La Bibbia offre molti suggerimenti per una vera educazione dell'uomo. Qui mi accontento solo di alcuni, che però considero particolarmente importanti. A mio avviso sono importanti perché aperti all'uomo di ogni tempo, di ieri e di oggi, credenti e anche non credenti. Anzitutto, per l'uomo, credente o no, che cerca la propria identità (un uomo pensoso, dunque, non distratto): un uomo che si sperimenta frammentario, in balia della caducità, perennemente incompiuto e immerso in una storia contraddittoria: quest'uomo è disperatamente alla ricerca di un senso, di una prospettiva unificante, di un valore che vinca la caducità, di una ragione di speranza. E poi per l'uomo religioso - non importa di quale religione - che è in cerca di Dio, l'uomo che vede la realtà che lo circonda come una parabola, o un «segnale» che rinvia oltre: un uomo in cerca di fede e di testimonianze. Infine, per il discepolo di Gesù - non importa a quale specifica vocazione sia esso chiamato - che vuole confrontare la sua vita e la sua scelta particolare con la proposta evangelica radicale, con la sequela di Cristo.
L'uomo immagine di Dio
La pagina biblica della creazione (Gen 1,1-24) proclama il primato di Dio su tutte le cose. Ognuna delle opere della creazione è raccontata secondo un formulario fisso, che sottolinea la perfetta corrispondenza tra gli ordini divini e la loro esecuzione: «E Dio disse... e così fu». L'obbedienza a Dio è ciò che fa esistere tutte le cose. È poi chiaro che Dio non solo crea le cose dal nulla, ma fa ordine nel caos primitivo, mette ciascuna cosa al suo posto e dà a ciascuna cosa il suo compito. La Parola di Dio introduce nel caos informe l'ordine e la razionalità. È un ordine che l'uomo deve scoprire e rispettare.
Per cinque volte si legge nel racconto «E Dio disse». Ma poi, al sesto giorno, si legge «Facciamo». Sembra quasi che Dio, dopo aver per cinque giorni creato in rapida successione, prenda ora una pausa di riflessione. La creazione dell'uomo - certamente inserita in un quadro che lega l'uomo a ogni altra creatura, solidale con esse e bisognoso di esse - è diversa. L'uomo fa parte della creazione, una creatura fra le creature, ma la sua identità decisiva è l'apertura a Dio. E difatti Dio dice: «Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza» (Genesi 1,26-27). I due termini significano somiglianza fisica e interiore, come in una relazione di parentela, tra i padre e figlio: simili nel volto, ma anche nel carattere e nel pensare. Questo è l'uomo: legato alla terra, ma anche essenzialmente alla relazione con Dio. Immagine dice anzitutto relazione. L'uomo è la sola creatura che può stare davanti a Dio come una persona, capace di dialogo e di responsabilità, può rispondere, può condividere con Dio l'ammirazione per il mondo e può prenderne cura.
Immagine suggerisce l'idea di una ricostruzione plastica, per esempio di una statua. Somiglianza è termine più astratto e indica similitudine. Le due parole insieme ribadiscono con forza che Dio si riconosce nell'uomo come in un suo ritratto. L'uomo è nel mondo la statua di Dio, il rappresentante plastico della sua invisibile sovranità.
Immagine di Dio è l'uomo nella sua interezza, nella sua corporeità, nella sua storica concretezza. Sarebbe del tutto fuori posto pensare che l'uomo è immagine di Dio per le sue qualità spirituali. La Bibbia non conosce questo modo di pensare che proviene dal pensiero greco. L'uomo è immagine di Dio con tutta la sua umanità. Né sarebbe corretto introdurre una qualche distinzione fra uomo e uomo, e fra uomo e donna. Immagine di Dio è Adam, cioè l'uomo come tale, ogni uomo. Non ci sono uomini più immagine di Dio degli altri.
L'uomo è immagine di Dio e dunque deve vivere nel mondo non da schiavo, ma da signore, a nulla sottomesso, né alle cose né ad altri uomini.
