Famiglia Giovani Anziani

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EUCARISTIA E UNIONE CON CRISTO

E’ con tutto il «realismo» possibile che noi dobbiamo comprendere le parole di Gesù al momento dell’istituzione dell’Eucaristia: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Ilsoggetto «Questo» (il pane) si identifica con l’attributo «il mio corpo» (la persona di Gesù). Se crediamo che Gesù è il Figlio di Dio, di quel Dio che non può e non vuole ingannare né ingannarsi, è necessario concludere che il pane e il vino consacrati sono il Cristo realmente presente. La fede della Chiesa è sempre costante e unanime su questo punto.

L’Eucaristia è soprattutto sacramento della presenza, poiché essa è sacramento della Pasqua e della salvezza che, è Cristo stesso in persona. È per questo che i nostri primi fratelli cristiani parlavano della «mensa del Signore», della «cena del Signore» (1 Cor 10,21; 11,20). Colui che aveva mangiato con gli Apostoli si rendeva presente a essi e presiedeva la «cena». Il racconto dei discepoli di Emmaus è una testimonianza chiara di questa realtà: Gesù si manifesta loro nello spezzare il pane. Ancora oggi Gesù ci dice: «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui e lui con me» (Ap 3,20).

Noi celebrando l’Eucaristia rendiamo attuali le apparizioni del Risorto; tali «apparizioni» sono il compimento della sua Parola: «Ritornerò a voi» (Gv 14,18-22). E soprattutto noi crediamo che Lui ritorni come «venne» il primo giorno della settimana, e «venne» la seconda volta il primo giorno della settimana seguente (Gv 20, 19,26).

È soprattutto e fondamentalmente nel corso dell’Eucaristia che ognuno di noi entra in comunione reale con Gesù Cristo morto e risorto per noi. Ogni volta che noi celebriamo l’Eucaristia il Signore si rende presente a noi in diversi e molteplici modi.

- Prima di tutto, per mezzo della comunità stessa riunita nel suo Nome e raccolta e «rivolta» a Lui. Quando il Cristo risorto appare in mezzo ai suoi discepoli chiusi in casa per paura dei Giudei, noi possiamo credere che Egli non veniva da fuori ma dall’interno dell’unico cuore che li riuniva, (cioè era in «mezzo a loro»).

- Il Cristo si rende pure presente quando viene proclamata la Parola del Vangelo. È per questo, che all’invito del diacono: Parola del Signore, noi rispondiamo: Gloria a Te Signore Gesù!

- Il Cristo si rende presente soprattutto nel pane e nel vino consacrato: Lui stesso (il medesimo Cristo), nascosto sotto le specie del pane e del vino allo scopo di essere mangiato e bevuto. La Sua stessa persona divina fattasi uomo nella storia e nella cultura umana, crocifissa e risorta e splendente della gloria divina, si rende presente a noi per mangiare noi lasciandosi Lui stesso mangiare.

- Noi lo consumiamo per essere trasformati (convertiti) nel suo stesso corpo, noi l’assimiliamo per essere da Lui assimilati.

- Tutte queste forme di presenza rendono sempre presente Colui che è sempre presente, il Presente!

La nostra vita contemplativa può essere compresa in questa chiave di ricerca-incontro. Gesù si rende presente a noi nell’Eucaristia perché Egli ci cerca e ci incontra, Egli ci invita, a nostra volta, a cercarlo e incontrarlo. La nostra vita orientata alla contemplazione consiste nel cercare la Presenza e renderci ad essa presenti. La vita contemplativa cristiana mi sembra inconcepibile senza l’Eucaristia e senza una profonda partecipazione ad essa.

Lo Sposo e la Sposa

L’Eucaristia è la venuta del Signore in Persona. Il desiderio di questa visita motiva la nostra celebrazione quotidiana dell’Eucaristia. Con lo Spirito e la Sposa noi invochiamo: Maranatha! Vieni Signore Gesù (Ap 22,20). Noi ci riconosciamo Chiesa-Sposa e, desiderando prolungare la presenza e la comunione, noi non esitiamo a conservare dopo la Celebrazione il Pane consacrato. Noi facciamo uso del nostro diritto sul Corpo già glorioso del nostro Sposo e Signore: «Lo Sposo non dispone del suo corpo, bensì la Sposa» (1 Cor 7,4).

Ma quale relazione possiamo stabilire tra l’Eucaristia e l’unione nuziale, riferendoci all’unione di Cristo e la Chiesa?

Molti Padri della Chiesa hanno fatto l’accostamento tra l’Eucaristia e l’unione tra il Cristo e la Chiesa basandosi sul testo agli Efesini 5,22-23. La celebrazione delle nozze tra il Cristo e la Chiesa ha luogo durante il banchetto dell’Eucaristia: qui il Signore Sposo fa sua la Chiesa e la incorpora a Lui come suo corpo e sua carne; ed è per questo: «Egli Li nutre e si prende cura di lei, poiché nessuno ha mai odiato la propria carne,) (Ef 5,29).

La chiesa dal canto suo, come nuova Eva, diviene «carne della sua carne e ossa delle sua ossa». Difatti, nell’Eucaristia, «il Cristo ama la sua Chiesa e si dona ad essa» (Ef 5,25). A questo dono totale di sé fatto dal suo Signore e Sposo corrisponde l’abbandono totale della sua Sposa, la Chiesa.

L’«alleanza nuziale nuova ed eterna», che ogni Eucaristia è, si trasforma per noi nella realtà in ogni nostra consacrazione monastica. Questa alleanza e questa consacrazione avvengono puntualmente nel banchetto di nozze dell’eucaristia e siamo chiamati a rinnovarle in ogni celebrazione della Cena del Signore. Solo così noi possiamo manifestare il Cristo unito alla sua sposa, la Chiesa, con un legame indissolubile. Solo così noi potremo perseverare nella fedeltà dell’amore fino a quando il Signore ritornerà.

