Veramente quest'uomo era Figlio di Dio». Mc 15,39), e anche l'identità vera dell'uomo: essere creato e chiamato ad affidarsi liberamente e totalmente all'amore fedele del Padre e a vivere nella donazione e nel servizio disinteressato ai fratelli.

Tutto questo ora è possibile all'uomo realizzarlo proprio in virtù della «grazia del Signore nostro Gesù Cristo», il quale «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9; cf Eb 5,9: «Reso perfetto, divenne causa di salvezza per coloro che gli obbediscono»).

 

L’eterna giovialità di Dio
di Marcelo Barros


Il mistero della trascendenza e il bambino che è in noi.

"Dio è un bel tipo a cui piace giocare", dice un canto popolare brasiliano ispirato alle tradizioni spirituali di matrice africana.

Le tradizioni del Candomblé e dell'Umbanda raffigurano le manifestazioni di Dio (orixos) come giovani guerrieri o bellissime donne seduttrici, quando non addirittura come bambini. L'immagine divina rivelata nell'orixà che la gente chiama Exu è quella di un giovane irrequieto a cui piace giocare brutti tiri alle persone e provocare situazioni complicate, giusto per il gusto di divertirsi. Non esiste festa nel Candomblé che non inizi con il pade (offerta) di Exu, perché questi acconsenta che la solennità si svolga nella tranquillità.

La filosofia greca classica insegna che Dio è perfetto e immutabile. Invece i mistici, avidi dell'intimità con Dio, mettono insieme parabole e mistero, e parlano di un Dio innamorato che ci propone una relazione amorosa e trasformante. Come in ogni rapporto affettivo ambedue i partner si trasformano, anche nella proposta di intimità che Dio mi fa, io mi trasformo, ma anche lui non rimane impassibile.

Nel Candomblé, lo spirito si manifesta nelle persone e queste entrano in trance. Si dice che, per tutta la durata del fenomeno, il filho o filha do Santo (figlio/figlia del Santo) si tramuta nell'orixà, ma si può anche affermare che il Santo [il Divino] assume la forma e il modo d'essere della persona posseduta. Di conseguenza, la manifestazione che l’orixà Iansa fa di sé quando s'impossessa di José non è la stessa di quando s'impadronisce di Maria. L'invasamento, comunque, ha sempre il medesimo esito: l'orixà rende sempre la persona più felice. Ricevere l'orixà è un modo di ottenere energia e forza per il domani.

Dopo essersi lasciati andare alla frenesia del carnevale, i neri di Bahia celebrano l'olorogum, un rito durante il quale gli orixàs lasciano i terrestri per andare a "muovere guerra" agli eventi oppressivi e alle emozioni negative che minacciano la vita e la sicurezza di tutti gli esseri (quali fame, distruzione di foreste, incendi, l'esercizio irresponsabile del potere. ..). La liturgia dell' olorogum varia da casa (luogo in cui si celebra la cerimonia) a casa. Nell'Axé Opò Afonjà, ad esempio, i fedeli sono divisi in due gruppi: il primo segue colui che porta la bandiera di Oxalà (che combatte per la pace); il secondo, la bandiera di Xangò (che combatte per la giustizia). Compiendo diverse evoluzioni, entrano tutti nella casa di Oxalà, cantando: "Olorogum, Olorogum, olorogum, ja! ja!". Ha inizio così un periodo durante il quale nei templi dedicati agli orixas cessa ogni attività. Questa sospensione dura fino alla sera del Sabato Santo, quando i cristiani celebrano la Veglia Pasquale. Per il Candomblé, si tratta di un periodo propizio al raccoglimento e alla riflessione: "tempo per rimettere in ordine la casa" si dice. Sarà la grande cerimonia della domenica di Pasqua a celebrare il ritorno degli orixàs ai loro figli e figlie, portando pace e gioia.

Ciò che impressiona maggiormente coloro che hanno contatti con le tradizioni religiose brasiliane di origine africana è la dimensione di giovialità spirituale che le caratterizza. Niente mistica triste né spiritualità pesante e corrucciata! Se Dio è amore e la persona se ne riempie, il risultato non può essere che "allegro". Nel Candomblé, il fenomeno mistico considerato più carico di significato è la danza, e lo strumento più sacro è

L'atabaque, il tamburo attraverso cui si avverte la chiamata divina. In passato, fu questa caratteristica di giovialità e allegrezza ad aiutare le popolazioni nere a resistere alla schiavitù. Oggi, essa insegna a un popolo impoverito ed escluso dalla vita la capacità di trasformare i propri dolori in momenti e strumenti di buon umore e gioia.

Anche la tradizione giudaico-cristiana possiede nel suo seno più profondo questa nota di gioia, anche se non l'ha sviluppata molto. Ogni anno, il giudaismo celebra la festa della Simhat Torah, ("il gioire per la legge"). In essa, i rabbini danzano tenendo in mano le pergamene sacre. In questa occasione, in alcuni circoli devoti è normale bere fino a sentirsi tanto brilli da non preoccuparsi più della serietà.

La liturgia cristiana, dal canto suo, parla frequentemente di giubilo e gioia; due atteggiamenti che sono da considerare importanti, soprattutto in questo mese in cui si celebra la Pasqua. Ci furono periodi in cui, durante la liturgia pasquale, a un diacono veniva dato l'incarico di "far ridere l'assemblea".

Nel secolo IV, San Giovanni Crisostomo diceva che la risurrezione di Gesù può fare della nostra vita, pur dilaniata da dolori e lotte, una festa che non finisce mal.

