Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
Dialogo Islamo-Cristiano
di Halim Noujaim
Direttore della scuola Terra Sancta College - Nazareth
Introduzione
Molti sono i pareri contraddittori riguardo al dialogo islamo-cristiano.
Molte le posizioni contraddittorie riguardo allo stesso argomento. Difficilmente possiamo trovare su questo argomento una posizione equa e stabile.
In questa mia esposizione cercherò di prendere una posizione media, fin tanto è possibile, riguardo alla serietà del dialogo e della sua necessità in una società come quella della Terra Santa.
Noi francescani e specialmente noi che operiamo in Terra Santa, non possiamo ignorare questo argomento, perché è punto focale nella nostra spiritualità francescana di Terra Santa. Come possiamo dimenticarlo, quando l’Assisiate fu tra i pionieri del dialogo tra cristiani e musulmani! Inoltre molte nostre istituzioni sociali e religiose vivono questa realtà quotidianamente!
Se osserviamo la storia cristiana in Terra Santa, troviamo che i cristiani di queste regioni hanno vissuto e vivono tuttora in condizioni molto difficili, mettendo in pratica la parola del Signore: "come hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi" perché "il discepolo non è più grande del maestro".
Dopo l’islamizzazione di queste regioni, in Terra Santa si ebbero tre religioni monoteiste: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Di conseguenza l’autorità civile, lungo i secoli, apparteneva ad una o all’altra religione. Molte volte le "religioni" si sono fronteggiate con guerre dure e sanguinose. Conflitti e guerre per la sopravvivenza.
Ora tocca a noi capire che il nostro destino è di vivere insieme, prendendo lezioni dal passato, lontano e vicino, e accettare di formare una società multi religiosa, basata sulla uguaglianza, e sulla giustizia.
Il dialogo tra le tre religioni è così una esigenza irrinunciabile della Terra Santa.
Cristianesimo:
Nel cristianesimo troviamo l’invito all’apertura a tutti i popoli. Questo invito già lo troviamo nell’Antico Testamento specialmente quando dichiara che la Salvezza si estende a tutti i popoli e non solo agli israeliti.
Cristo Signore, nonostante che nel Vangelo affermi che è stato inviato per i figli d’Israele, lo troviamo a conversare con la samaritana, la cananea e fare miracoli a beneficio dei pagani, come il centurione. Cristo loda la fede dei pagani (Dialogo e Proclamazione, n. 21) … e invia i suoi discepoli a portare il Vangelo a tutte le genti senza distinzione tra popoli, razze e religioni.
Papa Paolo VI, dice (16) : "La religione musulmana merita la nostra ammirazione per tutto quello che c’è di vero e buono nell’adorazione di Dio", e di nuovo, nel suo discorso a Kampala, in Uganda, ha espresso il suo profondo rispetto per la fede che i musulmani hanno, ed ha auspicato la speranza che "ciò che noi possediamo in comune possa servire a unire cristiani e musulmani, sempre più strettamente, in una autentica fraternità". (17)
Questa affermazione di Paolo VI, causò scompiglio nella chiesa cattolica. Alcuni sono arrivati a pensare che la missione della Chiesa di convertire i popoli alla fede di Cristo, perché possono salvarsi, non era più necessaria, purché i credenti delle altre religioni vivessero la propria fede con coerenza.
Dopo un lungo silenzio, il Papa pubblica la "Evangelii Nuntiandi", per chiarire la posizione della Chiesa, e dire che, nonostante la presenza di alcuni elementi buoni e veri nelle altre religioni, tuttavia rimane solamente la religione di Cristo, che la Chiesa proclama, attraverso l’Evangelizzazione, ad essere l’unica religione che pone la persona umana, oggettivamente, in relazione con Dio. In altre parole la nostra religione stabilisce effettivamente un’autentica e viva relazione con Dio, che le altre religioni non sono riuscite ad avere. (18)
Attualmente la dottrina della Chiesa in questo campo dice che i cristiani non devono pensare di possedere tutta la verità, e quelli delle altre religioni non hanno nulla di vero. Piuttosto devono essere pronti a riconoscere la presenza dello Spirito nell’altro. Non possiamo porre limiti all’azione dello Spirito.
Anche se si trova qualche cosa di buono nelle altre religioni, tuttavia non si deve pensare che ogni cosa sia perfetta nelle varie tradizioni religiose del mondo. Esse hanno anche i loro lati oscuri. Possono includere riti degradanti o pratiche che sono moralmente discutibili. Questi elementi sono quindi soggetti a giudizio.
Perciò quanto di bene si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti particolari e nelle culture dei popoli, non solo non deve andar perduto, ma viene sanato, elevato e perfezionato per la gloria di Dio… Papa Giovanni Paolo II dice che "il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa". (19)
Questo dialogo può assumere molte forme, ovunque stiano insieme persone di differenti religioni: cercare di vivere in armonia, fianco a fianco, lavorare insieme a beneficio della società, chiarire le idee sull’altro attraverso scambi formali, condividere esperienze spirituali ecc...
Sappiamo, che le relazioni fra persone di differenti religioni non sempre sono facili. Possono sorgere tensioni. Mediante il dialogo, i cristiani e gli altri sono invitati ad approfondire il loro impegno religioso, e a rispondere, con crescente sincerità, all’appello personale di Dio e al dono gratuito che egli fa di se stesso. (20)
Giovanni Paolo II, a più riprese parla chiaramente della presenza dello Spirito Santo anche nelle altre religioni. E, nell’Enciclica "Redemptor Hominis", afferma chiaramente la presenza dell’opera dello Spirito oggigiorno persino fuori del Corpo Visibile della Chiesa".(6) Questa affermazione è da intendersi nel senso che, "secondo Giovanni Paolo II, l’azione dello Spirito della verità è limitata a ciò che vi è di buono nella vita dei musulmani e nella loro religione". (21)
Nel discorso agli 80.000 giovani a Casablanca, il 19 agosto 1985, Papa Giovanni Paolo II, dopo d’aver affermato che cristiani e musulmani hanno molte cose in comune, come credenti e come uomini, parla pure di differenze, che non possiamo sottovalutare: "La lealtà esige pure che riconosciamo e rispettiamo le nostre differenze. Evidentemente, quella fondamentale è lo sguardo che posiamo sulla persona e sull’opera di Gesù di Nazaret. Inoltre, aggiunge il Papa, che "dobbiamo rispettarci, e anche stimolarci gli uni gli altri nelle opere di bene sul cammino di Dio". (22) Ad ogni modo "il dialogo deve esser condotto e attuato con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza (23) e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza" , e "il Papa classifica le altre religioni come teologicamente immature, incomplete e bisognose di aiuto".
1 – Dialogo di vita:
Il dialogo è il mezzo in cui i cristiani e i musulmani s’incontrano per camminare insieme verso la verità e per lavorare insieme in progetti di comune interesse…
Il dialogo richiesto dalla regola francescana con persone di altre religioni ci ha insegnato che, come cristiani, dobbiamo vivere la nostra fede in maniera più integra ed essere veri testimoni di Cristo nella collaborazione con gli altri credenti, proprio come scrive S. Francesco nel capitolo 16° della Regola non bollata, dove si legge: "I frati - che vivono tra i musulmani (saraceni) - non facciano liti o dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio, e confessino di essere cristiani".
