Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Nel contesto di quanto abbiamo detto finora del protestantesimo italiano non rientra certamente la corrente di pensiero che si è sviluppata sulla direttiva del Prof. Vittorio Subilia docente della Facoltà Valdese di teologia. Le più forti contestazioni ai rapporti ecumenici con Roma trovano, nei suoi scritti, la loro motivazione e il loro orientamento.

Domenica, 24 Agosto 2008 19:58

L’uomo salvato da Gesù (Gianluigi Corti)

L’uomo salvato da Gesù
di Gianluigi Corti






In queste pagine ci accosteremo ad alcune scene evangeliche che ci permetteranno di osservare il dinamismo del processo salvifico, il passaggio ad una condizione opposta a quella di partenza grazie all'intervento di Gesù, alla sua potenza vittoriosa su ogni male, e alla preghiera, lamento, protesta, fede degli uomini coinvolti in situazioni limite.

Dalla letteratura evangelica si potrebbero raccogliere anche altri brani idonei a questo scopo ad esempio: Pietro salvato dall'affogamento (Mt 14,22-33); la guarigione di un uomo dalla mano inaridita (Mc 3,1-6); il cieco di Gerico (Mc 10,46-52 e uso anche in Lc 18,35- 3); la peccatrice perdonata (Lc 7,36-5Q); l'indemoniata di Gerasa (Lc 8,26-39); i dieci lebbrosi guariti (Lc 17,11-19); la risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-44)... Ci limiteremo qui a questi racconti: la tempesta sedata (Mt 8,23-47); la guarigione della emorroissa e la risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,21-43).

La tempesta sedata ( Mt 8,23-27)

Coerente con il suo stile Matteo ci ha lasciato un racconto essenziale nella forma, che va affrontato su un duplice piano di lettura.

Gesù sta lasciando Cafarnao (8,5) per dirigersi sulla sponda sudorientale del lago di Genezaret, verso la regione dei Gadareni (8,28). Prende congedo dalla folla dialogando in forma enigmatica con due candidati alla sequela (8,19-22). Si noti come Gesù sia il primo a salire sulla barca, i discepoli non sono già pronti ai lavori necessari alla partenza e al viaggio; essi salgono solo dopo che Gesù si è imbarcato e viene usato per essi il verbo tecnico per la sequela akolouthéō (= seguire).

Il lago di Galilea sprofondato tra le colline ha l'abitudine di ribollire improvvisamente sfogandosi in tempeste violente. Coloro che sono imbarcati con Gesù fanno l'esperienza di questa consuetudine ambientale. Anche se nel gruppo vi sono pescatori di professione (4,18-22) è impossibile controllare l'imbarcazione e contrastare la prepotenza dell'acqua.

Tutti sono sommersi dai flutti e dall'angoscia della morte. Il sonno di Gesù (v. 24) è un elemento narrativo che serve a creare maggior tensione sulla situazione dei discepoli e più vivacità nel dialogo tra loro e Gesù, ma è anche uno degli elementi anticotestamentari ricuperati nel racconto. L 'invocazione rivolta a Gesù con I 'impiego del verbo sōzein (=salvare) è di sapore liturgico (v. 25). L 'intervento di Gesù (v. 26) trova due interlocutori: dapprima i discepoli vengono posti di fronte alla loro immotivata paura frutto solo della mancanza di fede, quindi l'energico rimprovero agli elementi della natura ristabilisce la calma. La vita dei discepoli è salva, ma fermarsi a questo punto sarebbe lasciare Il cammino a metà strada.

Il messaggio di Matteo non consiste solo nel presentare la salvezza fisica dei discepoli dovuta alla potenza di Gesù superiore alle minacce della natura. In effetti questa potrebbe essere già una lettura interessante: la natura non sempre è favorevole all'uomo, anzi a volte gli mostra un'ostilità che lo sopprime; Cristo però è in grado di salvare anche da questo pericolo immane. C'è di più.

Il messaggio cristologico è assai nitido. L 'uso del verbo epitimáō (= minacciare) viene impiegato nella versione dei LXX per i salmi 65,8; 106,9; 107,29. Così l'accaduto riletto alla luce del salterio permette di vedere in Gesù la stessa forza del Dio della creazione e dell'esodo, i grandi fatti della storia biblica a cui alludono i salmi citati.

Già si è ricordato Giona. Il primo episodio del libro profetico (Gio 1,1-16) è pure chiamato in causa. Giona prefigura il destino di Gesù in riferimento al mistero pasquale ed è Gesù stesso a rifarsi alle pagine di quel piccolo libro parlando di sé: Mt 12,38-41. Giona restò tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, Gesù rimarrà tre giorni e tre notti nel ventre della terra. Gesù conclude il paragone con questa dichiarazione: «Ecco, ora qui c'è più di Giona!» (18,41). La tempesta sedata anticipa la superiorità di Gesù rispetto a Giona, il quale dovette essere buttato in acqua per placare Dio e il mare, la sua preghiera non bastò (Gio 1,6.12.15).

L'ordine di Gesù invece basta a placare le acque grazie alla sua perfetta sintonia col Padre del quale condivide i poteri.

La superiorità di Gesù poi risplenderà definitivamente quando il terzo giorno emergerà dai flutti della morte, nella quale volontariamente si era immerso. La vittoria pasquale sarà germe di riconciliazione anche per il creato (cf Rm 8,19-21).

Si può ora accedere al piano simbolico del racconto. La scoperta dell'identità di Gesù «salva» dalle difficoltà della sequela. Questo tema è fondamentale nel brano in questione. Abbiamo già detto sopra come il verbo «seguire» venga immediatamente fornito come chiave di accesso al racconto (v. 23). Esso era già stato impiegato nei vv. 19 e 22, pertanto il rapporto tra i due episodi delle esigenze della vocazione apostolica (vv. 18-22) e della tempesta sedata (vv. 23-27) è assai stretta. Nel secondo episodio si mostra come nel seguire Gesù la vita è posta in pericolo a causa della persecuzione che la sequela porta con se.

La reazione dei discepoli di fronte al pericolo e l'intervento di Gesù smascherano l’immaturità della fede. Il discepolato è cammino di salvezza nella crescente accoglienza del mistero del Cristo che rimuove ogni paura. Questo superamento della paura è una tappa essenziale nel processo salvifico. Esso è dovuto alla presenza di Gesù che fa approdare alla maturità della fede.

