Famiglia Giovani Anziani

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 66

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 65

Giovedì, 30 Dicembre 2004 21:01

C'era una volta Socrate - Francesco e Guido Ghia -

Vota questo articolo
(0 Voti)

  C’era una volta Socrate…

Riflessioni su secolarizzazione e problemi del senso

Prima parte

- La domanda sul senso della vita viene spesso rimossa con fastidio; eppure, questa domanda, che è "religiosa", è tutt’altro che inattuale.

- L’esperienza dello smarrimento nella società secolarizzata, quale si è sviluppata con la genesi del del mondo moderno.

- La scissione tra ragione e sentimento e il nuovo ruolo della religione nel contesto delle difficoltà delle fedi storiche.

- La percezione del sacro e la fuga nell’irrazionale.

- L’arte dell’ascolto e del dialogo come strumento per affrontare l’odierna crisi di senso.

- Una domanda per concludere: causa della crisi delle chiese non sarà anche, in parte, che al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

C’era una volta un uomo di nome Socrate. Andava in giro per le strade della sua città, Atene, poneva domande ai passanti e volentieri si lasciava, a sua volta, interrogare. Nei suoi dialoghi parlava del bene e del male, dell’amore, del bello, in ultima istanza del senso della vita e di come aiutare gli uomini a scoprirlo. Era un uomo "scomodo"; fece, come si suol dire, una brutta fine.

Troverebbe oggi persone più tolleranti con lui? C’è di che dubitarne. In fondo, presi come siamo dalla convulsione dei giorni, pensiamo tutti di avere cose più serie e più importanti da fare che stare a dialogare sul senso della vita. Anzi forse lo stesso signor Socrate si cercherebbe oggi un’ occupazione più utile e produttiva e eviterebbe di "bighellonare" tutto il giorno, facendo "cricca" con gli amici e importunando i malcapitati passanti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Seconda parte

LA SECOLARIZZAZIONE COME DATO CULTURALE

La domanda sul senso della vita viene dunque, da molti nostri contemporanei, rimossa con malcelato fastidio. Eppure l’inquietudine e l’insoddisfazione che ciascuno di noi avverte presente negli ambienti in cui vive dimostrano che quella domanda è tutt’altro che inattuale. Sorge quindi il sospetto che tale domanda venga rimossa non perché non interessi, ma perché si prova angoscia di fronte all’incapacità di darvi risposta. Ci si sente infatti smarriti, si brancola letteralmente nel buio.

Si avverte il bisogno di un orientamento. Forse è meglio rettificare: in questo caso, un Socrate servirebbe!

A complicare ulteriormente le cose, c’è poi il fatto che, come ci dicono i sociologi, viviamo oggi in una società frammentata, iperspecializzata nelle suddivisioni delle competenze sociali e lavorative, in una parola individualistica. Una società che, insomma, ha perso i suoi punti di riferimento unificanti. Un tempo, questi punti di riferimento venivano, tra gli altri, assicurati dalla religione, la quale, con i suoi riti e le sue proposizioni di fede, forniva a tutti, indistintamente, dall’uomo più colto a quello più umile, un "ombrello" sufficiente per ripararsi dalle tempeste della vita.

In questo contesto, anche la domanda sul senso della vita, che è poi la domanda religiosa per eccellenza, anzi, come vedremo, la domanda stessa a partire dalla quale sorge il bisogno di una religione, trovava un rifugio sicuro.

L’uomo però che grazie all’Illuminismo, si è scoperto "maggiorenne" e quindi in grado di confidare nelle possibilità più o meno illimitate della propria ragione, non ha disdegnato di relegare spesso la religione nello spazio della superstizione, della magia e ha così potuto credere di riuscire meglio a rispondere a quella domanda con i mezzi positivi e tangibili della scienza e della tecnica che non con quelli astratti della religione. Il mondo si è così, per usare l’espressione di Max Weber, "disincantato", è uscito cioè dall’incanto della magia nella quale l’aveva fatto cadere la religione, e la società si è "secolarizzata", si è profilata cioè in un orizzonte non più trascendente, bensì totalmente intramondano.

Naturalmente, non si vuol dire, con questa diagnosi, che il processo di secolarizzazione sia, in sé e per sé, qualcosa di negativo. Non va dimenticato, infatti, che è anche grazie alla secolarizzazione che hanno potuto svilupparsi alcuni principi del mondo moderno che la nostra cultura ritiene oggi fondanti e irrinunciabili.

L’inalienabilità dei diritti umani, fondata sul riconoscimento della libertà e della dignità di ogni essere umano, indipendentemente da qualsiasi appartenenza di razza, casta, chiesa, ecc., la chiara distinzione dei compiti e delle sfere di influenza tra lo stato e la chiesa, e quindi la nascita dello stato moderno sulla base della aconfessionalità, del pluralismo e della tolleranza (quella multiculturalità che nel contesto odierno è diventata quasi una parola d’ordine) lo sviluppo di una cultura democratica e della partecipazione politica alla vita pubblica, il riconoscimento della reciproca autonomia tra la sfera etica e la sfera religiosa, sono tutti in qualche modo effetti tangibili e positivi di quel processo di secolarizzazione avviatosi con la genesi del mondo moderno.

Su questo punto conviene essere chiari: la nostalgia di un mondo pre-secolarizzato reca in sé il rischio del fondamentalismo, di una visione "teocratica" e medievale del mondo che al pluralismo dei valori sostituisce l’assolutezza di un’unica verità che deve essere imposta a tutti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Terza parte

L’AMBIVALENZA DELLA SOCIETÀ SECOLARIZZATA

Tuttavia, se anche si sottolineano gli aspetti innovativi, dal punto di vista culturale, del processo di secolarizzazione, non si può comunque tacere il risvolto della medaglia.