Nel Medioevo, la mistica Santa Matilde insegnava: "Dio accompagna sempre in modo meraviglioso il bambino che è in noi. Dio conduce l'anima in un luogo segreto e, lì, gioca con essa. Dio afferma: "lo sono il tuo compagno di giochi. La tua fanciullezza è compagnia per il mio Spirito. Plasmerò il bambino che è in te nelle forme più impensabili, perché io ti ho scelto"".

Ritengo che sia questa l'esperienza che i fedeli del Candomblé vivono ogni volta che ricevono l'orixà. Anche ogni cristiano può vivere questa profondità di relazione con Dio, quando rinnova il suo battesimo e partecipa pienamente alla celebrazione della Pasqua.


Sabato, 24 Dicembre 2005 18:48

Gettare la propria vita (Giovanni Vannucci)

Gettare la propria vita
di Giovanni Vannucci

Come altre volte vi ho detto, penso che la realtà di Cristo sia la realtà di tutti gli uomini in lui compiuta nella perfezione, nella totalità. E quando Cristo domanda ai discepoli: “Chi dite voi che io sia?” e Pietro risponde: “Tu sei il Cristo, il Cristo di Dio, il Consacrato di Dio”, egli ingiunge due cose ai discepoli: la prima, di non dirlo a nessuno; e la seconda, spiega cosa significa il Cristo, il Figlio di Dio, cioè l’essenza consacrata dell’uomo che in Cristo si è verificata pienamente.

“Non ditelo a nessuno”. Dovremmo riflettere molto, noi, su questa parola di Cristo perché, a mio parere, prima di dire quello che è Cristo, lo dobbiamo scoprire e vivere in noi. Una delle grandi illusioni di noi uomini, quella di credere che possiamo raggiungere l’essenza del mistero delle cose, la verità ultima delle cose attraverso le parole. Le parole sono un grande inganno perché ci persuadono, distraendoci dalla nostra ricerca essenziale, di aver raggiunto la verità, di aver raggiunto l’essenza del nostro essere e di tutte le cose. E allora parliamo molto, ma queste parole ci annegano, ci affogano e ci impediscono di giungere a contatto diretto con il mistero profondo dell’esistenza del tutto, col mistero profondo dell’essere.

Se voi osservate, nella vostra vita, le vostre parole, noterete questo: quando uno di noi pensa di avere una qualche esperienza spirituale o religiosa, ha subito il bisogno di parlarne, di dirlo, di ricoprirla di teorie, di comunicarla attraverso dei discorsi incessanti. Dall’ultimo Concilio Vaticano ad oggi, noi siamo inondati di parole, di libri su libri, per spiegare il mistero della Chiesa, il mistero del cristianesimo, di Cristo, dei sacramenti, e tutto questo parlare ci allontana dalla riflessione essenziale che noi dobbiamo fare e che ci è possibile realizzare e attuare soltanto quando ci mettiamo di fronte al mistero, personalmente. E questo mettersi di fronte chiede a noi un grande silenzio. E, forse, abbiamo dimenticato troppo, con le parole, il mistero del Cristo. Se avessimo conservato la consegna di Cristo: non lo dite a nessuno! Perché prima di dirlo dobbiamo attuare quello che è il mistero del Figlio dell’Uomo: il Figlio dell’Uomo verrà consegnato in mano dei custodi di tutte le tradizioni, delle tradizioni solidificate, che lo uccideranno, ma la morte non sarà che morte apparente, perché risorgerà a pienezza di vita.

Sempre in questo contesto di rivelazione è la natura profonda dell’essere, questo morire incessante per risorgere e questa sperimentazione alla quale noi siamo chiamati. Cristo dice: anche voi dovete rinunciare al vostro io, perché chi non rinuncia alla propria vita, la perde, e chi rinuncia alla propria vita, trova la vita; chi getta allo sbaraglio la propria vita, trova la vita; chi invece la conserva avidamente per sé rimane chiuso in questo possesso della vita e la perde. Se voi prendete un fiore e lo solidificate con un processo chimico, una rosa, la rosa che è qui fuori della pieve; è bella, la prendete e la solidificate, cosa succede? La rosa non è più viva, perché la rosa deve appassire, deve morire, deve fare un nuovo germe per continuare la sua vita di rosa. Questo noi l’abbiamo fatto quando abbiamo dato una definizione del nostro cristianesimo, della nostra religiosità, e viviamo bene dentro questa definizione, ma siamo già morti, perché la vita, come vi ho detto altre volte, è un continuo passaggio di forma in forma, di figura in figura, è un implacabile andare avanti, è un costante gettare la propria vita per ritrovare la nostra vita in una risurrezione sempre nuova e sempre infinita.

Allora il portare la croce che indica il mistero di Cristo - e il mistero anche di noi cristiani - significa accettare la vita in questa rinnovazione e mutazione continua, perché quando ci chiudiamo o quando la nostra esperienza personale si chiude in se stessa, allora il germe vitale del nostro essere viene soffocato. Quando l’artista pensa di aver raggiunto la perfezione della forma e comincia a ripetersi è finito. Così, quando noi, nella nostra vita mentale, psicologica e anche fisica, crediamo di aver raggiunto la bellezza, è il momento in cui moriamo. Non è così nell’amore umano? Se due sposi non vivono ogni giorno la morte e la risurrezione del loro amore, il loro amore finisce. Se la nostra amicizia con gli altri non è continuamente rinnovata, l’amicizia finisce. Se la mia vita fisica continuamente non si rinnova, la mia vita finisce. Questa è la grande legge dell’esistenza.

