Famiglia Giovani Anziani

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 126

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 65

Mercoledì, 04 Gennaio 2012 20:54

Donne che emigrano, autonome e vulnerabili

Vota questo articolo
(1 Vota)

Duecento milioni: sono, oggi, i migranti nel mondo. Tra essi, circa la metà sono donne: spose, madri, lavoratrici, che sognano una vita migliore - per sé e le famiglie -, ma spesso si trovano di fronte a realtà che differiscono da progetti e speranze. La migrazione femminile si consolida a livello mondiale, coinvolge sempre più paesi di origine, transito e destinazione, richiede di essere affrontata in base alle sue specificità.

L’argomento è stato oggetto di una conferenza internazionale, intitolata "Il volto femminile della migrazione", organizzata da Caritas Internationalis in Senegal, a inizio dicembre, alla presenza di più di cento delegati in rappresentanza di 52 paesi. Le loro testimonianze e i loro ragionamenti hanno confermato che oggi si deve parlare - al plurale - di "volti femminili" della migrazione, fenomeno multidimensionale, che coinvolge aspetti sociali, economici e giuridici, che pone rilevanti sfide. Si tratta, infatti, di proteggere le donne migranti, in quanto soggetti vulnerabili, ma anche di riconoscere il loro ruolo di protagoniste nella lotta alla povertà e nei processi di sviluppo.

 

Cause umanitarie

Per inquadrare la questione, è importante cercare di rispondere ad alcune domande chiave: perché le donne migrano? Quali difficoltà specifiche incontrano? Quali sono i ruoli che assumono nei paesi di destinazione? Quale l'impatto su loro stesse e su ciò che lasciano alle spalle?

Diverse sono le ragioni che spingono sempre più donne a una scelta radicale, che apre una nuova fase nella loro vita, non priva di problemi e difficoltà. il ricongiungimento con altri membri della famiglia, spesso mariti che hanno precedentemente trovato un lavoro all'estero, era la principale ragione di migrazione in passato: oggi si assiste a una progressiva autonomia nella scelta di migrare, alla ricerca di un'istruzione, di un lavoro e di una vita migliore.

Lo ha fatto Maria, originaria dell'Europa dell'est, diploma da infermiera, poche opportunità di lavoro nel suo paese, mezzi insufficienti per mantenere la famiglia e dare una buona istruzione ai tre figli: ha deciso di emigrare in Italia, lavorando dapprima come badante e poi, dopo il corso di lingua per superare le barriere della comunicazione e il riconoscimento del diploma, trovando una buona occupazione e uno stipendio fisso. Una storia a lieto fine, anche se la nostalgia della famiglia, è difficile da sopportare.

Peggio, però, è andata ad altre donne. Khadja, eritrea, ha perso il marito nella carestia del 2009 e incinta, dopo aver venduto le poche cose rimaste, ha contattato qualcuno che potesse aiutarla nel suo progetto di emigrare in Italia dove alcuni parenti lavoravano già: un viaggio un lunghissimo, infernale, attraverso Sudan, Egitto, Libia, nella notte, a piedi, esposta ad attacchi criminali; poi il battello verso l'Italia, un'attraversata senza cibo né acqua potabile, l'arrivo in un centro di accoglienza in Sicilia per essere assistita nel parto. E Aisha, sudanese, una vita segnata dalla morte del marito durante il conflitto in Darfur, nessuna scelta possibile, se non quella di emigrare in Ciad per fuggire a violenze e miseria. Poi l'arrivo nel campo rifugiati: paure, sofferenze, fino al sostegno di alcune organizzazioni che hanno cercato di supportarla per aprire una piccola attività economica, dalla quale trarre di che vivere. E ancora Anne- Marie, rifugiata in Congo durante il conflitto in Ruanda, arriva in Belgio nel 1998: lontana dalla famiglia, una nuova cultura a cui adattarsi, un periodo iniziale molto difficile, le difficoltà di conciliare il lavoro con la vita familiare in un paese straniero, la naturalizzazione ma anche la sensazione di non partecipare veramente alla vita sociale, pur essendo portatrice di competenze e specifiche e alte qualifiche: una donna che si sente un numero, in tasca un documento del paese d'approdo, ma pur sempre straniera.

Gli esempi forniti da queste storie mostrano che le cause di migrazione sono spesso umanitarie: si fugge da un conflitto o da situazioni di estrema povertà, di instabilità economica e politica; e si cerca protezione da persecuzioni e violenze, interne persino alle famiglie di origine.

A fronte delle condizioni politiche, sociali ed economiche che innescano la scelta delle donne di migrare, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, c'è oggi una domanda crescente di manodopera e di lavoro in settori specifici, a cominciare dall'assistenza domestica: tra le cause delle migrazioni, vi sono anche quelle "a valle", relative all'attrazione esercitata dalle opportunità di impiego nei paesi più ricchi.


