Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea.
Forse la parola di Dio è partita da voi? O è giunta soltanto a voi? Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto scrivo è comando del Signore; se qualcuno non lo riconosce, neppure lui è riconosciuto. Dunque, fratelli miei, aspirate alla profezia e, quanto al parlare con il dono delle lingue, non impeditelo. Ma tutto avvenga decorosamente e con ordine. (1Cor 14,26-40)
Vi è un passo molto, troppo famoso nella prima lettera ai Corinzi. Non perché abbia grande profondità teologica (diremmo anzi che ‘teologia' proprio non vi è; semmai 'antropologia', e tanta), ma perche ha una notevole forza d'impatto viene molto sfruttato e impugnato attraverso i secoli; da coloro che volevano puntellare il proprio misoginismo con quello dell'Apostolo, da coloro che quel misoginismo appunto volevano denunciare.
Il contesto: una chiesa carismatica
Soprattutto per i cristiani moderni, abituati non senza sofferenza a un certo grigiore di chiesa, a liturgie alquanto stilizzate e burocratiche, alla latitanza di fatto dello Spirito santo, è importante riscoprire la comunità cristiana di Corinto, nella sua realtà fatta di luci e di ombre.
È chiaro che doveva trattarsi di una giovane chiesa estremamente vitale, in cui l'esperienza dello Spirito era vissuta con medita intensità. (Nella parte introduttiva, Paolo ha affermato che ai fedeli di Corinto non manca più alcun dono di grazia, mentre aspettano la manifestazione del Signore). La presenza e l'azione dello Spirito attestano che ormai ci si trova in pieno nella vita nuova in Cristo. Eppure la stessa sovrabbondante ed effervescente ricchezza dei carismi, in particolare il loro dispiegarsi quasi incontrollabile nell'assemblea liturgica, è causa di problemi che si intuiscono, problemi di ordine pubblico e non solo, che Paolo affronta con questa lettera, in cui ben tre capitoli (12-14) riguardano in particolare i doni dello Spirito.
L'azione dello Spirito si manifesta tangibilmente in molti modi diversi, ordinari e straordinari, diremmo noi: i carismi, o doni di grazia eccezionali, nella loro 'eccezionalità' sembrano esser quasi la norma a Corinto. In questa lettera se ne ricordano alcuni in particolare: la preghiera, l'esortazione, la profezia, il 'parlare in lingue'.
Preghiera ed esortazione almeno sono ben familiari anche a noi, ma di solito non proprio come manifestazioni di un carisma: siamo piuttosto abituati a una preghiera devozionale, a un'esortazione moraleggiante, in cui lo Spirito sembra brillare per la sua assenza... Sì, forse almeno lo Spirito nella sua assenza può davvero 'brillare' e funzionare da richiamo vivificante: perché la latitanza dello Spirito non è mai estraneità e costituisce un'invocazione implicita.
A Corinto invece lo Spirito di Dio costituisce una realtà centrale e molto presente e sperimentabile, ma spesso commista a fattori di altra origine, spuri e confusi: questo è umano, e volerlo evitare in partenza significherebbe «spegnere lo Spirito», ciò che l'apostolo raccomanda di non fare.
I carismi per la comunità
Paolo è un carismatico lui stesso (in questo capitolo, v.18, afferma en passant di possedere più di ogni altro il dono delle lingue), ma proprio per questo sembra rapportarsi con i carismi in un modo semplice e disincantato e in prospettiva eminentemente pastorale, guardando assai più all'utilità dell'assemblea che allo splendore, alla straordinarietà del dono. I carismi infatti sono molti, e vanno da funzioni per noi normalissime, che rientrano nell'area dei servizi, dei ministeri più e meno fissi, dei ruoli ecclesiali, ad altri eventi che ci appaiono 'strani', singolari, eccezionali. La comunità di Corinto, pur ricca in carismi di ogni sorta, sembra avere comprensibilmente un debole per i fenomeni di tipo estatico.
Il fatto di parlare in lingue, la glossolalia - si tratterà di lingue 'altre', ma realmente esistenti, oppure di lingua 'nessuna', 'altra' e 'oltre'? - suscita maggiore stupore in chi ascolta; ma è qualcosa di irrazionale e incomprensibile, che dev'essere interpretato, altrimenti non serve a nulla. L’apostolo insomma sottolinea che l'estasi dopotutto non è altro che un fenomeno psichico, in sé eticamente e spiritualmente neutro o quasi, valutabile solo in base ai contenuti e alle intenzioni che può veicolare.