La grande opportunità offerta dalla "scoperta" del principio moderno di individualità si è infatti molto spesso tradotta in un imperante individualismo; la conquista della libertà e la progressiva emancipazione della scienza hanno portato non di rado a deliri di onnipotenza; il pluralismo dei valori si è talvolta tradotto in un sostanziale relativismo o indifferentismo, dando così ospitalità anche alla presenza inquietante del nichilismo, della negazione cioè della stessa realtà del valore in sé. Da questo ultimo versante, il novecento appena conclusosi non è stato certo avaro di tragici esempi!

Sono, questi, aspetti reali del processo di secolarizzazione che non vanno trascurati, e nei quali invero ci si imbatte, come sfida, ogniqualvolta si affronta la domanda del senso; sono anzi proprio tali aspetti a rendere così problematica una simile domanda nel contesto della società attuale.

Ora però, l’ambivalenza della società odierna esaminata sotto il profilo della secolarizzazione non fa in fondo che rispecchiare la diagnosi che già nel diciannovesimo secolo il filosofo Hegel formulava a proposito dell’Illuminismo: quest’epoca storica, egli diceva, è caratterizzata da una scissione, dalla divisione tra il sentimento, cioè il dominio dell’interiorità , e l’intelletto, cioè il dominio della ragione comprendente e calcolante.

L’unica realtà in grado di risanare e conciliare questa scissione è per Hegel la filosofia, che infatti contiene e supera entrambi gli ambiti, e cioè sia interiorità che ragione.

Per il nostro tema, però, ancora più interessante è la disamina di un contemporaneo di Hagel, Schleiermacher, il quale, assumendo per buona una diagnosi per molti versi analoga, perveniva a trovare una riconciliazione tra questi due ambiti non nella filosofia, ma in un nuovo concetto di religione.

Vale allora la pena provare brevemente ad attualizzare la sua analisi, perché ci pare che oggi possa essere ancora di qualche utilità.

Che cos’è infatti la religione? Schleiermacher dà al proposito una duplice risposta: da un lato, essa è l’intuizione immediata dell’Universo, cioè di una realtà immensa che sovrasta e trascende la finitezza dell’uomo: dall’altro, è il sentimento, che l’uomo avverte nella sua coscienza, di una dipendenza assoluta da questa realtà trascendente, per cui l’uomo, che con la sua sola ragione non riesce ad afferrare e comprendere quella Trascendenza, può però "sentirla", percepirla e intuirla come intimamente presente nell’intimo della propria coscienza.

In questo modo, per esemplificare il tutto con un’ immagine, l’invocazione e la domanda che salgono dall’interiorità dell’uomo verso questa Trascendenza, ritornano a lui, per così dire, sotto forma di ispirazione, quella ispirazione che non solo si rivela negli impulsi geniali delle grandi personalità artistiche o negli slanci mistici delle grandi personalità religiose, bensì anche nella determinazione quotidiana con la quale ciascuno di noi affronta e risolve le questioni della vita.

Grazie all’ispirazione, il senso religioso, vale a dire la capacità umana di percepire nella propria interiorità questa dinamica della Trascendenza, può dunque finalmente dischiudere anche la possibilità di articolare una risposta alla domanda sul senso della vita.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quarta parte

TRA SECOLARIZZAZIONE E CRISI DI SENSO

Le due diagnosi qui sommariamente presentate, applicate ai giorni nostri, ci rendono evidente un dato: che il processo di secolarizzazione della società, per quanto diffuso, non è però riuscito a trovare un sostituto adeguato della religione.

Tale processo ha infatti riguardato le strutture sociali e istituzionali della religione (è una realtà sotto gli occhi di tutti, per esempio, che le chiese progressivamente si svuotano e che, con l’emergere di una maggiore concorrenzialità nelle proposte di stili di vita diversi, diminuisce la pratica consapevole dei sacramenti), tuttavia l’elemento religioso, ossia la religione intesa come un modo e una struttura autonoma della coscienza (A.Caracciolo), non è scomparso, ma persiste proprio nella forma dell’invocazione e della domanda di senso ¡ pur se è innegabile che la crisi delle forme tradizionali e storiche di articolazione sociale della religione porta insieme con sé, come già abbiamo accennato, un maggiore smarrimento di fronte a questa domanda.

Nondimeno, è proprio una simile domanda a qualificare lo spazio della religione, o, per meglio dire, del religioso: è infatti esperienza comune che la domanda sul senso della vita può essere sì rimossa ¡ si può cioè, intenzionalmente, ignorarla, non volerne sapere -, tuttavia non può essere soppressa , e prima o poi, per esempio nell’esperienza dell’angoscia, del dubbio, delle notti insonni, essa torna prepotentemente ad esigere e riprendersi il suo spazio.

Ed è appunto questo spazio, che è universale, perché si dischiude strutturalmente e autonomamente in ogni uomo, indipendentemente dalla sua posizione intellettuale nei confronti del problema "fede", a poter e dover essere denominato come religioso. La religione è cioè lo spazio nel quale si articolano le domande e le inquietudini relative al senso ultimo da attribuire all’origine, alla finalità e alla destinazione dell’esistenza del singolo e del mondo.

Ora, l’idea ottimistica che la scienza, le nuove tecnologie, il processo di costante razionalizzazione del contesto sociale, potessero da soli dare risposta a tutti i bisogni dell’uomo e soddisfare così tutte le sue domande e i suoi interrogativi esistenziali, si è rivelata, come già abbiamo anticipato, una drammatica illusione.