Dobbiamo sentire così il mistero del Cristo, il mistero del Figlio dell’Uomo. Il mistero di Cristo è il nostro mistero, questo continuo andare avanti senza mai solidificarsi, questo rinnovamento continuo dell’esistenza. Ogni giorno deve essere per noi il primo giorno dell’esistenza. Ogni nostro sentimento che abbiamo avuto ieri deve morire oggi per rinnovarsi con maggiore intensità, maggiore purezza, maggiore verità. Ogni nostro pensiero bisogna che sia continuamente rinnovato, rinfrescato, rivivificato, perché la vita è questa. Ecco, il Figlio dell’Uomo - e qui dovremo liberarci da ogni interpretazione posteriore che è stata fatta del mistero di Cristo, di riscatto, di redenzione - il Figlio dell’Uomo ci ha rivelato così l’essenza della vita, il mistero stesso di Dio. Dio si consuma continuamente nella creazione, muore ogni giorno e risorge ad ogni alba, sempre nuovo, sempre nuovo. E questo è apparso in Cristo, lo possiamo verificare in Cristo: incontra le tradizioni religiose e civili del suo tempo, solidificate, vogliono opprimerlo e Cristo rompe il sepolcro e risorge.

Questa è anche la vicenda quotidiana del nostro esistere: dobbiamo essere sempre nuovi, nuovi nel pensiero, nel sentimento, nella volontà, nell’amore per le cose; continuamente dobbiamo essere pronti a gettare tutto il nostro passato, perché l’alba ci ritrovi freschi e puri per ricominciare la nostra esistenza e la nostra vita. Ora, questo va contro la nostra natura; è questo l’egoismo che dobbiamo vincere, perché la nostra natura è portata a costruire le case comode e a starci bene dentro, è portata a costruire delle strutture perfette dentro le quali stiamo molto comodamente. E invece la verità profonda del nostro essere ci spinge ad andare oltre.

Il Figlio dell’Uomo non ha una pietra dove posare il capo né una tana dove pernottare. Perché, vedete, se questo diventa un fatto cosciente della nostra vita, allora non abbiamo paura della vita. Se guardate la nostra società, vedete che la molla fondamentale che la muove è la paura: paura della novità, del domani, di quello che ci succederà domani. Se invece in noi c’è la forza di scrollarci di dosso questa paura, allora vivremo una continua risurrezione, cioè una risurrezione che non conosce morte.

Noi cristiani siamo chiamati a vivere la nostra vita con piena partecipazione e con una continua apertura alle realtà che avvengono nell’esistenza di cui facciamo parte. Perché noi ci possiamo chiudere, possiamo costruire tutti i nostri edifici, possiamo costruire le nostre società di assicurazione più perfette, possiamo costruire gli imperi più grandi e all’apparenza più duraturi, e poi improvvisamente si solleva un soffio misterioso nella coscienza di tutti gli uomini, che travolge tutte le nostre strutture più perfette. Quante cose abbiamo visto tramontare durante la nostra esistenza, e le credevamo permanenti!

Se comprendiamo che questa è la legge profonda del mistero dell’esistenza, un rinnovarsi continuo, un andare avanti continuo, un gettare sempre oltre i confini la nostra vita, allora possiamo vivere con più pace, con più serenità e con più partecipazione al mistero di morte e di risurrezione che è il mistero cristiano, il mistero di Cristo e il mistero della nostra vita di uomini. Così, concludendo queste poche riflessioni sulle parole di Cristo, finisco col ripetervi quello che vi ho letto: chi ritiene avidamente la propria vita, la perde; chi getta la propria vita, la trova, potenziata, per una risurrezione e per un rinnovamento di vita.

(Omelia pronunciata domenica 19 giugno 1977 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 19 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI. In Ogni uomo è una zolla di terra , Borla, Roma, 1999, «Gettare la propria vita», pp. 193-197, 12a domenica del tempo ordinario - Anno C).


Sabato, 24 Dicembre 2005 18:30

Camminare nella luce (Carlo Molari)

Camminare nella luce
di Carlo Molari


Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è la luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato.
(1Gv 1, 5-7)

La prima lettera di Giovanni, dopo il prologo inizia con un esplicito riferimento a Dio. È un dato essenziale, perché la vita cristiana è teologale, cioè centrata sulla presenza di Dio in noi. L'orizzonte teologale è necessario per ogni esperienza cristiana. Il richiamo a Dio si realizza attraverso il riferimento a Gesù: "Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui". Egli è il "Testimone fedele", come lo chiama l'Apocalisse (3,14), è l'icona di Dio, come dichiara l'inno riportato da san Paolo (Col 1,15). Anche Giovanni nel prologo del Vangelo dice: "Dio nessuno l'ha mai visto: il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (1,18), cioè ce lo ha narrato, ce ne ha fatto l'esegesi (exeghèsato). Gesù resta continuamente il punto di riferimento della testimonianza dell'Apostolo. Come nei primi versetti (1-4 prologo) aveva scritto: la lettera è a una testimonianza; essa comincia con un primo annuncio: "Dio è luce e in lui non ci sono tenebre". Vedremo subito le applicazioni concrete dell'apostolo, per il momento esaminiamo la formula: "Dio è luce". È un'affermazione metaforica, non è una definizione di Dio. Dio nessuno l'ha mai visto (Gv 1,8), non sappiamo che cosa sia in sé stesso. Conosciamo solo le sue manifestazioni create, in particolare la manifestazione del Figlio.