Preghiera e mistica

In virtù della celebrazione eucaristica la Chiesa è una comunità orante. E precisamente parlando dell’eucaristia Paolo dice ai Corinzi: «Quando vi riunite in ekklèsia... » (I Cor 11,18).

Se la preghiera consiste nell’entrare in comunione con Dio, si comprende perché l’Eucaristia favorisce la preghiera. Anzi, possiamo dire che l’eucaristia fu istituita per fare della comunità ecclesiale un corpo orante.

La celebrazione eucaristica raggiunge il suo apice nelle parole del Signore: «Prendete e mangiate, prendete e bevete». Prendere è accogliere, ma non solamente accogliere, è anche essere accolti. La preghiera eucaristica è comunione in un abbandono mutuo di se stessi e nella mutua accoglienza. In tal modo ha compimento la parola del Signore: «Voi in me e Io in voi» (Gv 14,20).

Il Cristo eucaristico è il Cristo glorioso e in piena comunione con il Padre nello Spirito. Questo «mangiare» il Cristo è entrare (comunicare) nel seno della comunione trinitaria. Quando noi preghiamo mangiando e comunicando, noi diveniamo dimora di Dio. Quando chiunque tra noi s’accosta all’Eucaristia con fede amorosa, Gesù gli dice: «Il Padre e Io siamo Uno» (Gv 10,30): «E subito, mediante lo Spirito Santo, l’amore l’assume in Dio, e lui stesso riceve Dio che viene in lui e pone la sua dimora in lui non solo in maniera spirituale, ma anche corporalmente mediante il mistero del corpo e del sangue, santo e vivificante del nostro Signore Gesù Cristo (Guglielmo di S. Thierry, Preghiera meditativa, X 10,8).

È forse troppo dire che la comunione eucaristica è la porta reale per entrare nel mistero ed essere misticamente trasformati? Possiamo affermare che il mistero eucaristico è il luogo privilegiato dell’esperienza mistica? Se il Cristo è un fuoco divorante, non è affatto normale che i nostri cuori ardano nell’oscurità della fede quando il pane che spezziamo viene distribuito e mangiato?

EUCARISTIA E COMUNIONE FRATERNA

La semplice lettura dei testi eucaristici del Nuovo Testamento ci dice chiaramente che l’Eucaristia è il sacramento della comunione con il Cristo e i fratelli, il sacramento della vita comunicata. Essa esprime e produce la comunione solidale con la vita di Gesù e con tutti i credenti che partecipano dell’unico Pane, e allo stesso tempo, ci impegna a condividere la vita.

Se la comunità monastica è soprattutto una comunità di fede, allora l’Eucaristia, sacramento di unità, ha al suo centro una funzione suprema da compiere. Celebrare insieme il sacramento dell’unità ci permette di manifestare l’unità già esistente e di alimentarla perché essa possa crescere fino alla sua pienezza escatologica.

Uniti verso il Signore

In Matteo 18,20 parlando della ricerca e dell’incontro con il signore nella liturgia, l’Evangelista dice: «Là dove due o tre sono riuniti “verso” (eis) il mio Nome, io sono in mezzo a loro».

Avrete notato che coloro che sono riuniti non lo sono semplicemente «nel» ma «verso», e cioè in una ricerca intensa del Nome, vale a dire della Persona. Ciò spiega una volta di più perché nell’assemblea eucaristica, lo Spirito e la Sposa esclamano: Vieni! Maranatha!

Nell’Eucaristia, cerchiamo comunitariamente Gesù Cristo, protesi verso il tempo escatologico, verso il fine ultimo e definitivo. In Essa viviamo il primo comandamento dell’amore verso Dio nel contesto concreto del secondo comandamento dell’amore verso il prossimo, nelle persone dei nostri fratelli e sorelle della comunità.

Il vangelo di Giovanni è pieno di riferimenti all’eucaristia (Cf. soprattutto il c. 6). Ma quando si tratta di parlare dell’istituzione dell’Eucaristia, Giovanni sorvola. Sapete invece cosa fa? Egli mette al suo posto il comandamento nuovo: «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 13,34-35)! Per mezzo di questo mutuo amore Gesù ci dice: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e Io in lui» (Gv 6,56).

Alla fine della sua Regola S. Benedetto ci lascia il suo testamento spirituale: amatevi ardentemente gli uni gli altri. Poi esprime il suo ultimo desiderio: che il Cristo ci conduca tutti insieme alla vita eterna. L’Eucaristia è un vulcano d’amore incandescente che rende possibile l’amore ardente. In ogni celebrazione eucaristica il Signore «ritorna» per farci entrare tutti insieme nella sua vita glorificata ed eterna.

Il Corpo del Kyrios

Nell’Eucaristia Gesù immolato e risorto, cioè il Kyrios, è presente. Perciò Paolo parla della «cena del Kyrios», «del calice del Kyrios» e della mensa del Kyrios. Ora il titolo Kyrios comporta il riferimento alla comunità. Si tratta del Kyrios-Signore dell’universo, del mondo, della Chiesa, della comunità: «Nessuno di noi vive per se stesso, come non muore per se stesso; se viviamo, viviamo per il Kyrios. e se moriamo, torniamo per il Kyrios. Perciò, sia che viviamo sia che moriamo, siamo del Kyrios. Perciò Cristo è morto ed è ritornato in vita per essere il Kyrios dei morti e dei vivi» (Rm 14,7-9).

