Vita nello Spirito

Lunedì, 02 Giugno 2014 01:23

Riflessioni su povertà, miseria e misericodia (Dom Mauro Esteva i Alsina)

Vota questo articolo
(1 Vota)

Si è creduto, a torto, che occorreva preservare le Comunità dalle novità della secolarizzazione, dal cristianesimo non religioso e dal miraggio del ritorno al passato...

Dopo il nostro ingresso nel monastero, abbiamo sentito parlare della povertà come di una virtù e ci siamo anche permessi di pronunciare in’opinione a proposito. L’abbiamo fatto già occasionalmente e in maniera più generale quando abbiamo constatato che, poco a poco, quasi furtivamente, i progressi tecnici che miglioravano la vita dei monaci venivano introdotti nella Comunità, facilitando soprattutto il lavoro dei fratelli e delle sorelle incaricati delle attività domestiche, agricole o di altro tipo, ciò soprattutto nell’intento di rendere migliori le condizioni di lavoro. Era qualcosa che ci sembrava oggettivo, in quanto ciò pretendeva di organizzare la condotta umana nel suo rapporto con i beni di questo mondo, ma in accordo con la nostra immagine della povertà che esigeva ogni distacco materiale volontario sotto una forma estrema denominata generalmente povertà evangelica, perché essa segue i consigli evangelici.

Poveri di spirito eravamo e non progredivamo al ritmo indicato dalla CostituzioneGaudium et Spes del Concilio Vaticano II, che in precisamente diceva... Lungi dall’opporsi alle conquiste del genio e del coraggio dell’uomo alla potenza di Dio e dal considerare la creatura razionale come una sorta di rivale del Creatore, i cristiani al contrario sono ben persuasi che le vittorie del genere umano sono un segno della grandezza divina e una conseguenza del suo disegno ineffabile (1). Se avessimo avuto conoscenza di tale testo, ciò ci avrebbe aiutato a non pronunciare affermazioni radicali, ma il documento non è stato promulgato prima del 7 dicembre 1965.

Non parliamo dell’invidia che può suscitate tra i fratelli e le sorelle il fatto di vedere entrare nel monastero certi strumenti che non saranno alla portata di tutti. Ricordiamo quanto dice San Benedetto quando si tratta di sapere se tutti devono ricevere il necessario in modo uguale: Si distribuiva a ciascuno secondo i propri bisogni (2) frase che sarà ripetuta parlando delle vesti e delle calzature  dei fratelli, e alla quale aggiungerà: L’Abate tuttavia avrà dunque riguardo ai bisogni dei deboli e non alla cattiva disposizione degli invidiosi (3). Il Concilio Vaticano II tratta l’argomento della povertà evangelica nel decreto Perfectae Caritatis, nel Messaggio del Concilio Vaticano II agli uomini e in tanti altri documenti. La stessa cosa è stata fatta dagli Ordini e dalle Congregazioni religiose riuniti nei rispettivi Capitoli Generali per trattare dell’adeguato rinnovamento del proprio istituto.

Non è di questo genere di povertà, sul quale si è tanto discusso e scritto, che mi sforzo di parlare ora, ma di un’altra povertà, di quella che intacca l’esistenza stessa dell’istituzione monastica e che ho sperimentato grazie ad un contatto diretto durante le visite alle Comunità.

Mi riferisco all’assenza di novizi, al difetto di formazione dei giovani e dei professi, all’invecchiamento progressivo delle Comunità, all’unione che vien meno tra di esse, alla morte dei membri anziani – ed anche dei giovani – alla soppressione dei monasteri, congregazioni e ordini; e questo senza che vi siano state persecuzioni religiose. Una situazione che non osiamo definire povertà, ma con quale altro termine potremmo definirla? Dov’è la nostra verità?