Ma cosa significa allora "Dio è luce e in lui non ci sono tenebre"? Due cose fondamentali. La prima: Dio è una realtà positiva; la seconda: è una realtà solo positiva. Noi non possiamo cogliere tutto il valore di questa metafora, perché per noi la luce è normale, quotidiana, facilmente gestibile e utilizzabile; per questo non ci rendiamo conto della sua preziosità. Solo quando viene a mancare la corrente elettrica ci accorgiamo che essa è importante, assolutamente necessaria per alcune attività. Per gli antichi era un bene assoluto, perché la vita fioriva là dove c'era la luce; essi erano completamente dipendenti dal sole e dai cicli del tempo. Possiamo cogliere il valore di questa metafora se usciamo dalle nostre abitudini mentali e riusciamo a metterci in una prospettiva diversa. Potremmo tradurre il senso della metafora con l'affermazione: Dio è forza che rende possibile il cammino, illumina la via. Immaginate una gita in montagna, siete in ritardo, cala il sole, non trovate più il sentiero, dovete fermarvi. L'affermazione di Giovanni ha una valenza molto più profonda, al di là della superficialità della metafora. Dio è una forza positiva di vita, rende possibile il cammino.

La seconda componente di questo messaggio, da un punto di vista teorico è ancora più importante, Dio è solo luce. A noi può sfuggire l'importanza di questa affermazione, ma al tempo di Giovanni c'erano tendenze dualiste che pensavano a un duplice principio, quello del bene e quello del male, la fonte della luce e la fonte delle tenebre. Nell'ambiente essenico erano in uso formule che potevano favorire queste tendenze, che poi acquisteranno rilevanza nel movimento gnostico. Già alla fine del I secolo appaiono componenti gnostiche dualiste in scritti della comunità cristiana.

Lo gnosticismo si caratterizzava proprio perché tendeva ad affermare un dualismo iniziale, per cui non c'era solo il principio del bene, c'era anche il principio del male, con una entità a sé, una forza assoluta che si contrapponeva a Dio. Nella prospettiva giovannea il dualismo è radicalmente respinto. Dio è luce e solo luce, non ci sono tenebre. Le tenebre non sono una realtà positiva, sono la mancanza di luce. Anche nel prologo del Vangelo Giovanni riprende la metafora della luce parlando dell'azione del Verbo eterno nella storia umana: "veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (4,9). Dove risplende la luce non ci sono tenebre. Le tenebre stagnano dove non arriva la luce o dove essa viene respinta. Credo che possiamo riassumere questo primo messaggio così: non sappiamo cosa è Dio, ma sappiamo che è una forza positiva e che in sé non ha componenti negative. La sua azione riflette continuamente questa perfezione.

Permettete che faccia una parentesi sul problema del male, dato che ho accennato al dualismo. L'esistenza del male è stato uno dei grandi interrogativi che hanno accompagnato il pensiero religioso. Il male nella creazione e nella storia, infatti, costituisce una difficoltà notevole per la fede in Dio. Se diciamo che Dio è solo bene, dobbiamo rispondere alla domanda: da dove viene il male? Questo è l'interrogativo da cui è partito lo gnosticismo. Unde malum?

A questo interrogativo oggi è più facile rispondere che nel passato, perché la cultura attuale ha acquisito la consapevolezza del tempo come componente essenziale della creatura. Il tempo non è un fattore esteriore, come il palcoscenico dove si svolge il dramma umano, ma è una struttura essenziale della creatura. Essa non è in grado di accogliere e di esprimere tutta la sua ricchezza vitale e quindi di raggiungere la sua identità personale in un solo istante, ma ha bisogno di tappe successive, di esperienze molteplici. La creatura vive solo a frammenti in una successione di situazioni diverse. Abbiamo bisogno di portarci dietro il passato, di aprirci costantemente alla novità del futuro e tutto questo nel piccolo istante presente che ci è donato. Da questa condizione consegue che tutto il cammino compiuto nella storia è accompagnato necessariamente dalla insufficienza, dalla inadeguatezza, dalla imperfezione e dal male, che, a sua volta, diventa peccato quando è rifiuto volontario del dono offerto dalla vita. Il male non richiede un'aggiunta di causalità, non è stato introdotto da un'azione successiva a quella di Dio, come se Dio avesse fatto bene tutte le cose e poi qualcuno le avesse guastate. Dio sta facendo ora le cose, ma il bene senza imperfezioni esisterà solo alla fine, perché le creature non possono accogliere le offerte divine tutte insieme, in un solo istante. Quello che noi chiamiamo male è una componente essenziale del nostro processo di creature, del nostro sviluppo nel tempo. Non c'è un'altra causa prima oltre a Dio.