Quando S. Paolo scrivendo ai Corinzi dice loro: il pane che noi spezziamo è partecipazione e comunione al corpo di Cristo (1 Cor 10, 16-17), si riferisce pure al corpo di Cristo che è la comunità. Per questo poco dopo afferma che l’unità effettiva tra i cristiani tutti è costitutiva della celebrazione; in caso contrario «non è la cena del Signore» (1 Cor 11,21).

Più oltre, in 1 Cor 11,29 leggiamo: «Colui che mangia e beve, mangia e beve la sua condanna se non sa discernere il corpo». Cosa significa, in tale contesto, la parola «corpo»? Possiamo dire che Paolo si riferisce alla Chiesa, senza prescindere dal corpo eucaristico del risorto. Di fatto, è quanto dimostra la struttura stessa di tutto il brano citato; inoltre, già prima l’Apostolo aveva detto: «noi tutti siamo un solo corpo perché partecipiamo a un unico pane» (10,17); e poco dopo afferma: «voi siete il corpo di Cristo» (12,27).

S. Benedetto invita il superiore a recitare a voce alta, due volte al giorno, la preghiera del Signore. In quest’occasione tutti possono rinnovare il loro impegno al perdono reciproco e togliere le spine della separazione (scandalo). Soggiacente vi è il comando del Signore: «quando ti avvicini all’altare per presentare la tua offerta... ». Non senza un certo timore non posso evitare di domandarmi: quando il Signore si fa presente a noi, oltre che essere riuniti ci trova anche uniti? Non ci preoccupiamo forse più della forma esteriore della celebrazione (che deve essere secondo le norme liturgiche) che della sua autenticità (derivante dalla concordia dell’assemblea)?

Comunicare e condividere

La comunità primitiva di Gerusalemme ci ragguaglia sui frutti dello «spezzare il pane nelle case, prendendo cibo e lodando Dio» (At 2, 46-47); e cioè, “i credenti erano un cuor solo e mettevano tutto in comune” (At 2, 44), tutti non erano che un cuor solo e un’anima sola: niente di ciò che apparteneva loro dicevano essere proprio, ma era tutto in comune» (4,32).

Riferendosi a questo testo, l’abate di Ford, Baldovino, dottore dell’Eucaristia e della vita comunitaria, ci offre il frutto della sua vita e della sua meditazione con queste parole: «La carità ha in sé il potere di trasformare in comunione una proprietà personale; non distruggendo una tale proprietà, ma facendola concorrere (convergere) nella comunione, non lede una tale comunione, non mette ostacoli al bene della comunione. La divisione o la proprietà personale che pone ostacolo al bene della comunione, è estranea alla carità»

«I beni spirituali divisi sono ricondotti alla comunione in due modi: prima di tutto quando i detti beni i quali vengono distribuiti a questo o a quello sono posseduti in comune mediante la comunione dell’amore; poi per mezzo dell’amore della comunione, essi sono amati in uno spirito comunitario. La grazia è comune a colui che la possiede e a colui che non ce l’ha. Quando chi la possiede, la comunica all’altro e la possiede così anche per l’altro e colui che non ce l’ha la possiede nell’altro poiché egli lo ama» (Trattato XV, sulla vita cenobitica).

Inoltre, il senso profondo di questo cibo partecipato si comprende solamente quando noi siamo solidali con i membri più poveri e senza alcuna dignità del corpo di Cristo. Infatti, Lui stesso ce lo dice: «Quando dai un banchetto, invita i poveri, gli storpi, gli sciancati, i ciechi; beato sarai quando essi non hanno di che contraccambiarti! Perché ti sarà reso alla risurrezione dei giusti» (Lc 13,13-14).

La nostra povertà evangelica e monastica ci invitano inoltre, alla solidarietà con i poveri e a preferire quegli esseri umani distrutti dalla nostra inumanità. La risposta generosa a questo invito non è opera della carne e del sangue; è un dono del Padre che ci rende compassionevolmente solidali con loro per mezzo del corpo e del Sangue del suo Figlio.

di Dom Bernardo Olivera o.c.s.o.

 

 

«Siamo infatti opera sua,
creati in Cristo Gesù per le opere buone,
che Dio ha preparato perché in esse
camminassimo» (Ef 2,10)

Nel cap. IV della sua Regola, Benedetto offre una lunga lista di "strumenti delle buone opere", o "strumenti dell'arte spirituale" 1, che toccano quegli ambiti nei quali il monaco è chiamato ad impegnarsi nel suo quotidiano cammino di conformazione al Cristo.

A motivare e illuminare l'utilizzo degli "strumenti delle buone opere" che Benedetto via via elencherà, è il duplice comandamento dell' amore esplicitamente rievocato all'inizio del capitolo: «In primo luogo: Amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze", poi amare il prossimo come se stesso»2.

In queste parole del Signore, che compendiano tutto il Vangelo, è racchiusa l! essenza del "buon operare". Infatti, poiché l'amore è la natura stessa di Dio (cf. IGv 4,8.16), esso è anche ciò che meglio di qualsiasi altra cosa qualifica la ricerca di Lui e del suo Regno, ricerca che ha come suo riscontro concreto l'attuazione delle buone opere (cf. Gc 2,14ss)3. Questa motivazione, basata sul duplice comandamento dell' amore, è anche la conferma che le "buone opere" non sono semplicemente il risultato degli sforzi umani, ma soprattutto il frutto della grazia divina, il dono dell' amore che lo Spirito «ha riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5) e che illumina ogni aspetto della nostra vita. Nel cammino di conformazione a Cristo - agli occhi d Benedetto - tutto è dunque avvolto dall' amore, alla luce de quale trova senso anche l'assunzione degli "strumenti delle buone opere" che il monaco è chiamato a declinare generosa mente nel suo quotidiano cammino.