La società della comunicazione avanzata si dimostra sempre più, infatti, come una società in cui dominano le solitudini e l’incomunicabilità, poiché alla possibilità di comunicazione, apparentemente sempre più vasta, non sembra far adeguatamente seguito un’autentica condivisione di esperienze esistenziali significative. D’altro canto, al dovere della felicità predicato senza posa dai messaggi pubblicitari sembra fare da contrappunto il diffondersi della depressione, che molti medici non esitano a definire il vero male del nostro tempo.

Da una parte quindi la società, anche grazie al processo di secolarizzazione, sembra fornire all’uomo d’oggi strumenti razionali e tecnici sempre più sofisticati che dovrebbero essere in grado di aiutarlo ad affrontare e dominare anche le situazioni più difficili dell’esistenza: dall’altra, però, ciò avviene in maniera insoddisfacente, giacchè il singolo avverte , nella propria coscienza, che c’è un ambito ¡ costituito per esempio proprio dalle sue domande ed inquietudini esistenziali ¡ che quegli strumenti razionali e tecnici non riescono a soddisfare pienamente o, anzi, trascurano del tutto.

Una conseguenza di questa odierna scissione tra le aspirazioni della società e i bisogni del singolo si mostra poi chiaramente in quel fenomeno della fuga nell’ irrazionalità che è indubbiamente un dato caratteristico del nostro tempo.

L’attenzione talvolta addirittura morbosa riservata agli oroscopi o alle previsioni del futuro, il proliferare di maghi, guaritori, visionari e sensitivi di ogni specie, il ricorso crescente alle cosiddette "medicine alternative" che, pur prive spesso di plausibilità scientifica, si impongono però in nome di una presunta armonia con l’ordine cosmico dell’universo, le pratiche salutiste e "neo-mistiche " dei movimenti religiosi facenti capo alla cosiddetta "new age" e il riporre speranze di benessere e di guadagno nelle lotterie o nei giochi di casualità, sono tutti ¡ ciascuno a suo modo ¡ segnali evidenti di un’irrazionalità che si afferma ormai come l’autentico volto di Giano della odierna civiltà tecnologica.

La secolarizzazione si fondava allora sul presupposto del disincanto, della liberazione dalla magia, il suo imporsi non è però riuscito a evitare che l’uomo, per trovare risposta alla propria insoddisfazione, faccia oggi ancora ricorso, in ultima istanza, a forme di irrazionalità talora ammantate di un alone magico-esoterico.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quinta parte

L’ESPERIENZA DEL SACRO E DELL’IRRAZIONALE

 D’altronde, a confermare la constatazione che l’elemento irrazionale gioca comunque un ruolo di primo piano nella determinazione del religioso, basterebbe ricordare le fortunate e classiche ricerche sulla fenomenologia del sacro del teologo tedesco Rudolf Otto, che infatti dava al suo libro del 1917 "Il sacro" il sottotitolo : "Sull’irrazionale nell’idea del divino e sul suo rapporto con il razionale".

Certo, per Otto, irrazionale significava in prima battuta non qualcosa di necessariamente antitetico alla ragione e alla logica, bensì l’eccedenza di questo elemento rispetto al razionale, e con ciò egli segnalava anche che, tra le esperienze umane, non tutto può essere ricondotto a un rigido schema di razionalità. I vari movimenti dell’esperienza del sacro rivelano infatti alla ragione dell’uomo un sentimento di creaturalità, cioè il fatto che la nostra vita, posta di fronte agli abissi del mistero e della trascendenza, che atterriscono e affascinano a un tempo, fa l’esperienza della propria incompiutezza e, conseguentemente, della incomparabile maestà e radicale diversità (inafferrabile con i mezzi limitati della ragione) di questa stessa trascendenza.

L’analisi di Rudolf Otto è ancora oggi di attualità nella misura in cui questa dimensione del sacro non viene identificata tout court con la religione, ma, a ben guardare, ne costituisce solo un primo elemento: la religione infatti non si accontenta soltanto del momento psicologico del terrore e del fascino di fronte al mistero e quindi del sentimento di piccolezza e timidezza dell’uomo avvertito al cospetto della trascendenza, bensì vuole già anche contenere in sé il momento attivo della assunzione di responsabilità nei confronti della trascendenza e del mondo.

La religione implica cioè anche e sempre la dimensione della fede, quale che sia la figura storica e concreta che a questa dimensione si vorrà attribuire (e ciò vale, si badi bene, anche per l’ateo, giacchè l’ateo che abbia seriamente affrontato nella sua cosienza il problema religioso, ha pur dovuto assumere alla fine una decisione rispetto a tale problema e risolversi così, magari, per una fede "politica" o "antropologica" o "filosofica", che, certamente diverse dalla fede "religiosa", restano comunque una figura della fede).

Con ciò, ci pare si possa cominciare a delineare un quadro più preciso per tentare di affrontare la fuga nell’irrazionalità e la crisi di senso della società odierna.

Ne va cioè della ricerca di una via per riconciliare il momento della razionalità con quello del sentimento, le due dimensioni che, come abbiamo visto fin qui, paiono essere le "colonne d’Ercole" della riflessione sul senso della vita.

Due termini, oggi molto in voga, assumono in questo contesto un significato pregnante: discorso e esperienza. Al di là della banalizzazione di cui essi sono spesso fatti oggetto nel linguaggio quotidiano (oggi tutto finisce per essere "discorso" ed "esperienza", anche ciò che, in verità, non è né oggetto di dialogo, né frutto di esperienza vissuta!), si tratta in realtà di due termini molto importanti che, concretamente, rimandano a una realtà fondamentale: in ogni discorso autentico viene cioè sempre presupposto l’incontro tra qualcuno che parla, e presenta così una sua esperienza di vita, e qualcuno che ascolta, e che, nell’ascolto, traduce nel proprio linguaggio l’esperienza di vita che gli viene comunicata. E tradurre nel proprio linguaggio significa: mettere a confronto quell’esperienza con la propria.

