Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di Rabbi Avraham Abulafia
Agli occhi di ogni uomo è chiaro che la Torah, che porta il nome di Libro del Giusto (2 Sam. 1.18), è un: "albero di vita, è per chi si aggrappa a lei, e chi la stringe è fortunato" (Prov. 3.18). È' risaputo per tradizione, in base al Libro di Razi'el, che il valore numerico della parola me'usar (fortunato)corrisponde a quella di Yisra'el "Israele"; da questo scaturisce la conoscenza di tutti i fenomeni delle vie dei segreti dei precetti e a lui andranno uniti desideri, delizie, insegnamenti, pensieri dotati di fede, speranze.
Perciò è opportuno far conoscere ai rettori delle accademie d'ogni dove tutto ciò che concerne le lettere ed i termini che istruiscono sulle varie realtà, maschili e femminili, singolari maschili e singolari femminili, plurali maschili e plurali femminili, per separare sottilmente in essi fra ciò che è bene e ciò che è male, e fra pensieri giusti e pensieri fallaci. Tutto questo si svela tramite i sette sentieri, in cui sono contenute tutte le sapienze, per ogni lingua e nazione.
Riassumerò dunque tali questioni in questa lettera, affinché sia per voi d'ammonimento.
I sette sentieri della Torà sono i seguenti:
1) Il primo sentiero racchiude la comprensione letterale della Torà "poiché l'interpretazione di un versetto non deve allontanarsi dal senso letterale". Questa è la via che si addice al popolo, uomini, donne e pargoli; anche se è noto che ogni essere umano, all'inizio della sua esistenza - fra infanzia e giovinezza - fa parte di questo gruppo. In seguito, ci sono persone che studiano e altre che rimangono del tutto senza istruzione sulla via della conoscenza delle lettere, ma d'ogni uomo è detto: Può divenire saggio pure l'uomo che è nato simile ad un giovane onagro selvatico (Giobbe. 11,12). È pertanto indispensabile che, a colui che è totalmente illetterato, si trasmettano alcuni elementi della tradizione, sì che diventi credente per fede ricevuta, resti nel proprio ambito e si mantenga entro la sfera del senso letterale. Sembrerà così che abbia studiato, e si atterrà a ciò che ha acquisito come vi si attiene chi ha appreso i significati letterali della Torà: in tal modo verrà sottomesso a questo primo sentiero.
2) Il secondo sentiero racchiude la comprensione del testo secondo molteplici commenti: ciò che li accomuna è il ruotare intorno alla sfera del senso letterale, che essi circondano da ogni parte. Così fanno la Mishnah ed il Talmud, che espongono il senso letterale della Torà. Si veda la questione della "circoncisione del cuore": la Torà prescrive di circonciderlo, come è detto: Circoncidete il prepuzio del vostro cuore (Deut. 10.16). Preso in senso letterale, questo precetto è assolutamente irrealizzabile: perciò esso richiede un'interpretazione, offerta dal versetto: Il Signore, tuo D-o, circonciderà il tuo cuore (Deut. 30.6), che segue l'affermazione: E tornerai al Signore tuo D-o (Deut. 30.2). Dunque, la circoncisione del cuore è propriamente l'imbocco della via del ritorno al Signore, sia Egli benedetto; la circoncisione dell'ottavo giorno, invece, è un'altra cosa, perché è impossibile interpretarla nel senso di un pentimento, come l'hanno intesa gli incirconcisi di cuore e gli incirconcisi di prepuzio. Dunque la circoncisione del neonato va necessariamente intesa in senso letterale, ed è di gran giovamento, come già ci è stato rivelato da alcuni, lode a D-o.
3) Il terzo sentiero racchiude la comprensione del testo sotto il profilo omiletico e narrativo, e comprende entrambi i metodi menzionati in precedenza; un esempio è offerto dall'affermazione dei nostri Maestri di benedetta memoria: "Perché nel secondo giorno non è detto che era buono?
Perché non era stata completata l'opera delle acque", e via di seguito. Questo metodo è denominato darashaggadah o haggadah ("racconto"), che ha in primo luogo la funzione di attrarre (tale è infatti il targum, che sa attirare i cuori verso la giusta via), e in secondo luogo quella di raccontare cose gradevoli che incantano chi ascolta. ("omelia", "ricerca"), a indicare che con esso si può indagare, inquisire e poi esporre in pubblico, di fronte a tutti; parimenti, è stato chiamato
4) Il quarto sentiero racchiude le parabole e le allegorie, che sono presenti in tutti i libri. È qui che certuni cominciano a separarsi dalla massa del popolo: la massa infatti comprenderà queste cose secondo uno dei tre metodi di cui s'è parlato. Alcuni le prenderanno in senso letterale, altri le commenteranno, altri ancora le intenderanno per via omiletica. Certuni invece arriveranno a capire che sono parabole e le sonderanno. Qui si troveranno ad affrontare le questioni degli omonimi che la Guida dei Perplessi (del Maimonide) ha già chiarito.
5) Il quinto sentiero è il solo che racchiude le vie cabalistiche degli insegnamenti biblici. I quattro metodi che vengono prima di questo sono accessibili a tutte le nazioni: alle masse i primi tre, ai sapienti il quarto, con o senza gli altri. Invece, questo quinto sentiero è l'esordio degli stadi della sapienza cabalistica, che è solo di Israele: è qui che noi ci separiamo dalle masse del mondo, dai sapienti delle nazioni del mondo e dagli stessi Rabbi sapienti d'Israele, che restano nella sfera dei tre metodi sopra ricordati e delle parabole.
Si coglie, ad esempio, lungo questo percorso, l'indicazione dell'insegnamento che la Torà ci impartisce con la sua prima lettera, che è la Beit di Be-re'shit, "In principio" (Gen. 1.1), che deve essere di dimensioni maggiori delle altre, così come devono esserlo le ventidue lettere che si trovano in ognuno dei ventiquattro libri; o ancora con la forma della lettera Cheit di we-charah (e si accenderà); o con le due Nun capovolte nel passo relativo al versetto: Quando l'arca si muoveva (Num. 10.35).
Molte di queste cose ci sono state trasmesse per tradizione interna ed esterna: grafie piene e grafie difettive, lettera avvinte e lettere storte e via di seguito: i casi sono molti. Nulla della loro veridicità è mai stato rivelato ad alcun popolo, se non alla nostra santa nazione: coloro che percorrono la via degli altri certo se ne befferanno, pensando che queste grafie siano insignificanti. Costoro sono tratti in inganno, e si sbagliano di grosso, mentre chi sa la veridicità di questi sentieri, ne riconosce la superiorità e chiarisce i misteri, che sono santi. Questo metodo costituisce l'esordio della sapienza generale della combinazione delle lettere, e non è consigliato se non a coloro che temono Iddio, e rispettano il Suo Nome.
6) Il sesto sentiero è profondissimo: chi lo troverà? Di questa via è detto: È più lunga della terra la loro dimensione, è più alta del mare (Giobbe. 11.9). Essa si addice a coloro di cui si è detto poco sopra, i quali si isolano nella propria volontà di accostarsi al Santo Nome, cosicché la Sua Opera, sia Egli benedetto, sia in loro stessi riconoscibile. Sono coloro che, nel loro agire, pervengono ad assomigliare all'azione dell'Intelletto agente. Dunque il nome di questo sentiero racchiude il segreto delle "settanta lingue" (shiv'im lesonot), espressione che equivale, numericamente a "combinazione delle lettere" (seruf ha-otiyyot). Tale percorso segna il loro ritorno verso la Materia prima, tramite l'evocazione e la meditazione che si articola nelle dieci sephirot senza determinazione, il cui segreto è santo. Ogni cosa che appartiene alla santità è in numero di dieci: non è forse Mosè asceso dieci volte, e la Shekhinà discesa altrettante?
Con dieci Detti non fu forse creato il mondo, e con dieci Comandamenti non fu data la Torà? E molte altre decine illustrano questo concetto. A questo metodo appartengono laghematria, il notariqon, le permutazioni, le sostituzioni, le permutazioni delle permutazioni, e le permutazioni delle permutazioni delle permutazioni. A causa della pochezza dell'umano pensare, le permutazioni si limitano a dieci, benché, in verità, esse siano illimitate, giacche sono paragonabili alle particolarità delle creature, che sono infinite: sebbene la loro materia sia unica, le loro forme mutano, e si manifestano in successivi segreti.
Con questo metodo si confuta l'opinione che Rabbi Avraham Ibn 'Ezra, di benedetta memoria aveva formulato nel commento alla Torà, a proposito del nome Eli'ezer e del suo valore numerico, che ammonta a 318 (trecentodiciotto). A proposito di lui è detto: Armò i trecentodiciotto suoi uomini addestrati, i nati della sua casa (Gen. 14.14): in realtà sta scritto: Il suo uomo addestrato, che corrisponde a Eli'ezer. Sebbene Ibn 'Ezra abbia affermato che la Torà non si esprime attraverso la ghematria - poiché se così fosse ognuno potrebbe mutare il male in bene, ed il bene in male - io non credo che egli fosse all'oscuro della cosa; probabilmente intendeva occultare il segreto, ed aveva ragione, proprio per quel che abbiamo detto a proposito delle prime tre vie, visto che tutto il suo libro è stato scritto per la massa. Fanno eccezione alcuni passi che egli segnala dicendo: "Questo è un mistero, e chi è dotato d'intelletto lo esaminerà e lo comprenderà, qualora ne sia degno".
(Il sesto sentiero) è quel glorioso e terribile sentiero tramite il quale si rivela un poco della conoscenza del Nome Ineffabile, al quale s'accenna nel Libro della Formazione al secondo capitolo, dove si trova detto che le ventidue lettere fondamentali sono tre madri, sette doppie e dodici semplici: "le incise, le intagliò, le soppesò, le permutò, le combinò e con esse formò l'anima di tutto il creato e l'anima di tutto ciò che è formato".
7) Il settimo sentiero è un sentiero particolare, che racchiude tutti i sentieri, esso è il Santo dei Santi, è riservato ai Profeti, è la ruota che tutto circonda. Chi lo comprende, comprende la parola che dall'Intelletto agente promana sulla facoltà verbale. Si tratta infatti dell'influsso che si propaga dal Nome, sia benedetto, alla facoltà verbale, tramite appunto l'intelletto agente, come ha detto il maestro (il Maimonide), di benedetta memoria, nella Guida dei Perplessi, libro secondo, al capitolo trentasei. Esso è il sentiero della veridicità della profezia e della sua essenza, della conoscenza dell'essenza del Nome Unico; solo un Profeta ne ha comprensione: giacche esso rappresenta il principio che ha creato il discorso Divino sulla sua bocca.
Non è opportuno descrivere le modalità di questo sentiero, che è chiamato sentiero Santo e santificato, in un libro, né è possibile trasmettere, riguardo a Esso, alcuna tradizione, neppure per sommi capi, a meno che, chi desidera conoscerlo, non apprenda prima, a viva voce, la nozione del Nome di quarantadue lettere e di quello di settantadue.di John Nellykullen
Il cristianesimo è entrato in Bulgaria fin dai primi secoli, infatti sappiamo che un sinodo è stato convocato a Sardica (oggi Sofia) nel 343. Le tribù bulgare che occupavano questa regione avevano infatti avuto dei contatti con gli antichi missionari cristiani. Un momento decisivo dello sviluppo del Cristianesimo tra i bulgari fu il battesimo del re Boris I ad opera di un vescovo bizantino nell’anno 865. A questo evento seguì la graduale evangelizzazione della Bulgaria. La giurisdizione ecclesiastica sulla Bulgaria fu presto causa di dispute tra Roma e Costantinopoli. Ma poiché il re scelse di essere sotto la giurisdizione di Costantinopoli la nuova Chiesa seguì il rito e la tradizione Bizantina.