Dai cristiani di oggi ci si attendono atteggiamenti, non di confronto e di conflitto, ma di vero spirito di collaborazione… La semplice ma salda testimonianza di Francesco d’Assisi… ci spiega che cosa voleva dire Gesù quando invita i suoi discepoli ad essere "il sale della e la luce del mondo". San Francesco è oggi venerato non solo dai cristiani ma anche da molti seguaci di altre tradizioni religiose. (26)
E’ questo il dialogo che conviene alle società, multi religiose, come la nostra: discutere i problemi di divergenza e solverli con oggettività e razionalità, favorendo una convivenza pacifica e vera collaborazione in tutti i campi del sapere.
2 – Dialogo di servizio sociale:
Collaborazione dei cristiani e musulmani per sviluppare i progetti del servizio sociale, per arrivare a stabilire la giustizia sociale, per aiutare gli abbandonati dalla società e per difendere i diritti dell’uomo
3 – Dialogo nelle attività spirituali:
I cristiani e i musulmani che vivono una vita spirituale di relazione intima con Dio, debbono scambiarsi queste esperienze.
4 – Dialogo teologico:
Lo scopo di questo dialogo è di chiarire i dubbi e le false idee che uno ha riguardo all’altro. Riguardo ai dogmi della propria religione, per giungere ad una convivenza pacifica e al rispetto reciproco. Questo dialogo non mira a trovare la vera religione, ma ad accettare il principio della molteplicità delle religioni in una società come la nostra.
(conferenza tenuta a Gerusalemme il 26/11/2002)
Note
1) Tim. 4:2.Reciprocità: moschee per chiese?
di Giuseppe Scattolin
Nei nostri rapporti con i musulmani c'è, a mio parere, o molta ignoranza o molta ingenuità. In ogni caso, mi pare che pochi si rendano conto che essi esigono da noi tutti i diritti senza concedere nulla nei loro paesi. Le nazioni islamiche risultano, infatti, in fondo alla lista per quanto riguarda i diritti umani e noi chiudiamo gli occhi su tutto... Si sa bene che nell'Arabia Saudita nostro grande amico in mammona-petrolio - non solo non c'è libertà religiosa (per cui, un musulmano che volesse cambiare religione viene sistematicamente messo a morte), ma è addirittura proibita qualsiasi manifestazione religiosa non islamica. Al punto che, se uno celebra la messa, anche se nel segreto della sua casa, può essere messo in prigione ed espulso. Ma tutto ciò è sistematicamente ignorato dai nostri politici e dai nostri maitre-à-penser televisivi. Possibile che non ci si renda conto che stiamo noi stessi aprendo il nostro paese al più retrogrado oscurantismo religioso, cioè quello islamico? È tempo che si cominci a dare l'allarme. Osi tratta di vera parità - e, quindi autentica reciprocità - o non si-tratta. Punto e basta!
Giulio Crescetino - Napoli
"Reciprocità vera". È un’espressione – quasi una invocazione! – che ricorre spesso, soprattutto in occasione di incontri con il mondo islamico. In essa si avverte tutta l’amarezza di chi si sente preso in giro da tante belle parole, proclamate anche da persone autorevoli, ma che, in pratica, lasciano il tempo che trovano.
Pertanto, la reazione normale è quella di sbattere i pugni sul tavolo e dire: «O vera reciprocità, oppure si chiude... E "gli estranei" se ne tornino a casa loro, ché noi stiamo meglio senza di loro!».
Posta in questi termini, la questione sembra molto semplice. Non si tiene conto, però, che la realtà - soprattutto quella umana - è molto più complessa. Non si tratta di condurre una compravendita: io ti do una moschea, se tu mi dai una chiesa.
Innanzitutto, ognuno vede la realtà dal proprio punto di vista. Se noi, in Europa, ci possiamo lamentare dei "fastidi" che la presenza dei musulmani causa nelle nostre società, dovremmo, per lo meno, ammettere che anche essi hanno delle rivendicazioni nei nostri confronti, tenendo presente il passato coloniale. Potrebbero anch'essi, quindi, sentirsi in diritto di sbattere i pugni sul tavolo. Ma a suon di pugni sbattuti non si va molto lontano. Ed è facile immaginare che i pugni, prima o poi, possano facilmente cambiare direzione: dal tavolo alla faccia dei contendenti!
Il problema che sta alla base della questione della reciprocità è, in realtà, molto più profondo e serio. Si tratta della questione dei diritti umani. Dobbiamo operare insieme per creare società umane pluraliste, in cui le differenze non sono eliminare, marginalizzare e combattere (come lo furono nel passato), bensì accolte e rispettate. E, questo, nel discorso che va molto al di là delle contrattazioni tipo "una moschea in cambio di una chiesa". Occorre, invece, promuovere all'interno di tutte le società una vera "rivoluzione culturale" (ben diversa da quella ideo-politico-partitica di Mao Tsedong, la "grande guida" della Cina moderna).
Una rivoluzione culturale degna di questo nome richiede, innanzitutto, un serio lavoro culturale a lungo termine. I diritti umani saranno accertati e rispettati, se e quando tutte le persone delle nostre società "globalizzate" saranno formate alla loro conoscenza e alla loro pratica. La storia della nostra vecchia Europa dovrebbe insegnarci qualcosa in materia. Non bastò, infatti, ghigliottinare il re per riconoscere e dare ai cittadini francesi i loro diritti. Proprio gli autori della Grande Rivoluzione si rivelarono, alla fine, i peggiori dittatori (e quelli della rivoluzione comunista non sarebbero stati di meno).
Ma come si può realizzare una simile "rivoluzione culturale"? Molti gli ambiti di un simile impegno! In primo luogo, metterei le scuole. In Egitto, ad esempio, noi missionari occidentali abbiamo un'importante presenza scolastica, con migliaia di studenti e studentesse, nella stragrande maggioranza musulmani, che frequentano le nostre scuole; anzi, fanno la gara a iscriversi ad esse. Ma la domanda è: abbiamo maturato un vero progetto formativo per studenti e professori, in cui la dimensione dialogica è parte integrante del programma? Questo è un punto di capitale importanza, dato che le scuole sono chiamate a essere i primi luoghi di dialogo e di apertura verso gli altri, autentiche palestre e laboratori per la conoscenza e il rispetto dei diritti umani.
Oltre alle scuole, ci sono tante altre opere di promozione umana in quasi tutti gli ambiti della società. La nostra presenza in tali ambiti deve contribuire a far crescere e maturare una nuova mentalità di vero dialogo interreligioso e interculturale.
Prima di lamentarci e assumere atteggiamenti di rifiuto, dovremmo domandarci se stiamo facendo buon uso delle occasioni che ci sono offerte per creare questa nuova mentalità di apertura e dialogo a tutto campo, la sola in grado di garantire una vera reciprocità in materia di diritti umani.
Non nego che occorra agire anche a livello diplomatico e giuridico per esigere da tutti gli stati il rispetto dei questi diritti. Un'azione non esclude l'altra. Credo, tuttavia, che la vera carta vincente è da ricercare in una formazione capace di cambiare alla base la mentalità di ogni popolo e di ogni individuo, perché ogni persona esca dal "tribalismo tradizionale" e si apra a una vera mondialità, avvertita come arricchimento umano comune.
(da Nigrizia, aprile, 2005, pag. 74)
Lezione Sesta
L’ALLEANZA
1. I cristiani chiamano il loro libro con il nome di “Testamento”: esso si divide in Antico e Nuovo. Questo titolo vuole essere riassuntivo del contenuto della Bibbia, indicare il filo conduttore e l’idea matrice di tutto il testo ispirato. In realtà, ci troviamo di fronte all’idea e alla realtà centrale della Bibbia. Giustamente, Alonso Schöckel ha definito l’alleanza «il sacramento fondamentale del popolo eletto». Testamento è sinonimo di alleanza, patto.