Dio è tutto luce, ma noi, che non possiamo accogliere il suo dono interamente in un istante solo, siamo un groviglio di luce e di tenebre. Il vuoto, il nulla, la tenebra dell'inizio non sono ancora stati sconfitti, perché il tempo a disposizione non è stato ancora sufficiente. Sono stati necessari molti miliardi di anni perché sorgesse la specie umana: quel tempo non poteva essere abbreviato. Non si può dire: Dio è onnipotente, può fare tutto nella creazione e nella storia. Dio è onnipotente in sé, ma noi non lo siamo e non possiamo accogliere in un istante tutto ciò che Lui ci offre. Nella creazione e nella storia l'azione di Dio, limitata dalle creature, non può esprimersi in tutta la sua potenza. Quando diciamo Dio onnipotente esprimiamo la fede in Dio che ci può condurre al compimento, ma non vogliamo dire che Dio possa tutto in questo momento della nostra vita, perché egli è limitato dalla nostra condizione e dalla nostra capacità di accoglienza. Inoltre il termine onnipotente presente nel Credo è una traduzione non esatta della formula greca, che a sua volta non traduce bene quella ebraica da cui deriva. Il termine greco è pantocrator, che significa: colui che tiene le cose insieme e traduce nella LXX la formula Eloim sebaot, (cfr Is 6,3) Dio degli eserciti o il Dio delle schiere. I latini non avevano una parola corrispondente a pantocrator, siccome però i pagani (che in quel tempo entravano a frotte nella chiesa) chiamavano Juppiter onnipotens, anche i cristiani sono ricorsi a questa formula, più per ragioni pastorali che teologiche dato che i pagani divenuti cristiani la percepivano familiare. Nella traduzione italiana e poi nell'uso comune, quando diciamo Dio onnipotente pensiamo che Egli possa fare tutto. Ma questa convinzione non è esatta. Ora è importante avere una immagine corretta di Dio, per vivere bene il rapporto con Lui, e aprirsi alla sua azione in modo che fiorisca in noi come novità di vita e diventi nostra ricchezza.

In Dio non c'è tenebra, ma in noi ci sono tenebre, perché non siamo pienamente illuminati. Illuminati: così venivano chiamati i cristiani. Il battezzato è colui che è rivestito di luce. Il Battesimo inizia il cammino, ma la tenebra resta finché non diventiamo figli, finché non ci lasciamo investire pienamente dalla luce e diventiamo luminosi. Giovanni giunge subito a una applicazione concreta: “Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato" (1,6-7).

Dal fatto che Dio è luce Giovanni trae due conclusioni immediate: siamo in comunione gli uni con gli altri e siamo purificati dai peccati. L'azione di Dio mette in comunione, fonda la koinonia che è la condizione specifica dei discepoli di Gesù. Camminare nella luce implica essere in comunione gli uni con gli altri mentre camminare nelle tenebre corrisponde alla mancanza di comunione. Se diciamo di essere in comunione con lui, ma camminiamo nelle tenebre, mentiamo, perché se Dio è il faro che proietta la sua luce sul cammino non possiamo ignorare che cammina con noi. Non possiamo camminare nelle tenebre disgiunti gli uni dagli altri (le tenebre dividono); se la via di Gesù è la via della luce è necessariamente via di comunione. Qui alla metafora della luce si aggiungono le metafore della via e del cammino.

La metafora della via è stata la prima a qualificare l'identità cristiana dato che i primi seguaci di Gesù venivano chiamati: quelli che seguono la via. Negli Atti degli Apostoli appare questo uso prima che nel mondo di lingua greca e precisamente ad Antiochia (forse un qualche burocrate) si inventasse il nome 'cristiano' (At. 11, 26). Nel capitolo nono si dice Saulo "chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della vita di Cristo" (At 9, 2 trad. CEI ha dottrina, ma la nota precisa che alla lettera sarebbe 'via'. Cfr anche At 18,25.26; 19,9.23; 22,4;24,14.22)

La metafora del camino è conseguente e spesso ritorna negli scritti neotestamentari. Paolo ad es. usa spesso la metafora della corsa: “corro verso la meta per arrivare al premio” (Fil. 3,14 cfr. 1 Cor 9,24-26; Gal 5,7 ecc.). la lettera agli Ebrei parla a volte della “corsa che ci sta davanti” (Eb. 12,1).

Anche i membri della comunità di Qumran si chiamavano figli della luce in contrapposizione ai figli delle tenebre. Gesù e i primi cristiani erano vicini più agli Esseni che ai Farisei o ai Sadducei. Forse è questa la ragione per cui gli Esseni non vengono mai nominati nel Nuovo Testamento, proprio perché costituivano l'area in cui i cristiani si muovevano.

Questo è il primo effetto dell'essere nella luce, siamo in rapporto gli uni con gli altri.

La remissione dei peccati

Il secondo effetto: il sangue di Gesù ci purifica da ogni peccato. Il presupposto di questa affermazione è che tutti siamo peccatori. Giovanni lo afferma chiaramente: "Se diciamo che siamo senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi" (1,9 s.).

Il perdono dei peccati è uno degli annunzi essenziali della Nuova Alleanza. La purificazione dal peccato è un’azione divina ed è gratuita, è iniziativa di Dio, ma esige che riconosciamo di essere peccatori, perchè se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Giovanni continua: "Vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo" (2,1-2).

Queste affermazioni relative al perdono dei peccati spesso vengono interpretate in modo errato, sia per il termine espiazione, che viene inteso nel senso moderno e non nel senso biblico, sia perché pensiamo che esistano condizioni preliminari perché Dio ci perdoni. Precisiamo subito che il perdono dei peccati anche se incondizionato, deve essere accolto per diventare efficace. Incondizionato vuol dire che il perdono è iniziativa divina ed è gratuito, non chiede nulla da noi. L'unica condizione per essere perdonati è accogliere la misericordia di Dio, dato che la sua azione non è condizionata, Dio infatti non richiede prezzi o compensi. Questo è uno dei messaggi centrali della Nuova Alleanza. Ricordate Geremia: "Perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò più del loro peccato (31,34).