Nel decimo secolo lo stato di Bulgaria divenne molto potente. Nel 927 Costantinopoli riconobbe al Re dei Bulgari il titolo di Imperatore e l’arcivescovo di Preslav ebbe il titolo di patriarca della Chiesa Bulgara. Dopo l’invasione bizantina nel 971, il patriarca lasciò Preslav trasferì la sua sede a Ohrid in Macedonia. Nel 1018 i bizantini conquistarono Macedonia e ridussero il patriarcato di Bulgaria a Chiesa autocefala arcivescovile.
Nel 1186, con l’inizio del nuovo impero a Turnovo, Bulgaria ebbe di nuovo l’indipendenza e la Chiesa bulgara riconobbe il primato del papa nel 1204. Tuttavia un nuovo accordo dell’imperatore bulgaro con i greci contro l’impero latino comportò il distacco da Roma di nuovo il riconoscimento della chiesa bulgara come Patriarcato.
Il patriarcato bulgaro perdette la sua autocefalia e fu reintegrato nel patriarcato di Costantinopoli nel 1393, questo con l’inizio del dominio turco. Ma poi nel 1870 il governo ottomano ristabilì la Chiesa Nazionale Bulgara come esarcato autonomo, ma Costantinopoli dichiarò la Chiesa nazionale Bulgara scismatica nel 1872. Lo scisma continuò fino al 1945, quando il patriarca ecumenico riconobbe la Chiesa Bulgara come autocefala. Nel 1953 il metropolita di Sofia assunse il titolo di patriarca, ma Costantinopoli lo riconobbe come patriarca solo nel 1961. L’inizio del regime comunista nel 1944 e la sua politica religiosa costrinsero la Chiesa bulgara ad assumere atteggiamento e comportamento passivi.
Dopo la caduta del comunismo, il nuovo governo iniziò la riforma delle istituzione religiose. Nel 1991 fu fondato un Consiglio per l’Affari Religiosi che dichiarò invalida la nomina (elezione) del patriarca avvenuta nel 1971 sotto il regime comunista, scatenando una divisione tra i vescovi. Un gruppo dei vescovi si riunì sotto il metropolita Pimen di Nekrop e pubblicamente chiese la deposizione del Patriarca Massimo. La delegazione del Patriarca Ecumenico, che visitò la Bulgaria per risolvere i problemi non riuscì nel suo intento. Il 4 luglio del 1996 il Metropolita Pimen fu installato da questo gruppo come il patriarca. Il sinodo della parte del Patriarca Massimo lo scomunicò e ciò diede inizio ad un vero e proprio scisma. Nel marzo 1997 la Corte Suprema Amministrativa dichiarò invalida la decisione del Sinodo del Patriarca Massimo. Il nuovo presidente di Bulgaria, Petar Stoyanov, che eletto nel 1997 chiese la rinuncia dei due patriarchi per fare una nuova elezione.
Un Sinodo straordinario e allargato della Chiesa Ortodossa Bulgara si tenne dal 30 settembre al 1 ottobre presieduto dal Patriarca Ecumenico Bartolomeo I° confermò Massimo come Patriarca. Al Sinodo furono presenti anche sei altri patriarchi tra i quali il Patriarca Alessio II di Mosca e Petros VII di Alessandria ed inoltre 20 metropoliti. Il Patriarca Pimen e gli altri vescovi del suo Sinodo tornarono alla comunione e lo scisma ebbe fime.
Il primo Concilio generale della Chiesa Ortodossa Bulgara fu convocato a Sofia nel 1997 sotto la presidenza del Patriarca Massimo per discutere sulle nuove possibilità che la recente condizione democratica dello Stato offrivano alla Chiesa. Il Concilio chiese al governo il permesso per estendere il ministero della Chiesa ai nuovi ambienti della vita sociale e pubblica inclusi i mass-media.
Fu chiesto inoltre all’autorità statale di garantire l’istruzione religiosa nelle scuole, di istituire i cappellani per i militari, per i prigionieri e negli ospedali ed infine di restituire alla Chiesa le proprietà confiscate dal regime comunista. Il Concilio decise poi dei provvedimenti per il rinnovamento della vita ecclesiale, per lo sviluppo dei nuovi programmi di catechismo, per la formazione teologica. Istituì dei programmi per una adeguata azione sociale, sviluppò il ruolo dei laici nella Chiesa, ed infine pose le basi per la riforma della vita monastica. Furono fatti i nuovi Statuti della Chiesa per sostituire quelli si erano dovuti creare sotto la pressione del regime comunista nel 1953. L’istruzione religiosa nelle scuole ripresa già nel 1997.
Nuove facoltà di teologia sono state fondate dopo la caduta del comunismo. Oggi ci sono seminari ortodossi bulgari in Plovdiv ed in Sofia. Vi è una facoltà di teologia all’Università di Sofia come pure all’Università di S. Cirilo e Metodio in Veliko Tarnovo. Verso la metà del 1997, la Chiesa Ortodossa Bulgara aveva 11 diocesi nel paese e due fuori del territorio nazionale con 2600 parrocchie, servite da 1500 preti. Vi erano inoltre 120 monasteri con complessivi 2000 monaci e monache.
Il Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Bulgara, costituito dal Patriarca e da tutti i vescovi diocesani, è la suprema autorità clericale, giuridica e amministrativa nella Chiesa. Esso funziona in due sezioni, c ’è il Sinodo completo che si raduna ogni giugno ed ogni novembre e ogni altra volta in cui sia necessario, ed il Sinodo minore composto dal Patriarca e da quattro vescovi, eletti dal Sinodo completo per un periodo di quattro anni, che è in funzione permanente per dirigere gli affari ordinari della Chiesa. Il Patriarca presiede ambedue i Sinodi e si occupa dei rapporto con lo Stato e con le altre Chiese.
Delle due diocesi fuori del territorio nazionale, una è guidata dal metropolita Giuseppe di America, Canada ed Australia. Egli risiede a New York Questa diocesi ha nove parrocchie negli Stati Uniti, due in Canada e due in Australia. Un’altra diocesi della Chiesa Ortodossa Bulgara fa parte della Chiesa Ortodossa in Stati Uniti e ci sono 14 parrocchie in Stati Uniti e due in Canada.
Esistono poi fedeli di questa Chiesa ortodossa in Inghilterra con sede in Londra.
TERRITORIO
L a Bulgaria e la diaspora in Europa ed in America
GUIDA
Patriarca Massimo nato nel 1914, eletto nel 1971
TITOLO
Metropolita di Sofia, Patriarca di Bulgaria
RESIDENZA
Sofia, Bulgaria
MEMBRI
8.000.000
WEB SITE
http://bulgarian.orthodox-church.org
La volontà di vivere non è un’astrazione teorica, ma una realtà anche fisiologica che possiede caratteristiche terapeutiche.
di Romano Altobelli *
Il Concilio Vaticano II e il post-concilio sono il frutto di quanto la liturgia ci fa domandare: “Mostraci la tua continua benevolenza, o Signore, e assisti il tuo popolo, che ti riconosce suo pastore e guida; rinnova l’opera della tua creazione e custodisci la comunità ecclesiale che hai rinnovata” (Colletta della 18a domenica del tempo ordinario). E’ la lex orandi che conduce la Chiesa alla lex vivendi: il Vaticano II ha rivoluzionato la cristianità e ha immesso nella vita ecclesiale la capacità di scoprire i semina Verbi sparsi nei solchi della storia.
L’assistenza dello Spirito al nuovo popolo di Dio si è manifestata nel Concilio, opera ri-creatrice della comunità dei fedeli cristiani. Esso è definito concilio “pastorale”, perché con il dinamismo dello Spirito Gesù ha guidato alla pastoralità tutta la teologia. Egli mediatore e pienezza di tutta la rivelazione, attraverso gesta et verba, compie la storia della salvezza; le sue parole proclamano le opere e illuminano il mistero (cf Dei Verbum 2).
La dinamica innovatrice della parola di Dio ha toccato tutte le discipline teologiche, perché i fedeli avessero “un contatto più vivo con il mistero di Cristo e con la storia della salvezza” (OT 16). Una particolare attenzione è stata data alla teologia morale, nel passato caratterizzata dalla casistica, dalla legge e dal diritto canonico. Aveva bisogno di un nuovo orientamento: “Si ponga speciale cura nel perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla sacra Scrittura,illustri l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo” (OT 16).
La richiesta dell’Optatam totius è stata subito accolta dai teologi morali italiani ed è nata l’Associazione italiana dei teologi moralisti, poi denominata Associazione teologica italiana per lo studio della morale. Terminato il Concilio il domenicano padre Dalmazio Mongillo (che ci ha lasciato il 13.7.2005) e il redentorista padre Domenico Capone (Majorano Sabatino, “Capone Domenico” (1907-1995), in Lexicon. Dizionario dei teologici, Piemme 1998, Casale M. (AL), impegnato durante uil Concilio per una teologia morale fondata sul mistero di Cristo, sulla dignità della persona umana e sulla coscienza, realizzano l’idea ispiratrice di radunare in associazione i moralisti italiani.
Si concretizza a Napoli nel primo congresso dei moralisti su “L’insegnamento della teologia morale dopo il concilio Vaticano II” (12-16:4:1966): Mongillo ne fu il primo segretario accanto a Tullo Goffi, primo presidente. Subentrarono poi come presidenti fino ad oggi: Enrico Chiavacci, Giannino Piana, Luigi Lorenzetti, Francesco Compagnoni, Salvatore Privitera, Romano Altobelli e, dal luglio 2006, Karl Golser.
Sono soci dell’associazione gli autorevoli teologi morali già ricordati e molti altri delle pontificie università di Roma e delle altre facoltà teologiche. Nel nuovo albo, in preparazione, ci sono circa 150 soci effettivi. L’associazione conta sacerdoti e religiosi/e, ma anche una qualificata presenza di teologi e teologhe laici, impegnati nella docenza e nello studio.
Nuova denominazione
Il 21.10.2004 è stata costituita l’Associazione teologica italiana per lo studio della morale (Atism) secondo le norme giuridiche dello Stato italiano con atto notarile e regolata dagli artt. 36 e ss. del Codice civile e dello statuto. Si attende nel corrente anno il riconoscimento della Conferenza episcopale italiana ai sensi dei canoni 321-326 del Codice di diritto canonico. Con l’atto costitutivo notarile è stato approvato lo statuto rinnovato.
Sinteticamente, lo scopo dell’associazione è lo studio, la ricerca, la promozione, il dialogo nella teologia morale, secondo quanto recita lo statuto: “Lo scopo è, in particolare, favorire gli studi e ricerche nel settore della teologia morale; la promozione sociale delle acquisizioni in ambito teologico morale; il dialogo con le Chiese cristiane sulla teologia morale; il dialogo interreligioso e interculturale su temi inerenti alla teologia morale; la collaborazione tra docenti e cultori di scienze morali in Italia e all’estero; la specializzazione dei propri membri e la loro reciproca solidarietà”.
Per raggiungere tali finalità ha contatti e collaborazione con gli istituti di ricerca e con le associazioni teologiche e culturali affini; pubblica studi nel settore morale; organizza corsi, convegni e incontri d’aggiornamento; favorisce contatti dei professori tra loro e con docenti di scienze simili; offre consulenza e collaborazione agli organi ecclesiali.
I 150 soci sono presenti nelle quattro aree del territorio italiano e formano le sezioni: settentrionale (regioni del Nord), centrale (regioni del Centro e Sardegna), meridionale (regioni del Sud), Sicilia.
Il cammino dell’associazione è scandito dai congressi biennali, dai seminari nazionali e incontri annuali delle sezioni territoriali. Queste attività sono svolte nelle diverse diocesi con lo scopo di svolgere un servizio per una maturazione di fede adulta e vissuta, ponendo l’accento sulle problematiche morali emergenti in campo civile ed ecclesiale.