Giunto ad un grado superiore nella padronanza di se stesso, lo spirito della Terra scopre in sé un bisogno man mano più vitale di adorare: dall’evoluzione universale, Dio emerge, nelle nostre coscienze più grande, e più necessario che mai.
L'affermazione del titolo non è un'iperbole né una provocazione, ma un allarme sui pericoli di certi modi di intendere e vivere erroneamente la religione. Pericoli non ipotetici ma consentiti storicamente. È meno pericoloso un agnostico umanista integrale che un credente nell'errore. Come imperfetto seguace di Gesù, intendo offrire un'ipotesi di pensiero, contributo modesto ma sincero in un'epoca di crisi, tanto religiosa come di civiltà.
Dal sacrificio di Abele
a quello di Cristo
di Marcel Neusch
Di Abele, la liturgia ha colto tre aspetti: è chiamato «Giusto», il suo sacrificio è stato gradito da Dio, egli costituisce una prefìgurazione del sacrificio del Cristo. La preferenza di Dio per il sacrificio di Abele è il solo tratto che viene direttamente dal racconto biblico: «Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta» (Gn 4,4-5). La cosa appare ingiustificata. Se, al contrario di quello di Caino, il sacrificio di Abele fu gradito a Dio, non è ad in relazione alla sua qualità di giusto, od in relazione alla natura dell'offerta. Non ci si può impedire di pensare a un'altra scelta di Dio, altrettanto arbitraria: «Eppure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù» (Ml 1 ,2-3, citato in Rm 9,13).
Il sangue dl Cristo e quello di Abele
La rilettura cristiana andrà oltre. Allungherà la catena delle spiegazioni nel passato e nel futuro. Prima del sacrificio, vi sono le disposizioni d'animo di Caino e Abele: il primo diventa il prototipo del malvagio, il secondo rappresenta la figura del giusto. Secondo la Lettera agli Ebrei, la differenza concerne la loro fede: «Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino...» (Eb 11,4); mentre Giovanni accusa la mancanza d'amore e pone il cristiano davanti a una scelta: «Non come Caino, che era dal Maligno e uccise il suo fratello. E per qual motivo lo uccise? Perché le opere sue erano malvagie, mentre quelle di suo fratello erano giuste» (1 Gv 3,12). Per quanto coerenti, queste spiegazioni sono assenti dal racconto biblico nel quale è dopo il rifiuto del suo sacrificio da parte di Dio, e non prima, che Caino si rivela malvagio.
Nella lettura cristiana, il sacrificio di Abele aderisce soprattutto a un nuovo statuto: è inteso come una prefigurazione, pertanto resta incompiuto e sarà portato a compimento dal Cristo (At 3,14).
Dove è la differenza? Se il sangue del Cristo, «Mediatore della Nuova Alleanza», è «più eloquente di quello di Abele» (Eb 12,24), è per la trasformazione della vendetta in perdono. Avendo subito la stessa sorte dei giusti del passato, «dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria...» (Mt 23,35) il Cristo ha scelto la riconciliazione al posto della vendetta (cfr. Gn 4,10; Ap 16,6). C'è una dissimmetria tra il sacrificio di Abele e quello del Cristo. Tra l'uno e l'altro si opera una nuova relazione tra l'uomo, Dio e gli altri uomini. Pur dicendo che il sacrificio di Cristo porta quello di Abele a maggiore perfezione, il confronto si stabilisce tuttavia meno tra due tipi di sacrifici - l'offerta di animali da parte di Abele o il sangue versato dal Cristo -che tra due esistenze entrambe definite come giuste, a dispetto dell'ingiustizia di cui essi furono vittime. Così si annuncia un cambiamento radicale, già fondato nell'Antico Testamento. Ciò che ha valore agli occhi di Dio non è il sacrificio, ma la disponibilità alla sua volontà. La lettera agli Ebrei farà dire al Cristo: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Allora ho detto: Ecco io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,4-7). Il racconto di Caino e Abele già rivela, nelle sue riletture, che un rito sacrificale separato dall'impegno verso il prossimo non sarebbe gradito a Dio. Il rito è allora ridimensionato e, in taluni casi, anche rifiutato.
Al centro del sacrificio: l'amore
Bisogna arrivare a ciò che costituisce il centro del sacrificio: l'agapé. A questo proposito, il rito può diventare un ostacolo, a meno che non sia in relazione con un al di qua e un al di là. Al di qua del rito, al di qua anche delle disposizioni d'animo dei sacrificanti, si colloca un dono originario: Dio dona l'animale come cibo (Gn 9,3-4), e non gli si può mai offrire altro che quello che lui ha donato. Ogni sacrificio presuppone dunque una rinuncia di possesso nel cuore del sacrificante, per esprimere che il dono è accolto. Ma c'è anche un al di là del rito: l'amore. Se, nel racconto di Caino e Abele, nulla è detto sul dono iniziale di cui essi sono beneficiari - dono della terra per Caino, degli animali del gregge per Abele - i loro gesti di offerta lo implicano. Inoltre, l'al di là del rito è fortemente sottolineato, in negativo: «Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4,8).
Questa violenta contro il fratello è la negazione stessa del significato del rito appena compiuto. Davanti al rischio di una frattura tra l'etico e il religioso, alcuni profeti giungono al punto di negare che il sacrificio sia di istituzione divina, per non considerare altro che le due dimensioni al di fuori delle quali non c'è più senso: l'ascolto della voce del Signore e la giustizia verso il prossimo. «Aggiungete pure i vostri olocausti ai vostri sacrifici e mangiatene la carne! In verità io non parlai nè diedi comandi sull'olocausto e sul sacrificio ai vostri padri, quando li feci uscire dal paese d'Egitto. Ma questo comandai loro: Ascoltate la mia voce! Allora io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo; e camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici. Ma essi non ascoltarono né prestarono orecchio» (Ger 7,21-28).
Nella tradizione cristiana, la critica più aspra contro il sacrificio la dobbiamo ad Agostino. I due luoghi classici che gli servono a «spiritualizzare» il sacrificio (cfr La città di Dio, X, 5) sono da un lato la Lettera agli Ebrei: «Non scordatevi della beneficienza e di far parte dei vostri beni agli altri, perché di tali sacrifici il Signore si compiace»; e dall'altro il profeta Osea: «Voglio l'amore e non il sacrificio» (Os 6,6). Ai sacrifici pagani, falsi sin dalle radici, e anche «agli antichi sacrifici dei santi», ridotti a non essere che «figure», sant'Agostino oppone il «vero sacrificio», quello del Cristo, precisando che questo trae il suo valore non dall'immolazione, ma dalla fedeltà al Padre. Se il sacrificio del Cristo merita di essere definito come verissime, è perché esso è espressione di un amore che è andato «sino in fondo». Ne risulta che, per i cristiani, il «sacramento quotidiano» (l'eucaristia), non ha valore che in rapporto da un lato a ciò di cui fa memoria: la vita donata del Cristo, e dall'altro a ciò che essa produce: una vita giocata al seguito de Cristo. Troviamo anche il criterio che distingue i rispettivi sacrifici dei due fratelli, Caino e Abele. Agostino scrive: «Non ci fu carità in Caino; e se non ci fosse stata più carità in Abele, Dio non avrebbe gradito la sua offerta. Avendo entrambi offerto un sacrificio, l'uno i frutti del suolo, l'altro i primogeniti del gregge, perché, secondo voi, fratelli miei, Dio ha rifiutato i frutti del suolo e gradito i primogeniti del gregge? Dio non ha guardato le mani, ma ha visto il cuore: vedendo che l'offerta dell'uno era accompagnata dalla carità, gradì il suo sacrificio; vedendo che l'offerta dell'altro era accompagnata dall'invidia, non gradì il suo sacrificio» (Commento alla prima lettera di S. Giovanni, V, 8). Senza questo nucleo di carità, il sacrificio è privo di senso.