Dal canto suo, pur non essendo ignaro dei fenomeni estatici, Paolo preferisce il carisma profetico: meno spettacolare della glossolalia, ma più comunicativo e comprensibile, più utile all'edificazione della comunità. Il profeta è essenzialmente colui - o colei - che aiuta i fratelli a 'decodificare' la volontà di Dio, lampeggiante spesso in segni difficili e ambigui. Chi parla in lingue edifica solo se stesso, e al più lascia stupiti e ammirati i presenti; chi profetizza, nel senso inteso nelle lettere paoline, edifica gli altri (14,4); altri fedeli, di solito, ma talvolta anche pagani presenti per caso o per curiosità, che dalle parole e dall'esempio dei cristiani possono essere indotti alla conversione.
Che cosa dunque accadeva a Corinto? È ben possibile che i fenomeni estatici, in qualche caso, assumessero forme deliranti e orgiastiche, simili a quelle che si verificavano in certi culti misterici e che erano state ampiamente diffuse a Corinto prima del cristianesimo.
Un problema di 'ordine pubblico'?
In un altro articolo, tempo fa, abbiamo affrontato la questione dell'acconciatura delle donne nell'assemblea, su cui Paolo si sofferma nel cap. 11, puntellando una severa prescrizione morale con una spiegazione biblica in verità assai contorta. Qualunque cosa volesse dire precisamente l'apostolo, possiamo pensare che nei momenti di maggiore pathos profetico le donne arrivassero a sciogliersi i capelli, come facevano le sacerdotesse e le adepte in certi culti pagani del tempo. Questo dà molto fastidio alla sensibilità pastorale di Paolo, soprattutto perché teme il fraintendimento da parte degli osservatori esterni.
Un'assemblea in cui sono molti a pregare, a esortare, a leggere e interpretare la Scrittura, spesso sovrapponendo voci e interventi, in cui molte persone sono in preda all'estasi (estasi che può restare lucidissima, ma anche condurre a stati di dissociazione mentale), doveva dare insieme un'impressione di trionfante vitalità e di confusione quasi intollerabile, tanto più poi che ad accogliere l'assemblea non erano gli ampi spazi di una chiesa, ma una qualunque casa privata.
In questo contesto si colloca la lettera di Paolo, che risponde a diverse questioni etiche e celebrative. Tra l'altro prescrive che sia quelli che parlano in lingue sia quelli che profetizzano non parlino tutti insieme, ma con ordine e decoro, a gloria di un Dio che non è di disordine ma di pace (v. 33); la parola pace in ebraico ha un significato di 'ordine' e completezza, che prevale rispetto al significato di 'quiete'.
Si tratta ancora di un discorso pastorale, ma di tono alto. Forse per questo produce un effetto stranissimo, e francamente sgradevole, la secca prescrizione che giunge a questo punto, ex abrupto: «Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge» (v. 34). Con un'aggiunta che non migliora per niente la situazione: «Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea» (v. 35).
Ci dà fastidio, sì, molto, e non solo ideologicamente. C'è, si sente, qualche stridore anche stilistico, anche contenutistico: va notato che, togliendo i vv. 34-35, il passo sull'ordine delle assemblee filerebbe molto meglio. E vi è contraddizione con quanto viene affermato altrove.
Le contraddizioni di Paolo
La contraddizione di fondo ovviamente risiede nell'incoerenza (insanabile, occorre ammetterlo) tra queste acide prescrizioni patriarcali e tutto lo spirito e l'ethos della vita nuova dei cristiani. Ma anche secondo una logica più semplice, si riscontra subito la contraddizione tra il silenzio qui imposto alle donne e quanto viene detto in altri due luoghi paolini ben noti.
Il primo è il passo dell'epistola ai Galati (3,28) in cui l'Apostolo afferma che tutti quanti sono stati battezzati in Cristo si sono rivestiti di Cristo (cioè sono stati incorporati a lui, sono una nuova creatura), e pertanto «… non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più maschio e femmina, poiché tutti siete una cosa sola in Cristo Gesù». La portata di questa affermazione non è sociologica, gli esegeti sono d'accordo nel riconoscervi una formula battesimale: ciò che preme a Paolo nella lettera ai Galati, evidentemente, non è tanto il superamento delle differenze razziali-sociali-sessuali all'interno della comunità cristiana, bensì il comune radicamento in Cristo Gesù, l'unità fondamentale che scaturisce dall'evento del battesimo.