L’impegno dell’Atism è collaborare con la Cei e le Chiese locali che ci ospitano. Ecco perché è fondamentale la presenza costante del vescovo ai lavori, all’organizzazione, alla celebrazione dell’eucaristia. Agli incontri è notevole la partecipazione di sacerdoti e laici-laiche impegnati nell’insegnamento, nella pastorale diocesana e parrocchiale; in loro è sempre sentito l’interesse per i temi proposti e studiati. Nostra intenzione è continuare a coinvolgere le Chiese locali per la diffusione della cultura teologico-morale.
Tematiche impegnative
Le problematiche trattate sono le più urgenti e impegnative del momento. Ricordiamo quelle degli ultimi convegni: “L’etica delle virtù”, ‘L’etica delle beatitudini”, “L’etica della responsabilità di fronte al futuro”, da cui è scaturito il tema, quasi come anticipazione del convegno di Verona, “La speranza umana e la speranza escatologica”; nell’ultimo congresso tenuto a Oristano il 6-10.9.2004 si è inteso ripercorrere i problemi della bioetica a dieci anni dall’enciclica Evangelium vitae con il titolo “La casa della vita”. Gli Atti di ogni congresso sono pubblicati dalle Edizioni San Paolo nella collana “Teologia e Morale. Studi e testi”.
I seminari nazionali, della durata di una settimana, sono tenuti anch’essi in diverse diocesi; hanno come guida professori e cultori della disciplina. I destinatari sono i soci, gli specializzandi e tutti gli interessati all’argomento. Sono prese in considerazione sia le problematiche interne alla disciplina sia quelle di maggiore attualità: “Rapporto tra morale fondamentale e morale speciale”; “Educazione morale dei giovani”; “Etica e tecnologie dell’informazione nell’era di Internet”; “Il rinnovamento teologico-morale in Italia dal Vaticano Il ad oggi”.
Ogni sezione, per iniziativa del delegato zonale, organizza nell’anno momenti d’incontro tra soci per fraternizzare e affrontare questioni proprie della materia. Per accennare agli incontri dell’ultimo anno, ricordiamo il tema “Globalizzazione e politica: un nuovo ordine morale?” della Sezione settentrionale; “Lettura trasversale dell’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI” della Sezione centrale; “Neuroscienze e comportamento umano” della Sezione meridionale; “La riflessione bioetica del magistero ecclesiale per la società contemporanea” della Sezione Sicilia.
La Rivista di teologia morale delle Edizioni Dehoniane di Bologna è pubblicata in collaborazione con i teologi moralisti dell’Atism. I consulenti alla direzione appartengono quasi nella totalità all’associazione. Nella rivista l’Atism cura la rubrica “Itinerari Atism” per favorire il collegamento e la comunicazione tra i soci, per dare informazioni tempestive e indicare le attività di rilievo in ambito associativo.
Il cammino dell’associazione guarda al futuro. E’ stato celebrato il primo congresso internazionale interculturale di teologi moralisti cattolici a Padova (8-11.7.2006), nel corso del quale ha avuto luogo l’Assemblea generale Atism per il rinnovo delle cariche sociali e la programmazione del prossimo quadriennio. In autunno sarà in libreria Sfide etiche della globalizzazione (collana “Itinerari etici”, Città Nuova). Sono in fase di studio tre argomenti spinosi, complessi e delicati: “Il celibato sacerdotale e vuoti ministeriali”; “Divorziati risposati e sacramenti”; “La morte”: faranno parte della stessa collana di Città Nuova.
Le tematiche morali di oggi creano problemi nel mondo civile e tra i cristiani. La teologia morale vuole condurre i fedeli alla riscoperta dell’altissima vocazione in Cristo, perché portino frutti di carità per la vita del mondo; vuole richiamare alla consapevolezza della dignità di ogni persona, che vive nell’attuale storia sociale da laico o da credente.
Il Vangelo della carità
I sacerdoti e i laici impegnati nella pastorale, I gruppi e i movimenti possono fare riferimento all’Atism per un aiuto nella formazione morale cristiana, per i difficili e complessi problemi di morale umana e cristiana. Spesso, infatti, si notano idee confuse e inquinate da ideologie e culture anti-umane, laiciste, anticlericali.
Chi è sensibile a una vita morale sociale e/o cristiana può far riferimento agli Atti dei congressi, alla collana “Itinerari etici”, alla Rivista di teologia morale, che trattano i problemi cruciali del nostro tempo: le virtù, le beatitudini, il futuro, la speranza, la bioetica, la pedofilia, Internet, dottrina sociale della Chiesa, eucaristia e teologia morale, fecondazione assistita, coppie di fatto, ecc.
Vanno ricordati i validi e unici strumenti prodotti e curati da teologi moralisti dell’Atism con la collaborazione, in larga misura, di soci: Nuovo Dizionario di Teologia morale (Ed. Paoline), Dizionario di Bioetica (Città Nuova-ISB), Enciclopedia di bioetica e sessualità (LDC), Dizionario di teologia della pace (EDB).
In conclusione, prendendo spunto dalla Evangelii nuntiandi di Paolo VI, diciamo che la teologia morale mira a tener presenti e uniti l’elemento antropologico (l’uomo concreto condizionato dalle questioni umane, sociali, economiche), teologico (non si può dissociare la creazione dalla redenzione), evangelico della carità (la crescita autentica dell’uomo avviene proclamando il comandamento nuovo dell’amore, promuovendo la giustizia e la pace vera).
«E impossibile accettare che nell’evangelizzazione si possa o si debba trascurare l’importanza dei problemi, oggi così dibattuti, che riguardano la giustizia, la liberazione, lo sviluppo e la pace nel mondo. Sarebbe dimenticare la lezione che viene dal Vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso» (EN 31). La teologia morale non può non tener conto di tanta saggezza.
Bibliografia
Compagnoni F. - Privitera 5. (curr.), Il futuro come responsabilità etica, San Paolo 2002, Cinisello B. (Mi); Compagnoni F. - Privitera S. (curr.) Speranza umana e speranza escatologica, San Paolo 2004; Altobelli R. - Privitera S. (curr.), La casa della vita, San Paolo 2006; Leone S. (ed.), L’innocenza tradita. Pedofilia: il punto sulla questione, Città Nuova 2006, Roma; Altobelli R. - Leone S. (edd.). La morale riflessa nel monitor. Internet ed etica, Città Nuova 2006; Rivista di Teologia Morale, trimestrale diretto da Lorenzetti L., EDB, Bologna.
di Rochdy Alili *
Bagdad, sec. IX. I mutaziliti ritengono che il Corano è creato da Dio, dunque c’è un inizio nella sua storia e si può interpretare, mentre gli hanbaliti affermano che esso è eterno, increato, preesistente e da prendere alla lettera.
La controversia del “Corano creato” ancora oggi agita le coscienze perché agli uni sembra legato a un periodo di inquisizione e agli altri come un’occasione perduta per l’islam di accedere fin da quel tempo a una concezione “moderna” della Rivelazione divina. Essa fu lanciata dal califfo al-Mamun (813-833), che era giunto al potere nel tempo in cui, nella lontana Europa del Nord, Carlo Magno terminava il suo regno. Questo califfo, della dinastia abbaside, installata in Irak nel 750 e fondatrice di Bagdad, tentò lungo tutto il suo regno di stabilire una legittimità religiosa al califfato.
Un secolo prima di al-Mamun, il suo trisavolo, Muhammad b. Ali, organizzò una propaganda utilizzando questi malcontenti e la fedeltà di molti musulmani alla famiglia del Profeta. Non era un discendente di Maometto, ma del suo zio, al-Abbas, e non mancò di approfittare di una ambiguità fra le sue rivendicazioni e quelle degli sciiti. Alcuni decenni dopo questa opera di propaganda, un solido esercito formato da Iraniani e da discendenti di tribù arabe esiliate nella provincia del Korasan, nell’Iran orientale e in Asia centrale, costituito da emissari di questi nuovi pretendenti, riuscì a conquistare il potere per i figli di Muhammad b. Ali, i primi califfi abbasidi, fra cui al-Mansur, il fondatore di Bagdad e bisnonno di al-Mamun.
Stabilire una legittimitàMolto presto si chiarì la confusione fra gli abbasidi e gli sciiti e i nuovi sovrani dovettero subire l’opposizione da parte di questi ultimi, mentre i tradizionalisti mantenevano il loro consueto sospetto nei confronti del califfato. Il potere abbaside si basava dunque sempre esclusivamente su una forza militare, quella dell’esercito del Korasan. Perciò al-Mamun pensò bene, un mezzo secolo dopo l’inizio della dinastia, di appoggiare su solide basi la sua legittimità religiosa. Aveva accanto a sé dei letterati che davano alla ragione un’importanza capitale nel loro approccio ai temi dalla teologia musulmana. Erano i mutaziliti, chiamati così perché si erano messi a parte (i’tazala) dalle controversie del secolo precedente. Su Dio professavano una dottrina rigorosa che faceva di Dio un’essenza unica alla quale nulla poteva associarsi, neppure la sua Parola. Il Corano dunque era per loro una creazione, e non un’essenza divina come dicevano i tradizionalisti. Credevano anche alla libertà dell’uomo e alla sua responsabilità di fronte a Dio, tenuto egli stesso dalla ragione a retribuire, secondo i criteri della giustizia, le azioni della sua creatura.
Non è detto che al-Mamun condividesse tutti questi dogmi, ma alcuni dei mutaziliti lo sostennero nella sua scelta, come erede, di un discendente del ramo più prestigioso dello sciismo, Ali al-Rida. Ma, ahimé, Ali al-Rida morì ben presto. Una diecina di anni dopo, il califfo, che conservava una simpatia per lo sciismo e rimaneva dominato dalla superiorità dei mutaziliti, intraprese una lotta contro i dottori tradizionalisti che avevano acquisito presso il popolo il monopolio dell'interpretazione di un testo sacralizzato dal quale traevano grande influenza. Egli impose il dogma del “Corano creato” alle persone sulle quali aveva un'autorità religiosa: i funzionari, i giudici e i “testimoni professionali”, incaricati di attestare gli atti giuridici. I tradizionalisti resistettero, guidati da Ibn Hanbal, un insegnante che acquistò prestigio con questa fiera opposizione al califfo.Ciò che divideva fondamentalmente i mutaziliti dai tradizionalisti, presto chiamati “hanbaliti”, era la concezione dell'onnipotenza divina. I primi, costituiti da una élite intellettuale spesso sprezzante, vedevano Dio come una essenza assoluta, inaccessibile e inconoscibile, ma tenuta, dalla ragione e dalla giustizia, a lasciare libero l'uomo e a giudicarlo secondo i criteri di una rigorosa equità. Gli hanbaliti, sostenuti dalle classi popolari, pensavano che gli atti dell'uomo erano predeterminati da Dio, che giudicava la sua creatura in quanto Onnipotente, senza essere costretto dalle concezioni umane di giustizia, ma con la più assoluta misericordia, se lo giudicava bene. Quanto all'unicità di Dio, essa non era lesa dal fatto che il Corano, non creato ma creatore di discernimento, partecipasse dell'essenza divina. Non era neppure lesa dal fatto che Dio apparisse, in questo Corano, dotato di attributi umani. Questa Parola increata era un modo, per l'essenza divina, di rendersi accessibile all'uomo e di manifestargli la sua misericordia. Occorreva dunque crederla e seguirla in tutto ciò che diceva e non pensare che i deboli concetti della ragione umana potessero servire a concepire Dio e a comprendere la vie del Divino.