Ma l'uomo è immagine di Dio, non Dio: deve perciò esercitare nel mondo non una signoria a piacimento, ma nell'obbedienza al progetto dell'unico Signore. Tutto deve dunque sottomettersi all'uomo (il rappresentante di Dio), e l'uomo deve sottomettersi a Dio (e a nessun altro). Non sottomettersi a Dio è idolatria, ma anche la sottomissione dell'uomo alle cose (alla politica, allo Stato, all'economia) e il dominio dell'uomo sull'uomo non sono altro ché l'altra faccia del medesimo peccato di idolatria. Ogni uomo è immagine di Dio, e perciò spetta a tutti gli uomini, non solo ad alcuni, la responsabilità del mondo. Gli uomini insieme devono rendersi responsabili del mondo. Gli imperativi «dominate» e «soggiogate» sono al plurale. L'uomo deve aver cura della creazione, perché questa serva all'uomo e rimanga a disposizione di ogni uomo. La natura profonda della creazione è di essere un dono di Dio per tutti, e Dio vuole che tale rimanga. Per questo il primo imperativo rivolto da Dio all'uomo è che questi conservi la terra nella sua natura di dono. Dono e benedizione, non strumento di potere o ragione di divisione.
«Dominare» e «soggiogare» sembrano contraddire l'espressione di Genesi 2: «coltivare» e «custodire». In realtà dicono la stessa cosa. Lo sfruttamento selvaggio del mondo colpisce al cuore il progetto di Dio, stravolge il senso della creazione e dell'uomo. Il compito dell'uomo nel mondo è di ordinare e vincere le forze del caos, come appunto l'azione creatrice di Dio.
Al termine di ogni giorno l'autore biblico annota puntualmente: «E Dio vide che ciò era buono». Dio crea e ammira la sua creazione. L'aggettivo buono (tób) ha un ampio significato: buono, bello, ragionevole, utile, atto allo scopo. Nessuna creatura è sottratta all'ammirazione di Dio, e quindi non ci sono ambiti nel mondo da cui l'uomo debba, di conseguenza, allontanarsi. Tutta la creazione - proprio anche nella sua materialità - è una salita dal basso verso l'alto, non una caduta dall'alto verso il basso. Tutta la creazione è amata da Dio e suo dono.
«E vide che ciò era bello»: è un ritornello che esprime la grande ammirazione di Dio per ciascuna delle sue creature. Questo suggerisce una modalità importante, essenziale, che deve caratterizzare anche lo sguardo dell'uomo sul mondo, se vuole porsi di fronte ad esso in modo corretto. L'uomo deve condividere lo sguardo ammirato di Dio, che ha tratto dal caos informe e confuso le sue creature: non soltanto utili e buone, ma belle. Non solo da sfruttare dunque, ma da guardare.
Ne consegue che l'uomo «economico», troppo proteso verso l'avere, non è in grado di instaurare un rapporto corretto con la terra. E neppure lo è l'uomo semplicemente «solidale», proteso nel progettare un mondo per tutti. Occorre l'uomo estetico, capace anche di guardare la terra con sguardo stupito, che ne coglie la bellezza e il rinvio. Se non si coglie la bellezza delle creature, non si instaura con esse un rapporto corretto e profondamente religioso. Se - osservando una foresta - si pensa subito alla legna da ardere o al legname per le costruzioni - tutto è a rischio. Per l'uomo biblico e per Gesù il seme che germoglia è un prodigio di Dio e una vita che si forma nel grembo di una donna è un miracolo e un dono. Bisogna ritornare alla poesia e alla spiritualità degli uomini biblici.
Il racconto della creazione è racchiuso nello schema della settimana, che si conclude nel sabato. Il centro di gravità dell'esistenza, di Dio e dell'uomo «sua immagine», non è il lavoro, ma il riposo del sabato, cioè la comunione con Dio e fra noi, la gioia della libertà, la contemplazione e il godimento. Dio «sospese» il lavoro che aveva fatto. Così deve fare l'uomo. L'uomo non è lo schiavo del suo lavoro, ma il padrone, perciò lo domina e lo sospende, come Dio.