Comunque il superamento delle differenze in Cristo Gesù è affermato a chiare lettere; mentre in 1Cor 14,34-35 le antiche discriminazioni vengono ribadite, per di più appellandosi alla Legge…, una cosa davvero strana da parte di Paolo.
Colpisce molto anche la contraddizione con qualcosa di più vicino: nella stessa lettera (11,3-16), là dove prescrive che le donne siano acconciate come si conviene quando pregano o profetizzano, Paolo ammette come cosa ovvia che le donne preghino e profetizzino nell'assemblea. Allora, come mai qui sembra dimenticarsene?
Qualche ipotesi di soluzione
Elisabeth Schüssler Fiorenza, nel suo monumentale e fondamentale studio sulle donne alle origini della chiesa (In Memory of Her), avanza l'ipotesi che qui Paolo non stia parlando di donne in senso lato, ma delle «mogli», cioè delle donne sposate, e che la proibizione di parlare valga solo per loro. Secondo l'autrice si avrebbe qui una dimostrazione della personale preferenza per la condizione dei non sposati, che Paolo esprime nel cap. 7 della stessa epistola.
Ma in questo caso la lettura della grande studiosa americana non convince pienamente (a parte il fatto che non elimina tutti i problemi, e sarebbe pur sempre penalizzante e discriminante per le donne). Non convince, soprattutto perché Paolo dimostra altrove di conoscere e ri-conoscere un importante ruolo ecclesiale di donne sposate: sembrano sposate alcune delle donne che nomina nelle sue lettere, lo è senz'altro Prisca moglie di Aquila; e Prisca è indubbiamente una «donna che insegna», visto che lei e il suo sposo tra l'altro hanno formato alla fede il giudeo-cristiano Apollo (forse autore della lettera agli Ebrei). Sarebbe assurdo ritenere che Paolo intenda negare la parola a una donna matura e meritevole come Prisca, concedendola invece anche a ragazze giovanissime e inesperte, purché nubili..
Un'ipotesi largamente accreditata e molto plausibile è che questi due versetti non appartengano a Paolo, ma siano stati interpolati nella lettera da qualche autore di scuola paolina. Infatti le 'patologie' di questo passaggio della prima lettera ai Corinzi ricompaiono, in forma più grave e sviscerata, nel passo parallelo (o quasi) della prima lettera a Timoteo: «...La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione...» (1Tm 2,1 l-l4). Il passo, cominciato con la prescrizione della modestia nel vestire (al bando gioielli, trecce e vesti sontuose), termina poi concedendo che la donna potrà comunque essere salvata partorendo figli, a patto che perseveri nell'umiltà e nel decoro. Si inaugura così quell'associazione tra esemplarità cristiana e perbenismo borghese che avrà nei secoli durevole e sciagurato successo.
L'interpolazione dunque potrebbe essere dovuta proprio all'autore della prima lettera a Timoteo, o a uno della stessa cerchia.
La terza ipotesi di risoluzione, sempre assai poco risolutiva, fa leva sulla riconosciuta 'duplicità' di Paolo. È stato spesso rilevato come egli può essere nello stesso tempo molto aperto nella sua teologia e molto conservatore in senso disciplinare; insofferente del giogo della Legge quando parla della novità cristiana, piuttosto legalista quando è in gioco l'ordine sociale. Quando parla come pastore e responsabile di comunità, rivela maggiormente l'influenza della sua giovanile formazione rabbinica.
Qualche ambivalenza fa parte della natura umana, ma qui la contraddizione esplode, anche considerando solo la prima lettera ai Corinzi, cap 11 contro cap. 14: insomma le donne possono parlare, col velo e tutto, oppure sono tenute al silenzio?
L'ipotesi dell'interpolazione ci attrae in modo quasi irresistibile, anche se per onestà va detto che non esistono argomenti sicuri (solo criteri contenutistici e stilistici) per affermare che questi versetti non sono autenticamente paolini.
Quel che nessuna esegesi può risolvere è il problema della 'storia degli effetti'. Anche se l'infelice pericope non fosse di Paolo, bensì di un suo seguace (il quale comunque presumeva di rifarsi al suo magistero e di interpretare correttamente le sue intenzioni), ha potuto diffondersi sotto il suo nome, avallata dalla sua autorità, ed esercitare indisturbata i suoi influssi: oggi assai meno visibili perciò anche più difficili da riconoscere e contrastare -, ma non del tutto scomparsi.
(da Rocca, 15 febbraio 2004, pp. 54-59)