Vittoria dell'ortodossia
Dopo vari anni al-Mamun si risolse a costringere con vigore i tradizionalisti. Dalla frontiera dell'Impero bizantino dove era in guerra, comandò al prefetto di polizia di Bagdad di arrestare Ibn Hanbal e altri fautori e di imporre dovunque il dogma del Corano creato. Era l'inizio della mihna o inquisizione, che cominciò a perseguitare i tradizionalisti sotto l'autorità del gran cadi mutazilita Ibn Abi Duad. Nel frattempo morì al-Mamun. Suo fratello al-Mutasim (833-842), e poi al-Wathiq (842-847), continuarono la sua politica. Infine, di fronte allo scontento popolare, il califfo al-Mutawakkil (847-861) condannò il mutazilismo, destituì Ibn Abi Duad, rese a Ibn Hanbal la libertà di insegnare, perseguitò gli sciiti, umiliò cristiani ed ebrei. Il califfo perdette anche il sostegno militare poiché dei mercenari turchi indocili, recrutati da al-Mutasim, avevano sostituito l'esercito ormai logoro del Korasan. Così, con questi hanbaliti poco preoccupati di riflessione teologica razionale e con questi pretoriani turchi, si affermavano i promotori dell'ortodossia che si sarebbe imposta nell'islam nei secoli futuri.(in Le monde des religions, n. 10, pp. 48-49)
di Riccardo Petrella
Ci si dice che la società è un insieme di relazioni di scambio, che il commercio è fondamentale nell'economia, perché non c'è valore senza commercio, senza scambio. Ogni cosa deve essere scambiata, quindi deve essere una merce. C'è un produttore e un venditore, e c'è un consumatore e un acquirente. Qual è allora il ruolo della gratuità nella nostra economia?
LA SOCIETA' DELLE MERCI
Davanti agli assessori della Regione Toscana ho difeso il principio della gratuità riferito all'accesso all'acqua, alla educazione…Deve essere gratuito, nel senso che deve essere a carico della collettività. C'è un costo, ma esso deve essere sostenuto da tutti i cittadini. Questa è la gratuità. Oggi si dice: portare l'acqua in casa ha un costo e quindi bisogna pagare; come si fa a dare gratis l'acqua? O l'educazione? Che cos'è la società se non una serie di scambi? E dov'è che hanno luogo? Al mercato. Ecco perché definiamo la nostra società come una società di mercato e l'economia come un'economia di mercato. Il mercato - così ci insegnano - è il luogo in cui è lecito che ciascuno tenti di ottimizzare l'utilità individuale. Ecco perché sempre più nella nostra civiltà, quando si pensa alla ricchezza o alla povertà, non si pensa alla ricchezza o alla povertà collettiva, ma a quella individuale.
Ci si chiede: in questi scambi, come si determina il valore del mio orologio, delle mie scarpe, o della mia casa? E la risposta che viene data è la seguente: il valore di una cosa e quello di una persona si determinano in funzione del loro contributo alla creazione di ricchezza, in quel di più di capitale messo in circolazione nell'atto di acquistare o vendere. Ha valore solo ciò che contribuisce a creare più valore affinché cresca la ricchezza individuale. Tutto ciò che non contribuisce a creare valore, per il capitale non serve a nulla. Se avete 45 anni e possedete delle competenze che nessuno può utilizzare, che valore avete? Nessuno. Ecco perché oggi vi si spiega che non tutti possono avere un'occupazione. Potreste rispondere: “Sono padre, ho tre bambini e voglio lavorare”. Ma vi diranno: “Ma tu non hai le competenze, non sei formato…Perché ti devo dare un reddito se non contribuisci a creare ricchezza?” “Perché ho diritto alla vita - rispondereste. - E che significa “ho diritto alla vita”? Sei capace di produrre? In Romania c'è qualcuno che ha 45 anni come te, però mi costa di meno. Perché devo stare qui a pagare te che mi costi di più e che quindi diminuisci la mia utilità individuale?” Ma qual è il soggetto che organizza tutto questo? L'impresa privata. Essa è autorizzata ad andare a prendere in Congo quella tale materia prima, produrre in Romania un oggetto, importarlo a New York e poi, con una società svedese, venderlo sul mercato italiano! Più il mercato è grande e meglio è per noi tutti - ci si dice. Ecco perché bisogna globalizzare i mercati, i sistemi di produzione dei beni. Tutti i vari attori operano per la loro utilità individuale.
“Liberalizzare” significa dare libertà ai capitali, vuol dire maggiore concorrenza tra di loro, più competitività. Significa “io vinco e tu perdi”. Questa è l'economia oggi. Tutto dev'essere subordinato alla libertà dell'impresa di concorrere sui mercati mondiali per creare più valore per i suoi capitali.
Qual è il risultato di tutto questo? Che ormai tutto, anche gli esseri umani, sono delle risorse al servizio del rendimento del capitale. Noi non siamo più delle persone: siamo diventati tutti delle “risorse umane”. Il nostro diritto all'esistenza è come quello di una risorsa energetica: il carbone non conta più? E allora si usa il petrolio. Una “risorsa umana” italiana non conta più? E allora si prende una cinese. Anche quella cinese non serve più? Eccoti quella indiana. È in atto una mercificazione dell'essere umano; ogni vivente diventa cosa, merce. La libertà di brevettare vuol dire che io posso diventare proprietario dei semi o delle varietà vegetali del Congo, oppure di un algoritmo matematico per fare il softwear di Microsoft. Questa è la privatizzazione del mondo: è considerato una specie di enorme capitale di risorse materiali e immateriali, umane, naturali, minerali, energetiche, suscettibili di diventare proprietà dei più forti per permettere loro di diventare ancora più forti. È una logica asimmetrica, nel senso che colui che è più ricco si impadronisce degli elementi per creare condizioni sempre più favorevoli a un'ulteriore ricchezza per sè, mentre colui che è stato impoverito diventa sempre più povero perché è stato privato delle condizioni materiali che gli permetterebbero di non esserlo più.
Come ci si può spiegare che ancora oggi, nel 2006, ci siano tanti poveri? Si indica come povero colui che ha meno della metà della ricchezza media disponibile. Quindi, se tale ricchezza, in Italia, è di 1.200 euro, è povero quello che ha meno di 600: questa la si chiama “povertà relativa”. Ma nel '74 la Banca Mondiale, la Comunità internazionale e gli esperti, hanno definito il “povero assoluto” come colui che ha meno di 1,60 euro al giorno. Ce ne sono 2,8 miliardi, quasi la metà della popolazione mondiale. Viviamo in un mondo che non fa altro che creare sempre più povertà. Però quel euro e mezzo non è sufficiente a farci capire la durezza della miseria, e allora abbiamo inventato il concetto di “estremamente povero”: è colui che ha meno di 80 centesimi di euro al giorno. Ce ne sono 1 miliardo e 300 milioni! Nel '74 la Comunità internazionale lanciò una campagna per l'eliminazione della “povertà assoluta” entro il 2000. Avevano detto che se noi, Paesi ricchi avessimo dato per venticinque anni lo 0,7% del nostro Pil, avremmo sradicato la povertà cioè avremmo permesso a tutti quanti di avere l'accesso a 40 litri di acqua potabile al giorno, a un'alimentazione pari a 2.500 calorie, a un alloggio di circa 35 mtq per coppia, riducendo a meno dell' 1‰ le donne che muoiono partorendo, e infine avere accesso all'educazione elementare. Ma nel 2000 quei 2,8 miliardi di persone erano ancora poveri. E questo perché nessuno, salvo la Danimarca, la Svezia e la Norvegia, hanno stanziato lo 0,7% del Pil. L'Italia ha dato lo 0,13% mentre gli Stati Uniti, il Paese più ricco del mondo, ha versato lo 0,11%. Non solo non abbiamo fatto quello che ci eravamo impegnarti a fare, ma abbiamo attuato delle politiche che hanno ricreato le cause dell'impoverimento.
Per scaricarci la coscienza, abbiamo dato la colpa ai popoli africani o asiatici. È colpa loro: fanno troppi figli e sono guidati da elite corrotte! Allora bisogna smetterla di continuare ad aiutarli…Così l'Unione europea, a partire dal '92, ha cominciato a dire: “Basta agli aiuti, non chiedeteli più, diventate competitivi!”
Nel 2000, costatando questo fallimento, la Comunità internazionale ha allora inventato i famosi “obiettivi dello sviluppo per il nuovo millennio”. Si è detto: “No, non si può più sradicare la povertà, al massimo la si può ridurre”. Ora l'obiettivo è quello di ridurre di metà il numero non dei poveri, ma degli “estremamente poveri”. E come? Aiutandoli affinché creino nei loro Paesi le condizioni economiche favorevoli alla nascita di una imprenditoria che diventi competitiva sui mercati mondiali. Il nostro compito è di aiutarli a diventare competitivi. Così la Comunità internazionale ha accettato l'idea che entro il 2015 ci siano ancora … circa 3 miliardi e 100 milioni di poveri.
Quali sono i sogni che ci hanno imposto, e quali ci impediscono di avere? Il sogno principale che ci hanno imposto è quello della ricchezza: non per nulla negli ultimi quindici anni una delle più grandi imprese è rappresentata dalle lotterie e i giochi d'azzardo. Perché “tu non sei niente se non sei ricco!” Diventare ricco non è avere tre case: ciò che conta è il significato, il simbolo rappresentato da questa condizione. Siccome sono più ricco, posso dimostrare di essere meglio di te. E se la ricchezza individuale è il sogno di ciascuno, noi tutti diventiamo violenti: contro il nostro prossimo o contro lo Stato. Molti pensano: “Come si permette, col fisco, di venirmi a togliere la ricchezza, magari per pagare la cassa malattia a questi asiatici che vengono per prendere il mio lavoro?”
Il secondo sogno che ci hanno imposto è quello della guerra. Ci hanno detto che non possiamo pensare a un mondo senza guerra, e che ci si deve preparare a difendere la nostra civiltà. Se il mondo è guerra, l'unica cosa che tu puoi sognare è uscirne vincitore. Per questo ci dobbiamo armare: la guerra è il nostro destino, non possiamo pensare di avere la pace. E così ci saranno le guerre per l'acqua, come ci sono state quelle per il petrolio; e ci saranno quelle per gli organismi geneticamente modificati, per le foreste... È questo il futuro? Hanno teorizzato l'inevitabilità e la naturalità della guerra, come se non ci potesse essere società senza guerra, civiltà, esistenza umana senza di essa. Questo ci hanno inculcato nella testa: l'unico sogno che possiamo avere è quello di essere dei guerrieri. Più che un sogno è un incubo.
Quali sono invece i sogni che ci hanno impedito di avere? Incominciamo dall'ultimo: ci hanno mostrato il sogno della guerra come realista e quello della pace come utopico. Eppure il 18 febbraio del 2003, 115 milioni di persone sono scese in tutte le strade delle città del mondo a gridare “no alla guerra” contro l'Irak. Questi 115 milioni rappresentavano quelli che erano rimasti a casa: bambini e vecchi. Quindi si può stimare che fossero 600/800 milioni quelli che gridavano “noi non vogliamo la guerra”. La pace non è assenza di guerra: è costruzione di rapporti di fiducia e di rispetto fra le genti. Perché se fosse solo assenza di guerra non sarebbe pace, perché la pace è positiva. Chi ha detto che non è possibile avere una società dove costruire dei rapporti basati sulla fiducia e sul rispetto? Quante volte nel ‘500 Gubbio e Perugia si scannavano tra di loro? Ma oggi Gubbio e Perugia non si fanno più la guerra, come la Francia e la Germania… Perché non dobbiamo pensare che un giorno riusciremo ad avere popoli che non si faranno più la guerra tra di loro?
Però oggi, chi domina, ha interesse a farla perché, per il capitale finanziario, l'economia della pace è meno fruttuosa dell'economia della guerra. Vi ricordate il 1989 quando sparì l'Unione Sovietica: cosa ci avevano promesso? Che il mondo sarebbe diventato più ricco perché avremmo avuto i “dividendi della pace”. Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica per armarsi avevano speso nell'89 ben 1.007 miliardi di dollari. Sapete quanto si è speso nel 2004? 987 miliardi di dollari: una cifra di poco inferiore a quella della “guerre fredda”.