Il sacrificio dinanzi alla critica
Una valanga di critiche si è riversata sul sacrificio. La maggior parte rientra nell'ottica del sacrificio come riparazione di un debito che l'uomo, di fronte ad un Dio terribile e geloso, non finisce mai di scontare. Secondo Freud, il cristianesimo sarebbe la miglior soluzione del complesso di Edipo, che grava sull'inconscio dell'uomo a partire dal primo omicidio, e che nessuna religione è mai riuscita a risolvere. Vero despota orientale, Dio non poteva essere soddisfatto che da un sacrificio totale del figlio, che pagasse per tutti gli altri! Questo genere di teologia, molto diffuso all'epoca, anche nella Chiesa, costituisce inoltre lo sfondo della critica di Nietzsche per il quale la morte sacrificale del Cristo segna la fine della Buona Novella. «In un solo colpo, ecco già fatto l'Evangelo! Il sacrificio espiatorio, e nella forma più ripugnante, più barbara, il sacrificio dell'innocente per i peccati dei colpevoli! Che spaventoso paganesimo! - Gesù aveva tuttavia abolito l'idea di "colpa", aveva negato ogni barriera tra l'uomo e Dio: aveva vissuto l'unità "Dio-uomo", e l'aveva vissuta come la sua "Buona Novella", e non come un privilegio!» (L'Anticristo, § 41).
Ma, se si vuole rendere giustizia al «sacrificio» cristiano, bisogna cominciare col disfarsi da certi pregiudizi. Sacrificare significa donare, ma si può donare per due motivi; per ricevere in cambio, o perché si è gi ricevuto. Nel primo caso, il rischio è quello di una devozione mercenaria: si fa un dono in vista di un contraccambio. Nel secondo caso prevale la logica del rendimento di grazie poiché il «sacrificante» è nella condizione di chi contraccambia: riconosce che Dio lo ha preceduto, sia che si tratti del dono della vita che delta salvezza.
Il contraccambio non può tuttavia ridursi alla semplice offerta di una cosa: «Il sacrificio, nella sua totalità, siamo noi stessi», dice sant'Agostino. «Perché questi due uomini, Abele che significa pianto (luctus) e il fratello Seth che significa resurrezione, sono la figura della morte del Cristo e della sua resurrezione dai morti. Da questa fede nasce quaggiù la città di Dio» (La città di Dio XV, 18).
Più acuto di Nietzsche, Kierkegaard ha visto che tale era già la logica del sacrificio di Abele. Ciò che dà valore al suo sacrificio, è la vita. Il vero cristiano non ha bisogno né di giorni sacri, né di luoghi per i suoi sacrifici, e neppure di altare, perché il vero sacrificio è l'esistenza nella sua totalità, si estende a tutti i giorni della settimana. C'è una priorità: «Va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5,23). Ecco l'alternativa, scrive Kierkegaard nel suo Discorso per la comunione del venerdì (1848) «Quale sacrificio, pensi tu, gli sia più gradito: quello che fai riconciliandoti con colui che ha qualche cosa contro di te, cioè sacrificando a Dio la tua collera - o l'offerta che potresti deporre sull'altare? Ma se il sacrificio di riconciliazione è il più caro a Dio, a Cristo, allora anche l'altare è là dove il sacrificio più gradito a Dio si compie… Non dimenticare che là dove esso si compie, vi è anche l'altare».
Nel sacrificio del Cristo vi è una carica sovversiva che fa esplodere l'idea stessa di sacrificio. Se c'è una lezione da trarre, già implicita nei sacrifici di Caino ed Abele, è che l'esistenziale deve avere la precedenza sul sacrificale, la relazione verso gli altri sul culto a Dio perché, diceva Levinas, Dio ha tutto il tempo per attendere, mentre il servizio del prossimo non tollera né ritardi né interruzioni.
* Teologo, Assunzionista - Institut Catholique di Parigi
(da Il mondo della Bibbia, n. 43)
Dio: fedele e inafferrabile
di Giuseppe Bellia
Quando il lento processo di progressiva identificazione dell'insegnamento sapienziale con la Torah cominciò ad affermarsi nella prassi interpretativa del giudaismo rabbinico della diaspora, si avviò un profondo e inarrestabile mutamento nella sensibilità religiosa del popolo ebraico e nel modo di concepire il suo rapporto con la divinità. Si era compreso, in terra d' esilio, che l' effettiva esperienza di Dio non avrebbe più avuto il riverbero grandioso delle solenni teofanie tramandate dai racconti di fondazione o l' alone mistico degli oracoli trasmessi dalla fervida attività profetica: l'incontro personale avrebbe avuto il sapore più familiare della quotidianità, attraverso l' ascolto attento e, soprattutto, lo studio della parola divina ormai sigillata nella tradizione testuale. Le vicende umilianti dell'esilio e quelle deludenti del ritorno, insieme alI' impatto devastante che le culture egemoni esercitavano sulle giovani generazioni, facevano scricchiolare la fiducia di molti israeliti nel valore o nel significato da assegnare alla testimonianza dei padri su YHWH, sicché s'imponeva un necessario riesame e una seria rilettura dei testi fondanti, per avere una raffigurazione più solida e attendibile del Dio della fede, utile per quei tempi di transizione e di crisi. I frutti maturi e le conseguenze estreme di questa laboriosa metamorfosi antropologica e teologica si sarebbero visti nel lungo periodo, approdando finalmente, dopo l'appassionata denuncia morale di Giobbe e il realismo sconcertante del compassato Qohelet, alle più mature icone di Siracide e Sapienza.
Verso un nuovo volto di Dio
Il libro dei Proverbi, pur nella complessità della sua molteplice stratificazione redazionale, rivela il travaglio di questo delicato passaggio verso una di- versa e non meno avvincente visione di Dio, colto nella sua verità più profonda e nascosta, raggiungendo così un volto meno appariscente, attraverso gli strumenti del processo interpretativo della rivelazione accolta dai padri, Si sta- va gradualmente acquisendo la consapevolezza che la conoscenza personale della divinità non si realizzava più nella remota eccezionalità di un incontro diretto con Dio, ma nell' oscura ordinarietà dell' esperienza di fede che, mediante le pratiche interpretative delle tradizioni religiose precedenti, conduce- va a scoprire una nuova, intima e più coinvolgente presenza di Dio nel mon- do e nella storia. Questo percorso teologico, a guardare il legalismo ottuso dei consolatori molesti di Giobbe o le glosse interpretative dei pii correttori di Qohelet, non fu agevole e dovette incontrare non poche resistenze, come si può leggere tra le righe della stessa redazione finale di Proverbi, dove inerzie conoscitive e il rischio di penose distorsioni e mistificazioni, hanno convinto a inquadrare in senso teologico i punti più difficili da arginare.
È tuttavia merito della riflessione speculativa dei sapienti scribi d'Israele aver prospettato, e con molta audacia, a partire dal IV secolo a.C., la concretezza di un incontro personale con Dio, attraverso la mediazione di una sapienza personificata che, all'inizio (1,20-33) e alla fine (8; 9,1-6.11) della prima sezione, è raffigurata come amabile figura femminile.