L'attività di Gesù si è subito concretizzata come attenzione ai peccatori e quindi come perdono dei peccati. È necessario però che noi accogliamo l'azione di Dio, altrimenti non c'è perdono del peccato. Questi processi sono processi vitali, non giuridici. Noi diventiamo viventi per l'azione di Dio che suscita una nostra qualità, un nostro pensiero, una nostra decisione e quindi una nostra azione. Noi però, in virtù dei doni già ricevuti, possiamo non accogliere la misericordia divina e impedire che diventi nostra azione. Per accoglierla dobbiamo riconoscerci peccatori. Riconoscerci peccatori non è una condizione posta da Dio alla sua offerta, come se Dio dicesse: "Tu non ti riconosci peccatore? Allora non ti offro perdono". Dio non ricorre a questi ricatti. Dio offre sempre il perdono, ma se noi non ci riconosciamo peccatori non siamo in grado di accogliere l'azione misericordiosa di Dio e se non accogliamo la misericordia che ci investe, essa non diventa nostra qualità e in noi non fiorisce novità di vita. Se ci riteniamo buoni, giustificati e santi, non avvertiamo il bisogno di rivolgerci a Dio per accogliere la sua misericordia. Riconoscerci peccatori, perciò, e aprirci alla misericordia divina non sono condizioni giuridiche o estrinseche poste da Dio bensì condizioni vitali richieste dalle stesse dinamiche della crescita personale.

Se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Il male esiste nella nostra vita perché siamo ancora incompiuti. Nessuno dei nostri atti di amore è così puro da contenere una qualche ricerca di noi, nessun atto di servizio è talmente perfetto da non contenere egoismo. Non dobbiamo pensare di essere compiuti e perfetti. Tutto ciò che noi pensiamo, decidiamo e operiamo porta il segno della nostra incompiutezza e costituisce il regno del peccato. Qui il termine peccato va inteso in un senso più ampio come il male della nostra vita.

Nella nostra vita non c'è nessun pensiero che sia totalmente puro, nessun gesto che sia radicalmente gratuito, nessun desiderio che sia libero dal nostro egoismo. Dobbiamo riconoscere questo bisogno di purificazione continua, altrimenti siamo bugiardi. Riconoscerci bisognosi dell'azione di Dio, riconoscerci imperfetti è la condizione assoluta per aprirci alla misericordia di Dio. Questo vale non solo a livello personale bensì anche a livello comunitario, di popolo e di Chiesa. La Chiesa deve riconoscersi peccatrice. Uno scritto del secondo secolo, il Pastore di. Ermas, presenta la Chiesa nell'immagine di una vecchia, con le rughe, perché c'erano già le divisioni e incomprensioni fra le diverse comunità. Nei secoli successivi la Chiesa ha compiuto scelte sbagliate e spesso è stata infedele al Vangelo. Dobbiamo riconoscere il peccato della Chiesa. Il Papa Giovanni Paolo II ha insistito molto sulla necessità che la Chiesa chieda perdono per le sue numerose colpe storiche, in occasione dei suoi viaggi nelle diverse parti del mondo e soprattutto in occasione del grande giubileo. Ci sono state però molte resistenze anche da parte di Cardinali ad ammettere il peccato della Chiesa. Certo, la Chiesa celeste è santa, ma sulla terra la Chiesa è peccatrice e ha bisogno di essere purificata continuamente. Sì, anche sulla terra la Chiesa può essere detta santa, in quanto è continuamente purificata dalla misericordia di Dio e santificata dal Sangue del Calice. Per questo i Padri dicevano che la Chiesa è: sancta et meretrix, santa e meretrice. Meretrice per le sue infedeltà al Signore e santa perché santificata ogni giorno dall'azione purificatrice di Dio.

Secondo elemento da chiarire è il termine espiazione che oggi viene inteso nel senso di pagare il debito della propria colpa, il fio del proprio delitto. Il termine ebraico che soggiace questa formula è Kippur, che vuoi dire: purificare. Nel rito ebraico il termine designa l'azione che Dio compie per purificare i peccati degli uomini. Giovanni scrive: "Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa" (1,9). Poi aggiunge che Gesù Cristo, giusto, "è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo" (2,2).

Purificare ed espiare si corrispondono in senso biblico. Il catechismo della CEI quando parla della redenzione, ha due pagine con i termini da utilizzare nel senso giusto. Spiega che il termine espiazione è da intendersi come purificazione. E' un'azione compiuta da Dio. Non siamo noi che dobbiamo espiare, non è Gesù che ha pagato a Dio il debito del nostro peccato o ha offerto a Dio una sofferenza in compenso dei peccati degli uomini o per espiare i peccati degli uomini. Gesù ha messo a disposizione di Dio il suo corpo perché Egli potesse esprimere la sua misericordia e comunicasse vita agli uomini. Gesù ha espiato perché ha offerto a noi la purificazione da parte di Dio, donandoci il suo Spirito. Egli ha offerto agli uomini la testimonianza dell'amore misericordioso di Dio, che purifica dai peccati e rinnova la vita. In questo senso Paolo può affermare: "Se uno è in Cristo è una creatura nuova. Le cose vecchie sono passate, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione" (2 Cor 5,5-17).

La purificazione o espiazione quindi è una iniziativa di Dio a favore di tutti gli uomini, non solo dei Cristiani. L'azione misericordiosa di Dio si rivolge a tutti gli uomini che, consapevoli di essere peccatori, Lo riconoscono come misericordioso e ne accolgono il perdono.