Siamo noi il vero pericolo del mondo se continuiamo a fare quello che facciamo. È pericoloso l'italiano che consuma 300 litri di acqua potabile al giorno; è criminale lo statunitense medio che ne consuma 801 e poi dice: “Il modo di vita americano non è negoziabile, quindi io utilizzo 801 litri e continuerò a farlo perché questa è la mia libertà…” Dov'è la criminalità? Il figlio del marocchino che ruba in un supermercato è immediatamente processato, però il consumo di 801 litri al giorno di acqua potabile non è un furto ma l'espressione della civiltà, del modo di vita occidentale! Chi ha detto che dobbiamo continuare a distruggere la terra, a contaminarla, a inquinarla, a far sparire i ghiacciai? Chi ha detto che non è possibile cambiare? Abbiamo paura: se cambiamo un pochino, pensiamo di diventare poveri. Un Istituto di ricerca tedesco ha calcolato che se cambiassimo il nostro modo di vita in termini di uso delle risorse energetiche, la qualità della vita aumenterebbe. Cioè non è vero che se cambiassimo il nostro stile di vita riducendo il consumo delle risorse del pianeta, degli alberi, delle energie fossili, dell'acqua, la qualità della nostra vita peggiorerebbe, anzi. La nostra vita diventerebbe migliore. Invece ci hanno detto: “Vuoi i prati verdi? Vuol dire che non vuoi più occupazione e più ricchezza. Vuoi le pecorelle? Allora sei contro i posti di lavoro”. E ci hanno ricattato: o la ricchezza materiale o il rispetto, l'amicizia, la solidarietà fra tutti gli uomini.
È possibile cambiare; non è vero che siamo destinati a morire tutti poveri o guerrieri. Possiamo cambiare da domani mattina, ma abbiamo bisogno di ricostruire un progetto di vita. Non si può ricostruire un futuro se non si parte dall'idea che l'obiettivo principale è creare le condizioni affinché tutti abbiano il diritto alla vita. Questo è l'obiettivo primario.
* Riccardo Petrella, economista-politico, è professore in varie Università (Belgio e Svizzera). Nel 2003 é stato fondatore e presidente dell'Università del Bene comune, organizzata in quattro Facoltà (Acqua, Mondialità, Alterità, Immaginazione), le cui attività sono iniziate nel 2004 in Italia e sono in corso di programmazione in Corsica, in Marocco, nel Quebec ed in Brasile. Nel 2003 é stato tra i promotori del 1° Forum mondiale alternativo dell'acqua (Firenze, marzo 2003). È presidente del Consiglio d'amministrazione dell'Acquedotto pugliese.
(da Missione Oggi)
Introduzione
La riflessione teologica sulla storia della salvezza è il filo conduttore del nostro corso e deve necessariamente partire dalla considerazione degli interventi di Dio nel tessuto degli avvenimenti umani distribuiti nello spazio e nel tempo. L’esegesi veterotestamentaria presenta Israele come il popolo della storia e Jahwé come il Dio della storia.
di Tiziano Lorenzin
È opinione predominante in campo esegetico che il filo conduttore della predicazione del Deutero Isaia sia la teologia del secondo esodo, anche se da qualcuno in questi ultimi anni si è sollevato qualche serio dubbio sulla presenza di questo tema nel profeta. (2)L'esodo fu l'esperienza fondamentale sulla quale fu edificato il popolo di Israele. Non è solo un fatto avvenuto una volta per tutte, ma possiede un valore paradigmatico in quanto rivela le linee essenziali dell'azione salvifica del Dio d'Israele: egli è colui che «fa uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù» (Es 20,2). Questo evento storico diventò il simbolo dominante nel pensiero ebraico del passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla morte alla vita.
Il posto del tema dell'esodo nella tradizione e la condizione di perdita della libertà d'Israele a Babilonia resero inevitabile il confronto con l'analoga situazione dei tempi primitivi in Egitto. Tuttavia l'esilio non significò per il popolo semplicemente una ripetizione delle sofferenze d'Egitto: esso comportò anche una profonda crisi di fede. Questa fu provocata da un fatto davanti gli occhi di tutti: il centro del potere mondiale non sembrava più nelle mani di JHWH, ma di un uomo, Ciro. Il Dio d'Israele inoltre pareva aver subito una sconfitta umiliante per opera del dio di Babilonia, Marduk. Le domande che nascevano erano queste: È possibile per un Dio nazionale continuare a vivere, quando il suo popolo è privo di qualsiasi "potere? È possibile mantenere con questo Dio un'alleanza che impegna tutta la vita?
Nel Deutero Isaia a livello letterario possiamo osservare una ripresa dello schema base dell'esodo: uscire, luogo intermedio/cammino, entrare. Si esce dall'Egitto o da Babilonia, si cammina attraverso il deserto, si entra nella terra di Canaan o a Gerusalemme. (3) È uno schema che nei vari testi subisce diverse riletture.
1. Lettura dei testi
Cerchiamo ora di individuare la presenza dello schema dell'esodo in alcuni testi del Deutero Isaia facendone emergere le novità: sostituzioni, esclusioni, sottolineature, ampliamenti.
1.1. Is 40,3-5: la via del Signore nel deserto
3 Una voce grida:
«Nel deserto preparate
la via del Signore (derek yhwh),
appianate nella steppa
la strada per il nostro Dio.
4 Ogni valle sia colmata,
ogni monte e colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in pianura.
5 Allora si rivelerà la gloria (k'bôd) del Signore
e ogni uomo la vedrà,
poiché la bocca del Signore ha parlato».
Nel deserto, tappa intermedia nel primo esodo, si prepara la «via del Signore» (derek yhwh), che viene. La gloria del Signore, presente nel Mar Rosso (Es 14,17), nella manna (Es 16,10), sul Sinai (Es 24,16), ad Aronne e agli israeliti (Es 16,10), ora è visibile da ogni uomo nel deserto.
1.2. Is 41,17-20: il deserto trasformato
17 I miseri e i poveri cercano acqua (mayim) ma non ce n'è,
la loro lingua è riarsa per la sete (sāmā');
io, il Signore, li ascolterò; .
io, Dio di Israele, non li abbandonerò.
18 farò scaturire fiumi su brulle colline,
fontane in mezzo alle valli;
cambierò il deserto in un lago d'acqua,
la terra arida in sorgenti.
19 Pianterò cedri nel deserto,
acacie, mirti e ulivi;
porrò nella steppa cipressi,
olmi insieme con abeti;
20 perché vedano e sappiano,
considerino e comprendano a un tempo
che questo ha fatto la mano del Signore,
lo ha creato (berā’āh) il Santo di Israele.
Il testo allude all'esperienza della sete nel deserto, considerato dall'autore come «terra arida» ('eres sîyâ) in 18b e «steppa» (‘ărābâ) in 19b. La risposta divina è una meravigliosa trasformazione della situazione: una nuova creazione. Il deserto si cambia in regione abitabile e in un nuovo paradiso terrestre con i suoi quattro corsi d'acqua (fiumi, fontane, lago, sorgenti) e con sette specie di alberi pregiati. Conseguenza di quest'azione storica è la risposta della fede espressa nei quattro verbi «vedere, sapere, considerare e comprendere». Nel testo non si accenna ad alcun movimento, al cammino, all'attraversare, né si parla di fuggitivi, ma di miseri e poveri.
1.3. Is 43,16-21: «Non ricordate più le cose passate»
16 Così dice il Signore che offrì una strada (derek) nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti
17 che fece uscire (carri e cavalli),
esercito ed eroi insieme;
essi giacciono morti: mai più si rialzeranno;
si spensero come un lucignolo, sono estinti.
18 Non ricordate ('al tizkerû) più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
19 Ecco, faccio una cosa nuova ('ōśeh hădāsâ):proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?Aprirò anche nel deserto una strada (bammidbār derek),immetterò fiumi nella steppa.20 Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
21 Il popolo che io ho plasmato (yāsartî) per me
celebrerà le mie lodi.
Il ricordo dell'antica liberazione (una strada attraverso il mare e il deserto, fornito miracolosamente d'acqua) illumina quella presente. Diversamente però dall'antico esodo, Dio è «colui che fa uscire» (hammôsî’) non gli Israeliti ma gli Egiziani verso la loro rovina: la loro strada terminò bruscamente in mezzo alle acque (v. 17). Il deserto irrigato è un anticipo della terra promessa. Il futuro esodo sarà superiore al primo: una cosa nuova fatta dal Signore. All'antico popolo mormoratore subentrerà il popolo della lode, che cammina per il suo «sentiero» (netîbâ) (Is 43,16): (4) è un popolo nuovo creato da Dio.
1.4. Is 48,20-21: uscita da Babilonia
20 Uscite (se'û) da Babilonia,
fuggite dai Caldei;
annunziatelo con voce di gioia,
diffondetelo,
fatelo giungere fino all'estremità della terra.
Dite: «Il Signore ha riscattato (gā' al)
il suo servo ('abdô) Giacobbe».
21 Non soffrono la sete .
mentre li conduce per deserti;
acqua (māyim) dalla roccia (sûr) egli fa scaturire per essi;
spacca la roccia,
sgorgano le acque.
È presente il tema dell'uscita da Babilonia e dalla terra dei Caldei. L'ordine di uscire, dato nel primo esodo dal Faraone (Es 12,31), ora è pronunciato da Dio stesso. È una fuga nella «gioia». L'azione di Dio è ancora una atto di redenzione (gā' al, cf Es 6,6) dei suoi servi (cf Lv 25,42.55; 26,13; Dt 32,36.43), di Giacobbe (cf Dt 9,27). Il loro cammino attraverso luoghi desertici sarà protetto dal Signore, che come allora avrà cura del suo popolo, donandogli l'acqua. La risposta a questo avvenimento sarà la lode della comunità. A questo coro è invitato anche tutto il mondo.
1.5. ls 49,9-10: il Signore pastore del suo popolo
9 per dire ai prigionieri: Uscite (se'û),
e a quanti sono nelle tenebre: Venite fuori.
Essi pascoleranno lungo tutte le strade (derākîm),
e su ogni altura troveranno pascoli.10 Non soffriranno né fame né sete
e non li colpirà né l'arsura né il sole,
perché colui che ha pietà di loro li guiderà,
li condurrà alle sorgenti di acqua.
Il profeta parla in nome di Dio. Il popolo è invitato ad uscire. Il viaggio di ritorno è descritto come quello dell'uomo pio sotto la protezione del Signore in Sal 77,21 e 78,52: non mancherà né cibo, né bevanda, né ombra per difendersi dal sole come nel primo esodo.
1.6. Is 51,9-10: una strada attraverso il mare
9 Svegliatì ('ûrî), svegliati, rivestiti di forza,
o braccio (zerôa ') del Signore.
Svegliati come nei giorni antichi,
come tra le generazioni passate.
Non hai tu forse fatto a pezzi Raab,
non hai trafitto il drago?
10 Forse non hai prosciugato il mare, le acque del grande abisso
e non hai fatto delle profondità del mare una strada (derek),
perché vi passassero i redenti (la'ăbōr ge’ûlîm)?
È una supplica della comunità in cui si invita Dio a svegliarsi come un eroe e a ricordare il passaggio del Mar Rosso nell'esodo, descritto come un'attualizzazione del mito cosmologico della vittoria del Signore sopra il mostro del mare (cf Sal 74,13; 89,10-11). Vi è una relazione tra il motivo della creazione e il passaggio del mare: l'atto di potenza sulla storia è associato al potere sulla natura. Una strada per i redenti attraversa il mare: il dragone è trafitto definitivamente.
1.7. Is 52,9-12: una carovana in cammino sicuro verso Gerusalemme
In un inno conclusivo le rovine di Gerusalemme si uniscono al coro di lode davanti all'intervento concreto di Dio: il suo «santo braccio» (vv. 9-10). Viene quindi dato l'ordine di partenza (vv. 11-12). Il profeta parla nel nome del Signore. Anche qui il linguaggio richiama quello dell'esodo, con alcune variazioni. Gli Israeliti non devono prendere niente da Babilonia, eccetto gli arredi sacri, mentre i loro antenati presero doni dagli Egiziani (Es 12,31-36). Non devono uscire come i loro padri «in fretta» (behippāzôn): un termine che in tutto l'AT appare solo qui e nei due racconti della pasqua in Es 12,11 e in Dt 16,3. Dio però proteggerà come un tempo la colonna degli israeliti, aprendo davanti a loro il cammino e difendendolo alle spalle (cf Es 14,19): un viaggio fatto in pace e in sicurezza.9 Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
10 Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutti i popoli;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.
