San Bernardo Tolomei padre e maestro dei monaci di Monte Oliveto
Propter eius sanctitatem: «A causa della sua santità», con queste parole e con questa ferma convinzione nel 1347 i monaci di Monte Oliveto affidavano per sempre la vita del monastero e della loro nuova congregazione a Bernardo Tolomei, riconoscendo in colui che nel 1313 aveva avviato la vita monastica nel deserto di Accona, un carisma straordinario di padre e di testimone autenticamente evangelico.
Giovanni, questo è il nome di battesimo del fondatore di Monte Oliveto, nacque a Siena il 10 maggio del 1272 da Mino Tolomei e da Fulvia Tancredi, che ebbe, secondo una tradizione cara ai monaci olivetani, un singolare sogno, quello di dare alla luce un bianchissimo e melodico cigno che, dopo aver raccolto un ramoscello di ulivo col becco, volava in cielo assieme ad un immenso stormo di altri cigni.
Sia la famiglia Tolomei che la famiglia Tancredi appartenevano alla più antica nobiltà di Siena e in modo particolare i Tolomei avevano acquisito un notevole patrimonio fondiario nella campagna senese e nondimeno una cospicua rilevanza nel mondo commerciale ed economico della città, arrivando a possedere filiali addirittura sino a Troyes nella lontana Francia.
Una concorde tradizione agiografica afferma che il giovane Tolomei avrebbe studiato nel convento di San Domenico di Siena per poi proseguire gli studi di diritto nell'università cittadina, secondo un percorso educativo assai diffuso nella civiltà comunale italiana del tempo.
Controversa è invece l'attività di insegnamento del nostro Giovanni, mentre appare sicura l'appartenenza ad una confraternita di tipo penitenziale, quella dei Disciplinati di Santa Maria della Notte, attivi al servizio dei ricoverati nell'ospedale di Santa Maria della Scala, ove, per quel che ci riferiscono diverse autorevoli testimonianze, egli si sarebbe ritrovato più volte a pregare «per il perdono dei suoi peccati», condividendo questo fervore con alcuni suoi nobili amici, destinati ad accompagnarlo per tutta una esistenza dedicata al Signore.
Quegli amici erano Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini che, secondo le parole di un antico cronista, «perseguivano con devozione il medesimo stile di vita e il medesimo fervore».
Intensa era infatti la loro devozione al Signore Crocifisso e alla Beata Vergine Maria, sotto il cui patronato era posta del resto tutta la città di Siena.
È importante notare come Giovanni Tolomei viva e partecipi in pienezza al sentire spirituale ed ecclesiale più diffuso nel suo tempo.
Sono quegli infatti gli ultimi secoli del Medioevo che si caratterizzano sia per una diffusa e convinta devozione all'umanità del Signore Gesù, che nel corpo crocifisso fa sua la nostra debolezza, sia per la riscoperta, sulla scia del grande movimento dei frati mendicanti, della santità laicale che si organizza, nel contesto cittadino, in confraternite caratterizzate da esperienze liturgiche, devozionali, letterarie, musicali e assistenziali di grande rilievo.
Nonostante che tante altre città europee, fossero attraversate da simili, diffusi fermenti evangelici, anche la Siena di Giovanni non è esente da forti tensioni politiche, sociali ed economiche che con altri fattori contribuiscono a definire il Trecento come un'epoca di grande crisi.
In un simile contesto urbano non meraviglia constatare come i nostri penitenti «subissero numerosi ostacoli da parte dei loro concittadini», come afferma il più autorevole cronista olivetano, l'abate Antonio da Barga (+ 1452): Giovanni matura così, anche col concorso di una miracolosa guarigione dalla cecità, il desiderio di ritirarsi in un mirabile e austero paesaggio della campagna a mezzogiorno di Siena, fra scoscesi calanchi di argille, le cosiddette crete, e ondulate colline di boschi, uliveti e pascoli.
È in quel contesto di suggestiva bellezza che Giovanni Tolomei riceve dal Signore il compito di rinnovare e rinvigorire un'altra secolare istituzione ecclesiale anch'essa non esente dalla grande crisi del Trecento: il monachesimo.
In quelle zone, precisamente nel cosiddetto deserto di Accona, la famiglia Tolomei possedeva una residenza campestre ove Giovanni avvia un'esperienza di vita fraterna modellata su quel che resta sempre l'esempio più genuino e autentico di vita ecclesiale: la vita comune dei primi Apostoli come ci è narrata dai loro Atti, caratterizzata dal primato della preghiera, dalla condivisione dei beni, dalla vita fraterna.
Le cronache ci parlano anche di vita eremitica, condotta, con l'arrivo di nuovi fratelli attratti dalla profonda serietà di quei primi compagni, in piccole capanne e addirittura in grotte.