(Testo tratto dalla registrazione di una conferenza e pubblicato in Monastica, 2, aprile-giugno 2005, pp. 5-16).

“Piacque a Dio di fare abitare in lui tutta la pienezza” (Col 1, 19)

Mercoledì, 07 Dicembre 2005 00:57

Multiculturalismo (Tamar Pitch)

Universalismo e relativismo sono dunque strettamente intrecciati, due facce di una stessa medaglia e possono ambedue legittimare politiche contraddittorie. In ambedue coesistono il riconoscimento delle differenze.

Mercoledì, 07 Dicembre 2005 00:43

Guadagnarsi da vivere (Martin Neyt osb)

Una riflessione sul modo di guadagnarsi da vivere è un invito a una duplice esigenza evangelica. La prima è un appello a prolungare la creazione con il nostro lavoro...

Martedì, 06 Dicembre 2005 00:55

Il paradiso e le Huri (Maria Domenica Ferrari)

Il paradiso e le Huri
di Maria Domenica Ferrari



E quei della destra, oh quei della destra!- E quei della sinistra, oh quei della sinistra! - E i precursori, i Precursori! - Saranno a Dio i più vicini - in deliziosi Giardini - Molti là vi saran degli antichi - pochi vi saran dei moderni - su troni ornati d'oro e di gemme - adagiati, gli uni agli altri di fronte, - e fra loro garzoni d'eterna gioventù trascorreranno - con coppe e bricchi e calici freschi limpidissimi - da' quali non avranno emicrania né offuscamento di mente - e frutti a piacere- e a volontà carni delicate d'uccelli - e fanciulle da' grandi occhi neri- a somiglianza di perle nascoste nel guscio, - in ricompensa di ciò che avranno operato.- E non udranno colà discorsi frivoli o eccitanti al peccato - ma solo una parola: <Pace, Pace!> - Quei della destra! Oh quei della destra! - s'aggireranno fra piante di loto senza spine - e acacie copiose di rami - e ombra ampia - e acqua scorrente - e frutti molti - mai interrotti e mai proibiti, - e alti giacigli. - e le fanciulle le creammo a nuovo - e ne facemmo vergini - amanti coetanee - per quei della destra.” (1)

Janna Giardino è la parola per antonomasia che indica il luogo nell'Aldilà riservato agli eletti.

La maggior parte delle sure che parlano del Paradiso sono quelle del periodo meccano e la descrizione è incentrata su aspetti concreti: stoffe preziose, gioielli, profumi, banchetti. Gli eletti godranno di tutto ciò con le proprie mogli e figli, in armonia, senza dolori e afflizioni, nei pressi del trono di Dio “Volti in quel giorno saranno splendenti - al loro Signore miranti" (2) .

Negli hadîth viene enfatizzata la tendenza letterale che insiste sulla realtà dei piacere sensuali; alcuni sono ritenuti autentici (sahîh) altri dubbi (da‘îf) secondo il criterio musulmano che si basa sulle linee di trasmissione degli stessi.

I più pensano che l'ubicazione del Paradiso sia sotto il Trono di Dio. I vari livelli sono collegati da porte e ognuno di essi è di solito diviso in cento gradi. Muhammad sarà il primo ad entrare e i poveri precederanno i ricchi, gli angeli li accoglieranno con una melodia araba (l'arabo è la sola lingua del Paradiso). I dotti hanno discusso sull'ubicazione dell'Eden di Adamo c'è chi sostiene che sia uno dei sette paradisi, per altri è un giardino terrestre. La maggior parte dei commentatori divide il Paradiso in:

 1) dimora della Maestà,
 2) della Pace,
 3) il giardino dell'Eden,
 4) del Rifugio,
 5) dell'Immortalità,
 6) dell'Firdaws,
 7) delle Delizie,

 altri testi pongono il Firdwas al vertice, e altri ancora l'Eden.

In Paradiso sarà sempre primavera, un giorno in esso corrisponde a cento sulla terra; è fatto di muschio, oro e argento, i palazzi sono d'oro e pietre preziose. Quattro fiumi sgorgano da montagne di muschio, nelle vallate crescono piante dai frutti meravigliosi. Vi sono cavalli e cammelli. Tutti gli eletti hanno la statura di Adamo e gli anni di Gesù. Nell'aria si ode una melodia meravigliosa, quella più bella di tutte, è la voce di Dio

Nel Corano la parola hûr (3) indica le giovani fanciulle vergine promesse ai credenti. La radice di questa parola è collegata all'idea di “bianchezza” in particolare ai grandi occhi della gazzella e al contrasto tra il bianco dell'occhio e il nero della pupilla, hawrâ’ è una donna dai grandi occhi neri e dalla pelle molto chiara.

Quasi tutti i versetti che parlano di hûrî sono del periodo meccano, quando è particolarmente sentitoda Muhammad il tema del Giudizio Universale.

I versetti coranici ci dicono che non sono mai state toccate né dagli uomini né dai jinn, la sostanza da cui sono state create per alcuni è lo zafferano, per altri sono di zafferano, muschio, canfora e ambra. I loro muscoli sono delicati e i loro tendini paiono fatti di fili di seta. Sui loro seni sono iscritti due nomi: da una parte quello Dio, sull'altro quello del proprio marito. Vivono in castelli con 70 letti, hanno 33 anni come i loro mariti, la loro verginità viene rinnovata eternamente, il loro corpo è sempre puro, non hanno mestruazioni, bisogni umani.