11 Fuori, fuori, uscite (se'û) di là!
Non toccate niente d'impuro.
Uscite da essa, purificatevi,
voi che portate gli arredi del Signore!
12 Voi non dovrete uscire in fretta (behippāzôn)né andarvene come uno che fugge,perché davanti a voi cammina (hōlēk) il Signore,
il Dio di Israele chiude la vosta carovana.
2. La riattualizzazione della tradizione dell'esodo
Nei testi esaminati in nessun passo troviamo uno svolgimento completo del tema dell'esodo: uscita, cammino, entrata.
L'antica uscita dall'Egitto è riattualizzata nell'uscita dalla terra di deportazione, da Babilonia (Is 48,20; 52,11). Non sarà più una uscita «in fretta», come quella dall'Egitto: non sarà una fuga. Allora si portarono via oggetti impuri, donati loro dagli egiziani, ora tutto quello che è impuro viene lasciato oltre i confini della terra santa, che non dovrà mai più essere contaminata: portano solo gli arredi sacri (Is 52,11-12).
Nel deserto che separa Babilonia dalla Siria il Signore si aprirà una via, rivestita di splendore. Davanti e alle spalle della colonna dei prigionieri riscattati non ci sarà come un tempo una nube di giorno e un fuoco di notte, ma egli stesso. Questa via nel deserto diventa il luogo della rivelazione del liberatore: la sua gloria si manifesta a tutto il mondo (Is 40,5). Il deserto è trasformato in un nuovo giardino terrestre: un anticipo della terra promessa (Is(Is 51,9b). Il tempo del deserto non sarà un cammino di stenti, segnato dalla fame e dalla sete: cibo e acqua si troveranno ovunque (Is 49,9-10) perché guida del popolo sarà il Signore. 41,18-19),frutto della vittoria di Dio sulla morte
L'esodo terminerà non più nella terra, ma nella città di Gerusalemme, le cui rovine riprenderanno a vivere con la presenza di una comunità che offrirà a Dio un culto purificato dai compromessi con gli idoli dei popoli pagani (Is 52,9-12). Solo là sarà possibile la liturgia del nuovo Giacobbe: una comunità riscattata, diventata la famiglia del Signore (Is 48,20).
Questo annuncio di un nuovo esodo viene a rispondere ai dubbi profondi che turbavano la fede del popolo in esilio: dopo la rottura dell'antica alleanza sarà ancora possibile un legame con Dio? Ci potrà essere ancora qualcosa di nuovo? Geremia e Ezechiele l'avevano fatto intravedere (Ger 31,31-34; Ez 36,22-38). L'esodo è il nuovo atto di grazia, una nuova creazione come quella del cuore nuovo, che prepara una nuova alleanza. L'evento che apre la strada ad un rapporto con Dio così straordinario, supera addirittura in forza l'atto che ha costituito il popolo d'Israele: l'antico esodo (/s 43,18). È un popolo nuovo che esce da questa esperienza.
Il secondo esodo allora, prima ancora d'essere un movimento di ritorno geografico, è un camminare per il sentiero (netîbâ) (Is 43,16) di Dio, non più con cuore mormoratore, ma ricolmo di gratitudine (Is 43,21). Un popolo paralizzato dal dubbio sull'amore di Dio non potrà mai mettersi in cammino: il suo cuore deve essere prima liberato dalla schiavitù più profonda, la pretesa di conoscere meglio di lui la strada del ritorno (cf Is 40,2). Vedendo e considerando la nuova azione salvifica, gli si riapriranno gli occhi della fede (Is 43,19). Saprà e comprenderà chi sia veramente il suo Dio (Is 41,20): non è solo un liberatore ma anche un redentore (gō’ēl), che mantiene con la comunità d'Israele rapporti familiari; il creatore del mondo è anche il creatore del nuovo popolo.
3. Conclusione
Nonostante qualche incertezza, la maggioranza degli esegeti vede il tema del nuovo esodo nei testi sopra elencati. Lo schema: uscita, tempo intermedio (deserto), dono della terra, presente nella tradizione dell'esodo non si trova mai al completo nei testi esaminati, tuttavia è evidente nell'insieme che ogni singolo momento presuppone gli altri due. Le novità più evidenti del nuovo esodo rispetto all'antico sono la liberazione non solo da una schiavitù politica, ma anche da quella più profonda: il dubbio che il Signore fosse realmente Dio e che perciò la sofferenza dell'esilio non avesse nessun senso, e in secondo luogo l'anticipo dell'esperienza della terra promessa nel deserto: quando il Signore è presente anche la croce più pesante diventa gloriosa. Il paradiso (la vita eterna) è anticipato nella presente esperienza del Dio vicino.
(da Parole di Vita, n.4, 1999)
Note
1) Cf 1. BLENKINSOPP, «La tradition de l'Exode dans le Second-Isaie, 40-55», in Concilium (F) 20 (1966) 41-48; W. ZIMMERLI, Rivelazione di Dio. Una teologia dell'Antico Testamento (Teologia 25), Jaca Book, Milano 1975, pp. 175-185; C. WESTERMANN, Isaia - Capitoli 40-66, Paideia, Brescia 1978; C. WIÉNER, Il profeta del nuovo esodo (deutero-isaia) (Bibbia-Oggi: strumenti per vivere la parola), Gribaudi, Torino 1980; L. ALONSO SCHÖKEL, I Profeti. Traduzione e commento, Borla, Roma 1984, pp. 293-384; A. SPREAFICO, Esodo: Memoria e promessa. Interpretazioni profetiche, EDB, Bologna 1985, pp. 13-16; A. BONORA, Isaia 40-66. Israele: servo di Dio liberato, Queriniana, Brescia 1988; B. MARCONCINI, «Rilettura e profezia dell'esodo nel Secondo-Isaia», in Parola Spirito e Vita 24 (1991) 17-29.di Francesco Mosetto
Nel Vangelo di Giovanni il miracolo dei pani è accompagnato da un dialogo tra Gesù e i Giudei, che ne di schiude il significato simbolico sullo sfondo del racconto biblico della manna (Es 16). In un certo senso l'evangelista rilegge in chiave cristologica la pagina dell'Esodo: il «pane dal cielo», che per mezzo di Mosè il Signore aveva donato ai figli di Israele, prefigura il vero pane dal cielo, lo stesso Gesù, che dà la vita al mondo, ossia a tutta l'umanità. Ma accostiamo anzitutto la pagina giovannea, cercando di scoprire il percorso attraverso il quale l'evangelista conduce i suoi lettori.
Un duplice segno
Dopo la sezione iniziale ( «da Cana a Cana», cc. 1-4), il quarto Vangelo riporta una serie di «segni», accompagnati da discorsi oppure dialoghi che ne enucleano il significato: la guarigione del paralitico (c. 5), il miracolo dei pani e il cammino di Gesù sulle acque (c. 6), l'illuminazione del cieco (c. 9), la risurrezione di Lazzaro (c. 11).
I due «segni» del c. 6 del Vangelo di Giovanni sono collegati tra loro anche nei Sinottici: indizio questo di una tradizione comune molto antica. Se in Marco e in Matteo il miracolo dei pani è narrato due volte (Mc 6,32-44; 8,1-10; Mt 14,13-21; 15,32-39), ciò si può spiegare con lo sdoppiamento dell'unica tradizione. Luca (Lc 9,10-17) si limita al primo dei racconti. A sua volta la versione giovannea presenta contatti sia con la prima sia con la seconda moltiplicazione dei pani. Mentre lo sfondo biblico e le allusioni sacramentali si possono già avvertire nel racconto dei Sinottici, Giovanni accentua la portata cristologica del racconto, che viene ulteriormente esplicata nel dialogo seguente.
Anche il cammino di Gesù sulle acque lascia trasparire uno sfondo biblico che ne orienta l'interpretazione. Mentre in Marco (Mc 6,45-51) l'automanifestazione di Gesù incontra tuttora l'ottusità spirituale dei discepoli, che impedisce loro di cogliere il mistero della sua persona, in Matteo (Mt 14,22-32) esso conduce a una professione aperta di fede. L'espressione con la quale Gesù si presenta ai discepoli e che si legge anche nei sinottici («lo sono»), nel quarto Vangelo assume una valenza caratteristica (cf 8,24.28.58; 13,19), come equivalente del nome divino (cf Es 3,14; Is 43,10s).
Il dialogo
Quasi si direbbe che per il quarto evangelista il segno dei pani è un pretesto per l'autorivelazione di Gesù. Con i vv. 22-25 si passa velocemente da un racconto pieno di realismo, benché carico di suggestioni simboliche, a un dialogo serrato, la cui architettura rivela un disegno preciso. Per semplicità e chiarezza distinguiamo tre parti, tra loro ben concatenate:
- Prima parte (vv. 26-35): il «segno» rimanda alla realtà: «il pane della vita», che è lo stesso Gesù.
- Seconda parte (vv. 35-48): per avere il pane della vita è necessaria la fede in Gesù, vero pane disceso dal cielo.
- Terza parte (vv. 48-58): dando se stesso come cibo, Gesù «dà la vita al mondo».
All'interno di ciascuna parte il dialogo, dall'andamento a prima vista tortuoso, lascia trasparire una precisa intenzionalità teologica. Ne evidenziamo i passaggi:
Dal «segno» alla realtà
Punto di partenza è il segno del pane: i Giudei cercano Gesù perché ha saziato la loro fame materiale, ma non hanno compreso il segno nel suo vero significato (v. 26). Gesù orienta la loro ricerca verso il suo verso oggetto, il cibo che «rimane in vita eterna» (v. 27). Chi dà questo cibo è Il Figlio dell'uomo, l'inviato di Dio, da lui accreditato con il miracolo; cf 5,36: «le opere che il Padre mi ha dato da compiere... testimoniano di me che il Padre mi ha mandato».
I Giudei accolgono l'invito di Gesù a procurarsi «il cibo che rimane in vita eterna», ma lo fraintendono: giocando sul verbo ergazein (v. 26: ergazesthe, procuratevi; v. 28: ergazometha, facciamo) l'evangelista suggerisce che la parola di Gesù è stata interpretata secondo la mentalità farisaica, come esortazione a procurarsi i beni divini mediante le opere della Legge. Ma subito Gesù corregge il fraintendimento e per la seconda volta imprime alla ricerca dei suoi ascoltatori la direzione giusta: «Questa è l'opera di Dio (quella che egli si attende dall'uomo): credere in colui che egli ha mandato» (v. 29).
L'iniziativa passa ai Giudei, i quali provocatoriamente chiedono un «segno», più precisamente quello della manna, che aveva accreditato Mosè come inviato di Dio (vv. 30-31; si cita il Salmo 78, che richiama Es 16). La richiesta appare paradossale, dal momento che il miracolo dei pani appena avvenuto corrisponde puntualmente alla pretesa dei Giudei; ma il richiamo a Mosè e ad Es 16 è soprattutto funzionale all'interpretazione del segno che Gesù ha compiuto.
Difatti la nuova risposta di Gesù offre la chiave di lettura del miracolo dei pani sullo sfondo del racconto biblico della manna e consente di identificare il pane di Dio, quello che «rimane in vita eterna» e che Gesù stesso aveva annunciato fin dall'inizio del dialogo (vv. 32-35; cf v. 27). Interessante notare la triplice contrapposizione, che sottolinea la somiglianza e insieme la novità del dono escatologico: «non Mosè... ma il Padre mio...»; non la manna, ma «il vero pane dal cielo»; non «vi diede», allora, ma «vi dà», adesso. Un ulteriore confronto tra la manna e il vero pane che discende dal cielo sarà istituito più avanti (vv. 49s): «i padri hanno mangiato la manna nel deserto e (= eppure) sono morti»; chi invece mangia del vero pane dal cielo, solo adombrato dal prodigio dell'esodo, «vivrà in eterno».