È emblematico, in proposito, il fatto che Benedetto abbia introdotto il duplice comandamento dell'amore con l' avverbio "imprimis" (anzitutto/in primo luogo), mentre gli strumenti veri e propri sono preceduti dall'avverbio "deinde" (quindi/qui innanzi). Con ciò Benedetto vuol far risaltare che al cuore della vita monastica, e quindi al centro della sequela di Cristo vi è l'amore per Dio e per i fratelli. Gli "strumenti" che ne declineranno poi la forma nella trama concreta di ogni giorno non ne sono che un commento, un'applicazione o una conseguenza. È l'amore, infatti, a rendere possibile l'attuazione delle "buone opere" e a dare loro il tono, il calore e la forza della verità, anche se non bisogna dimenticare che lo stesso duplice comandamento dell' amore a Dio e ai fratelli è, a sua volta, reso possibile dall'iniziativa benevola di Dio che ci viene incontro con il suo Amore, come scrive san Basilio: «Poiché, dunque, abbiamo ricevuto il comandamento di amare Dio, abbiamo insita in noi fin dal primo momento in cui siamo stati plasmati, la capaciti di amare»4.

NIENT' ALTRO CHE CRISTIANI NEL SOLCO DEI COMANDAMENTI

È dunque sullo sfondo luminoso del duplice comandamento dell' amore che Benedetto apre l'elenco degli "strumenti delle buone opere" riproponendo alla lettera cinque comandamenti tratti dalle "Dieci parole" o "Dieci comandamenti" consegnati da Dio a Mosè, sul Sinai: Non uccidere; Non commettere adulterio; Non rubare; Non nutrire desideri illeciti; Non dire falsa testimonianza5.

Si tratta di comandamenti che mantengono la loro basilare importanza anche per la fede cristiana e che, ancora una volta, richiamano la necessità di innervare nelle relazioni interpersonali la centralità dell' amore, inteso come adempimento della legge. Lo dirà bene anche l'apostolo Paolo in quei versetti della Lettera ai Romani dai quali, forse, lo stesso Benedetto ha tratto ispirazione per la collocazione dei comandamenti subito dopo il duplice comandamento dell' amore:

«Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell'amore vicendevole; perché chi ama l'altro ha adempiuto la Legge. Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità» (Rm 13,8-10).

È importante rilevare che l'inserzione di questi cinque comandamenti all'inizio .della lista degli "strumenti delle buone opere", attesta chiaramente come Benedetto considerasse il movimento monastico come parte integrante dell'unica Chiesa di Cristo, e non ad essa parallelo o addirittura contrapposto. Indicando ai suoi monaci quei precetti che stanno a fondamento della fede biblico-cristiana, egli li richiama al senso ultimo della vocazione monastica, che altro non è se non una vocazione cristiana presa e vissuta sul serio, ossia una chiamata a vivere radicalmente il Vangelo di Gesù, il Vangelo dell'amore. In altre parole, Benedetto ci tiene a chiarire che il monaco non è per nulla uno specialista della fede cristiana, un detentore di una vocazione speciale e più o meno eccezionale, ma un cristiano tout court o, come è stato scritto «un devoto laico, che si limita a scegliere i mezzi più radicali perché il suo cristianesimo sia integrale»6. Al riguardo, il cardinale benedettino Basil Hume così scriveva:

«A rigore, la vita del monaco non è organizzata in vista di un particolare lavoro o servizio nella Chiesa. Il suo scopo principale è di cercare Dio e questo egli assume come compito per tutta la vita. In un certo senso, questo compito non è diverso da quello di ogni cristiano, anzi di ogni per- sona. La vita monastica è semplicemente un modo di vivere la vita cristiana, e il monaco la vive in una comunità. Il valore di un monastero all'interno della Chiesa è principalmente il fatto che esso esiste. È un centro spirituale che deve rendere testimonianza delle cose di Dio e attrarre a sé (...). Ma i principi che guidano il monaco nella sua ricerca di Dio e i valori evangelici che egli si sforza di fare suoi sono egualmente rilevanti sia per i cristiani che per i non- cristiani» 7.

E ancora:

«Noi non consideriamo noi stessi come detentori di una missione o una funzione particolare nella Chiesa. Non ci proponiamo di cambiare il corso della storia. Da un punto di vista umano siamo lì quasi per caso. E fortunatamente continuiamo ad "essere semplicemente lì [we go on "just being there"]»8.

Non ci si stupirà allora se Benedetto abbia proposto anche ai monaci alcuni precetti tratti dai Dieci comandamenti e che, di primo acchito, potrebbero sembrare fuori posto in una regola monastica redatta allo scopo di aiutare a vivere al meglio la propria appartenenza a Cristo e alla sua Chiesa. Se lo fa, è perché Benedetto è convinto che anche i monaci, come tutti i cristiani, debbono trarre ispirazione per la loro ricerca di Dio da quei fondamenti generali della vita cristiana che sono, appunto, i "dieci comandamenti".

Non uccidere9

Avendo vissuto sulla sua pelle l'esperienza amara di Vicovaro - ossia il tentativo perverso messo in atto da parte dei monaci di avvelenarlo10 -, la decisione di Benedetto di conservare nella lista degli "strumenti delle buone opere" l'ingiunzione a "non uccidere", sembra soprattutto dettata dalla sua conoscenza del cuore umano. Egli sa che anche il monaco potrebbe allontanarsi dalla via inizialmente intrapresa con ardore e abbrutirsi interiormente ed esteriormente fino ad arrivare a infierire contro i proprio fratello.