Ora è precisamente in questa dinamica del dialogo che può emergere lo spazio anche per una risposta individuale alla domanda sul senso.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Sesta parte

L’ARTE DI ASCOLTARE E DIALOGARE

A ben guardare, però, la dinamica del dialogo qui descritta non è nulla di diverso da ciò che già faceva il "nostro" Socrate, il quale, con la tecnica della cosiddetta "maieutica", aiutava l’interlocutore a trovare in se stesso le risposte ai quesiti che gli formulava.

Ora tutto ciò contiene anche per noi, oggi, un profondo insegnamento: se si vogliono davvero trovare gli strumenti per una risposta all’odierna crisi di senso, occorre recuperare la disponibilità al dialogo, all’ascolto e alla condivisione delle esperienze che sorgono nell’interiorità dell’uomo. E nessuno può negare ¡ crediamo ¡ che la religione resta in questo contesto una dimensione insostituibile. Infatti, la religione, in quanto sorge dal sentimento, ha a che fare, come suo luogo rivelativo, con l’interiorità del singolo e, al tempo stesso, traducendosi nelle forme sociali del rito e del culto, vuole comunicare e condividere, nell’assemblea e nella festa comunitaria, i contenuti esperiti e vissuti in questa stessa interiorità.

Ci sia però consentito, al termine di queste riflessioni, chiudere con un dubbio: non sarà che, a fronte della sopravvivenza del fenomeno religioso nel quadro di una società secolarizzata, le forme tradizionali di aggregazione ecclesiale vivono invece una profonda crisi, anche perché al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

Riflessioni su secolarizzazione e problemi del senso

Prima parte

- La domanda sul senso della vita viene spesso rimossa con fastidio; eppure, questa domanda, che è "religiosa", è tutt’altro che inattuale.

- L’esperienza dello smarrimento nella società secolarizzata, quale si è sviluppata con la genesi del del mondo moderno.

- La scissione tra ragione e sentimento e il nuovo ruolo della religione nel contesto delle difficoltà delle fedi storiche.

- La percezione del sacro e la fuga nell’irrazionale.

- L’arte dell’ascolto e del dialogo come strumento per affrontare l’odierna crisi di senso.

- Una domanda per concludere: causa della crisi delle chiese non sarà anche, in parte, che al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

C’era una volta un uomo di nome Socrate. Andava in giro per le strade della sua città, Atene, poneva domande ai passanti e volentieri si lasciava, a sua volta, interrogare. Nei suoi dialoghi parlava del bene e del male, dell’amore, del bello, in ultima istanza del senso della vita e di come aiutare gli uomini a scoprirlo. Era un uomo "scomodo"; fece, come si suol dire, una brutta fine.

Troverebbe oggi persone più tolleranti con lui? C’è di che dubitarne. In fondo, presi come siamo dalla convulsione dei giorni, pensiamo tutti di avere cose più serie e più importanti da fare che stare a dialogare sul senso della vita. Anzi forse lo stesso signor Socrate si cercherebbe oggi un’ occupazione più utile e produttiva e eviterebbe di "bighellonare" tutto il giorno, facendo "cricca" con gli amici e importunando i malcapitati passanti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Seconda parte

LA SECOLARIZZAZIONE COME DATO CULTURALE

La domanda sul senso della vita viene dunque, da molti nostri contemporanei, rimossa con malcelato fastidio. Eppure l’inquietudine e l’insoddisfazione che ciascuno di noi avverte presente negli ambienti in cui vive dimostrano che quella domanda è tutt’altro che inattuale. Sorge quindi il sospetto che tale domanda venga rimossa non perché non interessi, ma perché si prova angoscia di fronte all’incapacità di darvi risposta. Ci si sente infatti smarriti, si brancola letteralmente nel buio.

Si avverte il bisogno di un orientamento. Forse è meglio rettificare: in questo caso, un Socrate servirebbe!

A complicare ulteriormente le cose, c’è poi il fatto che, come ci dicono i sociologi, viviamo oggi in una società frammentata, iperspecializzata nelle suddivisioni delle competenze sociali e lavorative, in una parola individualistica. Una società che, insomma, ha perso i suoi punti di riferimento unificanti. Un tempo, questi punti di riferimento venivano, tra gli altri, assicurati dalla religione, la quale, con i suoi riti e le sue proposizioni di fede, forniva a tutti, indistintamente, dall’uomo più colto a quello più umile, un "ombrello" sufficiente per ripararsi dalle tempeste della vita.

In questo contesto, anche la domanda sul senso della vita, che è poi la domanda religiosa per eccellenza, anzi, come vedremo, la domanda stessa a partire dalla quale sorge il bisogno di una religione, trovava un rifugio sicuro.

L’uomo però che grazie all’Illuminismo, si è scoperto "maggiorenne" e quindi in grado di confidare nelle possibilità più o meno illimitate della propria ragione, non ha disdegnato di relegare spesso la religione nello spazio della superstizione, della magia e ha così potuto credere di riuscire meglio a rispondere a quella domanda con i mezzi positivi e tangibili della scienza e della tecnica che non con quelli astratti della religione. Il mondo si è così, per usare l’espressione di Max Weber, "disincantato", è uscito cioè dall’incanto della magia nella quale l’aveva fatto cadere la religione, e la società si è "secolarizzata", si è profilata cioè in un orizzonte non più trascendente, bensì totalmente intramondano.