Il vero «pane di Dio» - continua Gesù - «è quello/colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Grazie alla consueta tecnica del fraintendimento l'ultimo scambio di battute tra i Giudei e Gesù conduce al primo vertice del dialogo, ove finalmente si decifra il segno del pane, identificato con Gesù stesso. Come la Samaritana aveva chiesto: «Signore, dammi di quest'acqua...» (4,15), così i Giudei, tuttora prigionieri del senso materiale delle parole, dicono: «Signore, dacci sempre questo pane». Eppure Gesù non respinge la domanda; piuttosto ne fa l'occasione per presentarsi come il vero pane che dà la vita e per invitare a se gli uomini: «lo sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (v. 35).
Come avere il pane della vita
La seconda parte del dialogo prende l'avvio dalle parole con le quali Gesù si definisce «il pane della vita» (v. 35) e vi ritorna (v. 48) attraverso un'ampia digressione sul tema della fede; o meglio: tratta della fede come condizione necessaria e indispensabile per ottenere il pane della vita, sviluppando l'accenno introdotto fin dal v. 29.
Con linguaggio sapienziale (cf Is 55,1-3; Prv 9,1-6; Sap 16,26), Gesù invita gli uomini al banchetto della vita: «Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (v. 35). Venire a Gesù equivale a credere in lui come Figlio e inviato del Padre. La fede però non è un'opera umana; alla sua origine c'è l'iniziativa del Padre, che «dà» a Gesù i credenti (v. 37; cf 17,2.12.24), li «attira» a lui (v. 44). «Magna gratiae commendatio», esclama sant' Agostino (in Jo. Tract. XXVI, 2).
A più riprese Gesù ha rivolto il suo appello alla fede (cf 3,14ss.31ss; 5,24.36ss); da ultimo nella parte iniziale del dialogo (v. 29) e con l'invito del v. 35. Ora sollecita la fede dei Giudei e - attraverso il testo evangelico - di tutti gli uomini, insistendo sul senso ultimo della sua venuta nel mondo secondo il disegno del Padre: «Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (v. 40). Come un ritornello, le parole «io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (vv. 40.43; cf v. 39) contribuiscono a definire il concetto di «vita eterna» come adempimento della speranza giudaica nel mondo futuro.
Vi è però un ostacolo alla fede: l'umanità di Cristo (v. 42). L'interrogativo stupito dei Giudei è noto anche alla tradizione sinottica (cf Mt 13,35; Mc 6,3; Lc 4,22). Il quarto Vangelo ritorna più volte su questo tema (cf 1,45s; 7,25ss.40ss). Senza l'azione invisibile della grazia, l'uomo non riesce a superare il livello dei sensi approdando alla fede nell'Incarnazione del Verbo (vv. 43s).
Mangiare il pane della vita
Riallacciandosi al tema del pane, nella terza parte del discorso (vv. 48-58) Gesù ne sviluppa il simbolismo sotto un duplice aspetto: in riferimento al supremo dono di se, che egli compirà sulla croce, e in ordine all'Eucaristia, memoriale del suo sacrificio e banchetto nel quale egli stesso si fa cibo e bevanda dei credenti.
Dopo aver ripetuto l'affermazione: «lo sono il pane della vita», il vero «pane che discende dal cielo» (vv. 48-51ab), ora Gesù precisa: «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51c). Con il linguaggio semitico («carne» nel senso di corpo, persona concreta) e con trasparente allusione al dono di se nella morte («io darò... per...»; cf 10,11.1.5; 11,50.52; 15,13; 17,19;18,14; v. anche 1 Gv 3,16), le parole di Gesù conferiscono ora al pane un valore simbolico più circoscritto rispetto alla identificazione precedente. Lo scopo ultimo della «discesa» del Verbo dal mondo di Dio (il «cielo») è infatti il sacrificio della croce: là e solamente allora Gesù realizza pienamente la figura della manna, pane disceso dal cielo per la vita agli uomini.
La parola di Gesù è rivelazione. Come tale supera le attese e provoca la meraviglia, addirittura lo sconcerto: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 53). Ancora una volta la incomprensione serve da trampolino per un annuncio più aperto, una risposta che non elimina lo scandalo, ma invita a superarlo nella piena disponibilità al dono di Dio.
Poiché la «vita», nel senso alto e pieno che il termine ha nella Bibbia e particolarmente nel linguaggio giovanneo, è data agli uomini per mezzo del Verbo (Gv 1,4), il Figlio unigenito che Dio ha donato «perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (3,16), il «pane di Dio», che «dà la vita al mondo» (6,33); e poiché tutto ciò si realizza attraverso la morte sacrificale di Gesù, l'uomo non potrà aver parte a tale vita se non ricevendo quel pane nella verità piena del suo essere donato.
Di qui, con logica rigorosa e sconvolgente oblatività, l'invito di Gesù a «mangiare di questo pane» (v. 51), «mangiare la carne del Figlio dell'uomo e bere il suo sangue» (v. 53); Carne e sangue di Gesù - ove il binomio sottolinea che unica è la persona, mentre la distinzione suggerisce la morte cruenta - sono «vero cibo» e «vera bevanda» perché l'uomo attinge in essi la realtà da cui scaturisce la «vita»; non una realtà astratta e atemporale, ma un essere storico e un evento di salvezza.
L'insistenza sui verbi «mangiare»-«bere» e sui termini «cibo»-«bevanda», «carne»-«sangue», è certo intenzionale: il lettore iniziato al sacramento della Cena non può non intuire che l'invito di Gesù riguarda ultimamente il rito sacramentale. Con le parole: «Questo è il mio corpo... Questo è il mio sangue dell'alleanza...» (Mt 26,26.28) non ha forse egli stesso consegnato il memoriale del suo sacrificio? E tuttavia il corpo e il sangue del Signore, che nell'Eucaristia diventano cibo e bevanda dell'uomo, sono appunto l'umanità glorificata del Verbo, il Cristo risorto sorgente di vita per i credenti. La sua morte e risurrezione, evento che compie l'Incarnazione del Verbo come evento di salvezza, fanno dunque di Cristo il vero «pane disceso dal cielo per la vita del mondo».
Una duplice considerazione completa le parole di Gesù nella sinagoga di Cafarnao (vv. 56-57). La seconda precede e fonda logicamente la prima, perché riguarda la comunione di vita tra Gesù e il Padre. Il Padre, che è il «vivente» per eccellenza (cf Sa142,3 ecc.) e «ha la vita in se stesso» (Gv 5,26), è la sorgente della vita anzitutto nei confronti del Figlio, il quale può dire: «io vivo per il Padre», partecipando cioè alla sua stessa vita.
Il Figlio a sua volta comunica la vita divina agli uomini: chi crede in lui «ha la vita eterna» (vv. 40.47; cf 3,16; 5,24). Alla luce delle cose appena insegnate, ciò si realizza mangiando il «pane della vita»: «colui che mangia di me vivrà per me», ossia: avrà parte alla vita divina che dal Padre per mezzo del Figlio viene comunicata agli uomini.
Tra i credenti e Gesù nasce pertanto una comunione di vita analoga a quella che intercorre tra lui e il Padre: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (v. 56). Parole che anticipano gli insegnamenti dell'ultima cena e ne sono illuminati: «In quel giorno saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi... noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (14,20.23); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto...» (15,5); «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola... lo in loro e tu in me...» (17,21.23). Fede in Cristo e sacramento della Cena, nel loro inscindibile intreccio, sono dunque il mezzo offerto all'uomo per comunicare intimamente alla vita stessa di Dio, la «vita eterna».
Tu hai parole di vita eterna
L' epilogo registra una duplice reazione alle parole di Cristo e, più generalmente, alla sua rivelazione attraverso i segni e il discorso: il rifiuto dei «molti», che si «tiravano indietro e non andavano più con lui» (6,66) e la fede coraggiosamente professata da Simon Pietro a nome dei Dodici: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,68s). Si compie così la «crisi» (3,19; cf 9,36), separazione e giudizio, per la quale gli uomini si dividono davanti a Gesù: da una parte i non credenti, che si scandalizzano della sua persona e per le sue parole; dall'altra quelli che non inciampano nel «duro linguaggio» della rivelazione di Cristo e sono condotti a lui dal Padre.
Gesù stesso commenta lo scandalo e getta luce nell'intimo del cuore umano. La «carne», ossia l'uomo come creatura limitata e fragile, non riesce da sola a percepire la presenza di Dio nel Figlio incarnato. Chi dà la vita «è lo Spirito», la potenza di Dio che rigenera (cf 3,5s) e guida alla conoscenza della «verità» (cf 14,26; 15,26; 16,13). Di questa forza divina sono cariche le parole di Gesù; esse sono «spirito e vita» (v. 63), sono «parole di vita eterna» (v. 68).
D'altra parte, la rivelazione di Gesù è tuttora incompleta: il Figlio dell'uomo deve ancora «salire là dov'era prima». La sua esaltazione (cf 3,14s; 8,28; 12,31ss), oltre a costituire un ritorno alla condizione antecedente la discesa dell'Incarnazione (cf 17,5.7.24), sarà anche manifestazione della sua divinità («Io sono»: 8,28) e conferma suprema delle sue parole.
Dalla manna all’Eucaristia
Il discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao traccia l'itinerario di un lungo viaggio che ogni credente percorre ogni volta che prende parte all'Eucaristia: dalle steppe del Sinai e dalle pagine del libro dell'Esodo all'incantevole conca del lago di Genezaret, al momento affascinante dell'ultima Cena e a quello terribile della croce, al misterioso incontro con il Risorto nella celebrazione eucaristica, che a sua volta anticipa il banchetto celeste: solo allora il «pane della vita», Cristo, comunicherà definitivamente all'uomo quella vita che egli stesso riceve dal padre, sì che in Lui anche noi possiamo godere la «vita eterna».
L'intero percorso è segnato da un'immagine, quella del pane: prima nella forma di un cibo prodigioso, la manna; poi come segno compiuto da Gesù e da lui stesso interpretato; quindi come cifra dell'Incarnazione del Verbo, «il pane della vita» disceso dal cielo; infine come elemento della cena pasquale, consegnato da Gesù ai suoi come sacramento del suo corpo e memoriale del suo sacrificio.
La prima tappa, quella rappresentata dal miracolo della manna nel cammino dell'esodo, orienta e prefigura quelle successive. Il richiamo al celebre testo biblico nel c. 6 del Vangelo di Giovanni costituisce uno degli esempi classici di quella rilettura dell'Antico Testamento, attraverso la quale il Nuovo Testamento, mentre riconosce al primo un «valore profetico», al tempo stesso ne rivela il «senso spirituale» e ne indica il «compimento» nella realtà nuova e superiore che è Cristo.
Non è certo se il testo citato al v. 31 sia Es 16,4 oppure Sal 78,24 L XX: ciò ha relativa importanza. La citazione porta con se l'eco di una serie di testi, biblici ed ebraici post-biblici, che ricordano il miracolo della manna e ne illustrano il significato. In particolare, sulla scia del Deuteronomio (Dt 8,3), il libro della Sapienza vede nella manna il simbolo della parola di Dio (Sap 16,24-26). L'interpretazione sapienziale è atte stata anche dai commenti rabbinici al libro dell'Esodo (Mekhiltà, Esodo Rabbà) e da Filone di Alessandria (Legum Allegoriae III, 56; Her:.. 39). D'altra parte, all'attesa di un nuovo Mosè era associata l'idea che avrebbe ripetuto il prodigio della manna: «Come il primo salvatore fece scendere la manna... così anche l'ultimo salvatore farà discendere la manna...» (Eccles. Rabba 1,28; v. anche Mekhiltà su Es 16,25; 2 Baruch 29,8).