La mancanza di vocazioni non è un tema misconosciuto, non è più un effetto del dialogo iniziato con il Concilio Vaticano II tra Cristianesimo e modernità. Sapete tutti che, per difetto di una formazione idonea, che non è stata mai data al momento opportuno, non si è avuta la trasmissione di una rilettura giusta e armonica dell’identità nazionale, cristiana, monastica. È anche qualcosa di evidente il fatto che le comunità hanno aumentato le loro energie nelle riforme esteriori che non hanno aiutato nessuno a scendere nel profondo di se stesso per arrivare a scoprire quale sia il difetto personale di fondo che lo tiene prigioniero e che ha impedito di adoperare nel servizio del Signore i beni che ha messo in noi, per servirlo presente nei fratelli (4). Tale è il servizio al quale è chiamato il monaco, e nel suo esercizio egli non ha potere neppure sul suo corpo, è già consacrato al servizio degli altri, del tutto come il Cristo è stato uno con gli altri e per gli altri (5).

Si è creduto, a torto, che occorreva preservare le Comunità dalle novità della secolarizzazione, dal cristianesimo non religioso e dal miraggio del ritorno al passato. Tutto ciò faceva guardare con sospetto chiunque si sforzasse di trovare un aiuto in relazione con la psicologia o la psichiatria, così da poter arrivare ad entrare e leggere di sé, come monaco o monaca, per capire che i condizionamenti sociali, economici e culturali vissuti avevano contribuito alla configurazione della propria personalità, della propria verità. Chi si sottometteva a ciò era qualificato per sempre come un malato mentale.

Vedo, con tristezza, come sia stato leggero, per non dire superficiale e poco proficuo, questo passaggio dello Spirito nella Chiesa (6), nella nostra vita e in quella dell’Ordine.
Quest’ultimo è stato capace di tenere nel 1968-69 un Capitolo Generale Speciale bello e giudizioso, ma i documenti approvati non hanno avuto effetto pratico, mancanza di diffusione all’interno delle comunità e delle congregazioni, salvo rare eccezioni. Mi riferisco, naturalmente, alla Dichiarazione del Capitolo Generale sui principali elementi della vita cistercense oggi e alle nuove Costituzioni dell’Ordine Cistercense, e a tanti altri documenti che racchiudono il messaggio delle costituzioni, decreti e dichiarazioni del Concilio Vaticano II.

Quel carico talmente grande pesava su ciascuno, senza che la maggior parte tra di loro si sia fermato per riflettere donde venisse questa croce che portiamo, né come si era formato quel piccolo nodulo di cui non eravamo capaci di spiegare la presenza, né di trovare il modo di disfarcene, e lo rigettiamo solo come un corpo estraneo, quando è già un tumore che bisognava estirpare, e ne eravamo incapaci! Non ci confrontiamo con la verità.

Ma, dopo aver tanto parlato di stati di perfezione, come ammettere che, nonostante siano terreni, i candidati alla vita monastica siano venduti come schiavi o peccato? Ci viene in aiuto San Paolo: In verità, non comprendo ciò che faccio, perché ciò che vorrei fare non è quanto invece realizzo; ma ciò che detesto, è ciò che faccio. Ora, se faccio ciò che non vorrei, sono d’accordo con la Legge: riconosco che essa è buona. In realtà, non sono affatto io che realizzo ciò, è il peccato, che abita in me. Perciò, quanto è alla mia portata, è aver voglia di fare il bene, non di realizzarlo. Io non realizzo il bene che vorrei, ma faccio il male che non vorrei. Se faccio ciò che non vorrei, allora non sono più io che eseguo tutto ciò, è il peccato che abita in me. Io che vorrei fare il bene, constato dunque in me questa legge: ciò che è alla mia portata è il male. Nel più profondo di me stesso mi compiaccio della legge di Dio. Ma, in tutto il mio corpo, scopro un’altra legge, che combatte contro quella che segue la mia ragione e mi rende prigioniero della legge del peccato che è nel mio corpo. Che uomo sfortunato sono! Chi mi libererà da questo corpo che appartiene alla morte? Pertanto, bisogna ringraziare Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!. Ciò potremmo leggere nella lettera ai Romani, ma lo comprendiamo come una cosa di Paolo e non era per farne apertamente un’applicazione al nostro caso. Se uno, in una buona intenzione, facesse una ecografia di ciò che aveva in sé, costoro qualificati come “responsabili della liberazione” – per esempio – la dividerebbero con altri “colleghi” i quali, poiché volevano prendere delle precauzioni, davanti ai futuri errori del candidato “affetto da una tara” la lasciavano scritta come denuncia o per altre ragioni inconfessabili. Finalmente tutto ciò è arrivato agli Archivi della Casa Generalizia, senza che essi immaginino che lì si trovano anche i loro dossier, e quest’ultimo non è brillante nel seguire le stesse categorie applicate agli altri.