Genesi 1-2 ha tracciato una sola faccia dell'esistenza dell'uomo di fronte a Dio e al mondo. L'altra, faccia è delineata in Genesi 3 e nei capitoli successivi. Se, da una parte, l'uomo biblico vive nella certezza che Dio ha fatto bene ogni cosa e dona il suo giardino all'uomo perché possa goderlo, dall'altro, scopre quotidianamente l'ostilità della terra, la lacerazione nei rapporti, la disobbedienza verso Dio, la morte.
Queste lacerazioni - afferma Genesi 3 - sono reali e mostrano, a modo loro, la «verità» dell'uomo. Ma non sono imputabili a Dio, come se trovassero la loro ragione in una creazione malfatta o in un progetto sbagliato, bensì sono imputabili all'uomo, che vuole fare da sé, sottraendosi al progetto di Dio e al dono (3, 4-5). La radice dell'alienazione è l'idolatria, cioè la volontà dell'uomo di essere lui a piantare il giardino, da solo e a piacimento. E' lo stesso peccato dei costruttori di Babele (11, 1-9) che decidono di costruire una unità politica, religiosa e culturale da soli, per volontà propria, fuori dal progetto di Dio.
L'uomo è un progetto
L'uomo è creato da Dio non come una costruzione già compiuta, ma piuttosto come un disegno da inverare. L'uomo è un progetto.
Il discorso biblico sull'uomo è per lo più indiretto, ma proprio per questo finisce con l'andare al centro della questione. Non è facile trovare una pagina biblica che parli dell'uomo in sé. La Bibbia preferisce considerare l'uomo come un essere in relazione, quindi ne parla nei suoi rapporti con il mondo, col popolo, con Dio. E neppure considera l'uomo in modo statico, nella sua intelaiatura, ma in tensione, cioè nella sua vocazione.
In altre parole, la Bibbia non è anzitutto interessata alla domanda: che cosa è l'uomo? Quali sono le sue componenti? Bensì alla domanda: a che cosa l'uomo è chiamato? Qual è la sua vocazione?
Abbiamo detto che l'uomo è sulla terra il segno della sovranità di Dio. Dunque «immagine di Dio» significa grandezza. Ma è altrettanto vero che immagine significa dipendenza: l'immagine si realizza assomigliando all'originale, si perde staccandosene.
Il Nuovo Testamento precisa, nella medesima linea di pensiero, che il Cristo - che è la verità dell'uomo - fu sempre in tutto e per tutto l'obbediente. Si direbbe, dunque, che la Bibbia non è giunta ad affermare la grandezza dell'uomo, di ogni uomo, osservando semplicemente l'uomo e la sua capacità di dominare la natura, la sua distanza dalle cose e la sua superiorità su di esse. La partenza biblica è teologica: ha colto la grandezza dell'uomo, di ogni uomo, riflettendo sul comportamento di Dio, sul suo amore verso l'uomo.
Tutto questo è molto significativo. Il riconoscimento di Dio non è a scapito del senso dell'uomo, ma ne è fondamento. E' forse questo l'elemento più originale del discorso biblico, ma è anche l'aspetto oggi più in crisi.
Una seconda insistenza nel discorso biblico: L'uomo è una realtà unitaria, e la Bibbia scorge in ogni azione dell'uomo la presenza dell'uomo intero. Va ripetuto però che quando parliamo di struttura unitaria dell'uomo non dobbiamo intendere anzitutto la composizione dell'uomo, ma la sua vocazione.
E' questo in effetti ciò che la Bibbia afferma, al di là della sua precisa visione del composto umano: non esiste spaccatura nel disegno di Dio, non esistono due logiche per l'uomo: tutto l'uomo è chiamato a vivere la logica dell'Alleanza, a vivere la logica dell'amore, della solidarietà, a obbedire al Signore. E qui si innesta il secondo grande segnale che l'educazione cristiana deve lanciare all'uomo d'oggi: la possibilità dell'unità e della totalità, aspirazione profonda di ogni uomo, che nella frammentarietà e nel parziale si trova a disagio.
L'unità: il cristiano - nella completa dedizione alla sua vocazione - mostra come ci si possa liberare dalla frammentarietà per vivere una vita unificata e semplificata: l'uomo può trovare un centro attorno al quale le molte cose e le molte esperienze trovano convergenza, senso e coerenza. La condizione è di non vivere per valori effimeri o, più semplicemente, secondari.