Guarigione della emorroissa e risurrezione della figlia di Giairo ( Mc 5,21-43)

I vangeli sinottici sono concordi nell’impiego del verbo sōzein (= salvare) per il racconto in questione. Matteo lo usa solo per la donna affetta da emorragia (Mt 9,21-22); Marco e Luca lo adoperano sia per la bambina che per la donna (Mc 5,23.28.34; Lc 8,48.50). Si noti che la guarigione dell’emorroissa viene conclusa da tutti e tre gli evangelisti con la significativa espressione «la tua fede ti ha salvato» (Mt 9,22; Mc 8,34; Lc 8,48). Marco è l'evangelista che impiega più volte il verbo «salvare» (Mc 5,23.28.34) ed è l'autore del racconto più antico e più dettagliato.

La prima scena (vv. 21-24a) ci presenta il ritorno di Gesù dalla riva orientale del lago di Genezaret dove si era recato nel territorio dei Geraseni e dove aveva operato l'esorcismo dell'indemoniato (Mc 5,1-20). Sulla sponda occidentale, in località non specificata la folla reagisce entusiasta al suo ritorno cingendolo d'assedio. Gesù sembra trattenersi volentieri con loro. In questo scenario fa la sua comparsa un uomo di classe distinta, un dirigente della sinagoga. È spinto da una tragedia familiare: la sua bambina è malata in modo gravissimo, anzi è agli estremi, versa in condizioni tali che l'unica via d'uscita che le rimane è la morte, non vi sono alternative. Giairo è consapevole che umanamente la situazione è insolubile, solo un intervento soprannaturale può riportare alla «salute» sua figlia. Per questo lo vediamo cadere ai piedi di Gesù, nonostante la sua dignità, e supplicarlo con insistenza. Si tratta di una scena assai drammatica in cui i presupposti del gesto salvifico sono brevemente, ma efficacemente presentati: situazione disperata e preghiera.

La partenza di Gesù con Giairo segna un tornante nella vicenda e nel racconto. Un altro personaggio entra ora in scena: la donna affetta da emorragia. L'episodio che la riguarda si divide in due parti. Nella prima (vv. 24b-29) viene descritta la situazione della donna e la miracolosa guarigione.

Per il lettore contemporaneo non è facile percepire il tormento della donna in tutta la sua portata. Il racconto evangelico ha steso sulla condizione della malata un velo di pudore e

di discrezione che è necessario sollevare per raggiungere la profondità della difficoltà nella quale essa si trova.

Il testo evangelico recupera una «terminologia tecnica» (en rhýsei haímatos v.25) reperibile nella versione dei LXX di Lv 15,19-30 in cui viene descritta I 'impurità contratta nel periodo mestruale e nelle sue anomalie, impurità contagiosa per le cose e le persone. La donna in questo stato non poteva neppure partecipare al culto dal momento che la sua impurità non l'abilitava né al contatto con gli altri né al contatto con Dio. L'emorroissa non è una semplice malata, ma una recisa dal tessuto sociale. La sua situazione è incredibilmente disturbata sia per il risvolto fisiologico e psicologico, sia per le implicanze religiose e sociali della sua disfunzione. È una donna umiliata nella sua femminilità che tra la gente si sente clandestina.

Anche questa donna umanamente non ha via d'uscita, tutti i tentativi fatti non hanno prodotto che ripetuti fallimenti e il tracollo economico. Anche per lei l'unico sbocco per la sua disperazione è l'intervento di Gesù.

Marco è stato abile nella narrazione: tutta l'anamnesi riguardante la donna è fatta da participi aoristi che creano un riuscito contrasto con l' aoristo di háptomai (= toccare) che esprime l'azione puntuale e culminante della sequenza e che prepara ottimamente la descrizione dell'istantaneità della guarigione (v. 29). Il tocco quasi furtivo, alle spalle, da parte della donna viene dalla sua consapevolezza di contagiare chi entra in contatto

con lei e prepara la seconda parte del racconto (vv. 30-34). L 'avverbio euthýs (= subito) ripetuto ai versetti 29 e 30 crea una contemporaneità tra la guarigione della donna e la reazione di Gesù.

Gesù reagisce perche ha percepito la differente qualità del tocco ricevuto dalla donna; si è reso conto che non era uno dei casuali urti ricevuti dalla calca di gente, ma di un'azione voluta dalla fede. Ora vuole manifestare quanto nel segreto di quel corpo era accaduto.

Si potrebbe pensare che l'intenzione di Gesù non sia tanto quella di costringere la donna ad una imbarazzante confessione circa il suo passato o il suo stato fisico, ma piuttosto quello di rilevare e accreditare la sua nuova condizione di purificata e liberata, e partecipe a pieno titolo della vita collettiva. Le parole di Gesù che chiudono il racconto di questo miracolo sciolgono la donna dalla sua clandestinità e le ridonano la pace travolta dal flusso sanguigno.

Questa malata senza nome, ma con fede, ha ricevuto più di quanto si aspettasse quando pensava tra se che toccando Gesù si sarebbe salvata (v. 28). Oltre alla guarigione fisica ha ricevuto in dono il ripristino pieno della sua di dignità. La risposta di Dio al bisogno e alla fede dell’uomo e sempre sovrabbondante.

Ora riprende il racconto interrotto del viaggio alla casa di Giairo. È l'ultima scena della nostra pericope (vv. 35-43). La situazione è precipitata: la fanciulla è morta. Gli ambasciatori provenienti dalla casa di Giairo ritengono ormai inutile l'intervento di Gesù. Di fronte alla morte non rimane che il dolore e la rassegnazione. Ma Gesù invita Giairo a non associarsi al loro pensiero. Anche di fronte alla morte si può e si deve mantenere fiducia in lui: «Non avere paura, solamente credi» (v. 38). Così il cammino prosegue. Gesù non viene congedato, ma la folla sì. Comincia a stringersi il cerchio intorno a Gesù fino a ridursi all'essenziale al v. 40. Solo Pietro, Giacomo e Giovanni possono seguirlo, come avverrà successivamente per la trasfigurazione (9,2-8) e l'agonia al Getsemani (14,32-42). Questi discepoli testimoni della caparra della gloria e del dolore di Gesù sono ora coinvolti in un altro «segno pasquale».