A quale grado di povertà siamo giunti e di quale povertà dobbiamo essere coscienti?:

- Comunità estinte o in via di estinzione che, nel momento della loro chiusura, sanno accusare soltanto gli altri di non averle aiutate a sopravvivere, quando in realtà esse erano già morte da anni; qualsiasi aiuto avrebbe solo prolungato la loro agonia, senza poter impedire che si chiuda il monastero.
- Dell’opzione per i giovani, speranza dell’avvenire, non era possibile parlare, a meno che non si trattasse di quelli per i quali si aveva una certa preferenza e che erano considerati come gli unici ad essere adatti, finché gli altri, gli esclusi, giungano a rigettare in modo naturale i particolarismi, accordati invece ai preferiti, senza osare formulare tale sentimento. L’opzione per i giovani, può forse indicare prender parte alla guerra di generazioni? No, grazie! Essa vuol dire, semplicemente, offrire loro a tempo e in modo generalizzato, ciò che noi non abbiamo ricevuto ai nostri tempi.
- L’uguaglianza delle opportunità culturali era impensabile. I giovani che per un verso o per l’altro non avevano ricevuto una preparazione per entrare nell’università non avevano, in generale, nessuna porta aperta come quella attraverso la quale, e fortunatamente, essi ora possono accedere per recuperare ciò che non hanno ricevuto, fintanto che vivevano nella cultura della povertà. In tal modo l’uguaglianza regna nelle Comunità, senza alcun esclusivismo sociale o culturale, e ancor meno secondo arbitrii, di qualsiasi tipo essi siano. Questo è anche optare per i giovani.
- La carriera in vista del potere, nell’intento di ottenerlo o manovrando per raggiungerlo; e, ai nostri giorni, imitando le astuzie della società civile per annettere il patrimonio della comunità in previsione dell’estinzione o il beneficio di quelle che accolgono i membri e, naturalmente, con i beni materiali che li accompagnano. Cosa si può dire di ciò?
- Se non vi confesso tutto ciò, chi ve lo dirà? Non sapete quale povertà vi troverete quando entrerete soli nel vostro intimo per iniziare la conoscenza di voi stessi, il nosce teipsum agostiniano (la verità personale) e per scoprire la realtà della confessione di Paolo ai Romani, già citata, e anche quella ai Galati (8), valida per tutti, senza che alcuno ne scampi, affatto coloro che devono “deliberare” sulla vocazione degli altri!
- Rileggete bene in voi stessi e guardate in faccia la vostra croce. Abbiate presente allo spirito ciò che dice San Benedetto: egli sa che da questo giorno non può più disporre nemmeno del proprio corpo (9) e che ripete anche in un altro passo:... infatti non è più nemmeno lecito ai monaci avere a loro disposizione né il loro corpo né le loro volontà (10). Inoltre ciò ci dà il fondamento della nostra opzione: essi non preferiranno assolutamente nulla al Cristo (11). Nel linguaggio attuale ciò significa: essere uomo con gli altri e per gli altri, ma con i doni e i talenti personali sviluppati per offrirli loro, a quelli cioé nei quali è presente il Signore.