In realtà la sapienza è presentata come intimamente legata alI' opera creatrice di YHWH di cui dispensa generosamente i doni materni che permettono ogni forma di vita. Il volto di Dio resta però velato e misterioso, infatti, è sua gloria nascondersi (25,2); e il suo governo del mondo è esercitato con discrezione, per mezzo di una moltitudine di intermediari, finalmente presieduti da una sapienza creatrice e ordinatrice. L'introduzione di questa figura mediatrice serviva a far quadrare i conti di chi prendeva atto, con i suoi strumenti conoscitivi, dell'apparente contraddizione tra antropologia e teologia, fra l'insondabile trascendenza divina e la sensatezza dei giudizi morali formulati dall'uomo. La razionalità del precetto divino consegnato alla fede dei credenti, consenti- va al sapiente, attraverso un'accurata opera di ricognizione di causa-effetto, di formulare il prevedibile esito del giudizio di Dio sulle azioni dell'uomo: ma proprio il giudizio ultimo di Dio era inarrivabile e la figura di YHWH restava sempre un mistero inscrutabile che lo sforzo conoscitivo dei sapienti non poteva mai riuscire a imbrigliare dentro gli schemi di una teodicea rigida e conclusa. Il Signore si offre come un misericordioso e giusto sovrano, insieme fedele e inafferrabile, che garantisce l'affidabilità del giudizio morale del sapiente, mentre nel contempo si sottrae a ogni cattura idolatrica da parte dello stesso credente.
Il redattore di Proverbi, nel tentativo di comporre la statica visione teologica della tradizione deuteronomista con la lezione aggressiva e inevitabile della storia, ha rischiato di presentare un Dio inappagante, dalla configurazione discontinua, dove le zone d' ombra evidenziavano elementi di irrisolta ambiguità. Accanto a una serie di passi rassicuranti che confortano lo scriba timorato sul giudizio etico di Dio, si possono allineare una serie di massime e di aforismi, oltretutto provenienti dalle raccolte più antiche, dove appare in tutta la sua evidenza l'imprevedibile e incommensurabile realtà divina. Vediamo prima alcune affermazioni in linea con la teodicea della tradizione.
«In tutti i tuoi passi pensa a lui ed egli appianerà i tuoi sentieri. Salute sarà per il tuo corpo
e un refrigerio per le tue ossa» (3,6.8).«Onora il Signore con i tuoi averi
e con le primizie di tutti i tuoi raccolti; i tuoi granai si riempiranno di grano
e i tuoi tini traboccheranno di mosto» (3,9-10).«Non temerai per uno spavento improvviso, ne per la rovina degli empi quando verrà,
perchè il Signore sarà preserverà il tuo piede «Il Signore non lascia
ma delude la cupidigia
la tua sicurezza,
dal laccio» (3,25-26). (...)
Ed ecco altri passi in cui Dio mostra la sua imprevedibile e incontenibile trascendenza:
«AlI 'uomo appartengono i progetti del cuore, ma dal Signore viene la risposta della lingua.
Tutte le vie dell'uomo sembrano pure ai suoi occhi, ma chi scruta gli spiriti è il Signore» (16,1-2).«Il cuore dell'uomo pensa molto alla sua via,
ma è il Signore che dirige i suoi passi» (16,9 e 19,21).«C'è una via che sembra diritta all'uomo, ma sbocca in sentieri di morte» (16,25).
«La casa e il patrimonio si ereditano dai padri,
ma una moglie assennata è dono del Signore» (19,14).«Dal Signore sono diretti i passi dell'uomo
e come può l'uomo comprendere la propria via?» (20,24).«Il cuore del re è un corso d'acqua in mano al Signore: lo dirige dovunque egli vuole» (21,1).
«Non c'è sapienza, non c'è prudenza, non c'è consiglio di fronte al Signore.
Il cavallo è pronto per il giorno della battaglia,
ma al Signore appartiene la vittoria» (21.30-31).
E infine, con disincantato realismo, si osserva:
«Il ricco e il povero si incontrano,
è il Signore che ha creato l'uno e l'altro» (22,2).«Il povero e l'usuraio si incontrano;
di tutti e due il Signore illumina gli occhi» (29,13).
Il redattore ultimo ha cercato di far confluire i detti più sconcertanti sulla condotta divina, frutto di una consolidata esperienza umana, difficilmente contestabile, dentro le sponde rassicuranti di una visione teologica innovativa che doveva tuttavia conservare elementi di continuità con la tradizione.
A questo serviva la sezione d'introduzione dei cc. 1-9 e la conclusione di 31,10-31: sposare la sapienza e rallegrarsi dei suoi frutti fino a tesserne l'elogio, significa assegnarle un ruolo guida in ordine al volere divino, in pratica coincidente con la stessa funzione ermeneutica svolta dall'attività scribaIe. Insomma, la via additata per trovare una composizione tra le affermazioni tradizionali della fede e le contrastanti conclusioni del comune buon senso, consisteva proprio nell' incontro felice e benedetto con la Sapienza, sposa e madre. Si proponeva in questo modo un'esperienza religiosa imperniata sulla convergenza tra iniziativa sapienziale e corretta comprensione della Torah, che solo con Ben Sira si spingerà verso quella mirabile e feconda identificazione della sapienza con il libro della legge (Sir 24,23), che grande ripercussioni avrà nel pensiero giudaico e protocristiano.
La parola luogo d’incontro con Dio
A grandi linee, è questo l'articolato quadro religioso delineato dall'ingegnosa e irrisolta teodicea di Proverbi. Il tentativo di coniugare l'affabile e misteriosa trascendenza divina con la dignitosa e terrigena immanenza dell'uomo era iniziato, ma l' esegesi di maniera non sembra poter dire altro su questa controversa ermeneutica teologica: si devono allora tentare altre vie di accesso. L'approccio delle scienze umane, attraverso una rigorosa interrogazione sociologica e antropologica del testo e con l' apporto delle altre fonti, può tentare di circostanziare e contestualizzare la portata reale di queste asserzioni contraddittorie, consentendo alla teologia implicita di uscire dalle nebbie di una tradizione sapienziale che un perdurante luogo comune insiste nel volere astorica e atemporale. In realtà, proprio nella complessità della trama storica e non solo nel chiuso universo letterario, va invece ricercato l'ambiente originale, il linguaggio e la stessa intenzionalità comunicativa di ogni nuova esperienza religiosa.Se si guarda alla culturologia di Proverbi, a quanto è condiviso e accettato, implicitamente, da parte dello scrivente e dei suoi destinatari, ritengo si possano far emergere alcuni tratti indicativi sfuggiti ad altre investigazioni. Nel libro, accanto all'assenza della funzione templare e davanti a un ruolo defilato della legge, emerge come centrale il primato indiscusso assegnato alla parola viva del sapiente (padre o maestro), oppure del suo antitipo (il malvagio e la prostituta). L'analisi lessicografica, pur con i suoi limitati parametri quantitativi, comprova il ruolo svolto dal campo semantico che ruota attorno a dbr (parola), in un contesto, è bene precisarlo, dove non si dà una presenza autorevole della profezia, della divinazione, del sacerdozio e della legge. Giustamente, è stato fatto notare che «la parola è lo strumento principale nel campo della sapienza e dei suoi contrari», abbracciando sia la parola precettiva della legge, sia quella subdola dei perversi traviatori; e ancora, quella persuasiva dell'anziano e quella aggressiva del beffardo, quella limpida della sapienza e quella seducente della straniera. Inquesta prospettiva si può inoltre vedere l'analisi statistica di termini come «bocca», «labbra» e «lingua», attorno ai quali si sviluppa la cosiddetta «morale del linguaggio».