Sullo sfondo biblico-cristiano il "non uccidere" si fonda sul rispetto della dignità di ogni persona umana in quanto creata a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27). Tale rispetto conosce poi una declinazione multiforme che mira sempre a salvaguardare l'integrità spirituale e psico-fisica dell'altro. Infatti, oltre che fisicamente, si può uccidere l'altro anche verbalmente. Gesù stesso ha detto: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio» (Mt 5,21-22). Ogni mancanza di rispetto per l'altro, e ogni parola (o silenzio) che veicoli un disprezzo nei suoi confronti, tramite la maldicenza, la calunnia o l'omertà, è un attentato alla sacralità e alla preziosità della sua vita, dono dell'unico Creatore. È possibile uccidere il nostro prossimo anche spiritualmente, ad esempio rompendo ogni forma di dialogo e di amicizia con lui, togliendogli la fiducia, la comprensione, l'amore, e facendogli percepire tutta la disistima e l'astio che si provano nei suoi confronti. Quante relazioni, segnate magari da ferite ch potevano essere guarite dalla generosità e dalla lungimiranza dell'amore, sono deperite a causa dell' ostentato rifiuto a concedere spazio alla gioia del perdono, della riconciliazione, della comunione!

Si può, inoltre, attentare all'integrità dell'altro anche attraverso lo scandalo, che è «l'atteggiamento o il comportamento che induce altri a compiere il male»11, come quando, non facendo bene il proprio dovere, si provoca nei più deboli la tentazione di fare altrettanto. Lo scandalo acquista poi maggiore gravità quanto maggiore è l'autorità morale di coloro che lo causano o la debolezza di coloro che lo subiscono. A tal proposito Gesù ha parole molto dure contro chi scandalizza i "piccoli" coloro cioè che sono più deboli e più facilmente suggestionabili: «Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli (...), sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (Mt 18,6). Lo scandalo, infine, oltre che da persone singole, «può essere procurato anche dalla legge o dalle istituzioni, dalla moda o dall'opinione pubblica»12, così come «chi usa i poteri di cui dispone in modo tale da spingere ad agire male, si rende colpevole di scandalo e responsabile del male che, direttamente o indirettamente, ha favorito»13.

In una prospettiva olistica, la sacralità e la preziosità della vita vengono rispettate non solo non attentando all'incolumità psico-fisica e spirituale dell'altro, ma anche attraverso una giusta attenzione alla dimensione corporea, purché non si scada in «una concezione neo-pagana, che tende a promuovere il culto del corpo, a sacrificargli tutto, a idolatrare la perfezione fisica e il successo sportivo»14.

Benché la morale cristiana non ne faccia un valore assoluto, anche il corpo va infatti rispettato, purché, appunto, lo si faccia con quella temperanza che ci dispone ad evitare ogni sorta di eccesso. Perciò, anche se Benedetto esorterà a «sottoporre a disciplina il proprio corpo»15, è importante per l'uomo d'oggi ricercare un rapporto equilibrato e sereno con esso, convinti che il proprio corpo non è né il "frate asino" da bistrattare senza criterio, né l'oggetto di un salutismo esasperato che può facilmente degenerare in idolatria o in... ipocondria.

Il comando di "non uccidere", infine, richiama anche la difesa e la promozione della pace, a tutti i livelli, da quella che siamo chiamati a coltivare nel nostro cuore a quella che deve permeare di sé i rapporti con gli altri e con le cose. Come abbiamo già citato sopra, Gesù attesta che non solo chi uccide, ma chiunque si adira è meritevole di giudizio (cf. Mt 5,22). Perciò il precetto: "Non uccidere!" è anche un pressante invito ad essere uomini di pace, che siano "in pace" con se stessi e costruttori di pace attorno a sé. E ciò ci sarà possibile nella misura in cui volgiamo lo sguardo a Cristo «nostra pace» (Bf 2,14), Colui che ha distrutto «in se stesso l'inimicizia» (Ef 2,16) con il suo sangue sparso sulla croce.

Non commettere adulterio16

È utile ricordare anche qui le parole pronunciate da Gesù come antitesi alla Legge antica: «Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27-28).

Per il monaco questo "strumento" è un richiamo a non "adulterare" il proprio cuore, barattando l'intimo abbraccio di Dio con quello degli esseri umani o delle cose. Si tratta essenzialmente di un' esortazione ad amare la castità che il monaco ha liberamente scelto e abbracciato, come Benedetto dirà più avanti con un'espressione pregnante di significato: «Castitatem amare - Amare la castità»17

Inoltre, l'esortazione a "non commettere adulterio" richiama anche a chi ha consacrato la propria vita al Signore che la componente sessuale non cessa di esercitare «un'influenza su tutti gli aspetti della persona umana, nell'unità del suo corpo e della sua anima»18. Di conseguenza occorre vigilare attentamente sui moti e i desideri del proprio cuore, al fine di mantenerlo "indiviso" agli occhi di Dio. Esercizio, questo della vigilanza, che vale per tutti i cristiani indistintamente.

Non rubarel9

Davanti ai monaci, che nulla posseggono di proprio, Benedetto voleva senza dubbio porre in risalto la libertà interiore, ossia la bellezza del non sentirsi schiavi delle cose e dei beni di questo mondo. In tale prospettiva il "non rubare" non consiste solo nel non togliere ad altri ciò che è loro, ma anche e soprattutto nel condividere quel che abbiamo con chi è nel bisogno20. C'è infatti anche un rubare che consiste nella chiusura egoisti- ca del proprio cuore e delle proprie mani di fronte alle necessità dei fratelli, e dunque un "non rubare" che, in positivo, si dispiega e si concretizza nella solidarietà. Ce lo ha insegnato lo stesso Signore Gesù, il quale «da ricco che era, si è fatto povero» per noi, perché noi diventassimo «ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9).