Il contorno tipico della morte in oriente confusione, pianti, urli è già in atto nella casa di Giairo; ma Gesù lo trova fuori luogo: «La fanciulla non è morta, ma dorme» (v. 39). I presenti non raccolgono la sfida di Gesù, non accettano la rivelazione di quanto è la morte a partire dalla presenza del Cristo vale a dire non più una situazione irreversibile, senza ritorno, bensì uno stato reversibile proprio come il sonno dal quale si può essere svegliati. La denominazione che Gesù dà alla morte entrerà subito nel vocabolario cristiano (At 7,60; 13,16; 1 Cor 7,38; 11,30 ecc.).

La derisione dei presenti esplode spontanea dalle loro bocche come prima le grida. Tuttavia Gesù smantella l'apparato del lutto cacciando via tutti. La sua intenzione non è solo quella di avvolgere il miracolo nella discrezione, ma anche quella di eliminare un contesto decisamente in contrasto con l'imminente rifiorire della vita. In un clima intimo e affettuoso abitato solo dai genitori della ragazza e dagli amici di Gesù il prodigio si compie. Il vangelo riporta il gesto di Gesù e soprattutto la forza e freschezza della sua parola conservata nella fragranza del linguaggio originale e per nulla imparentata o allusiva a formule magiche: «Talità Kúm - fanciulla alzati!» (v. 41).

La ragazza si alza e fa dei giri attorno è la prova del pieno recupero della vita e delle forze. La ragazza non ha bisogno di convalescenza, ma di cibo ed anche questo ordine di Gesù ci dimostra la sua grandezza. Fino all'ultimo egli è preoccupato per gli altri e dimentico di se. Non ha importanza per lui il riconoscimento che gli è dovuto, anzi in modo quasi assurdo impone il silenzio sull'accaduto.

Giairo ha chiesto una guarigione, gli è stata donata una risurrezione. Il dinamismo è costante: nella difficoltà l'uomo si apre alla preghiera e alla fede per accogliere il dono di Dio sempre superiore alle sue aspettative. Il punto di partenza della preghiera evangelica poteva essere un asserto di questo tipo: Gesù è in grado sia di guarire i malati, sia di risuscitare i morti. Marco ha proclamato questa verità narrando e intrecciando due episodi

dell'opera salvifica di Gesù che libera l'uomo da due coercizioni da cui nessun altro gli può dare scampo: la malattia e la morte.

Così è attuato il lieto annuncio del salterio: «Il nostro Dio è un Dio che salva; il Signore Dio libera dalla morte» (Sal 68,21 ).

Nota bibliografica

Mt 8,23-27:


L. SABOURIN, Il Vangelo di Matteo , Roma 1977, voI. Il, 528-531.
R. FABRIS, Matteo , Città di Castello 1982, 206-208.
l. GHILKA, Il Vangelo di Matteo , Brescia 1990,464-469.

Mc 5, 21-43:


M. l. LAGRANGE, Evangile selon Saint Marc , Paris 1966, 138-146.
V. TAYLOR, The gospel according to St. Mark , London 21966, 289-298.
R. PESCH, Il Vangelo di Marco , Brescia 1980, voI. 1,467-496.
R. SCHNACKENBURG, Vangelo secondo Marco , Roma 1983, voI. 1,133-140.
l. GNILKA, Marco , Assisi 1987, 283-301.

La maggioranza degli europei che vengono a conoscenza del Buddhismo, pensa che il Buddhismo sia soltanto una dottrina che insegna che la vita è vanità, futilità ed illusione. Ho sentito alcuni studiosi cristiani che hanno studiato il Buddhismo insegnare che il Buddhismo è una ricerca individualistica, e che insegna alle persone a pensare alla propria salvezza senza interessarsi dei prossimi.

Coscienza e libertà (1Cor. 10, 23-33)
di Vladimir Zelinskij






Le parole che abbiamo ascoltato vengono ripetute già due volte nella stessa Lettera ai Corinzi, cosa che è rara in Paolo, famoso per l’eccezionale densità del suo messaggio. L’Apostolo dice ed insiste con un tono quasi solenne: Tutto è lecito. Ma non tutto è utile. Tutto è lecito! Ma non tutto edifica . Come mai un accento tanto forte è posto sull’opposizione fra queste due alternative della libertà umana? Per rispondere possiamo intraprendere strade che hanno prospettive diverse: quella storica, che riguarda soltanto l’epoca in cui la legge ebraica viene seguita dalla comunità giudeo-cristiana; oppure l’interpretazione umanistica e laica dei giorni nostri; o ancora, per ultima, una visione cristologica e spirituale. Il contenuto immediato del testo paolino è la proclamazione univoca e quasi trionfante della libertà di coscienza, direi anche del primato della coscienza nei confronti delle prescrizioni della legge in vigore. La mia coscienza, afferma Paolo, è autorevole per decidere da sola cosa si possa mangiare o meno. La mia coscienza ha diritto alla priorità davanti alle prescrizioni rituali che riguardano il cibo. Il cristiano è libero: Tutto ciò che è in vendita sul mercato, mangiatelo senza fare questioni per motivi di coscienza. Perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene .


  Già con quel versetto del salmo 23, conosciuto a memoria da quelli a cui si rivolge, l’Apostolo vuole dispensare la loro coscienza dagli scrupoli: Se la tua coscienza non è caricata dalla conoscenza della partecipazione al culto pagano - che è abominio per il Signore (Deut. 17,15) -, sei ormai libero! Se partecipo ad un culto pagano a mia insaputa, sono senza colpa e la mia coscienza è innocente; ma se il venditore mi dice che la carne in vendita è quella del sacrificio ad un altro dio, la mia coscienza è legata dal secondo comandamento. La coscienza è il giudizio interiore che funziona solo se la legge è conosciuta perché la sua vera ed autentica vocazione è rendere la grazia e fare tutto per la gloria di Dio. Questo è il senso immediato del testo che abbiamo ascoltato.