Il tema della parola è accompagnato da quello dell' ascolto che il figlio, il giovane, il suddito e il discepolo devono dare al consiglio, all'insegnamento o al precetto. Da notare che il redattore presenta il giovane non come inesperto ma come ingenuo (1,4), come chi è «senza genere»: si tratta del giovane che, non avendo ancora ricevuto il seme del precetto divino e l'acqua della parola del saggio o, alI' opposto, il veleno mortale del seduttore o la chiacchiera fuorviante del malvagio, non è in grado di conoscere il bene e il male e non può quindi assumere un comportamento buono o cattivo. L'israelita sapeva che la parola accolta nel cuore, germinando, produce necessariamente il suo frutto (Is 55,10-11): o il sapere secondo Dio o l'inganno del conoscere in proprio. Davanti a questa parola originaria e originante il cuore del giovane si può disporre, dunque, in due modi contrapposti: o all'apertura dell'ascolto o alla chiusura dèl rifiuto, incamminandosi così rispettivamente verso i sentieri luminosi della sapienza o verso i luoghi scabrosi della stoltezza. Per il saggio che permane in un atteggiamento di ascolto si apre la possibilità di diventare «giusto», mentre per lo stolto che si radica in un atteggiamento di rifiuto si spalanca davanti a lui I'habitus dell' empietà e del cinismo. L' interferenza o la sovrapposizione costante che in tutto il libro si stabilisce tra il tema della lingua e termini connessi («bocca» 27 volte, «labbra» 37 volte e «lingua» 16 volte), con le categorie etiche della stoltezza e della saggezza, disegna a tinte forti le contrapposte tipologie del giusto e dell' empio, a seconda del differente esito che la parola di Dio produce nel cuore docile o ribelle.
Questa articolata visione antropologica, imperniata sul primato della parola, ha un sicuro valore storico, perchè spiega il senso della funzione sapienziale in un'epoca di mutamento, collocandosi proprio nel punto d'incontro del testo biblico con la concreta società religiosa in cui il libro è stato prodotto, accolto e trasmesso. La centralità della parola viene così a coincidere con il ruolo sociale dello scriba sapiente e con il suo impegnativo compito pedagogico, dal momento che in un tempo di offuscamento degli ideali e davanti alI' assenza delle autorità, tradizionali o istituzionali, si poteva fare affidamento solo sull'autorevolezza morale di un'argomentazione paziente e persuasiva, affidata alla parola del saggio.
L'irruzione poderosa della parola nella vita del popolo d'Israele aveva prodotto però un effetto non meno sconvolgente nella sua sensibilità religiosa e nella sua diveniente teologia. Come spiega Beauchamp, le interpellazioni originarie della legge e dei profeti avevano cominciato a far posto allo stesso soggetto interpellato: la parola originaria di Dio alI'uomo aveva generato nel cuore del credente la parola di risposta a Dio, facendo accogliere anche questa parola umana come degna di fiducia. Si realizzava così una metamorfosi sorprendente che indicava la reale portata della mutazione antropologica in atto e della stessa intelligenza di fede, che invitava i credenti a entrare in un' età più adulta della storia della salvezza. L'impressionante svolta ermeneutica avvenuta nel processo scritturale d'Israele imponeva all'israelita di ricercare la presenza illuminante di Dio in quel rapporto personale che ogni credente, da li in avanti, doveva stabilire con le pagine sacre, attraverso lo stadio e la preghiera. Il luogo privilegiato dell'incontro con Dio si stava ormai spostando inesorabilmente dal tempio alla sinagoga e la sapienza creatrice e interprete non aspettava il credente dentro gli spazi sacri del recinto templare, ma veniva incontro anche nel cuore dissacrante delle caotiche città della dispersione: gli è solo richiesto di condurre nella quotidianità un'esistenza autentica, misurata dalla docilità all' ascolto della Torah mediata dal saggio.
Studio assiduo della Parola e vigile esistenza quotidiana sono, dunque, per i sapienti i luoghi indissolubili di un percorso di conoscenza che cominciava a dire qualcosa d'inedito della presenza nascosta del Dio dei padri, rivelando anche qualche nuova, timida, linea raffigurativa del suo volto.
Quale sviluppo?
In una città adagiata lungo le rive dell'Oronte, quando i gruppi ebraici non avevano ancora acquistato peso politico e il culto sinagogale non aveva ancora assunto forma istituzionale, un ceto intellettuale colto e timorato in un oscuro tempo di mutazione aveva interpretato, nelle pagine di Proverbi, la ricerca della sapienza come tentativo sponsale di incontrare Dio nel proprio luogo e nel proprio tempo. L'opera di mediazione di questi scribi sapienti, attraverso un processo teologico non sempre lineare, permetterà alle generazioni successive di entrare a piccoli passi nel segreto di una presenza divina nascosta fin dentro l' opaca quotidianità della storia.Lezione magnifica e duratura che dalla tradizione sapienziale giungerà fino al disvelamento pieno del volto di Dio in Cristo, come ci tramanda Matteo a conclusione del parlare in parabole del rabbi galileo: ogni scriba divenuto discepolo saprà trarre dal tesoro della parola accolta «cose nuove e antiche» (M t 13,51). E com'è annunciato nella dirompente rivelazione di Gesù alla samaritana: non c'è luogo o tempo dell'esistenza dove Dio non si lascia incontrare da chiunque lo cerca «in spirito e verità» (Gv 4,24).
(da Parole di vita 1, 2003)
Pochi giorni al 25 dicembre. È il tempo dell'attesa, dei preparativi per lasciare che Qualcuno entri nella nostra vita. Come succede in una casa che aspetta la nascita di un figlio: c'è da fare spazio, un letto da preparare, del tempo da dedicare alla nuova vita: non a caso il mistero dell'Incarnazione ci viene raccontato dalla culla di Betlemme. Anche l'attesa di un figlio può sembrare un avvenimento impossibile. Soprattutto può creare scompiglio in casa, mandare all'aria i progetti e le idee di una giovane coppia. Come ogni grande sorpresa che ci investe, non ci sentiremmo mai pronti, mai adeguati: è quasi naturale parlare di turbamento e paura. Nessuno ci ha mai preparato all'imprevedibile: attendere un figlio è una scommessa sul futuro, confidare in un dono, dare credito a qualcuno, mettersi a servizio della vita.
Il tempo della vita, poi, è alternanza di gioie e dolori, fatiche e speranze. A volte i nostri occhi si spalancano nello stupore di fronte alle meraviglie della vita, ma possono riempirsi anche del grigio della noia o del nero della disperazione. Ogni angolo della terra ha un popolo che grida, una donna che sperimenta la minaccia, un figlio che ha paura: tutti aspettano un tempo di riposo e un po' di pace. Anche angoscia e ansia fanno parte dei nostri tempi, fatti di attesa e di domande. C'è una speranza che interroga le nostre paure: che ne sarà della vita? Chi ci dirà qualcosa del futuro? Ha senso che cerchiamo di prenderci cura della storia per "crescere e abbondare nell'amore vicendevole e verso tutti", come dice l'apostolo?