- Da ciò sono nati i Corsi di Formazione Monastica come forma concreta dell’Opzione per i Giovani. Essi hanno voluto essere una risposta al Papa Giovanni Paolo II, guida luminosa e affascinante, che ha dato fiducia alle nuove generazioni. Dal primo istante, egli li ha chiamati sua speranza, e ha detto che avrebbe bisogno di loro. Cioé: ha avuto fiducia in essi ed ha creato per essi la Giornata Mondiale della Gioventù che gli ha permesso di mantenere il contatto e di entrare in sintonia con le future generazioni. Questa attitudine gli ha conservato il cuore giovane, a tal segno che milioni di giovani e di adulti lo hanno accompagnato e hanno pianto su di lui, in un modo che non si era mai visto.
Ai nostri giorni, con l’aiuto di persone che hanno segnato il Cristianesimo della seconda metà del XXmo secolo, abbiamo trovato la luce per non camminare a tentoni, noi e i giovani:
- Per esempio, Dietrich Bonhoeffer, pastore evangelico e martire, che ci ha detto e ripetuto: “Essere cristiano non significa essere religioso in un certo modo, diventare qualcuno con un metodo qualunque (un peccatore, un penitente, un santo), ciò significa essere un uomo; il Cristo creato in noi, non un tipo d’uomo, ma l’uomo semplicemente. Non è l’atto religioso che fa il cristiano, ma la sua partecipazione alla sofferenza di Dio nella vita del mondo. Ecco la conversione: non pensare in principio alle proprie miserie, problemi, peccati, angosce, ma lasciarsi trattenere nel cammino di Gesù Cristo”. Questa è la radicalizzazione teologica, propriamente “cristologica”, operata, sotto l’aspetto dell’umanità di Dio, dall’ultimo Bonhoeffer: diventare un uomo, e non solamente un “cristiano”, perché Dio stesso si è rivelato completamente nell’uomo “con” e “per gli altri”, in Gesù” (12).
- Il teologo Joseph Ratzinger, conoscitore di Bonhoeffer, nel 1968 scriveva: chi non vede... come sia importante la verità affermata nella Bibbia con la parola “per”? Essa indica che, in quanto uomini, viviamo immediatamente di Dio, degli altri e, da ultimo, di colui che “è vissuto per noi”. Chi non si rende conto dei segni di vita che dà il concetto biblico di elezione secondo il quale ciò non è un provilegio dell’eletto, ma una vocazione ad “essere-per-gli-altri”? È la vocazione a questo “per” nel quale l’uomo cessa di aggrapparsi a se stesso e osa fare il salto nell’infinito attraverso il quale ritornerà in sé (13).
- Per terminare, e per ordine di pubblicazione e di ufficialità, vi è il Papa Paolo VI, che apertamente, e non in nota a pié di pagina, ha parlato chiaramente, lui del quale si è potuto scrivere: Uomini attenti a trattare il dramma dell’uomo del XX secolo come Paolo VI, si son resi conto della figura di Bonhoeffer in un momento in cui il pastore della chiesa protestante correva il pericolo di essere manipolato persino nell’interpretazione del suo pensiero: Una definizione, certamente incompleta, ma esatta e meravigliosa, lasciata al nostro secolo devastato dagli egoismi più avidi e dalle guerre più feroci da un grande spirito religioso, non cattolico, ma pieno dell’amore del Cristo, Dietrich Bonhoeffer: «l’uomo per gli altri» - Questo è vero e noi non dobbiamo dimenticarlo. Ce l’aveva già detto San Paolo (cf. Rom. 14.7-9) (14).