Ogni epoca, però, ascolta le parole della Scrittura con l’orecchio accordato dalla propria tonalità dominante. Il secolo in cui viviamo è più predisposto, almeno in Occidente, a sentire la prima parte dell’affermazione dell’Apostolo: la mia coscienza è la principale, se non l’unica padrona delle mie decisioni. Su tutto ciò che faccio decido solo io e le altre istanze devono rispettare le mie scelte! Tutto mi è lecito , scriviamo questa prima parte dell’affermazione paolina sulla magna carta della legge morale e religiosa. Non facciamo, però, una domanda semplice: “l’io” nel cui nome parla Paolo, chi è? E quell’io che noi siamo pronti a porre come unico padrone dei nostri atti cosa significa, nella bocca dell’Apostolo, cosa contiene? E la mia coscienza, nel contesto del suo discorso, cos’è?


Come concetto teologico la coscienza appare solo nel Nuovo Testamento. Certo, non si può dire che la coscienza sia stata scoperta solo con il cristianesimo. Credo che prima questo concetto fosse implicitamente incluso in quel centro corporale e spirituale dell’esistenza umana che la Bibbia chiama “cuore”. La coscienza è il cuore che pensa, che giudica – saggezza interiore, strumento della conoscenza di Dio, canale della Sua volontà, organo della glorificazione e del pentimento, luogo segreto della Sua legge. La Tua legge è nel profondo del mio cuore , dice il Salmo (40,9). Porrò la Mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora Io sarò il loro Dio ed essi il Mio popolo , professa Geremia (31,33). Ed io, credente, sono chiamato da Dio a conoscere questa legge nuova e personale, scritta nella profondità dello spirito umano, a conoscerla per viverla, e questa vita inizia con la coscienza, - la coscienza di cui parla San Paolo. La coscienza è la nuova lettura della legge nascosta nel mio cuore, messaggera del Signore che abita in me.


Incontriamo la parola coscienza già in alcune versioni greche del Vangelo di San Giovanni. Nel racconto sulla donna adultera, quando si dice che gli accusatori di quella moglie infedele se ne andarono uno per uno, in alcuni manoscritti leggiamo denunciati dalla propria coscienza . Proprio questa versione è inclusa anche nella traduzione russa alla quale sono abituato. Questo significa: la legge che prescrive la lapidazione deve essere sottomessa alla coscienza, al tribunale del cuore e davanti al suo giudizio, infatti, nessuno è innocente. Tale tribunale, con la voce di Dio all’interno, diventa il criterio più alto della fede stessa. La fede può essere falsa, incatenata dalla lettera che uccide, anzi piegata ad idolatria; la voce del giudizio che ascolta direttamente lo Spirito di Dio porta e manifesta la volontà del Signore. Questo è uno degli insegnamenti fondamentali del messaggio paolino, nato dalla sua storia personale, dal suo incontro fulminante con Cristo.


Sembra che quel fulmine abbia acceso non soltanto la fede del futuro Apostolo dei popoli, ma che abbia anche risvegliato o gettato la luce su tanti nuovi concetti teologici. Tutto o quasi tutto il messaggio di Paolo nasce dalla sua illuminazione, riflettuta ed intellettualmente sviluppata. Paolo predica Cristo raccontando anche di se stesso, della sua anima, e predicando crea o scopre l’universalità dell’incredibile avventura della propria anima. Ognuno di noi in qualche modo si può riconoscere, anche se in un grado infinitamente più debole, nella sua anima, nella sua coscienza, nella sua fede. Servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio : così Paolo si presenta nella lettera ai Romani (1,1). In ogni sua lettera, in ogni riga, manifesta l’intimità della sua conoscenza personale del Dio incarnato e da lui incontrato nella persona di Gesù. Il centro del suo essere, il cuore è pieno di questo incontro e porta Cristo in sé. Se negli scritti dei Profeti il cuore è il luogo della presenza del Signore, la coscienza è il cuore che giudica e che pensa e confessa la propria fede.


Il cuore di San Paolo è “cristocentrico” e dal quel cuore nasce anche la sua teologia triadologica. L’incontro con Cristo dura tutta la sua vita e noi vediamo come in ogni sua lettera apostolica la scoperta di Cristo si riveste di un pensiero nuovo e sempre inaspettato. Ogni volta sembra che il pensiero paolino partorisca un Cristo nuovo. Ricordiamo questa famosa esclamazione dalla lettera ai Galati: Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! (4,19). Ma la forma Christi è l’icona della nostra coscienza, l’immagine della nostra libertà e s’identifica con la libertà di Gesù. L’io di Paolo e di un qualsiasi cristiano è chiamato ad agire seconda la Sua volontà, a pensare e a conoscere le cose con il pensiero del Figlio di Dio.


Alla domanda del Libro della Sapienza e del profeta Isaia: “Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?”, san Paolo risponde: “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo ” (1 Cor. 2,16), “Nos autem sensum Christi habemus ”, secondo la Vulgata. Proprio il pensiero di Cristo (νουν Χριστου), si trova anche alla base della nostra coscienza e della libertà umana. Ma il cuore che pensa e la coscienza, non sono forse la stessa cosa? Il “pensiero di Cristo ”, secondo Paolo, è il modo di sentire, di intendere, di vedere le cose come le vede e le vive Cristo stesso. La ragione che decide ciò che è lecito e ciò che è illecito, e “il Cristo che abita per la fede nei nostri cuori ” (Ef. 3,17) hanno in comune la sostanza e questa sostanza può essere chiamata “coscienza aperta allo Spirito Santo”, poiché è solo lo Spirito che ci dà la grazia di conoscere Dio.


Questo vuol dire che lo Spirito crede in noi, pensa in noi, giudica in noi: in altre parole, rappresenta Cristo in noi. Troviamo un’interpretazione interessante del concetto paolino della presenza di Cristo, in particolare del pensiero di Cristo, nella teologia di San Massimo il Confessore. Il “pensiero di Cristo che ricevono i santi” (cito dai suoi “Capitoli gnostici”) si situa nella visione trinitaria paolina con la presenza dello Spirito Santo, “in quanto guida di sapienza e di conoscenza” (II, 63) e con l’apertura verso il Padre, che “si trova naturalmente tutto intero indiviso, in tutta la Sua Parola” (II, 71).