Naturalmente, non si vuol dire, con questa diagnosi, che il processo di secolarizzazione sia, in sé e per sé, qualcosa di negativo. Non va dimenticato, infatti, che è anche grazie alla secolarizzazione che hanno potuto svilupparsi alcuni principi del mondo moderno che la nostra cultura ritiene oggi fondanti e irrinunciabili.

L’inalienabilità dei diritti umani, fondata sul riconoscimento della libertà e della dignità di ogni essere umano, indipendentemente da qualsiasi appartenenza di razza, casta, chiesa, ecc., la chiara distinzione dei compiti e delle sfere di influenza tra lo stato e la chiesa, e quindi la nascita dello stato moderno sulla base della aconfessionalità, del pluralismo e della tolleranza (quella multiculturalità che nel contesto odierno è diventata quasi una parola d’ordine) lo sviluppo di una cultura democratica e della partecipazione politica alla vita pubblica, il riconoscimento della reciproca autonomia tra la sfera etica e la sfera religiosa, sono tutti in qualche modo effetti tangibili e positivi di quel processo di secolarizzazione avviatosi con la genesi del mondo moderno.

Su questo punto conviene essere chiari: la nostalgia di un mondo pre-secolarizzato reca in sé il rischio del fondamentalismo, di una visione "teocratica" e medievale del mondo che al pluralismo dei valori sostituisce l’assolutezza di un’unica verità che deve essere imposta a tutti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Terza parte

L’AMBIVALENZA DELLA SOCIETÀ SECOLARIZZATA

Tuttavia, se anche si sottolineano gli aspetti innovativi, dal punto di vista culturale, del processo di secolarizzazione, non si può comunque tacere il risvolto della medaglia.

La grande opportunità offerta dalla "scoperta" del principio moderno di individualità si è infatti molto spesso tradotta in un imperante individualismo; la conquista della libertà e la progressiva emancipazione della scienza hanno portato non di rado a deliri di onnipotenza; il pluralismo dei valori si è talvolta tradotto in un sostanziale relativismo o indifferentismo, dando così ospitalità anche alla presenza inquietante del nichilismo, della negazione cioè della stessa realtà del valore in sé. Da questo ultimo versante, il novecento appena conclusosi non è stato certo avaro di tragici esempi!

Sono, questi, aspetti reali del processo di secolarizzazione che non vanno trascurati, e nei quali invero ci si imbatte, come sfida, ogniqualvolta si affronta la domanda del senso; sono anzi proprio tali aspetti a rendere così problematica una simile domanda nel contesto della società attuale.

Ora però, l’ambivalenza della società odierna esaminata sotto il profilo della secolarizzazione non fa in fondo che rispecchiare la diagnosi che già nel diciannovesimo secolo il filosofo Hegel formulava a proposito dell’Illuminismo: quest’epoca storica, egli diceva, è caratterizzata da una scissione, dalla divisione tra il sentimento, cioè il dominio dell’interiorità , e l’intelletto, cioè il dominio della ragione comprendente e calcolante.

L’unica realtà in grado di risanare e conciliare questa scissione è per Hegel la filosofia, che infatti contiene e supera entrambi gli ambiti, e cioè sia interiorità che ragione.

Per il nostro tema, però, ancora più interessante è la disamina di un contemporaneo di Hagel, Schleiermacher, il quale, assumendo per buona una diagnosi per molti versi analoga, perveniva a trovare una riconciliazione tra questi due ambiti non nella filosofia, ma in un nuovo concetto di religione.

Vale allora la pena provare brevemente ad attualizzare la sua analisi, perché ci pare che oggi possa essere ancora di qualche utilità.

Che cos’è infatti la religione? Schleiermacher dà al proposito una duplice risposta: da un lato, essa è l’intuizione immediata dell’Universo, cioè di una realtà immensa che sovrasta e trascende la finitezza dell’uomo: dall’altro, è il sentimento, che l’uomo avverte nella sua coscienza, di una dipendenza assoluta da questa realtà trascendente, per cui l’uomo, che con la sua sola ragione non riesce ad afferrare e comprendere quella Trascendenza, può però "sentirla", percepirla e intuirla come intimamente presente nell’intimo della propria coscienza.

In questo modo, per esemplificare il tutto con un’ immagine, l’invocazione e la domanda che salgono dall’interiorità dell’uomo verso questa Trascendenza, ritornano a lui, per così dire, sotto forma di ispirazione, quella ispirazione che non solo si rivela negli impulsi geniali delle grandi personalità artistiche o negli slanci mistici delle grandi personalità religiose, bensì anche nella determinazione quotidiana con la quale ciascuno di noi affronta e risolve le questioni della vita.

Grazie all’ispirazione, il senso religioso, vale a dire la capacità umana di percepire nella propria interiorità questa dinamica della Trascendenza, può dunque finalmente dischiudere anche la possibilità di articolare una risposta alla domanda sul senso della vita.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quarta parte

TRA SECOLARIZZAZIONE E CRISI DI SENSO

Le due diagnosi qui sommariamente presentate, applicate ai giorni nostri, ci rendono evidente un dato: che il processo di secolarizzazione della società, per quanto diffuso, non è però riuscito a trovare un sostituto adeguato della religione.

Tale processo ha infatti riguardato le strutture sociali e istituzionali della religione (è una realtà sotto gli occhi di tutti, per esempio, che le chiese progressivamente si svuotano e che, con l’emergere di una maggiore concorrenzialità nelle proposte di stili di vita diversi, diminuisce la pratica consapevole dei sacramenti), tuttavia l’elemento religioso, ossia la religione intesa come un modo e una struttura autonoma della coscienza (A.Caracciolo), non è scomparso, ma persiste proprio nella forma dell’invocazione e della domanda di senso ¡ pur se è innegabile che la crisi delle forme tradizionali e storiche di articolazione sociale della religione porta insieme con sé, come già abbiamo accennato, un maggiore smarrimento di fronte a questa domanda.