Dio non agisce  nella miseria concreta di ciascuno che mi induce ancora a chiedermi:

- Che avverrebbe se, prima della professione solenne, e come primo passo, facessimo un test per scoprire i doni e i talenti con i quali possiamo servire Dio presente nei fratelli, per farci uno con essi ed essere con essi?;
- ma, ed anche se – e sarebbe lodevole – accanto ai doni trovassimo altresì il nostro principale difetto, la propria miseria che tutti portiamo nell’intimo di noi stessi coma una tara personale, come il nostro difetto di fabbricazione che ci tiene prigionieri? Credo che ciò dovrebbe essere il primo passo da insegnare ai giovani: fare assumere la verità su se stessi;
- forse questo non sarebbe sufficiente per essere esclusi dalla possibilità di vivere in monastero sotto il peso di tale croce, forse ancora sconosciuta da voi stessi e non accettata, poiché non sapete ancora che Dio non agisce nell’irreale ma nel concreto, nella miseria di ciascuno, come abbiamo detto sopra. E lì, sotto il peso della duplice legge – di cui ha parlato Paolo – e noialtri ormai da anni, stanchi e curvi sotto il fardello, gemiamo prostrati da essa e lì dobbiamo ascoltare ciò che Egli ci dice in questo dialogo oscuro, da cui potremmo essere stati esclusi da una delibera del Capitolo Generale?
- Se Dio agisce nella miseria concreta di ciascuno: dove potrebbe aver luogo il dialogo tra la nostra miseria e la sua misericordia, se i monasteri sono la residenza di coloro che vivono in stato di perfezione?
- Non dimentichiamo: è attraverso la misericordia di Dio che siamo là dove siamo e, secondo San Benedetto, non dobbiamo mai disperare della misericordia di Dio (15)  né noi né i nostri fratelli e sorelle che formano questo potenziale umano povero che vive in ciascun monastero, per la nostra sorpresa e la nostra consolazione. Se coloro che ci hanno accolti avessero tenuto conto delle nostre debolezze, delle nostre croci, dei nostri principali difetti, della nostra miseria chi avrebbe potuto resistere? (16). Perciò, nelle convocazioni dei Capitoli Generali e dei Sinodi mi sono sentito spinto a scrivere: Mauro Esteva, per Divina Misericordia Abate Generale dell’Ordine Cistercense.
- Lasciatemi ripetere, una volta ancora, con riconoscenza: Siete voi che indirettamente mi fate questa domanda? Chi è il Cristo per voi? Come ho fatto? È molto semplice: fintanto che lavoro per voi, preparando i corsi, le omelie, i discorsi iniziali, i discorsi finali, le parole che vi indirizzo li applico anche a me stesso. Credetelo! Siete voi, gli studenti dei Corsi di Formazione Monastica che mi avete trascinato in questa situazione estrema nella quale mi son sentito obbligato a darvi una risposta a partire dal 2001, e sono risposte che rivolgo a me stesso. Così tardi ho fatto la lettura della mia sequela! (17) Vi ho fatti partecipi ci ciò perché apprendiate dagli altri e non pensiate che essi siano migliori e che il Vangelo non sia per voi, ma per essi. Essi non sono migliori, non lo sono io, siamo povere creature toccate dal peccato originale, come voi, venduti come schiavi al peccato. Non capisco ciò che faccio, poiché ciò che vorrei fare, non è ciò che in effetti faccio; ma ciò che detesto, è ciò che faccio (18). Tale era la povertà di Paolo e così è anche la nostra miseria che, tuttavia, non può impedire il vostro cammino verso il futuro, che siete voi, facendo anche affidamento sulla vostra miseria interiore ed esteriore. Paolo ci dice: Che uomo meraviglioso sono ... a volte, con la mia ragione, sono servitore della legge di Dio, e, secondo la mia natura carnale, servitore della legge del peccato! (19); ma ci consola anche dicendo: siamo salvati nella speranza (20), parole con le quali Papa Benedetto XVI apre la sua enciclica Spe salvi in cui parla di soffrire con l’altro, per gli altri (21). La fede cristiana ci ha mostrato in effetti che Dio – la Verità e l’Amore in persona – ha voluto soffrire per noi e con noi. Bernardo di Chiaravalle ha coniato l’espressione meravigliosa: “Dio è impassibile, ma non incompassibile”, Dio non può soffrire, ma può compatire (22). E Agostino, citato anche da Benedetto XVI, ha già ispirato Paolo VI che, nel suo confortante testamento ha scritto: Povera vita miserabile, limitata, meschina, che richiede tanta pazienza, riparazione, infinita misericordia. S. Agostino in una sintesi che mi sembra sempre insuperabile, dice: “miseria e misericordia”. La miseria è mia, la misericordia di Dio. Che io possa, almeno ora, onorare chi tu sei, Dio di infinita bontà, invocando, accettando, celebrando la dolcissima misericordia (23). Questa misericordia, di cui tutti siamo debitori e con la quale la nostra miseria ha mantenuto un dialogo segreto, è quella che ci permette di andare con piena fiducia all’incontro con il Giudice, nostro unico avvocato, unico salvatore, difensore, perché tutta la sporcizia del nostro fardello è già stata bruciata nella Passione del Cristo, nostro fuoco purificatore (24). Fortunatamente il Vangelo è per tutti!