Le donne che in vita sono state virtuose in Paradiso si ricongiungeranno al proprio marito e lì continueranno la loro vita insieme. Se una donna in vita ha avuto più mariti ne sceglierà uno, mentre gli uomini poligami avranno diritto a tutte le mogli legittime. I commentatori però non dicono nulla sulla sorte di quelle donne che andranno in Paradiso, ma che in vita non sono state sposate.

Su questa base coranica la tradizione ha aggiunto dettagli dando alle hûrî un carattere molto sensuale. Non tutti gli esegeti hanno accettato questa idea prettamente materialista, al-Baydâwî (4) dice che non si possono fare raffronti tra il godimento del cibo, delle hûrî, la condizione umana terrena è altra rispetto a quella del Paradiso, certo è che la mentalità popolare musulmana è permeata da questi concetti. E' solo in un hadîth che si parla delle 70 vergini che attendono tutti gli eletti, non solo i martiri.

Dal punto di vista delle scuole religiose abbiamo tre attitudine fondamentali.

a) Per i mutaziliti (5) i passaggi antropomorfi relativi a Dio e ai suoi atti devono essere interpretati metaforicamente, al contrario i piaceri del Paradiso sono reali, ma vanno escluse le esagerazioni. Negano la visione di Dio in Paradiso e pensano che sarà creato al momento della Resurrezione.

b) I primi ashariti (6) accettano l'antropomorfismo del testo coranico, la visione oculare di Dio come “la luna nel cielo”. Il Paradiso esiste da sempre, i piaceri sono reali, ma di una natura che non è comprensibile dalla condizione umana in base al principio del “bilâ kayf”, (senza come).

c) Gli ultimi ashariti, forse influenzati dalla filosofia, adottano l'interpretazione metaforica della descrizione del Paradiso e più che sui piaceri sensuali mettono l'accento sulla presenza divina che impregna le anime degli eletti.

Per i filosofi la vita futura inizia con la morte individuale, Ibn Sînâ (7) e Ibn Rušd (8) nelle loro opere non negano la realtà della Resurrezione, ma il racconto coranico è stato fatto per gli “uomini semplici” che non possono comprendere simboli e allegorie. Per gli uomini saggi il Paradiso è il luogo in cui saranno uniti tramite una sostanza intellegibile all'Intelletto Universale. I primi sufi pur prendendo alla lettera il testo coranico focalizzano la loro attenzione alla felicità della visione di Dio. Col passare del tempo, gli aspetti sensuali verranno rimossi per lasciare spazio al senso spirituale come nell'opera di Ibn ‘Arabî (9). Se pur guardati con sospetto dagli ‘ulamâ, le idee dei filosofi e dei sufi grazie, soprattutto, al diffondersi delle confraternite ebbero un'influenza reale sulle popolazioni musulmane.

Con al-Ghazâlî (10) si giunse alla sintesi più importante fra queste varie correnti. Al-Ghazâlî afferma la realtà della visione di Dio, i piaceri del Paradiso sono incomprensibili dalla mente umana per questo vengono descritti in termini terreni. Afferma la realtà della resurrezione dei corpi negata dai filosofi.

In epoca contemporanea i manuali popolari di teologia contengono pochi accenni al Paradiso, quello di al-Bâjûrî segue la linea ašarita della realtà letterale senza “chiedere come”, ammettendo però in alcuni casi una doppia lettura.

Con Muhammad ‘Abdul, riformista egiziano del diciannovesimo secolo, se da un lato si riafferma il senso letterale del testo, e il “bilâ kayf” è ripreso nel caso delle hûrî, muove però anche delle critica alle fonti tradizionali accettando solo gli hadîth con più linee di trasmissione.

Per Rashîd Ridâ (11) i piaceri spirituali promessi sono superiori a quelli sensuali, le iperbole delle descrizioni si devono alla lingua araba, ogni eletto avrà oltre alla moglie terrena una sola hûrî. La visione di Dio non è un fatto basilare della fede musulmana.

Note


(1) Corano, LVI 8-38.

(2) Corano, LXXV 22-23.

(3) Nelle lingue occidentali la parola entrata in uso è quella persiana singolare hûrî.

(4) Giurista, teologo, grammatico , morto alla fine del 1200, l'opera più conosciuta è un commentario al Corano diffusissimo nel mondo arabo.
(5) Seguaci di una delle più importanti scuole teologiche musulmane nata a Basra all'inizio dell'VIII secolo, sono considerati i “razionalisti” dell'Islam , “la ragione come criterio della Legge” è il loro principio.

(6) Scuola teologica dei seguaci dei Abû 'l-Hasan al-Aš‘arî nato a Basra nel 873 -4 morto a Bagdad nel 935-6. A partire dal XIV secolo diviene sinonimo di “ortodossia” religiosa che permane per certi aspetti tuttora.

(7) Avicenna.
(8) Averroé.
(9) Uno dei più grandi sufi nato a Murcia il 27-8-1165 morto a Damasco il 16-11-1240.
(10) Uno dei più grandi pensatori musulmani,: teologo, giurista, mistico, riformatore religioso., nato a Tus 1058 morto a Naysapur 1111.
(11) Uno dei più importanti autori musulmani (1865-1935) legato soprattutto al giornale da lui fondato nel 1898 al-Manâre diretto fino allla morte.

Risulta evidente, nel dettato seguente dei Principi e norme per l’uso del Messale Romano, la volontà di ribadire che la chiesa è presente nelle assemblee liturgiche, le quali ne costituiscono, quindi, la più trasparente epifania:

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