Occuparsi di due famiglie

Il percorso della migrazione, però, è tutt'altro che facile. Anzi, spesso è tortuoso. E nei lunghi viaggi dal paese di origine a quello di destinazione tante donne finiscono vittime di sfruttamento, o di abusi fisici e psicologici. Silvia, originaria dell'Honduras, ha lasciato la famiglia e la terra natale per emigrare negli Stati Uniti, presso alcuni parenti: senza documenti, con pochi mezzi di sostentamento, ha attraversato Guatemala e Messico. Qui è stata rapita, e la sua famiglia è stata minacciata, per estorcerle denaro; picchiata e maltrattata, la giovane è rimasta nelle mani dei rapitori per tre mesi e rilasciata solo quando questi hanno ottenuto una parte del riscatto. Silvia è tornata in Honduras, traumatizzata fisicamente e psicologicamente. Ma anche le donne che raggiungono i paesi di destinazione in sicurezza, il cammino non è facile: spesso hanno poche garanzie legali, un'insufficiente tutela sanitaria e possono risultare vittime di discriminazioni e di abusi da parte dei datori di lavoro. E poi ci sono le difficoltà economiche, le scarse garanzie dal mercato del lavoro, il ritrovarsi in una cultura completamente diversa. .. ne scaturiscono tante storie di solitudine e isolamento, soprattutto di donne che lavorano come colf e badanti.

In quest'ultimo caso, chiara è la difficoltà del doppio ruolo: da un lato si è donne migranti, che acquistano importanza e rispetto, per ciò che si fa, nei confronti della famiglia di origine; d'altro canto si è lavoratrici cui spesso non vengono riconosciuti, dalla famiglia datrice di lavoro, il rispetto e i diritti dovuti. Un'anomalia sociale, ma anche un contrasto interiore, che tante donne vivono spesso in modo problematico e per cui avrebbero bisogno anche di supporti psicologici, oltre che di assistenza giuridica. Anche perché settore domestico e assistenza familiare sono l'ambito di lavoro in cui le donne sono più impegnate.

Queste donne, in definitiva, si occupano contemporaneamente di due famiglie. E in quella d'origine, cui viene inviata la maggior parte dei guadagni, i problemi non mancano. Alle spalle di una colf immigrata, infatti, ci sono spesso figli piccoli o adolescenti, che crescono in assenza della figura materna: "orfani della mobilità", che magari godono di un tenore di vita più elevato dal punto di vista materiale ed economico, ma pagano un alto costo in termini psicologici, perché non beneficiano della protezione di cui necessiterebbero e acquisiscono troppo in fretta responsabilità da adulti, che alterano le loro relazioni infantili e adolescenziali e spesso li isolano dagli altri coetanei.

Infine, anche per l'emigrazione al femminile rimane elevato, oltre che il tasso di irregolarità, anche quello di lavoro nero: molti mestieri risultano invisibili, le donne sono vittime di assunzioni illegali e di contratti a breve termine senza garanzie, prive di tutela sanitaria e stato sociale, costrette a lavorare per tante ore continuamente, senza riposo e con pochi giorni di ferie all'anno. E questi problemi si ripercuotono sull'integrazione nella comunità di accoglienza, in cui per lungo tempo le donne finiscono per sentirsi sopportate, quando non discriminate.

 

Urge maggiore tutela

Tutti questi problemi non vanno sottovalutati, né elusi. Ma non bisogna dimenticare i numerosi, in tutto il mondo, esempi positivi di integrazione, che testimoniano il valore aggiunto dell'immigrazione al femminile e l'importanza dell'intreccio di culture, storie, tradizioni, percorsi diversi, che le donne riescono a tessere con grande pazienza, tenacia, abilità. Dal fenomeno delle migrazioni femminili deriva dunque, in generale, la conferma che le migrazioni, quindi la mobilità, costituiscono oggi un elemento importante dello sviluppo umano, ma anche l'ammonimento a lavorare, sul piano culturale e politico, affinché tutti comprendano che l'integrazione è un esercizio bilaterale, che spetta sia all'immigrato che alla comunità che lo accoglie.

Anche da questo punto di vista le donne, assai vulnerabili, perché spesso soggette a discriminazioni e privazioni di diritti, quando non vittime del traffico di esseri umani (nuovo capitolo della schiavitù) dovrebbero essere maggiormente tutelate a livello nazionale e internazionale, attraverso strumenti (anche giuridici) comuni e condivisi. Giovanni Paolo II, nella Lettera alle donne del 1995, ha scritto che proprio alle donne deve essere restituito il pieno rispetto della loro dignità e del loro ruolo: urge promuovere politiche e comportamenti che realizzino l'effettiva uguaglianza dei diritti delle persone. Si tratta di un atto di giustizia, ma anche di una necessità ineludibile in un'epoca in cui il ruolo sociale delle donne si va facendo sempre più esposto, ma anche più cruciale per uno sviluppo equo, equilibrato, autenticamente sostenibile. 

 

 

Moira Monacelli

Letto 2803 volte Ultima modifica il Mercoledì, 02 Maggio 2012 09:37

Search