Voi vivete nella povertà, ricevete una realtà miserabile per il futuro, che siete voi stessi, ma sulla via della salvezza i cui inizi sono sempre difficili (25), siete accompagnati e consolati – come avete visto – da San Paolo, San Bernardo, dai teologi e dai Papi i quali, con grande autorità morale, - assente in noi che vi abbiamo preceduto – dilatano il vostro cuore con le loro confessioni sincere e i loro insegnamenti accorti per assumere il compito di continuare l’istituzione monastica, molte volte in pericolo di estinzione. Noi la lasciamo nelle vostre mani in questi tempi incerti, come tante altre volte nella sua storia, ma da cui essa è uscita rinnovata. Siatene degni continuatori nei vostri bei monasteri, Avanti! Voi siete l’avvenire, perché la vita procede in senso unico, e dovete continuarla nonostante le provocazioni. Il Vangelo è per tutti, ricordatevene, e non abbiate timore di conoscere la verità su voi stessi!

Dom Mauro Esteva i Alsina *

* già Abate Generale dell’ordine Cistercense


Note

1) Gaudium et Spes, 33-34.
2) Regola di San Benedetto, 34, 1.
3) Regola di San Benedetto, 55, 20-21.
4) Cf. RB, prol. 6.
5) Famosa frase di Dietrich Bonhoeffer, adattata da Joseph Ratzinger nella sua introduzione al cristianesimo e alla quale Paolo VI ha conferito nuovo valore citandola durante l’udienza generale del mese di marzo 1972.
6) Il Concilio Vaticano II è stato definito: un soffio dello Spirito sulla Chiesa.
8) Gal. 5,16-17. Ora io dico: lasciatevi condurre dallo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne. 17 la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.
9) RB 58,25.
10) RB 3,4.
11) RB 72,11.
12) Arnaud Corbic, Bonhoeffer. resistente e profeta di un Cristianesimo non-religioso, Edition Albin Michel, Paris, 2002, p. 90-91.
13) J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo.
14) Paolo VI, Udienza Generale del 29-3-1972, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. X, Tip. Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1972, p. 317.
15) RB 4,74.
16) Ps 129,3.
17) Per te chi sono? Omelia del 24-08-08.
18) Rm 7,14.
19) Rm 7,24.
20) Rm 8,25.
21) Spe salvi n. 39.
22) Sermones in Cant., Serm, 26,5, PL. 183,906, citato da Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi.
23) Paolo VI, Meditazione sulla morte. Testamento postumo.
24) Benedetto XVI, Spe salvi, n.47.
25) RB prol, 48.

 

Letto 6343 volte Ultima modifica il Lunedì, 02 Giugno 2014 23:06
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search