I pastori, i consumi, la sete
Il tempo dell’attesa per educarci ad accogliere non è un tempo vuoto d’azione. C’è da fare un grande lavoro di costruzione di una nuova umanità, dentro e attorno a noi. Una domanda per tutte: che cosa dobbiamo fare? Cambiare vita in modo radicale oppure occuparci umilmente del nostro quotidiano? Ci dicono: urge una svolta. Sì, ma perché o per chi dovremmo cambiare? Ci deve essere una ragione davvero forte per metterci in viaggio, per farci invertire la rotta. Non per calcolo. Non per convenienza. Ci deve essere qualcuno così forte da afferrarci la vita. Nessuno cambia se non viene incontrato da una presenza che lo emoziona, gli scalda il cuore, gli dà speranza, vince la morte.
Oggi i pastori sono un po’ diversi: sono gli uomini della città, dei consumi; sono gli uomini che hanno tutto e che continuano ad avere sete. Però, quando si tratta di vigilare, di custodire, di andare alla ricerca, ci sentiamo un po' tutti dei pastori. Il cui mestiere è la cura. Cura della natura, del mondo, dell'altro. Cura dell'uomo.
Soprattutto, cura del mistero della vita, della parola che dà corpo alle nostre domande e abbevera i desideri: Dio che si fa carne è al di là di ogni aspettativa.
La nostra è la società della fretta e dell'efficienza. Abbiamo tante cose da fare, da costruire e da comperare... Ci sembra che nulla possa esistere se non è subito nelle nostre mani e sotto i nostri occhi. Anche le nostre città, i nostri quartieri, le nostre vie, così conosciuti, così familiari, così nostri, possono assomigliare a un deserto, desolazione e solitudine, incomprensione e mancanza. Hanno bisogno di amore e di perdono. Qualcuno ha promesso di porre la sua tenda in mezzo a noi ed è ovvio prepararsi per accogliere la sua venuta. Prepararsi come per una grande festa. Un tempo di attesa, breve ma sempre più confuso da ciò che ci circonda e coinvolge: luminarie, corse all'ultimo regalo, pranzi, inviti, cene, vacanze.
Questo tempo ricco, sotto molti aspetti, deve ricordarci che ci sono anche i non-ricchi: i poveri. Qualcuno piange ancora per la fame e per la mancanza di un tetto sotto il quale trovare rifugio. L'Incarnazione è il modo in cui Dio si fa carico della povertà dell'uomo, di ogni uomo, per prestare orecchio al grido del povero e dell'oppresso, della vedova e dell'orfano, dello straniero e del carcerato. Accogliere Gesù che viene nella notte di Natale significa accogliere con Lui anche tutti coloro per i quali è venuto, significa accettare che la nostra vita cambi perché l'abbiamo incontrato, ascoltato e accolto.
Accolto. Ma in chi?
* In quel quinto della popolazione mondiale che vive ancora con meno di 1 dollaro al giorno: oltre 1 miliardo 200 milioni di persone che rischiano quotidianamente la morte e vedono compromesso il proprio sviluppo fisico e mentale;
* in quei 120 milioni di bambini che al mondo non vanno a scuola: una larga fascia delle nuove generazioni non saprà né leggere né scrivere, due terzi sono bambine;
* in quei 10 milioni di bambini con meno di 5 anni che ogni anno muoiono a causa di malattie curabili con vaccini adeguati e in quei 140 milioni che muoiono per Aids e malnutrizione;
* in quelle 500 mila mamme che muoiono ogni anno a causa delle precarie condizioni igieniche nelle quali sono costrette a partorire per l'assenza di personale qualificato, malnutrizione e malattie facilmente curabili;
* in quel 1 miliardo 100 milioni di persone che non hanno accesso all'acqua potabile, residenti in maggior parte nelle aree rurali.
Il sogno e il frammento
Natale: evento per sognare. Lasciateci sognare un'esistenza nuova, una politica con più fiato, una maggiore attenzione a chi ci sta accanto, una maggior credibilità delle istituzioni, più pace tra i rappresentanti delle istituzioni, meno egoismi privati e più coraggio pubblico, l'apparire di prospettive europee e mondiali in grado di giustificare i sacrifici che facciamo e che sono, in qualche modo, inevitabili, un mondo più giusto e in pace. Lasciateci sognare anche l'emergere di vocazioni sociali e politiche a servizio dell'umanità.
Natale: il tutto è nel frammento, l'eternità è nell'attimo, la luce squarcia le tenebre, la nostra attesa è colma, la speranza di un popolo di uomini trova verità. Tutto per dire il grande avvenimento: la Parola si è fatta carne. Dio si è fatto uomo. Egli ha posto la sua tenda e ha scelto di abitare in mezzo a noi. Un bimbo è lì per dire la verità dell'amore per ogni uomo, senza distinzione né differenze. Sbirciare in quella mangiatoia, accoglierlo nelle nostre braccia, sarà come ritrovare il nostro essere uomini, sarà come scoprire che Dio ha una parola per noi. Su di noi. Da sempre. Buon Natale.
(Tratto da Italia Caritas, dic. 2004, pag. 3)
Il commento di Girolamo
al profeta Isaia
di Iginio Passerini
Nel 382 si trasferì a Roma, dove papa Damaso lo fece suo segretario. Qui attese alla versione latina di quasi tutta la Bibbia, mentre si interessava degli ideali ascetici che circolavano in alcuni ambienti aristocratici femminili della città.
Alla morte di papa Damaso, avvenuta nel dicembre 384, Girolamo riprese la via dell'Oriente. Con il fratello Paoliniano e con alcuni monaci nell'estate del 385 si imbarcò per Antiochia, accompagnato da Paola ed Eustochio, ormai votate all'ideale ascetico.
Nella primavera/estate del 386 ilgruppo si stabilì a Betlemme, e presso la Basilica della Natività, grazie ai finanziamenti della facoltosa Paola, vennero fondati due monasteri, uno per i monaci e uno per le vergini, con una foresteria per i pellegrini. Qui Girolamo si dedicò interamente all'attività letteraria: traduzioni bibliche, adattamenti di commentari, qualche romanzo agiografico, raccolta di dati storici. Ai monaci spiegò la Scrittura e offrì istruzioni ascetiche; ai giovani, nella scuola annessa al monastero, insegnò grammatica latina e letteratura classica; mantenne i contatti con amici di Roma; partecipò alle vicende della Chiesa.
400 ilcommento ai profeti maggiori, dove ildebito verso Origene, purificato dalle posizioni controverse, è decisamente abbondante, nel caso in cui Girolamo disponga della fonte.Nel frattempo la vita di Girolamo aveva ricevuto diversi colpi: era morta Paola nel 404; Roma fu distrutta dai Goti nel 410; nel 418/419 morì anche Eustochio. E a pochi mesi di distanza da questo lutto, anche Girolamo si spense a Betlemme il30 settembre 419, mentre stava commentando Geremia, l'ultimo del ciclo dei profeti.