Nondimeno, è proprio una simile domanda a qualificare lo spazio della religione, o, per meglio dire, del religioso: è infatti esperienza comune che la domanda sul senso della vita può essere sì rimossa ¡ si può cioè, intenzionalmente, ignorarla, non volerne sapere -, tuttavia non può essere soppressa , e prima o poi, per esempio nell’esperienza dell’angoscia, del dubbio, delle notti insonni, essa torna prepotentemente ad esigere e riprendersi il suo spazio.

Ed è appunto questo spazio, che è universale, perché si dischiude strutturalmente e autonomamente in ogni uomo, indipendentemente dalla sua posizione intellettuale nei confronti del problema "fede", a poter e dover essere denominato come religioso. La religione è cioè lo spazio nel quale si articolano le domande e le inquietudini relative al senso ultimo da attribuire all’origine, alla finalità e alla destinazione dell’esistenza del singolo e del mondo.

Ora, l’idea ottimistica che la scienza, le nuove tecnologie, il processo di costante razionalizzazione del contesto sociale, potessero da soli dare risposta a tutti i bisogni dell’uomo e soddisfare così tutte le sue domande e i suoi interrogativi esistenziali, si è rivelata, come già abbiamo anticipato, una drammatica illusione.

La società della comunicazione avanzata si dimostra sempre più, infatti, come una società in cui dominano le solitudini e l’incomunicabilità, poiché alla possibilità di comunicazione, apparentemente sempre più vasta, non sembra far adeguatamente seguito un’autentica condivisione di esperienze esistenziali significative. D’altro canto, al dovere della felicità predicato senza posa dai messaggi pubblicitari sembra fare da contrappunto il diffondersi della depressione, che molti medici non esitano a definire il vero male del nostro tempo.

Da una parte quindi la società, anche grazie al processo di secolarizzazione, sembra fornire all’uomo d’oggi strumenti razionali e tecnici sempre più sofisticati che dovrebbero essere in grado di aiutarlo ad affrontare e dominare anche le situazioni più difficili dell’esistenza: dall’altra, però, ciò avviene in maniera insoddisfacente, giacchè il singolo avverte , nella propria coscienza, che c’è un ambito ¡ costituito per esempio proprio dalle sue domande ed inquietudini esistenziali ¡ che quegli strumenti razionali e tecnici non riescono a soddisfare pienamente o, anzi, trascurano del tutto.

Una conseguenza di questa odierna scissione tra le aspirazioni della società e i bisogni del singolo si mostra poi chiaramente in quel fenomeno della fuga nell’ irrazionalità che è indubbiamente un dato caratteristico del nostro tempo.

L’attenzione talvolta addirittura morbosa riservata agli oroscopi o alle previsioni del futuro, il proliferare di maghi, guaritori, visionari e sensitivi di ogni specie, il ricorso crescente alle cosiddette "medicine alternative" che, pur prive spesso di plausibilità scientifica, si impongono però in nome di una presunta armonia con l’ordine cosmico dell’universo, le pratiche salutiste e "neo-mistiche " dei movimenti religiosi facenti capo alla cosiddetta "new age" e il riporre speranze di benessere e di guadagno nelle lotterie o nei giochi di casualità, sono tutti ¡ ciascuno a suo modo ¡ segnali evidenti di un’irrazionalità che si afferma ormai come l’autentico volto di Giano della odierna civiltà tecnologica.

La secolarizzazione si fondava allora sul presupposto del disincanto, della liberazione dalla magia, il suo imporsi non è però riuscito a evitare che l’uomo, per trovare risposta alla propria insoddisfazione, faccia oggi ancora ricorso, in ultima istanza, a forme di irrazionalità talora ammantate di un alone magico-esoterico.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quinta parte

L’ESPERIENZA DEL SACRO E DELL’IRRAZIONALE

 D’altronde, a confermare la constatazione che l’elemento irrazionale gioca comunque un ruolo di primo piano nella determinazione del religioso, basterebbe ricordare le fortunate e classiche ricerche sulla fenomenologia del sacro del teologo tedesco Rudolf Otto, che infatti dava al suo libro del 1917 "Il sacro" il sottotitolo : "Sull’irrazionale nell’idea del divino e sul suo rapporto con il razionale".

Certo, per Otto, irrazionale significava in prima battuta non qualcosa di necessariamente antitetico alla ragione e alla logica, bensì l’eccedenza di questo elemento rispetto al razionale, e con ciò egli segnalava anche che, tra le esperienze umane, non tutto può essere ricondotto a un rigido schema di razionalità. I vari movimenti dell’esperienza del sacro rivelano infatti alla ragione dell’uomo un sentimento di creaturalità, cioè il fatto che la nostra vita, posta di fronte agli abissi del mistero e della trascendenza, che atterriscono e affascinano a un tempo, fa l’esperienza della propria incompiutezza e, conseguentemente, della incomparabile maestà e radicale diversità (inafferrabile con i mezzi limitati della ragione) di questa stessa trascendenza.

L’analisi di Rudolf Otto è ancora oggi di attualità nella misura in cui questa dimensione del sacro non viene identificata tout court con la religione, ma, a ben guardare, ne costituisce solo un primo elemento: la religione infatti non si accontenta soltanto del momento psicologico del terrore e del fascino di fronte al mistero e quindi del sentimento di piccolezza e timidezza dell’uomo avvertito al cospetto della trascendenza, bensì vuole già anche contenere in sé il momento attivo della assunzione di responsabilità nei confronti della trascendenza e del mondo.