Al tempo messianico o escatologico si riferisce anche il tema isaiano del banchetto, che il Signore ha preparato sul monte Sion per tutti i popoli (cf Is 25,6-8) ed al quale, nel contesto, è associata la vittoria sulla morte (Is 26,19). Vicino al tema del banchetto messianico è quello della tavola che la divina Sapienza ha imbandito: «Venite a mangiare il mio pane, bevete il vino che vi ho preparato... e vivrete...» (Sap 9,5s: cf Sir 15,1-3; 24,19s). Questi temi tra loro affini si rifanno ultimamente all'«albero della vita» che si trovava nel paradiso (Gn 2,9; 3,22); ad esso probabilmente si ispirano anche le espressioni giovannee «il pane della vita», «l'acqua viva... che zampilla in vita eterna» (Gv 4,10.14), la «luce della vita» (Gv 8,2). È comunque interessante che nella letteratura giudaica, come per il pane, si trovi una interpretazione sapienziale anche dell’albero della vita: «La Torà è un albero di vita per ogni uomo che la studia...» (Targum Neophyti I, Gn 3,24).
Su questo sfondo la parola di Gesù si comprende in modo più adeguato. Egli è il «vero pane disceso dal cielo», «il pane della vita», che compie le figure dell'Antico Testamento e ne realizza l' annuncio profetico. Il miracolo dei pani è un «segno», la cui portata cristologica risalta alla luce del Primo Testamento; d'altra parte, senza di questo e senza l'ulteriore ricerca (midrash) coltivata nei circoli sapienziali giudaici, non sarebbe nemmeno comprensibile l'evento e il messaggio cristiano.
(da Parole di vita, 4, 97)
di Rinaldo Falsini
Una vecchia accusa rivolta all’attuazione del Concilio, che ne riafferma l’uso in linea di principio pur concedendo l’ingresso della lingua volgare (SC 36), e ripetuta di recente non solo dai nostalgici, ma anche da non pochi responsabili che ne reclamano il recupero, specie nella messa (SC 54), riguarda “la scomparsa del latino” come lingua propria della liturgia romana. Non è fuori luogo un chiarimento, a distanza di oltre 40 anni (1965), per una verifica del passaggio dal latino alla “lingua volgare” (accettiamo l’espressione collaudata), nel nostro caso la lingua italiana, e trarne qualche riflessione(1).
La posizione del Concilio. Il problema è stato affrontato dal Concilio con l’affermazione di principio: ”L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (SC36). Per “riti latini” in sostituzione di “liturgia occidentale” si intendono quelli romano, ambrosiano, lionese, bragarense, ecc. Ma in pari tempo nel secondo capoverso si dichiara: “Dato però che (….) nella messa non di rado l’uso della lingua volgare può riuscire di grande utilità per il popolo, si possa concedere ad essa una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti”. Nel terzo paragrafo si demanda agli episcopati locali la determinazione dei limiti e della misura con la conferma degli atti da parte della Sede apostolica.
Sull’art. 36 la discussione dei Padri conciliari, apertasi il 22.10.1962, fu una delle più accese, come dimostra l’elevato numero di ben 81 interventi, con diversità di opinioni e di emendamenti in maggioranza favorevoli. Il clima fu rasserenato con la formulazione che lasciava intatto il principio della lingua latina circa la possibilità, non più obbligatoria ( da tribui debet in tribui potest ) di una parte più ampia alla lingua volgare, specialmente nelle letture e nelle munizioni, in alcune preghiere e canti “secondo le norme”- ecco l’aggiunta risolutiva dei contrasti - “fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti”, “in particolare per la messa e i sacramenti”.
A proposito della messa, il n. 41 (diventato l’attuale SC 54) fu oggetto di una vivace discussione su posizioni contrastanti, contrarie o favorevoli alla concessione. Fu scelta, in base al n. 36, la via media accettata da tutti con varie sottolineature. Ecco il testo: “ Si possa concedere (non tribuatur ), nelle messe celebrate con partecipazione di popolo, una congrua parte alla lingua volgare, specialmente (praesertim) nelle letture e nella “orazione comune” e, secondo i luoghi,anche nelle parti spettanti al popolo, a norma dell’art. 36”. E prosegue con una disposizione insolita: “Si provveda però che i fedeli sappiano recitare o cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della messa che spettano ad essi”. Era stato l’auspicio espresso dal relatore monsignor Calewaert nell’art.36, fatto proprio dalla Commissione ma praticamente dimenticato fino ad oggi. Sulle singole parti del Proprio e dell’Ordinario la competenza è affidata alle Conferenze episcopali e non viene esclusa nessuna parte, nemmeno il Canone. Nella votazione del 14 ottobre 1963, 22 padri espressero il placet iuxta modum con l’esclusione del Canone: ad essi il relatore monsignor Inciso rispose:” Non sembra opportuno che dal Concilio si escluda formalmente ciò che i casi particolari dalla Sede apostolica può essere concesso, come è già stato concesso”.
Il passaggio dal latino alla lingua italiana. L’episcopato italiano si dimostrò fin dall’inizio nettamente favorevole all’uso della lingua italiana. Nell’assemblea del 14-16 aprile 1964 scelse la soluzione della misura più ampia possibile e nominò la Commissione episcopale di liturgia con l’incarico esecutivo. La complessa e tormentata storia della versione italiana dei testi liturgici può essere distribuita in varie tappe o fasi, sia perché condizionata dalle concessioni del Consilium,sia per la variante del gruppo degli esperti, sia dello stesso centro di coordinamento,senza dimenticare il problema dei criteri. A noi interessano le tappe che corrispondono alle tre edizioni del Messale romano: la prima provvisoria del 1965, la seconda, con i testi conciliari, del 1973; la terza del 1983, con un accenno conclusivo alla prossima imminente edizione.
L’edizione del Messale festivo latino-italiano entrata in vigore il 7. 3. 1965 aveva un carattere di “provvisorietà” perché utilizzava il testo del Messale tridentino con alcune modifiche del 1962. Vera novità erano le parti dell’Ordinario (risposte, acclamazioni, preghiere e dialogo del sacerdote con il Gloria e Credo, ecc.) predisposto dalla Commissione diretta da monsignor Carlo Rossi, vescovo di Biella, presidente del Centro di azione liturgica (Cal), con il segretario monsignor Virgilio Noè (oggi cardinale)
L’Ordinario è l’unico elemento del Messale rimasto quasi immutato fino ad oggi e il più delicato, perché di uso quotidiano e familiare a tutti, destinato alla recitazione e al canto, esposto al logorio dell’uso. La versione fu compilata con grande impegno da nove esperti (liturgia, Bibbia, musica) convocati a Saronno (Va) nei giorni 28-29.7.1964, quindi sottoposta al parere di due letterati. Il testo passò all’esame della Commissione che vi apportò due modifiche non concordate con gli esperti, tra cui l’infelice “La messa è finita, andate in pace”. L’Assemblea episcopale il 19 settembre dello stesso anno ne dava l’approvazione definitiva e il giorno seguente il Consilium emanava il decreto di conferma.
La versione del testo s’ispirò ad alcuni criteri che, presentati al Congresso internazionale delle traduzioni (9-11. 11. 1965) risultarono analoghi a quelli seguiti dagli episcopati di altre nazioni. La versione dei Prefazi, a seguito della lettera di concessione da parte del Papa al cardinale Lercaro (27.4.1965), fu messa in cantiere da un piccolo gruppo di esperti sotto la guida del Comitato episcopale, ottenne l’approvazione definitiva il 7 ottobre ed entrò in vigore con la prima domenica di Avvento del 1965. Con il Messale del 1973 il testo dei Prefazi, salito ad una ottantina anche se uniformi nell’inizio e nella conclusione, era ritenuto uno dei più complessi per la variante di contenuto, per la forma stilistica e tono ieratico,per un ordinamento ritmico. Perciò la traduzione fu molto impegnativa. Il Canone romano prese l’avvio con una bozza prima ancora della decisione della Conferenza episcopale italiana: durante l’estate del 1967 fu sottoposto a una consultazione che ottenne 205 placet su 212 votanti.
L’Istruzione Tres abhinc annos del 4.5.1967 da parte della Congregazione dei riti e del Consilium concedeva alle Conferenze episcopali la facoltà di usare la lingua volgare nel Canone romano, accompagnata da una lettera ai presidenti con allegate disposizioni circa i criteri da seguire nella versione. Cadeva così l’ultimo muro del latino nella celebrazione della messa e l’ingresso pieno della lingua volgare. Nessun testo liturgico ha conosciuto un cammino più lungo, più tortuoso e laborioso del nostro: cinque redazioni, due consultazioni dell’episcopato e dieci mesi di esame a tutti i livelli, di esperti, vescovi, della Congregazione della fede e dello stesso Paolo VI. Approvato dal Consilium, entrava in vigore il 24.3.1968. Al Canone romano seguiva la pubblicazione, il 22 maggio 1968, di tre nuove preghiere eucaristiche con le indicazioni relative alla versione e susseguente approvazione (sul testo italiano delle nuove preghiere eucaristiche si può consultare quanto è pubblicato nel volume del Cal Le preghiere eucaristiche nella celebrazione della Messa, Padova 1969).
Non possiamo dimenticare che proprio nel 1969 usciva l’Istruzione circa le traduzioni dei testi liturgici per la celebrazione con il popolo .L’edizione del Messale romano del 1973 riproduceva letteralmente il testo delle preghiere eucaristiche sopra ricordate con qualche ritocco improprio,la traduzioni di tutti i Prefazi e di tutte le orazioni.La novità maggiore fu la separazione delle letture bibliche nel libro del Lezionario.Nel 1974 la Cei istituì l’Ufficio liturgico nazionale con tutti i compiti operativi assieme alla Consulta nazionale di pastorale liturgica, che ebbe dei riflessi nell’organizzazione diocesana. L’edizione 1983 del Messale romano non apportò alcuna modificazione nelle traduzioni.Introdusse il ricambio per gli interventi del sacerdote e collette domenicali in rapporto con le letture bibliche triennali per tutte le domeniche. Invece nel 2003 l’Ufficio liturgico ha organizzato una revisione totale dell’intero Messale con particolare attenzione alle quattro preghiere eucaristiche, escluso l’Ordinario.
Concludendo questa cronistoria relativa al passaggio “totale” dal latino alla lingua italiana nella celebrazione della messa, partendo dalla rilettura del Concilio che stabiliva la conservazione dell’uso del latino pur concedendo l’ingresso della lingua volgare secondo modalità affidate alle Conferenze episcopali e alla conferma della Sede apostolica, possiamo affermare che la volontà del Concilio è stata interpretata e attuata entro il quadro prefissato. Nulla è avvenuto proprio nel primo decennio senza il beneplacito di Paolo VI. Se di fatto l’uso della lingua latina sembra riservato all’”edizione tipica”, salvo casi particolari, lo si deve alle forti esigenze pastorali, le stesse che avevano animato i Padri conciliari, a sollecitare gli episcopati a chiedere e ottenere maggiore estensione dell’uso della lingua volgare. Indietro non si può tornare. Resta aperto per la Chiesa italiana un lavoro di “rilettura totale” in attesa della nuova edizione del Messale
(da Vita Pastorale, 3, 2007)
Note
(1) Scrivo queste pagine come frutto di un’esperienza personale, cioè di testimone del Concilio nella segreteria della Commissione liturgica al 1969 dopo la traduzione delle quattro preghiere eucaristiche, quindi nell’edizione del Messale del 1983 e quella per la revisione delle stesse preghiere del 2003 per la prossima edizione. Segnalo i due convegni sulle traduzioni cui ho partecipato, il primo internazionale organizzato dal Consilium nel 1965 a Roma su Le traduzioni dei testi liturgici (Libreria Vaticana 1965); il secondo organizzato dall’Isr di Trento nel 1994 su La traduzione dei testi religiosi (Morcelliana 1994, Brescia).