San Giovanni Crisostomo ha, al riguardo, parole molto dure: «Non condividere con i poveri i propri beni è defraudarli e togliere loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo: sono dei poveri»21. Anche Benedetto mostra grande attenzione e solerzia verso i poveri22 ed esorta a confidare nella Provvidenza e a non aver paura di condividere con gli altri anche quel poco che si possiede. Eloquente, al riguardo, è l'episodio dell' ampolla d'olio, ambientato a Montecassino al tempo di Benedetto, quando una grave carestia imperversava su tutta la regione. Così ce lo racconta Gregorio Magno:

«Nel tempo in cui la carestia affliggeva la Campania, l'Uomo di Dio [Benedetto] aveva dato ai poveri ogni cosa del monastero. Nella dispensa rimaneva solo un pochino di olio in un orciolo di vetro. Arrivò un suddiacono di nome Agapito, che chiese insistentemente un po' d'olio.

L'Uomo di Dio, che aveva stabilito di dare tutto quaggiù per serbarsi tutto in Cielo, comandò di dargli quel poco olio rimasto. Ma il monaco addetto alla dispensa, udito il comando, preferì non obbedire.

L'Uomo di Dio dopo qualche tempo si informò se si fosse eseguito l'ordine. Il monaco rispose di no: se lo avesse dato - disse - non ne sarebbe rimasto affatto per i fratelli. Allora, adirato, Benedetto comandò ad un altro monaco di gettare dalla finestra quel recipiente di vetro con il poco olio rimasto, perché della disobbedienza non rimanesse nulla. L'ordine fu eseguito.

Sotto la finestra si apriva un profondo precipizio, irto di rocce enormi. Dunque, l' orciolo fu lanciato. Ma, pur cadendo sulle rocce, non si ruppe, né l'olio si versò. L'uomo di Dio comandò allora di andarlo a riprendere e, avutolo, lo diede a chi glielo aveva richiesto.

Radunati, poi i fratelli, davanti a tutti rimproverò il monaco disobbediente per la sua mancanza di fede e per il suo orgoglio. Terminato il rimprovero, Benedetto si mise in preghiera assieme ai fratelli. C'era là una giara per l'olio, vuota e con sopra un coperchio. Mentre Benedetto era in preghiera, il coperchio della giara cominciò a sollevarsi per l'olio che, crescendo, aveva superato il bordo del recipiente e aveva cominciato a colare sul pavimento. Appena se ne accorse, il Servo di Dio concluse la preghiera. In quell'istante stesso l'olio smise di scorrere sul pavimento»23.

Non nutrire desideri illeciti24

In sé il termine latino concupiscere (da cui concupiscentia) qui impiegato da Benedetto designa ogni forma veemente di brama o desiderio umano25. Infatti, già l'apostolo Paolo utilizzava il termine greco corrispondente (epithumìa) per indicare l'opposizione della "carne" allo "spirito": «Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne (epithumia-concupiscentia); la carne infatti ha desideri contrari (epithumèi-concupiscit) allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda (...) Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri (epi-thumiais-concupiscentiis ») (Gal 5,16-17.24).

L'apostolo ed evangelista Giovanni, dal canto suo, distingue tre tipi di desiderio smodato o concupiscenza che, anche per il veggente di Patmos, ha una radice mondana: «Tutto quello che è nel mondo - la concupiscenza (epithumia-concupiscentia) della carne, la concupiscenza (epithumia-concupiscentia) degli occhi e la superbia della vita - non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza (epithumia-concupiscentia); ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno» (1Gv 2,16-17).

Nell'esortare i suoi monaci a non nutrire desideri illeciti, Benedetto allude alla lotta o combattimento spirituale che è parte integrante della vita monastica e cristiana in generale. Si tratta, infatti, di quella tensione di fondo che vede contrapposte le esigenze dello Spirito e quelle della carne, la docile sottomissione all'azione salvifica del primo (azione che ci porta alla libertà dei figli di Dio) e la resistenza opposta dalla seconda. Non c'è altra via: la lotta contro la concupiscenza in tutte le sue forme passa attraverso la purificazione del cuore, condizione grazie alla quale è possibile scorgere la presenza di Dio nella propria vita: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).

Non dire falsa testimonianza26

Nelle sue relazioni con gli altri, il cristiano è esortato a non falsare la verità né con le parole né con le azioni. Il farlo significherebbe rifiutare un cammino di rettitudine morale, nel quale deve inserirsi chiunque voglia seguire Gesù, «via, verità e vita» (Gv 14,6). Nella Lettera agli Efesini leggiamo: «Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perchè siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,23-25).

La menzogna, che - come scrive sant' Agostino - consiste «nel dire il falso con l'intenzione di ingannare»27, era stata stigmatizzata da Gesù come un'azione diabolica: «Voi (...) avete per padre il diavolo (...) non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44).

Ovviamente «la gravità della menzogna si commisura alla natura della verità che essa deforma, alle circostanze, alle intenzioni del mentitore, ai danni subiti da coloro che ne sono le vittime. Se la menzogna, in sé, non costituisce che un peccato veniale, diventa mortale quando lede in modo grave le virtù della giustizia e della carità»28.

Le offese alla verità vanno dalla falsa testimonianza resa pubblicamente (la quale diventa spergiuro se fatta sotto giuramento) al disprezzo della reputazione altrui; dal giudizio temerario29 (un giudizio, cioè, che, senza un sufficiente fondamento, attribuisce al prossimo una colpa morale) alla maldicenza (=il rivelare i difetti o le mancanze altrui a terze persone che li ignorano) e alla calunnia (=il nuocere alla reputazione del prossimo con affermazioni non veritiere, che causano erronei giudizi su di lui).