E la totalità: la vita cristiana è chiamata a farsi esempio – un esempio visibile e «riuscito» - di come tutta la persona - a partire dal suo centro e dalle sue radici - debba lasciarsi afferrare da un unico movimento, senza distrazioni: un movimento unico che non elimina le molte espressioni della vita, né disdegna di ascoltarne le molte voci, né sottovaluta la complessività delle cose: anzi, dà alle molte cose il loro vero peso (ma solo il loro peso, non oltre) e il loro vero senso.
Un altro tratto della concezione biblica dell'uomo è che l'uomo è fatto per la comunione. La prima comunione che l'uomo va cercando è la comunione con Dio. La lontananza da Dio è la ragione ultima dell'inquietudine dell'uomo, la radice della sua solitudine. L'uomo ha un'insopprimibile nostalgia di Dio, lo sappia o non lo sappia, lo ammetta o lo neghi. E' anzitutto questa passione di Dio il centro che può unificare la vita e impegnare totalmente la persona. Un discorso lungo e importante. Qui però ci basta osservare che questa lettura dell'uomo - che lo vede essenzialmente come ricercatore di Dio - offre una possibilità di spiegazione al fatto che l'uomo si sperimenti sempre sradicato e incompiuto, con una sete sempre più in là di quanto riesca di fatto a ottenere. Né i valori secondari, né - ed è paradosso - i valori essenziali (come la fraternità, l'amore, l'impegno per i fratelli, la stessa presenza di Dio che qui riusciamo a intravedere) lo liberano dalla sua profonda solitudine. La vita cristiana è chiamata a porsi nel mondo come una trasparenza di questa insopprimibile solitudine e, nel contempo, come una sua lettura: nulla soddisfa l'uomo, perché .l'uomo è fatto per Dio, ecco il segnale da lanciare con molta chiarezza. La vita presente dell'uomo è un «assaggio», non ancora la pienezza. Se l'uomo si rinchiude entro la storia presente non trova più la propria spiegazione, non risolve più le proprie antinomie.
Ma c'è anche una seconda comunione, corollario della prima, per cui l'uomo è fatto. L'uomo è una struttura che trova la sua possibilità di movimento, di slancio, di unità e totalità e, dunque, di gioia nello sforzo della comunione fraterna, nella solidarietà, non nella contrapposizione e nella ricerca di sé. Anche questo è un segnale che con chiarezza l'educazione cristiana deve lanciare al mondo.
La maturità e il coraggio del discernimento
E' noto che, mentre i greci concepivano l'universo come un cosmo, cioè come un complesso armonico e coerente, retto da leggi immutabili, la Bibbia lo sente invece come un evento nelle mani dell'azione di Dio. Per il greco è importante scoprire la legge delle cose e uniformarvisi: si tratta di rispettare un ordine fisso, già dato. Per l'ebreo invece entrare nell'ordine delle cose significa rispettare la volontà di un Dio personale, volontà fatta di fedeltà e innovazione: si tratta di uniformarsi a un disegno che è in svolgimento. L'orizzonte della storia è aperto. Non tanto quindi un ordine da conservare, quanto piuttosto un ordine da fare, prolungare, progettare. Non ci si può limitare a rispettare un ordine fisso, perché la storia è aperta verso l'alto (all'intervento di Dio) ed è aperta verso il futuro. Questa è una prima radice del discernimento cristiano. Al cristiano è richiesta non una semplice memoria, ma un discernimento. Il discernimento cristiano è una memoria aperta.
La Bibbia registra una parola di Dio che si è manifestata nella storia: dunque una parola situata. E questo richiede non soltanto ascolto e memoria, ma anche interpretazione e attualizzazione. Occorre discernere fra ciò che è legato al tempo e ciò che è perenne.
La Bibbia registra un discorso di Dio progressivo, a tappe. E anche questo richiede discernimento: cioè distinguere fra le premesse e le conclusioni, fra la logica di fondo che spinge il discorso in avanti e le scorie che via via vengono eliminate.