“Il pensiero di Cristo..., dice il Confessore, non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettuale” (in altre parole, i nostri sensi conservano le loro forze naturali), ma “illuminando mediante la propria qualità la potenza del pensiero...”. La potenza del pensiero nella visione massimiana si trova nel suo logos. In altre parole, nell’idea o nel principio di ogni cosa o essere. Il logos costituisce la natura spirituale di qualsiasi creatura o la sua “struttura interiore”. Ma il simile, come diciamo spesso, è riconosciuto dal proprio simile, per il fatto che porta in sé la sua immagine - immagine capace di partecipare al suo “archetipo”, in questo caso al Logos come Seconda Persona della Santa Trinità. Qui non si tratta dell’analogia fra il divino e l’umano, ma del primo paradosso della conoscenza di Dio, che si realizza nel “pensiero di Cristo ”: in questo pensiero tutte le cose, nel loro logos, si riflettono ed è data la presenza di Cristo nella sua realtà ipostatica. Siamo chiamati ad entrare in questo pensiero, immergendoci nel mistero dell’Incarnazione.


“Il mistero dell’Incarnazione del Verbo, dice San Massimo, ha la fede, forza di tutti i segreti, e le figure della Scrittura e la scienza di tutte le creature visibili ed intelligibili ”(I, 66).


Proprio il mistero dell’Incarnazione, inteso nel senso espresso dal Confessore, lo troviamo nel concetto paolino della coscienza, il quale non può essere capito a fondo o interpretato in termini astratti o solo puramente umani. La coscienza conosce dall’interno il logos delle cose, perché il pensiero di Cristo si nasconde dietro qualsiasi opera creata. Perciò Paolo può esclamare nella Lettera ai Galati, non solo in senso mistico o spirituale, ma anche intellettuale e teologico: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (2.20). Anzi Cristo agisce nella mia coscienza, pensa con il mio pensiero. Tutto è lecito a Cristo, ma non tutto è utile al peccatore che coabita con Cristo. Tutto è lecito, ma non tutto ciò che è lecito mi porta a Dio. Il mio pensiero è libero, ma esso trova la sua autentica libertà solo nella sua sottomissione al Signore che abita nel mio cuore. La libertà non esiste come una cosa in sé, come concetto astratto. La libertà è un’espressione della persona umana, del pensiero umano, del peccato umano, della fede e dei sentimenti umani. Così Paolo nella lettera ai Filippesi esorta:


"Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, Il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la Sua uguaglianza con Dio; ma spogliò di se stesso, assumendo la condizione di servo (Fil. 2,5-8).


Cosa vuol dire spogliarsi di se stesso ? Rinunciare alla propria superbia - che si trova alla radice della nostra personalità, del nostro "io" e che cerca sempre la migliore posizione nel mondo, in quelli che hanno "come dio il loro ventre" (Fil. 3,19): il denaro, il potere, la sessualità, il successo, ma anche la stima degli altri, la buona reputazione, ecc., ed anche la libertà di cercare e di godere di questi beni terrestri. L'uomo è chiamato a "spogliarsi" di tutto questo, "assumendo la condizione di servo" di Dio - che porta all’estremo la nostra assimilazione al Cristo.


"Spogliarsi di se stesso" vuol dire sacrificare una parte di noi stessi, quella parte che forma, cimenta e salvaguarda la nostra identità in questo mondo decaduto e che ci "protegge" contro Dio e contro l’amore. "L'etica cristiana", se possiamo parlarne nella sua essenza, non è l'etica della legge ("tu devi comportarti così, tu non deve mangiare questa carne, ecc"), ma piuttosto l'etica della vocazione compresa dalla propria coscienza (tu sei chiamato all'amore che si manifesta nella tua vittoria su te stesso), - l’etica e la libertà della formazione di Cristo dentro di noi.


Nel nostro brano non si sta trattando soltanto della sovranità di un qualsiasi “io” laico o religioso, che può scegliere solo fra il lecito e l’illecito, ma della cosa più essenziale. Del legame più profondo dell’essere umano con il proprio Creatore, che chiama nella coscienza. Forse, è una cosa ovvia o banale nel discorso cristiano? Non è così semplice! Il problema del senso della libertà e la scelta della giusta libertà rimangono ancora una linea di demarcazione fra le diverse confessioni cristiane, divise sulla morale, sulla bioetica, sull’eutanasia, sulla tradizione, sulla pratica religiosa quotidiana della fede. Siamo divisi, dobbiamo ammetterlo, proprio sul concetto della libertà. Ciò che per noi non corrisponde al pensiero di Cristo è assolutamente lecito e legittimo per altri. Il brano paolino è davvero piccolo, ma è da questa radice che si dirama l’intero cespuglio dei problemi ecumenici di oggi. Per proseguire il nostro dialogo, bisogna conoscere non soltanto la formula della fede di un altro, ma anche il contenuto umano ed esistenziale dei fondamenti di questa fede, della sua coscienza, del suo pensiero di Cristo.


Ma c’è un pensiero in cui possiamo capirci, in cui siamo già uniti. Questo pensiero è l’appello paolino - così chiaro, così univoco - alla gratitudine. Il motivo del rendere grazie è all’origine dell’insegnamento di Paolo e dovrebbe essere anche l’origine della nostra ricerca comune, a volte ottimistica, ma a volte disperata, dell’unità. Ma l’unità stessa non è il dono di poter riunirsi per glorificare Dio con una sola voce, una sola coscienza, un solo pensiero ed unica libertà?
Sabato, 23 Agosto 2008 22:30

Ignazio di Loyola

Ignazio di Loyola
(1491-1556)

 

I. ABBOZZO BIOGRAFICO

Iñigo Lopez de Oñaz y Loyola, che soltanto più tardi, durante il suo periodo di studi a Parigi, si chiamerà Ignazio, nacque nel 1491 al castello di Loyola, nella provincia basca di Guipùzcoa. Crebbe, insieme a cinque sorelle e sette fratelli, in una famiglia nobile e cattolica, orgogliosa del proprio passato guerriero e della fedeltà alla corona. L’idea della «reconquista» della penisola iberica ad opera della Spagna cristiana, influenzò i processi sociali. Nel 1492 cadde l’ultima fortezza moresca, Granada. Nello stesso anno Colombo, al servizio della regina Isabella, scopri il nuovo mondo. Le ampiezze dei mari divennero accessibili; terre lontane entrarono in prospettiva.