La religione implica cioè anche e sempre la dimensione della fede, quale che sia la figura storica e concreta che a questa dimensione si vorrà attribuire (e ciò vale, si badi bene, anche per l’ateo, giacchè l’ateo che abbia seriamente affrontato nella sua cosienza il problema religioso, ha pur dovuto assumere alla fine una decisione rispetto a tale problema e risolversi così, magari, per una fede "politica" o "antropologica" o "filosofica", che, certamente diverse dalla fede "religiosa", restano comunque una figura della fede).

Con ciò, ci pare si possa cominciare a delineare un quadro più preciso per tentare di affrontare la fuga nell’irrazionalità e la crisi di senso della società odierna.

Ne va cioè della ricerca di una via per riconciliare il momento della razionalità con quello del sentimento, le due dimensioni che, come abbiamo visto fin qui, paiono essere le "colonne d’Ercole" della riflessione sul senso della vita.

Due termini, oggi molto in voga, assumono in questo contesto un significato pregnante: discorso e esperienza. Al di là della banalizzazione di cui essi sono spesso fatti oggetto nel linguaggio quotidiano (oggi tutto finisce per essere "discorso" ed "esperienza", anche ciò che, in verità, non è né oggetto di dialogo, né frutto di esperienza vissuta!), si tratta in realtà di due termini molto importanti che, concretamente, rimandano a una realtà fondamentale: in ogni discorso autentico viene cioè sempre presupposto l’incontro tra qualcuno che parla, e presenta così una sua esperienza di vita, e qualcuno che ascolta, e che, nell’ascolto, traduce nel proprio linguaggio l’esperienza di vita che gli viene comunicata. E tradurre nel proprio linguaggio significa: mettere a confronto quell’esperienza con la propria.

Ora è precisamente in questa dinamica del dialogo che può emergere lo spazio anche per una risposta individuale alla domanda sul senso.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Sesta parte

L’ARTE DI ASCOLTARE E DIALOGARE

A ben guardare, però, la dinamica del dialogo qui descritta non è nulla di diverso da ciò che già faceva il "nostro" Socrate, il quale, con la tecnica della cosiddetta "maieutica", aiutava l’interlocutore a trovare in se stesso le risposte ai quesiti che gli formulava.

Ora tutto ciò contiene anche per noi, oggi, un profondo insegnamento: se si vogliono davvero trovare gli strumenti per una risposta all’odierna crisi di senso, occorre recuperare la disponibilità al dialogo, all’ascolto e alla condivisione delle esperienze che sorgono nell’interiorità dell’uomo. E nessuno può negare ¡ crediamo ¡ che la religione resta in questo contesto una dimensione insostituibile. Infatti, la religione, in quanto sorge dal sentimento, ha a che fare, come suo luogo rivelativo, con l’interiorità del singolo e, al tempo stesso, traducendosi nelle forme sociali del rito e del culto, vuole comunicare e condividere, nell’assemblea e nella festa comunitaria, i contenuti esperiti e vissuti in questa stessa interiorità.

Ci sia però consentito, al termine di queste riflessioni, chiudere con un dubbio: non sarà che, a fronte della sopravvivenza del fenomeno religioso nel quadro di una società secolarizzata, le forme tradizionali di aggregazione ecclesiale vivono invece una profonda crisi, anche perché al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

Riflessioni su secolarizzazione e problemi del senso

Prima parte

- La domanda sul senso della vita viene spesso rimossa con fastidio; eppure, questa domanda, che è "religiosa", è tutt’altro che inattuale.

- L’esperienza dello smarrimento nella società secolarizzata, quale si è sviluppata con la genesi del del mondo moderno.

- La scissione tra ragione e sentimento e il nuovo ruolo della religione nel contesto delle difficoltà delle fedi storiche.

- La percezione del sacro e la fuga nell’irrazionale.

- L’arte dell’ascolto e del dialogo come strumento per affrontare l’odierna crisi di senso.

- Una domanda per concludere: causa della crisi delle chiese non sarà anche, in parte, che al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

C’era una volta un uomo di nome Socrate. Andava in giro per le strade della sua città, Atene, poneva domande ai passanti e volentieri si lasciava, a sua volta, interrogare. Nei suoi dialoghi parlava del bene e del male, dell’amore, del bello, in ultima istanza del senso della vita e di come aiutare gli uomini a scoprirlo. Era un uomo "scomodo"; fece, come si suol dire, una brutta fine.

Troverebbe oggi persone più tolleranti con lui? C’è di che dubitarne. In fondo, presi come siamo dalla convulsione dei giorni, pensiamo tutti di avere cose più serie e più importanti da fare che stare a dialogare sul senso della vita. Anzi forse lo stesso signor Socrate si cercherebbe oggi un’ occupazione più utile e produttiva e eviterebbe di "bighellonare" tutto il giorno, facendo "cricca" con gli amici e importunando i malcapitati passanti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Seconda parte

LA SECOLARIZZAZIONE COME DATO CULTURALE

La domanda sul senso della vita viene dunque, da molti nostri contemporanei, rimossa con malcelato fastidio. Eppure l’inquietudine e l’insoddisfazione che ciascuno di noi avverte presente negli ambienti in cui vive dimostrano che quella domanda è tutt’altro che inattuale. Sorge quindi il sospetto che tale domanda venga rimossa non perché non interessi, ma perché si prova angoscia di fronte all’incapacità di darvi risposta. Ci si sente infatti smarriti, si brancola letteralmente nel buio.

Si avverte il bisogno di un orientamento. Forse è meglio rettificare: in questo caso, un Socrate servirebbe!