La Bibbia, infine, trascrive una parola di Dio che si è manifestata attraverso la storia. La parola di Dio è giunta a noi per lo più mediata dall'esperienza e intrecciata alle situazioni storiche. E anche questo richiede discernimento, cioè l'ascolto contemporaneo (e valutativo) della Parola e dei fatti.
Il discorso si ripropone se osserviamo la Rivelazione nella Chiesa. La Chiesa è in tensione verso la pienezza, progredisce nella comprensione della fede, nell'attualizzarla e nel ridirla oggi, nel dedurre le conseguenze per la vita. E così la Rivelazione continua a incarnarsi nelle situazioni storiche che incontra.
Un altro fattore, che ci aiuta a comprendere l'importanza del discernimento, è che il disegno di Dio, pur essendo unitario, non è però uniforme: la chiamata di Dio è una, e insieme molteplice, persino personale.
In proposito può bastarci un'annotazione semplice quanto significativa. La Bibbia indica all'uomo un cammino che va in un'unica direzione, una strada comune, per tutti. Si pensi, ad esempio, al decalogo per l'Antico Testamento e alle beatitudini per il Nuovo. La volontà di Dio è una sola. Tuttavia questo non impedisce che la Bibbia sia tutta percorsa da vocazioni particolari. E gli stessi racconti di chiamata – si tratta di un fatto letterario che però tradisce una profonda realtà teologica ed esistenziale - appaiono sempre un intreccio di tratti fissi, comuni a tutti i racconti, e di tratti individuali e specifici. Dentro l'unico progetto prendono forza molti progetti. E' importante saper discernere la mia personale chiamata dentro l'unica chiamata.
Un condizione necessaria per il discernimento è anche la «fatica delle tensioni». L'esperienza cristiana non è mai priva di tensioni. Giustamente Romano Guardini soleva ricordare che la tensione fra due poli è il nostro modo di aprirci alla complessa realtà di Dio e dell'uomo. Ma vivere la tensione non è cosa facile, richiede maturità umana e cristiana, e fatica. Per esempio, la tensione fra libertà e obbedienza, disciplina e creatività, e tante altre. Più che delimitare ambiti diversi (nell'uno sono libero, nell'altro obbediente), esprimono due poli compresenti e ugualmente importanti. Nessuno dei due poli - per esempio la libertà e la disciplina - può essere lasciato cadere. Questo significa che il discernimento esige la fatica delle tensioni a cui non è lecito sottrarsi né con la pretesa di maggior chiarezza né con la pretesa di maggior coerenza. E ancor meno con la pretesa di schierarsi.
Concludo ricordando la parola di Gesù: «Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello» (Lc 6,24). Togliere la trave dal proprio occhio non è solo questione di coerenza (come osi correggere l'altro, se prima non correggi te stesso?): è una condizione indispensabile per vedere. La pulizia morale è condizione di discernimento. Questo concetto è ripetuto anche in un altro detto di Gesù: «Se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo è nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo è tenebroso» (Mt 6,21-23).
Il discernimento è dono. Diversi, come abbiamo visto, sono i criteri del discernimento, ma nessuno in particolare e nemmeno tutti insieme producono meccanicamente il discernimento. Questo resta sempre, alla fine, un'intuizione ed è dono, opera dello Spirito.
Condizione per discernere è perciò la domanda, la richiesta umile e l'attesa paziente e fiduciosa.
Certo il discernimento - inteso come capacità di scorgere il cammino di Dio nella confusione della storia, o anche come capacità di distinguere la verità di Dio dalle tradizioni degli uomini – richiede tecniche e conoscenze. Ma si direbbe che il Nuovo Testamento non si dilunga su questo aspetto. Preferisce insistere nel ricordarci che il discernimento coinvolge quel centro della personalità, che la Bibbia indica soprattutto col nome di "cuore". Il discernimento è un'operazione morale prima che intellettuale. Le sue condizioni sono la pulizia della coscienza, la libertà interiore, l'apertura al nuovo, la disponibilità alle imprevedibili sorprese della manifestazione di Dio.
Bruno Maggioni