Sabato, 23 Agosto 2008 22:15

Perdonare le offese (Luciano Manicardi)

Una lucida analisi di ciò che si sviluppa nell’io della persona “vittima” diviene il primo passo per una crescita spirituale ed un cammino di fede adulto che consentirà al soggetto di attuare il Vangelo dell’amore. “..Rimetti a noi i nostri debiti; come noi li rimettiamo ai nostri debitori...” Il perdono è onnipotente, nel senso che tutto può essere perdonato, al tempo stesso è infinitamente debole, in quanto nulla assicura che l’offensore cesserà di fare male.

Voci discordi sul sito di al-Qaradhawi: “La mossa più saggia possibile”; “No, è una resa a chi vuole convertirci”.

Sabato, 23 Agosto 2008 01:34

Comunicare in pace (Claudia Padovani)

Comunicare in pace

di Claudia Padovani *

Alcune connessioni per ampliare la riflessione sulla cultura della pace e sul rapporto tra pace e comunicazione.

Mentre si va ampliando il senso dell’insicurezza globale ed è davanti a tutti la difficoltà di costruire alternative in un mondo segnato dalla conflittualità, mi chiedo di che cosa sia fatta quella “cultura della pace” che sentiamo così necessaria e che fatichiamo a portare nelle situazioni educative, comprese le aule universitarie. Come ricercatrice ed educatrice, ragiono sul ruolo e le responsabilità dell’informazione, e mi aiuta l’ultimo numero di Media Development, bella rivista dell’Associazione mondiale per la comunicazione cristiano (Wacc), incentrato su “Comunicare la pace”. Parto da qui per condividere alcuni tasselli del mosaico di riflessioni e azioni) che silenziosamente, ma caparbiamente, propongono un nexus fra pace e comunicazione.

Sabato, 23 Agosto 2008 01:25

Ecumenismo alla prova (Mauro Castagnaro)

Ecumenismo alla prova

di Mauro Castagnaro






Nel Paese latinoamericano il cammino ecumenico sta conoscendo un momento di stallo, dopo l’uscita dei metodisti dagli organismi interconfessionali. Ripercorriamo la storia del dialogo tra le varie confessioni cristiane in una nazione da sempre crocevia di culture e religioni.

L’uscita da «tutti gli organismi ecumenici in cui siano presenti la Chiesa cattolica e gruppi non cristiani» (cioè afrobrasiliani) decisa nel luglio 2006 dal Consiglio generale della Chiesa metodista ha aperto in Brasile una fase di profondo ripensamento tra i sostenitori dell’unità tra diverse confessioni cristiane. Lo choc è stato forte, perché la Chiesa metodista si era sempre distinta nell’impegno per l’unità (nel 1942 fu la prima in Sudamerica ad aderire al costituendo Consiglio ecumenico delle Chiese, Cec) e aveva due autorevoli rappresentanti nel Consiglio nazionale delle Chiese cristiane (Conic): il vescovo Adriel de Souza Maia e il pastore Clay Peixoto, rispettivamente presidente e segretario esecutivo.

Solo cinque mesi prima, a Porto Alegre, si era svolta la IX Assemblea generale del Cec, realizzata per la prima volta su invito di un Consiglio nazionale di Chiese comprendente anche quella cattolica romana e ospitata dalla Pontificia università cattolica del Rio Grande do Sul. Alla vigilia dell’evento, il segretario generale del Cec, Samuel Kobia, pastore metodista del Kenya, si era detto «impressionato dalla volontà della Chiesa cattolica di partecipare all’organizzazione dell’assemblea. Non era mai successo in passato» E l’arcivescovo di Porto Alegre, Dadeus Grings, aveva sottolineato una particolarità: «L’ecumenismo in Brasile ha una traiettoria singolare, con la partecipazione della Chiesa cattolica al Consiglio nazionale delle Chiese, il che è infrequente nel resto del mondo. Qual è la ragione? Viviamo in una società pluralista e, al contempo, molto violenta. Davanti a queste due realtà, i credenti hanno sentito il bisogno di fare qualcosa insieme. Rispettando le peculiarità di ciascuno, cerchiamo quanto abbiamo in comune, cioè la fede che salva».

UN LENTO PROCESSO

Per comprendere la portata e la difficoltà del cammino ecumenico in Brasile, occorre ricordare che, per un lungo periodo durante l’epoca coloniale, quella cattolica era considerata la religione ufficiale e l’ingresso nel Paese era vietato ai protestanti. Poi vennero ammessi anche i culti non cattolici, ma, fino al 1890, unicamente nell’ambito domestico. Solo nel XX secolo cominciò ad attenuarsi il conflitto tra chi giudicava «pagani» i seguaci della Riforma e chi riteneva il Brasile terra ancora da evangelizzare per eliminare le “superstizioni cattoliche”-

All’inizio, il movimento ecumenico si sviluppò all’interno del protestantesimo. Il coinvolgimento esplicito della Chiesa cattolica avvenne nel contesto del Concilio Vaticano II. Le relazioni si andarono intensificando grazie alla partecipazione, dal 1969, di rappresentanti delle Chiese anglicane, protestanti e ortodosse alle Assemblee generali e alle riunioni maggiori della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb). Questa, a sua volta, nel 1977 fu invitata per la prima volta al Sinodo nazionale della Chiesa episcopaliana anglicana del Brasile e nel 1978 al Concilio generale della Chiesa evangelica di confessione luterana del Brasile. Passi decisivi furono anche, dal 1975 al 1982, i cosiddetti «Incontri dei dirigenti delle Chiese», in cui le gerarchie ecclesiastiche delle diverse confessioni si confrontarono su vari temi teologici, pastorali e sociali. Nello stesso periodo nacquero nuovi organismi ecumenici, con l’obiettivo di promuovere il dialogo e la cooperazione interconfessionali, alcuni con appoggio ecclesiastico ufficiale, altri, invece, autonomi. Tutto ciò è sfociato nella costituzione del Conic nel 1982, che riuniva, oltre alla Chiesa metodista, le Chiese cattolica e ortodossa siriana, cattolica romana, cristiana riformata, episcopale anglicana, evangelica di confessione luterana, presbiteriana unita. Ma che cosa ha originato il ritiro dei metodisti dal Conic? Alcune avvisaglie si erano avute negli anni precedenti, ad esempio con il rifiuto di partecipare alla Campagna dl fraternità del 2005, consueto appuntamento quaresimale promosso dall’episcopato cattolico, che quell’anno era organizzata dal Conjc e non dalla Cnhb.