* * *
Il Commento a Isaia (1) appartiene agli anni 408-409: siamo ormai nell'ultima fase dell'attività esegetica, quando il criterio ermeneutico di Girolamo ha raggiunto la sua più matura formulazione e applicazione. Scrive nel Prologo: commento a Daniele, mi costringi, vergine di Cristo Eustochio, a passare al commento di Isaia (…). Rendo a te ciò che devo, obbedendo ai comandi di Cristo, che dice: Scrutate le Scritture (Mt 7,7); e: Cercate e troverete (Mt 22,29). Per non sentirmi dire, insieme ai Giudei: Vagate, ignorando le Scritture e la potenza di Dio (Mt 22,29). Se infatti, secondo l'apostolo Paolo Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio e colui che non conosce le Scritture non conosce la potenza di Dio e la sua sapienza, allora ignorare le Scritture è ignorare Cristo. Quindi sostenuto dall'aiuto delle tue preghiere, dato che giorno e notte tu mediti la legge di Dio e sei tempio dello Spirito Santo, imiterò il padrone di casa, che tira fuori dal suo tesoro cose nuove e antiche; imiterò la sposa che dice nel Cantico dei cantici: Cose nuove e antiche fratello mio ho conservato per te (Ct 7,13); e così esporrò Isaia, in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista ed apostolo. Egli stesso di sé e degli altri evangelisti dice: Quanto sono belli i piedi di coloro che annunciano il bene, che annunciano la pace (Is 52,7). E a lui come ad un apostolo Dio si rivolge in questi termini: Chi manderò e chi andrà da questo popolo? Ed egli risponde Eccomi, manda me (Is 6,8)».Il commentario è molto esteso (18 libri) ed applica sistematicamente i criteri che si sono progressivamente delineati nel corso della sua multiforme attività esegetica:
Nella lettera 120,12 riprendendo Origene, aveva riconosciuto tre livelli di esegesi: quello letterale, quello morale, quello spirituale. Generalmente però non si riconosce in questo schema ternario, ma preferisce quello binario, attento alla lettera del testo accompagnata da un'interpretazione di carattere allegoric.o (2) Così Girolamo fa sistematicamente nel commento ad Isaia: premessa l'attenzione al livello letterale, ancora più costantemente che in altri commenti, sviluppa discretamente l'interpretazione allegorica. Lo dimostra anche il fatto che, mentre in un saggio esegetico del 397 sui capitoli 13-23 di Isaia, gli oracoli contro le nazioni erano stati esaminati solo in chiave letterale, allo stesso commento riproposto tale e quale in quest'opera nel libro 5°, fa seguito l'interpretazione allegorica degli stessi capitoli nei libri 6° e 7°. (3)a) anzitutto un'aderenza critica al testo, spesso con duplice riferimento, per la scelta della lezione, all'originale ebraico e al testo greco dei LXX;
b) in secondo luogo egli è attento sistematicamente a due livelli di interpretazione: il primo è quello letterale (littera o historia); l'altro è quello spirituale (allegoria, anagogè, tropologia, spiritus).
Così si esprime Girolamo nel Prologo del suo commentario:
«All'interpretazione letterale (historiae veritatem) deve seguire quella spirituale (spiritaliter accipienda sunt omnia); così Giudea e Gerusalemme, Babilonia e Filistea, Moab e Damasco, Egitto e deserto, Idumea e Arabia, la valle della Visione fino all' estremità di Tiro, la visione dei quadrupedi sono tutte realtà da interpretare, per coglierne il significato e riconoscere che in esse l'apostolo Paolo come sapiente architetto ha posto il fondamento, che non è altro che Cristo Gesù».
E sulla necessità di accedere al livello profondo dell' interpretazione, là dove non arrivano coloro che non hanno la fede in Cristo e la sua luce, siano essi pagani o giudei, aveva appena detto, sempre nel Prologo:
«Nessuno pensi che voglia contenere l'argomento di questo testo in una breve trattazione, perché questo libro contiene tutti i misteri (sacramenta) del Signore e vi si predica sia l'Emmanuele nato dalla vergine, sia colui che ha compiuto opere mirabili e gesti significativi, morto sepolto e risorto dagli inferi è il Salvatore di tutte le genti. Che dirò dei contenuti di fisica, etica e logica? Tutto ciò che è proprio delle sante Scritture, tutto ciò che può proferire lingua umana, ciò che i sensi dei mortali possono ricevere, tutto quanto è contenuto in questo libro. Dei suoi misteri rende testimonianza colui che scrisse: E sarà per voi la visione di tutto come le parole di un libro sigillato, che viene consegnato a uno che sa leggere, dicendogli: Leggilo. E quello risponde: Non posso, perché è sigillato. E verrà consegnato il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Leggi. E risponderà: Non so leggere (Is 29,11.12). Sia dunque che tu consegni questo libro al popolo dei pagani che non sa leggere, ti risponderà: Non posso leggere, perché non ho imparato a leggere le Scritture. Sia che lo consegni agli scribi e ai farisei, che si vantano di conoscere le lettere della Legge, risponderanno: Non possiamo leggere, perché il libro è sigillato. Come mai è sigillato proprio per essi? Perché non hanno accolto colui sul quale il Padre ha posto il sigillo, colui che tiene la chiave di Davide: Colui che apre e nessuno può chiudere; che chiude e nessuno può aprire (Ap 3,7)».
Le fonti del commento di Girolamo sono esplicitamente ammesse nel Prologo della sua opera, dove dichiara di aver attinto le spiegazioni allegoriche al commento di alcuni ecclesiastici viri. Si tratta del commento di Eusebio di Cesarea prevalentemente di carattere letterale; inoltre per gli sviluppi allegorici Girolamo si è rifatto sia al commentario di Origene in 30 libri (Girolamo dichiara di non disporre del libro 26), che si fermava al passo di Is 30,5; sia al commentario di Didimo di Alessandria per Is 40-66.Tra le fonti latine ricorda solo Vittorino di Petovio, in un suo commento perduto a Isaia. Nel commento di Girolamo il registro dell' interpretazione letterale riprende da Eusebio il motivo del trasferimento dei riferimenti profetici dal tempo delle invasioni assira e babilonese al tempo delle guerre con i romani, con spazi anche per una lettura cristologica. L'interpretazione allegorica attinge ai temi più cari ad Eusebio, come la vittoria della Chiesa sull'idolatria pagana e la sostituzione della Chiesa ad Israele, ma anche a temi tipici di Origene e di Didimo, quali il confronto con l'eresia e il rapporto individuale di Cristo con l'anima del cristiano. Dichiara Girolamo, sempre nel Prologo:
«Voler commentare tutto il libro di Isaia è un impegno di grande portata, con cui si è misurato l'ingegno dei nostri padri, dico dei Greci. Per il resto tra i latini c'è grande silenzio, fatta eccezione per il martire di santa memoria Vittorino, che poteva dire con l'apostolo: Anche se inesperto nel linguaggio, non però nella scienza. Origene ha scritto su questo profeta, fino alla visione dei quadrupedi nel deserto, trenta volumi, di cui non si trova il 26°. Sono a lui attribuiti altri due libri sulla visione dei quadrupedi, che sono ritenuti non autentici; cosippure venticinque omelie e Semeiòseis, che noi possiamo chiamare Excerpta. Anche Eusebio Panfilo ha pubblicato quindici libri secondo la spiegazione storica (= interpretazione letterale); e Didimo, della cui amicizia ci siamo avvalsi, dal passo dove sta scritto: "Consolate, consolate il mio popolo, sacerdoti; parlate al cuore di Gerusalemme", fino alla fine del libro, ha pubblicato diciotto volumi. Apollinare poi, secondo il suo stile tocca tutti i passaggi ( ... ) ma in modo che ci sembra di leggere non tanto dei commenti, quanto piuttosto un indice per sommi capi».
Il riferimento a queste fonti non toglie nulla all'originalità della sua esegesi, espressa in una forma letteraria degna di un grande scrittore della tarda antichità.
Note
1) Il commento di Girolamo ad Isaia è apparso in edizione critica nel «Corpus Christianorum» nel 1963 ad opera di M. Adriaen: S. HIERONYMI PRESBYTERI, Commentariorum in Esaiam libri, curo M. ADRIAEN, Turnholti 1963, CCSL 73-73A.Da una conferenza tenuta dal R. P. Timothy Radcliffe o. p. al Congresso degli abati dell’Ordine di San Benedetto sul tema del