Sono considerate offese alla verità, e quindi da bandire, anche la lusinga e l'adulazione o la compiacenza, che incoraggiano e confermano «altri nella malizia dei loro atti e nella perversità della loro condotta. L'adulazione è una colpa grave se si fa complice di vizi o di peccati gravi. Il desiderio di rendersi utile o l'amicizia non giustificano una doppiezza del linguaggio. L'adulazione è un peccato veniale quando nasce soltanto dal desiderio di riuscire piacevole, evitare un male, far fronte ad una necessità, conseguire vantaggi leciti»30.

Nel suo significato più profondo la menzogna è una profanazione della parola, la cui funzione è quella di comunicare agli altri la verità. Storpiare intenzionalmente quest'ultima e il contraffarla non solo mina alla radice il significato primo della parola - quello, appunto, di strumento per instaurare una relazione veritiera con il prossimo -, ma impedisce anche a colui col quale si entra in relazione di esercitare il suo diritto di conoscere la verità. Privato di questa conoscenza, infatti, egli è impossibilitato a formulare giudizi e decisioni rispondenti al vero. Con l'affermare cose contrarie alla verità si contravviene dunque sia alla giustizia che alla carità, e si minano le basi delle relazioni interpersonali che dovrebbero essere improntate a onestà e fiducia. Non va dimenticato, infine, che il non dire la verità non riguarda solo il modo sbagliato con cui ci si pone davanti al prossimo, ma chiama in causa anche il rapporto con Dio. Infatti, «ferendo il rapporto dell'uomo con la verità e con il suo prossimo, la menzogna offende la relazione fondamenta le dell'uomo e della sua parola con il Signore»31.

Onorare tutti gli uomini32

Benedetto modifica il IV comandamento del Decalogo, quello riguardante l'onore e il rispetto dovuti ai genitori, allargandolo a tutti gli uomini e trasformandolo così in un precetto generale. Il motivo immediato è semplice. Abbandonando il mondo, il monaco - secondo il richiamo del vangelo - lascia anche i propri genitori per servire totalmente il Signore (cf. Mt 4,22; 10,37; 19,19).

Più in profondità, il precetto di onorare tutti gli uomini nasce da quell'unità di fondo che lega gli esseri umani, creati «a immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,26-27; 5,1; 9,6). Morendo "per tutti", Cristo ha riespresso nella drammaticità della croce l'amore di Dio per ogni essere umano, e ha riaffermato una volta per tutte che il Padre «non fa preferenza di persone» (Rm 2,11), ma stende il suo sguardo misericordioso su tutti gli uomini, perché «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (lTm 2,4).

È probabile che nell' accogliere questo precetto nella lista degli "strumenti delle buone opere", Benedetto abbia anche alluso alla necessità di evitare con tutte le proprie forze qualsiasi discriminazione nei confronti degli ultimi, dei poveri, degli emarginati, di coloro cioè che destano poca o nessuna considerazione agli occhi del mondo. In costoro, infatti, risplende maggior- mente il volto di Cristo, come annoterà più avanti: «Soprattutto si abbia cura di accogliere con sollecitudine i poveri e i pellegrini, perché proprio in essi maggiormente si accoglie Cristo; quanto ai ricchi infatti la soggezione stessa che essi incutono impone da sé rispetto»33. Onorare tutti gli uomini significa allora relazionarsi a tutti con la libertà interiore di chi coglie in ogni essere umano il riflesso del volto di Cristo.

Non fare ad altri ciò che non si vuole venga fatto a sé34

Questo strumento delle buone opere è il naturale prosieguo di quello precedente, ed è posto alla fine del breve elenco di comandamenti biblici qui riportato. E come se Benedetto desiderasse chiudere il cerchio, iniziato col riferimento al duplice comandamento dell' amore, con un ulteriore rimando a quella fonte dalla quale ogni comandamento trae luce, energia e forza.

«Non fare ad altri ciò che non si vuole venga fatto a sé», implica innanzi tutto la consapevolezza che ciascun essere umano è caratterizzato da "unicità". Si può essere simili, ma non identici. Anche quando due gemelli si assomigliano come due gocce d'acqua, c'è sempre qualche dettaglio che li distingue, a partire dal DNA e dalle impronte digitali, che sono sempre diverse tra l'uno e l'altro. Anche nella struttura psichica e nelle vie dello spirito ogni uomo ha una sua peculiarità. E un unicum!

Questa consapevolezza dovrebbe ulteriormente aprirci al rispetto e alla stima di ciascuna persona, tenendo presente le sue possibilità, i suoi limiti, i suoi tempi. Tutto questo Benedetto lo dice ricorrendo a un proverbio che troviamo nell' Antico Testamento: «Non fare a nessuno ciò che non piace a te» (Tb 4,15), e che Gesù riprenderà con una formulazione positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12; cf. anche Lc 6,31). Nell'uno come nell'altro caso, l'esortazione ci richiama a quel requisito fondamentale che dovrebbe illuminare e fecondare i rapporti interpersonali all'interno di qualsiasi forma di convivenza, sia essa di natura religiosa o sociale, nella quale si è inseriti.

Ab. Donato Ogliari osb

Abate di San Paolo fuori le Mura - Roma

Il testo è il primo capitolo del volume: Per una fede adulta. Alla scuola di san Benedetto, Noci, Edizioni "La Scala", 2010.

 

Note

1 «Instrumenta artis spiritalis» (BENEDETTO, Regola [=RB] 4,75). Per questi "strumenti", Benedetto si basa in gran parte sulla cosiddetta "Ars sancta" della Regola del Maestro (cf. Regola del Maestro 3-6).