Dobbiamo immaginare qualcosa di simile alle tante raffigurazioni della Tebaide di cui è ricca l'arte italiana: monaci raccolti in preghiera, intenti alla lettura o al lavoro agricolo, in solitudine oppure raccolti in santi colloqui o in semplici liturgie.
Al centro di questa esperienza il desiderio di conversione, di penitenza, di santità maturato nel cuore di Giovanni, che nel frattempo aveva significativamente preso il nome di Bernardo in onore del grande mistico francese, la cui parola e la cui azione fu a monte della straordinaria diffusione dei monaci cistercensi.
Un evento mistico inaugura tuttavia una nuova e più significativa stagione di quell'avventura dello Spirito: verso la fine del 1318 o all'inizio del 1319, un giorno, mentre Bernardo era immerso nella preghiera, egli ebbe la visione di una scala sulla quale vide salire, aiutato dagli angeli, monaci vestiti di bianco, attesi da Gesù e Maria.
Era l'antica scala di Giacobbe, un simbolo caro alla tradizione monastica perché via di accesso, mediante la pratica dell'umiltà, alla pienezza celeste e alla ritrovata comunione col Signore.
Le cronache ci regalano a questo riguardo un dettaglio bellissimo della capacità di amore del cuore di Bernardo: questi non volle affatto riservare a sé la grazia di quell'estasi e subito chiamò gli altri fratelli perché anch'essi potessero vedere il promettente segno della volontà divina nei loro riguardi.
Forse sta proprio qui, in questo evento e in questa volontà estrema di condivisione, il «segreto» di Monte Oliveto, il seme nascosto che ha permesso lo straordinario sviluppo per numero e qualità di quella epopea di amicizia e di fede animata da Bernardo, nobile di nascita, ma più ancora di cuore!
In tantissimi e da tutta la Toscana vollero raggiungere quella nuova Tebaide sorta quasi per incanto fra le crete e gli olivi, per poter partecipare della grazia di santità di Bernardo e dei suoi primissimi compagni.
Secondo una probabile tradizione fu un legato di papa Giovanni XII a essere inviato perché l'autorità della Chiesa potesse rendersi meglio conto di cosa stesse succedendo in quell'angolo remoto di campagna senese.
Grande fu l'ammirazione del cardinale Bertrando di Poyet, nel verificare, tra il 1316 e il 1319, la feconda santità di vita di quel gruppo sempre più numeroso di asceti. In ottemperanza alla tredicesima Costituzione del IV Concilio Lateranense (1315) che proibiva la fondazione di nuovi ordini religiosi fino ad allora non approvati, per consolidare la posizione giuridica del nuovo gruppo, Bernardo, con Patrizio Patrizi, si recò dal vescovo di Arezzo Guido di Pietramala (in carica dal 1306 ca. al 1327), nella cui giurisdizione si trovava in quel tempo Accona.
Ne ottenne un decreto di erezione per il futuro monastero di S. Maria di Monte Oliveto, da istituire «sub regula sancti Benedicti» (26 marzo 1319), con alcuni privilegi ed esenzioni.
Lo stesso vescovo poi accolse, tramite un legato (il presbitero Restauro, affiliato alla confraternita dei Fustigati presso la chiesa della SS. Trinità in Arezzo), la loro professione monastica.
Con questo evento fondamentale nella vita della famiglia monastica di Monte Oliveto assistiamo al consapevole e definitivo inserimento di quella iniziale esperienza di vita anacoretica ritmata dalla preghiera e sostenuta dal lavoro delle proprie mani al modo degli Apostoli, nella grande tradizione benedettina.
Tornano così in mente le ispirate parole che Giovanni Paolo II aveva dedicato nel 1998, in occasione del 6500 anniversario della morte, al Tolomei: «Con abbondanza, nel cuore del beato Bernardo "è stato effuso l'amore di Dio per mezzo dello Spirito" (Rm 5,5), che lo ha reso così segno del Signore risorto.
Grazie a ciò egli ha potuto eccellere "nella vocazione a cui Dio lo ha chiamato, per la più grande santità della Chiesa e per la maggior gloria della Trinità" (Const. dogm. Lumen gentium, 47), "impegnato a diventare portatore della Croce" (Esort. Ap. Vita consecrata, 7), come indica significativamente il nome di Monte Oliveto da egli dato al deserto di Accona.
Bernardo, "nulla anteponendo all'amore di Cristo" (Regula Benedictina 4,21; cfr 72, 11), si è inserito con fedeltà dinamica in quella ininterrotta tradizione che ha collaudato la nobiltà, la bellezza, la fecondità della spiritualità benedettina».