COMUNIONE O COMPETIZIONE?

Lo conferma la pastora metodista Nancy Cardoso, teologa: Non è stato un fatto improvviso. Il Concilio generale della Chiesa metodista si tiene ogni sette anni e da tre assemblee si era formato un gruppo che proponeva l’abbandono del movimento ecumenico. La minoranza si è via via rafforzata fino a diventare egemone. Dietro c’è un modello di Chiesa con elementi carismatici e spiritualisti, pensato per competere nello spazio religioso. I metodisti si sono sempre caratterizzati come una minoranza, che aveva molte università, ma non faceva proselitismo, per cui aveva buoni rapporti tanto con i pentecostali quanto con i cattolici. Dalla fine degli anni ’80 sono nati i movimenti carismatici, che non sono una novità nel metodismo, il quale fin dalle sue origini vive dell’alternarsi di ondate di “risveglio” e fasi di istituzionalizzazione. Tuttavia, oggi, questo settore ha preso il controllo dell’apparato istituzionale. La maggior parte delle comunità metodiste ormai non sono ecumeniche, non. amano i cattolici né gli afrobrasiliani, hanno una cultura “gospel”, in cui sono centrali la musica e la dimensione spettacolare. Le università metodiste sono molto aperte, ma ora i carismatici ne assumeranno il controllo e ci sarà uno scontro forte perchè lì ci sono potere e denaro. Il pastore Gottfried Brakemaier, già presidente della Chiesa evangelica di confessione luterana del Brasile e della Federazione luterana mondiale, inquadra questa crisi nel mutamento del panorama religioso brasiliano: Diverso ritmo di crescita delle Chiese pentecostali rispetto a quelle storiche, soggettivismo che diluisce la normatività dei valori, beni religiosi in offerta sul mercato, mistica alla ricerca di profitto spirituale o materiale sono solo alcuni segni dei tempi. Il mondo religioso del XXI secolo invece di ”comunione” vuole “competitività” in una società pluralista. Le Chiese vivono un momento di “ri-arroccamento” nelle proprie fortezze dogmatiche. Accentuano la propria identità, rivendicando un’esclusiva. Ciò indebolisce l’ecumenismo». Il cattolico Ehias Wolff, consulente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cnbb, amplia la lista delle difficoltà nel cammino verso l’unità: «Il numero limitato di persone e Chiese che in Brasile aderiscono all’ecumenismo, la diffidenza circa le vere motivazioni del dialogo, lo scarso impegno delle leadership ecclesiastiche, la poca disponibilità delle comunità pentecostali, dl alcuni settori del protestantesimo storico e dei movimenti ecclesiali cattolici, la divisione nel campo religioso brasiliano, l’intenso proselitismo pentecostale, la fragile unità interna di alcune confessioni, la perdita del senso di appartenenza ecclesiale, la privatizzazione della fede, il passaggio da una confessione all’altra nella ricerca di un’esperienza religiosa soddisfacente».

ECUMENISMO RURALE

L’assemblea del Conic di novembre - che ha eletto nuovo presidente il pastore luterano Carlos Moller - ha sottolineato la necessità di recuperare i fondamenti dell’ecumenismo in un nuovo contesto culturale, dando spazio non solo all’impegno della Chiesa a favore dei diritti umani, ma anche alla missione e all’evangelizzazione. E il segretario esecutivo ad interim, il cattolico Gabriele Cipriani, ha espresso l’auspicio del Conic di contare sull’adesione di alcune Chiese pentecostali storiche, come le Assemblee di Dio (secondo il censimento del 2000 la maggiore denominazione evangelica del Paese, con 8,5 milioni di Fedeli), di congregazioni battiste e di Chiese protestanti storiche, come la Chiesa evangelica luterana del Brasile e la Chiesa presbiteriana indipendente. Inoltre il Conic ha. chiesto alla Cnbb di rendere ecumenica la Campagna di fraternità del 2010.

«Queste relazioni istituzionali - commenta dubbiosa Nancy Cardoso -, pur importanti, non riescono a tradurre quella quotidianità in cui la gente vive la religione come festa e come dramma». La pastora appartiene tra l’altro alla Commissione pastorale della terra (Cpt, organismo legato alla Chiesa cattolica.

Da questa esperienza trae interessanti esempi di «ecumenismo quotidiano»: «Credo che l’ecumenismo più vitale sia quello che si esprime, per esempio, quando, durante un conflitto agrario molto aspro nel Rio Grande do Sul, io e un prete cattolico abbiamo celebrato insieme il battesimo di 17 bambini. Questi sono arrivati avvolti in una bandiera del Movimento dei senza terra, in braccio ai genitori che passavano tra due file di contadini con gli strumenti da lavoro alzati. Quindi abbiamo scavato un buco in terra, lo abbiamo riempito di acqua. e la gente ha calato ogni bambino nella terra e nell’acqua. Questa esperienza battesimale ha permesso ai braccianti di superare la frustrazione derivata dal fatto che i proprietari terrieri e la polizia avevano impedito loro di effettuare una marcia verso la capitale. Ancora, in occasione di un violentissimo sgombero di un’occupazione di terra, io e un prete cattolico abbiamo usato in una celebrazione le beatitudini di Luca, leggendo i “Beati voi rivolti ai contadini e i “Guai a voi,..” girati verso la brigata militare. Gli ufficiali hanno chiamato il vescovo della Cpt del Rio Grande do Sul per lamentarsi che erano stati maledetti dalla pastora e dal prete. Ovviamente questa “maledizione” non aveva alcuna efficacia, ma l’averla proclamata con la Bibbia in mano ha un enorme significato agli occhi del popolo».




(da Popoli, giugno-luglio 2007)

Il Mosaico Religioso


Cattolici

73,6

Protestanti

15,4

Spiritisti

1,3

Testimoni di Geova

0,7

Ebrei

0,1

Buddhisti

0,1

Altro

1,4

Atei/agnostici

7,4

  Corea del Sud

A scuola di dialogo interreligioso

di Peter Njoroge Githaiga


«La religione è come il mago e la sibilla... Essa affronta le rovine del mondo e predice la restaurazione; di fronte al rosso-sangue del cielo, con i colori del tramonto che sprofondano nell’oscurità, profetizza l’aurora. Affronta la morte e annuncia la vita» (FelixAdler).