2 RB 4,1-2 (cf. Mc 12,30-31).

3 Si veda anche la seguente esortazione: «Cinti dunque i nostri fianchi con la fede e la pratica costante delle buone azioni, procediamo per le sue vie sotto la guida del Vangelo» (RB, Prol. 21).

4 BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse l, in L. CREMASCHI (a cura di), Le Regole. Regulae fusius tractatae - Regulae brevius tractatae, Magnano/Bi 1993 p. 79.

5 Cf. Es20,12-17; Dt 5,17-20; cf. Mt 19,18-19.

6 L. BOUYER, La Spiritualità dei Padri [III- VI secolo], Bologna 1986, p. 35.

7 B. HUME, Alla ricerca di Dio, Brescia 1980, pp. 11-12.

8 ID., In Praise of Benedict, Ampleforth 1996, p. 23.

9 «Non occidere» (RB 4,3)

10 GREGORIO MAGNO, Dialoghi II,3.

11 Catechismo della Chiesa Cattolica (=CCC), n. 2284.

12 CCC, n. 2286.

13 CCC, n. 2287.

14 CCC, n. 2289

15 RB 4,11.

16 «Non adulterari» (RB 4,4).

17 RB 4,64.

18 CCC, n. 2332.

19 «Non facere furtum» (RB 4,5).

20 Il comandamento "non rubare" «prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali e del frutto del lavoro umano, Esige, in vista del bene comune, il rispetto della destinazione universale dei beni e del diritto di proprietà privata. La vita cristiana si sforza di ordinare a Dio e alla carità fraterna i beni di questo mondo» (CCC, n. 2401).

21 GIOVANNI CRISOSTOMO, In Lazarum 1,6.

22 Più avanti, tra gli "strumenti delle buone opere", si trova anche la seguente ingiunzione: «Ristorare i poveri» (RB 4,14).

23 Cf. GREGORIO MAGNO, Dialoghi II,28-29

24 «Non concupiscere» (RB 4,6).

25 Sulla scia della Parola rivelata e della tradizione cristiana, la Chiesa ha sempre inteso la "concupiscenza" come un moto smodato che si oppone al buon senso e ai dettami della ragione. Conseguenza della disobbedienza del primo peccato, la concupiscenza «ingenera disordine nelle facoltà morali dell'uomo e, senza essere in se stessa un peccato, inclina l'uomo a commettere il peccato» (CCC, n. 2515).

26 «Non falsum testimonium dicere» (RB 4,7).

27 AGOSTINO, De mendacio 4,5

28 CCC, n. 2484.

29 Per evitare il giudizio temerario ciascuno dovrebbe sforzarsi «di interpretare, per quanto possibile, in un senso favorevole i pensieri, le parole e le azioni del suo prossimo" (CCC,n. 2478). Al riguardo sant'Ignazio di Loyola scrive: «Ogni buon cristiano deve essere più disposto a salvare l'affermazione del prossimo che a condannarla; e se non la possa salvare, cerchi di sapere quale significato egli le dia; e, se le desse un significato erroneo, lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi adatti perché, dandole il significato giusto, si salvi" (IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali 22).

30 CCC, n. 2480. Anche la iattanza o millanteria e l'ironia irrispettosa costituiscono, in ultima istanza, un attentato alla verità.

31 CCC, n. 2483.

32 «Honorare omnes homines» (cf. 1Pt 2,17; RB 4,8).

33 RB 53,15.

33 «Et quod sibi quis fieri non vult, alio ne faciat» (RB 4,9)

 

Giovedì, 17 Dicembre 2020 11:17

La preghiera (Carlo Morandin)

Le tre condizioni del pensiero filosofico antico: silenzio, immobilità, riposo, coinvolgenti anche la parte corporale dell'uomo, sono state assorbite nella dottrina monastica sulla preghiera, quale sua sorgente non solo per l'aspetto teoretico, ma soprattutto per quello della prassi di vita.

San Bernardo ritiene che il lavoro, con la sua pena dovuta al peccato originale, è senz’altro connaturale all’uomo e chi lo accetta con senso cristiano, manifesta il suo consenso ad accogliere la grazia della salvezza.

L'abate è un monaco e non cessa di esserlo quando assume il ministero di abate. Cammina sulla stessa via, quella di esser trasformato attraverso la vita monastica in modo che la grazia del battesimo giunga in lui al suo compimento, come figlio di Dio, veramente simile a Cristo.

Se questo secolo è stato aperto dal martirio dei monaci di Tibhirine, questo deve avere un significato per noi che cerchiamo di comprendere come debba evolvere la vita monastica cistercense trappista nel XXI secolo.

La meditazione elrediana dell'umanità di Cristo mentre conduce colui che medita a seguire e ad imitare Gesù, produce una trasformazione interiore: gli avvenimenti della vita del Cristo si interiorizzano: siamo condotti a vivere l'incarnazione del Figlio di Dio in noi stessi.

Bernardo, "nulla anteponendo all'amore di Cristo", si è inserito con fedeltà dinamica in quella ininterrotta tradizione che ha collaudato la nobiltà, la bellezza, la fecondità della spiritualità benedettina.

Si è creduto, a torto, che occorreva preservare le Comunità dalle novità della secolarizzazione, dal cristianesimo non religioso e dal miraggio del ritorno al passato...

Venerdì, 20 Settembre 2013 23:31

Ascolta, figlio (Un Monaco Benedettino)

Approfittiamo di tutte le occasioni che la vita monastica ci offre di aprire il nostro cuore, preoccupiamoci anche di creare fra noi quel clima di rispetto, di dimenticanza di sé e di fiducia che lo rende possibile.

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