Quando la nuova comunità così costituita dovette eleggere il suo primo abate, la scelta dei fratelli cadde su Bernardo Tolomei, ma egli rifiutò, nonostante la volontà unanime dei suoi, perché, dice l'antica Cronaca della Cancelleria, «si considerava spregevole ai propri occhi e non si riteneva di nessun valore».
Emerge così un tratto fondamentale nel ritratto del fondatore di Monte Oliveto: la sua straordinaria umiltà, di cui nella vita e in molte sue lettere, fu testimone e maestro. Finalmente nel 1322 «il venerabile Bernardo, sottratto contro la sua volontà all'abbraccio della divina contemplazione, alla sua quiete e alle delizie del paradiso, venne eletto abate per portare frutti nella casa del Signore e per radunare in unità i molti figli di Dio che erano dispersi».
Così ci informa la stessa Cronaca, grazie alla quale noi adesso comprendiamo come per Bernardo essere abate significasse, in linea con il dettato della Regola benedettina, mettersi al servizio dei fratelli, custodendone l'unità e servendo la comunione loro donata dal Signore. Non a caso negli unici suoi scritti a noi pervenuti, un corpus epistolare di 48 lettere, egli spessissimo riferisce decisioni, volontà e desideri a sé e ai suoi fratelli: «fratres et ego volumus», oppure «fratres et ego desiderantes». Per Bernardo l'umiltà infatti non può che nascere in quel laboratorio di carità che è la vita fraterna, e senza l'umiltà non si dà quel miracolo tipicamente evangelico del reciproco servizio, del reciproco perdono e della reciproca obbedienza.
Va poi ricordato come proprio sotto l'abbaziato di Bernardo altri monasteri, o priorati, venissero fondati come «membra» di uno stesso corpo, il cui «caput» è Monte Oliveto.
Sappiamo anche della cura con cui egli visitasse questi loca. perché il più possibile omogenea fosse la distribuzione di quel ritrovato fermento evangelico indispensabile per manifestare e sperimentare quella grazia che sono la comunione e l'amore che Dio ci dona.
Tanto affidabile e sapiente fu l'umiltà di Bernardo che, come si è ricordato all'inizio di queste note, i monaci di Monte Oliveto, percependo gli eccezionali carismi e la qualità umana e spirituale di Bernardo, gli vollero consegnare a vita, oltre al perpetuo abbaziato, «l'autorità, la funzione di governo e la piena autorità di agire, di amministrare e di disporre in merito alle opere e agli affari del monastero in base al suo consiglio», senza dover necessariamente interpellare il capitolo e i monaci.
La famiglia monastica di Monte Oliveto al suo amato fondatore questo chiedeva, superando la propria legislazione consueta, nel 1347.
Ancora non poteva immaginare che soltanto un anno dopo, durante l'imperversare della grande peste del 1348 il suo padre, Bernardo Tolomei, poté scrivere una pagina ancora più grande di santità, di amore e di donazione al bene di tutti fratelli.
Se Giovanni Boccaccio e una lunga e consolidata tradizione letteraria ci hanno documentato la diffusa tendenza delle diverse élites sociali di fuggire dalla città, ritenuta luogo di pericolosa esposizione al contagio mortifero, Bernardo all'opposto non esitò a tornare a Siena per assistere e per confermare nella fede e nella speranza i suoi monaci del monastero di San Benedetto la cui comunità era già minata dalla pestilenza: come scrive un cronista, quello della Cancelleria, «il buon pastore depose la sua vita per le sue pecore».
Con il gesto estremo della morte per amore Bernardo Tolomei, non diversamente dall'unico Maestro, compiva in pienezza il suo lungo sentiero di sequela del Signore Gesù dal cui esempio e dalla cui parola aveva appreso che il vero nome di Dio è l'amore, amore che nella vita monastica si attua anzitutto in quello che lo stesso Bernardo, in una sua lettera, chiama il «sanctissimus amor communitatis», «il santissimo amore della comunità», partecipazione piena e reale nella nostra vita dell'amore trinitario, e sua ardente testimonianza nella comunità ove la volontà di Dio ci chiama a vivere.
Le approssimative sepolture tipiche del periodo di contagio pestilenziale e le complesse vicende architettoniche del monastero olivetano di San Benedetto a Siena hanno sottratto alla nostra venerazione il corpo dell'abate Bernardo, ma non il vivo ricordo della sua luminosa vita, la cui memoria è in benedizione e la cui santità è da oggi patrimonio della Chiesa universale.
Bernardo Francesco Gianni, OSB Oliv.
Abbazia San Miniato al Monte, Firenze
(da Vita Nostra – Periodico mensile delle Monache Cistercensi d’Italia)