A complicare ulteriormente le cose, c’è poi il fatto che, come ci dicono i sociologi, viviamo oggi in una società frammentata, iperspecializzata nelle suddivisioni delle competenze sociali e lavorative, in una parola individualistica. Una società che, insomma, ha perso i suoi punti di riferimento unificanti. Un tempo, questi punti di riferimento venivano, tra gli altri, assicurati dalla religione, la quale, con i suoi riti e le sue proposizioni di fede, forniva a tutti, indistintamente, dall’uomo più colto a quello più umile, un "ombrello" sufficiente per ripararsi dalle tempeste della vita.

In questo contesto, anche la domanda sul senso della vita, che è poi la domanda religiosa per eccellenza, anzi, come vedremo, la domanda stessa a partire dalla quale sorge il bisogno di una religione, trovava un rifugio sicuro.

L’uomo però che grazie all’Illuminismo, si è scoperto "maggiorenne" e quindi in grado di confidare nelle possibilità più o meno illimitate della propria ragione, non ha disdegnato di relegare spesso la religione nello spazio della superstizione, della magia e ha così potuto credere di riuscire meglio a rispondere a quella domanda con i mezzi positivi e tangibili della scienza e della tecnica che non con quelli astratti della religione. Il mondo si è così, per usare l’espressione di Max Weber, "disincantato", è uscito cioè dall’incanto della magia nella quale l’aveva fatto cadere la religione, e la società si è "secolarizzata", si è profilata cioè in un orizzonte non più trascendente, bensì totalmente intramondano.

Naturalmente, non si vuol dire, con questa diagnosi, che il processo di secolarizzazione sia, in sé e per sé, qualcosa di negativo. Non va dimenticato, infatti, che è anche grazie alla secolarizzazione che hanno potuto svilupparsi alcuni principi del mondo moderno che la nostra cultura ritiene oggi fondanti e irrinunciabili.

L’inalienabilità dei diritti umani, fondata sul riconoscimento della libertà e della dignità di ogni essere umano, indipendentemente da qualsiasi appartenenza di razza, casta, chiesa, ecc., la chiara distinzione dei compiti e delle sfere di influenza tra lo stato e la chiesa, e quindi la nascita dello stato moderno sulla base della aconfessionalità, del pluralismo e della tolleranza (quella multiculturalità che nel contesto odierno è diventata quasi una parola d’ordine) lo sviluppo di una cultura democratica e della partecipazione politica alla vita pubblica, il riconoscimento della reciproca autonomia tra la sfera etica e la sfera religiosa, sono tutti in qualche modo effetti tangibili e positivi di quel processo di secolarizzazione avviatosi con la genesi del mondo moderno.

Su questo punto conviene essere chiari: la nostalgia di un mondo pre-secolarizzato reca in sé il rischio del fondamentalismo, di una visione "teocratica" e medievale del mondo che al pluralismo dei valori sostituisce l’assolutezza di un’unica verità che deve essere imposta a tutti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Terza parte

L’AMBIVALENZA DELLA SOCIETÀ SECOLARIZZATA

Tuttavia, se anche si sottolineano gli aspetti innovativi, dal punto di vista culturale, del processo di secolarizzazione, non si può comunque tacere il risvolto della medaglia.

La grande opportunità offerta dalla "scoperta" del principio moderno di individualità si è infatti molto spesso tradotta in un imperante individualismo; la conquista della libertà e la progressiva emancipazione della scienza hanno portato non di rado a deliri di onnipotenza; il pluralismo dei valori si è talvolta tradotto in un sostanziale relativismo o indifferentismo, dando così ospitalità anche alla presenza inquietante del nichilismo, della negazione cioè della stessa realtà del valore in sé. Da questo ultimo versante, il novecento appena conclusosi non è stato certo avaro di tragici esempi!

Sono, questi, aspetti reali del processo di secolarizzazione che non vanno trascurati, e nei quali invero ci si imbatte, come sfida, ogniqualvolta si affronta la domanda del senso; sono anzi proprio tali aspetti a rendere così problematica una simile domanda nel contesto della società attuale.

Ora però, l’ambivalenza della società odierna esaminata sotto il profilo della secolarizzazione non fa in fondo che rispecchiare la diagnosi che già nel diciannovesimo secolo il filosofo Hegel formulava a proposito dell’Illuminismo: quest’epoca storica, egli diceva, è caratterizzata da una scissione, dalla divisione tra il sentimento, cioè il dominio dell’interiorità , e l’intelletto, cioè il dominio della ragione comprendente e calcolante.

L’unica realtà in grado di risanare e conciliare questa scissione è per Hegel la filosofia, che infatti contiene e supera entrambi gli ambiti, e cioè sia interiorità che ragione.

Per il nostro tema, però, ancora più interessante è la disamina di un contemporaneo di Hagel, Schleiermacher, il quale, assumendo per buona una diagnosi per molti versi analoga, perveniva a trovare una riconciliazione tra questi due ambiti non nella filosofia, ma in un nuovo concetto di religione.

Vale allora la pena provare brevemente ad attualizzare la sua analisi, perché ci pare che oggi possa essere ancora di qualche utilità.

Che cos’è infatti la religione? Schleiermacher dà al proposito una duplice risposta: da un lato, essa è l’intuizione immediata dell’Universo, cioè di una realtà immensa che sovrasta e trascende la finitezza dell’uomo: dall’altro, è il sentimento, che l’uomo avverte nella sua coscienza, di una dipendenza assoluta da questa realtà trascendente, per cui l’uomo, che con la sua sola ragione non riesce ad afferrare e comprendere quella Trascendenza, può però "sentirla", percepirla e intuirla come intimamente presente nell’intimo della propria coscienza.

In questo modo, per esemplificare il tu

Letto 2160 volte Ultima modifica il Martedì, 22 Febbraio 2005 09:30