«La religione è come il mago e la sibilla... Essa affronta le rovine del mondo e predice la restaurazione; di fronte al rosso-sangue del cielo, con i colori del tramonto che sprofondano nell’oscurità, profetizza l’aurora. Affronta la morte e annuncia la vita» «La religione è come il mago e la sibilla... Essa affronta le rovine del mondo e predice la restaurazione; di fronte al rosso-sangue del cielo, con i colori del tramonto che sprofondano nell’oscurità, profetizza l’aurora. Affronta la morte e annuncia la vita» Mahatma Gandhi diceva che «uno studio amichevole delle religioni è un dovere sacro». Sono quindi contento di potermi dedicare allo studio comparato delle religioni, di avere l’opportunità non solo di assolvere a questo sacro dovere, ma di gustare, seppure come un semplice novizio, le ricchezze delle esperienze religiose del mondo al di fuori della sfera del cristianesimo. La realtà religiosa del mondo sta diventando sempre più pluralistica; perciò, qualsiasi religione venga professata, deve essere vissuta in un atteggiamento di incontro e dialogo con la fede del vicino. «E arrivato il tempo in cui i contatti interreligiosi basati sulla cortesia e una conoscenza generica non sono più sufficienti. È indispensabile conoscere in profondità la religione di colui con cui si vuole dialogare» (Card. .Arinze). Lo studio del mondo delle religioni non consiste puramente nel cercare possibili vie di armoniosa coesistenza o pacifica interazione, ma è molto di più: è un arricchimento reciproco.


Quando lo studio delle religioni è fatto avendo in mente il dialogo interreligioso, è importante accettare che la maggioranza di tali religioni sono «i modi di vita di immense porzioni di umanità…, l’espressione viva dell’anima di vasti gruppi umani. Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi, di saggezza assimilata da popoli e culture. Sono tutte cosparse di innumerevoli “germi del Verbo” Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare,come vivere e morire, come custodire i propri defunti» (cfr Evangelii nuntiandi 53).


Infatti, il nocciolo della questione nello studio delle religioni è proprio qui: al di là dei contenuti di fede che vengono professati, esiste una realtà vissuta che è stata espressa in molti e differenti termini, come «esperienza religiosa», «esperienza spirituale», «esperienza divina», «esperienza del sacro, del trascendente, delle potenze divine» ecc. Nella tradizione abramitica possiamo chiamarla «esperienza di Dio».


Questa vasta gamma di «esperienze religiose», senza ignorare la realtà dell’errore umano, è una profonda, autentica e onesta avventura spirituale, che costituisce il cuore della storia umana di tutte le generazioni che si sono succedute nel tempo e nelle differenti situazioni geografiche. E poiché nessuno può pretendere di avere una completa e perfetta esperienza di Dio, lo studio delle differenti tradizioni religiose non può che arricchire la nostra limitata esperienza.


Noi non comprendiamo a pieno l’universo; non possiamo parlare della morte senza conoscere la vita. Almeno finché esistiamo, c’è una ragione per cui siamo al mondo, E la nostra volontà di credere in questa ragione più ampia ci aiuta ad agire in compagnia delle «potenze divine». E per affrontare la morte bisogna diventare collaboratori di cielo e terra nella creazione di un universo migliore: un traguardo raggiungibile se siamo aperti alle esperienze religiose altrui.


Lo studio delle religioni è di grande importanza anche nella stessa teologia cristiana. Senza raggiungere una prospettiva comparativa mondiale, la teologia cristiana non può né conoscere totalmente le proprie forze, né corroborare le sue debolezze. Per questo, la teologia cristiana ha bisogno di essere fondata sullo studio comparato delle religioni.


Il dialogo interreligioso è uno dei principali traguardi dello studio delle religioni. E’ importante nel nostro tempo inculcare nella mente della gente la «cultura del dialogo». «Il dialogo come attività umana e umanizzante - afferma il gesuita Raimond Panikkar, uno dei più grandi filosofi e teologi viventi - non è mai stato cosi indispensabile in tutti gli ambiti della vita quanto nel nostro tempo di individualismo accademico. Tutto il nostro loquace parlare di ”villaggio globale” si effettua su paraventi artificiali sotto chiave». Pace e coesistenza armoniosa della gente sono minacciate da estremismo e terrorismo. Per questo in tutto il mondo c’è un risveglio tra le persone di buona volontà, impegnate in uno sforzo di creare un’atmosfera di amicizia e cordialità verso le religioni altrui.


Il traguardo da raggiungere nel dialogo interreligioso è, a sua volta, quello di rimuovere le nostre maschere religiose, che non hanno nulla a che fare con la vera esperienza religiosa. Il vero dialogo religioso ha luogo solo quando raggiunge le profondità delle intime credenze religiose e affronta gli interrogativi fondamentali sul senso della vita. Quando le maschere sono rimosse una ad una e siamo immersi nel dialogo con tutta la nostra persona, allora emerge qualcosa dal di dentro e comincia il «dialogo interreligioso». A conclusione, riporto un poetico sermone di Panikkar, che contiene alcune linee-guida fondamentali per il dialogo interreligioso: «Quando intraprendi un dialogo interreligioso, non pensare in anticipo ciò che devi credere. Quando testimoni la tua fede, non difendere te stesso o i tuoi interessi acquisiti, per quanto ti possano apparire sacri. Fai come gli uccelli de cielo: essi cantano e volano, e non difendono la loro musica o la loro bellezza. Quando dialoghi con qualcuno, guarda il tuo interlocutore come un’esperienza rivelatrice, come tu vorresti (e dovresti) guardare il giglio nei campi. Quando prendi parte a un dialogo interreligioso, cerca di rimuovere la trave dal tuo occhio prima di togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo prossimo. Beato te, quando non ti senti autosufficiente mentre stai dialogando. Beato te, quando hai fiducia dell’altro, perché confidi in Dio. Beato te, quando affronti incomprensioni dalla tua stessa comunità o da altri per amore della tua fedeltà alla verità. Beato te, quando non abbandoni le tue convinzioni e tuttavia non le poni come norme assolute».


(da MC,  marzo 2008)

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